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I media, il coronavirus e i diritti dell’uomo

27 Gennaio 2022 - di Andrea Miconi

In primo pianoSocietà

(1) Oggi, quello che siamo

     Amnesty International è riconosciuta, in modo curiosamente unanime, come la più importante istituzione al mondo nel campo dei diritti umani[1]; e la stampa italiana, per parte sua, è sempre stata d’accordo. Il Corriere della Sera la descrive come una “organizzazione non governativa internazionale a tutela di libertà, verità, giustizia e dignità”[2], niente meno; La Stampa usa toni simili[3]; Il Sole 24 Ore ne cita anche la nota di aprile 2021 sui rischi dovuti alle misure governative anti-Covid[4]; mentre La Repubblica ha prodotto, tra le altre cose, un’arringa sulla “promozione dei diritti umani” su cui l’Italia “è in prima linea”, con tanto di discorso di Mattarella nel giorno in cui Amnesty “pubblica il rapporto mondiale sui diritti umani”[5] (che mette i brividi, a leggerla oggi).

     Anche a livello quantitativo, come si vede dalla sommaria ricerca sintetizzata nella tabella 1, il riferimento ad Amnesty International negli ultimi anni è rimasto costante, nei news media italiani (in modo particolare nei casi della Repubblica e di Avvenire, presumibilmente per una certa convergenza tra laici e cattolici sul tema dell’immigrazione). In più Amnesty è stata usata non solo come fonte per tematizzare le violazioni dei diritti nei paesi lontani, ma anche a sostegno delle posizioni progressiste su fatti a noi più vicini: come il sequestro della Sea Watch, l’assassinio di Giulio Regeni, o la prigionia di Patrick Zaki.

 

Tabella 1. Articoli che menzionano Amnesty International in alcuni news media selezionati

Testata Fonte Numero di menzioni Periodo
Ansa www.ansa.it 284 1/1/2019-15/1/2022
Avvenire www.avvenire.it 536 1/1/2019-15/1/2022
Corriere della Sera www.corriere.it 269 1/1/2019-15/1/2022
Il Giornale www.ilgiornale.it 54 1/1/2019-15/1/2022
Open www.openline.it 182 1/1/2019-15/1/2022
La Repubblica www.repubblica.it 921 1/1/2019-15/1/2022
Il Resto del Carlino www.ilrestodelcarlino.it 250 1/1/2019-15/1/2022
Il Sole 24 Ore www.ilsole24ore.com 102 1/1/2019-15/1/2022
TgCom24 www.tgcom24.mediaset.it 92 1/1/2019-15/1/2022

Fonte: mia elaborazione

 

     È dunque singolare che nei nostri media, così sensibili ai diritti dell’uomo, non sia nemmeno affiorata la denuncia pubblicata da Amnesty International il 14 gennaio 2022, che, “con riferimento al contesto italiano, […] continua a sollecitare il governo ad ancorare i propri interventi a principi di legalità, legittimità, necessità, proporzionalità e non discriminazione”. In breve, Amnesty individua quattro problemi, che mettono a rischio i diritti umani in Italia, e che rimandano alla durata abnorme dello stato di emergenza; all’esclusione dei non vaccinati dal lavoro e dai servizi essenziali; alla scadenza imprecisata del Green Pass; e infine al divieto di manifestare contro il governo[6]. Ora, una presa di posizione di tale portata – la più grande organizzazione per i diritti civili che mette sotto accusa il Paese – dovrebbe ragionevolmente meritare grande spazio, negli organi di informazione. E infatti, puntualmente, è stata ripresa in modo sommario e sbrigativo solo da tre testate tutt’altro che egemoni – L’Indipendente[7], Il Tempo[8] e L’Arena[9] – e per il resto sfacciatamente ignorata.

     D’altronde non c’è praticamente nulla, ma davvero nulla, su cui i media non abbiano mentito: sulla scientificità del lockdown; sul fantomatico modello italiano; sull’accordo nella comunità scientifica; sulla temporaneità delle misure, che tanto temporanee non erano; sui protocolli di cura; sull’eresia dei medici che usavano anti-infiammatori e monoclonali (e che, si scopre oggi, avevano ragione); sulla contagiosità dei vaccinati; sullo scopo del Green Pass – perché se fosse la limitazione del contagio sarebbe stato ritirato, proprio per il motivo di cui sopra. Ora, sappiamo come funzionano queste cose: col tempo le carte verranno rimescolate, le proporzioni diventeranno sfocate, ogni sostenitore del lockdown negherà di esserlo mai stato, e verrà messa a regime la più banale delle morali – che ci si basava sulle conoscenze del momento; che non c’erano alternative a quello che è stato fatto; e che allora la pensavamo tutti alla stessa maniera. Ma dato che così non è, e così non è mai stato, tenere a mente quello che è successo è un passaggio necessario, se speriamo di ricondurre la nostra esistenza collettiva a qualche residuo di civiltà. E per questo, il primo sforzo richiesto è quello di chiamare le cose col loro nome, come visto con Amnesty: violazioni dei diritti dell’uomo.

 

(2) Ieri, quello che si poteva fare

     Come tutti gli studiosi di grande fama scientifica – a partire da John Ioannidis – Harvey Risch, epidemiologo di Yale, è del tutto sconosciuto al pubblico italiano, a cui i media hanno presentato come esperti un grottesco carrozzone di studiosi di basso profilo, tutti specializzati in ben altro. Non a caso, Ioannidis ha pubblicato diverse ricerche che indicano l’inutilità delle misure di contenimento di massa[10], e Risch, per parte sua, ha assunto una posizione ben più critica: che il Sars-Cov-2 metta in pericolo solo alcune fasce di popolazione lo abbiamo capito subito, ha detto, ma i media e i governi lo hanno usato impropriamente per generare un clima di allarme generale[11] .

     Che le chiusure non abbiano utilità per il contenimento del contagio, peraltro, è una tesi sostenuta da un gran numero di scienziati. Ne è un esempio la Great Barrington Declaration, scritta il 4 ottobre 2020 da tre epidemiologi di buona fama: Martin Kulldorff, di Harvard; Jayanta Bhattacharya, di Stanford; e Sunetra Gupta, di Oxford[12]. La loro proposta è quella di concentrare l’attenzione sulla popolazione a rischio, dedicando a loro le risorse per le cure e l’assistenza domiciliare – la cosiddetta “protezione focalizzata” – lasciando che chi corre statisticamente pochi rischi faccia quello che ha sempre fatto, così da immunizzarsi attraverso il contagio naturale, ed evitare le catastrofiche conseguenze di misure come il lockdown.

     Ad oggi, la Dichiarazione di Great Barrington è stata firmata da oltre 46000 medici e più di 15600 scienziati, tra cui Alexander Walker e Sylvia Fogel di Harvard; Laura Lazzeroni e Michael Levitt di Stanford; Udi Qimron, Motti Gerlic, Ariel Munitz ed Eitan Friedman della Tel Aviv University; Jonas Ludvigsson della Örebro University; Tom Nicholson di Duke; David Katz di Yale; Lisa White di Oxford (insomma, poteva andare peggio). Non stupitevi se non avete mai sentito parlare, però: perché i media italiani hanno fatto tutto il possibile per tenere nascosta la cosa, come mostra la tabella 2.

 

Tabella 2. Menzioni della GBD nei news media italiani [i sette Tg generalisti di prime time e i primi venti quotidiani per diffusione]

Testata Periodo considerato Numero di edizioni Numero di menzioni
Tg1 5/10/20-27/2/2021 145 0
Tg2 5/10/20-27/2/2021 145 0
Tg3 nazionale 5/10/20-27/2/2021 145 0
Tg4 5/10/20-27/2/2021 145 0
Tg5 5/10/20-27/2/2021 145 0
Studio Aperto 5/10/20-27/2/2021 145 0
Tg La7 5/10/20-27/2/2021 145 0
Avvenire 5/10/20-16/1/2022 468 1
Corriere della Sera 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Fatto Quotidiano 5/10/20-16/1/2022 468 4
Il Gazzettino 5/10/20-16/1/2022 468 0
Il Giornale 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Giornale di Sicilia 5/10/20-16/1/2022 468 0
Il Giorno 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Mattino 5/10/20-16/1/2022 468 0
Il Messaggero 5/10/20-16/1/2022 468 0
Il Piccolo 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Resto del Carlino 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Secolo XIX 5/10/20-16/1/2022 468 0
Il Sole 24 Ore 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Tempo 5/10/20-16/1/2022 468 0
Italia Oggi 5/10/20-16/1/2022 468 1
La Nazione 5/10/20-16/1/2022 468 1
La Repubblica 5/10/20-16/1/2022 468 3
La Stampa 5/10/20-16/1/2022 468 1
Libero 5/10/20-16/1/2022 468 0
L’Unione Sarda 5/10/20-16/1/2022 468 0

 

Totale   10375 17

Fonte: elaborazione su dati dell’Università IULM e dell’Osservatorio di Pavia

     Il numero totale di menzioni, diciassette, è risibile ma perfino sovradimensionato, dato che le tre testate di Quotidiano Nazionale rimandano allo stesso editoriale – così di articoli che ne parlano ce ne sono in effetti quindici. Né, già che ci siamo, i contenuti di questi articoli sono particolarmente leali: Avvenire scrive di un documento promosso da una fondazione di studi economici, dimenticando di dire – ma che volete che sia – che gli autori sono tre epidemiologi[13]; e La Stampa stigmatizza l’idea di protezione focalizzata come un “inquietante apartheid anagrafico”[14] (mentre non si tratterà di apartheid anagrafico, chissà perché, nel caso dell’obbligo vaccinale per gli over 50).

     Non si tratta qui di discutere del merito della GBD, su cui ognuno la pensa come vuole: ma di prendere atto del regime di menzogne e mistificazione costruito dai media, in Italia come in alcuni altri paesi. Semplicemente, non è vero che la comunità scientifica fosse concorde sull’utilità del lockdown; e non è vero che non esistessero alternative. Non stupisce nemmeno troppo, allora, il contenuto delle e-mail di Anthony Fauci e Francis Collins, i due uomini a capo della sanità degli Stati Uniti, pubblicate grazie al Freedom of Information Act (una di quelle cose che dovremmo semplicemente copiare, anziché vantarci di avere inventato il diritto). Dato che la Dichiarazione sta “guadagnando una certa notorietà” dopo la firma di Mike Levitt – scrive Collins a Fauci – è necessario organizzare una “campagna veloce e devastante” di delegittimazione[15]. Pochi giorni dopo, Collins detterà la linea del potere alla stampa, citando la stessa espressione – “fringe epidemiologists”, nulla più di una frangia marginale – che aveva usato nelle e-mail private. Ora, che gli epidemiologi degli atenei più accreditati del mondo siano fringe è semplicemente assurdo, ed emerge qui la natura tutta politica del colpo di mano che alcune istituzioni hanno operato: censurando le voci alternative, oscurando il dibattito scientifico, prendendo possesso dei media, e definanziando gli studiosi non allineati. Lo ha riconosciuto infine, ma tardivamente, il Wall Street Journal, accusando Fauci di avere “intenzionalmente vilipeso e cestinato” la Great Barrington Declaration, per nessun altro scopo che il proprio potere.

Anziché tentare di manipolare l’opinione pubblica, il lavoro degli ufficiali sanitari è offrire la loro migliore consulenza scientifica. Non dovrebbero comportarsi come politici o censori, e quando lo fanno, dilapidano la fiducia del pubblico[16].

     Due degli autori della GBD, Bhattacharya e Kulldorff, hanno preso la parola a loro volta, per commentare la “rapida e devastante rimozione” della loro tesi concordata da Fauci e Collins[17]. La campagna di delegittimazione ha certamente coinvolto alcune autorità sanitarie inglesi – in particolare Jeremy Farrar e Domenic Cummings – che hanno contribuito ad organizzare “un’aggressiva campagna di stampa contro coloro che stanno dietro la Dichiarazione di Great Barrington e altri contrari alle restrizioni generali del COVID-19”[18]. Il breve scritto di Kulldorff e Bhattacharya vale il tempo della lettura, comunque, per la chiarezza con cui illustra la natura arbitraria, classista ed anti-scientifica del lockdown e della chiusura delle scuole; ma anche per come denuncia il peso dei grandi finanziatori sulla libertà e sulla dignità della ricerca. Non è un caso che gli scienziati che si sono prestati ad andare in televisione – e non solo in Italia, come mostrato da un’agile ricerca di Ioannidis[19] – non siano mai quelli più accreditati nella comunità accademica, che hanno dalla loro un’autonomia ed un onore da difendere. Ed è chiaro che con i responsabili di tutto questo – nei media come nella comunità scientifica – dovremo fare i conti a lungo.

 

(3) I conti col dissenso

     Nel frattempo, la strategia dei media è stata aggiornata. Forse perché nascondere il dissenso è diventato impossibile; forse perché bisogna vendere agli inserzionisti una porzione di audience in più – come che sia, la presenza di voci critiche contro il Green Pass è diventata costante nei talk show, molto più di quanto fosse quella degli oppositori del lockdown, del coprifuoco e delle zone rosse, che di fatto non sono mai stati rappresentati. Ma anziché allargare il raggio della discussione, questo ha prodotto una nuova situazione drammatica, e perfino una nuova forma simbolica: la messa in scena della punizione dei dissidenti.

     Non è un caso, temo, che di spazio per le voci critiche ce ne sia molto poco nei quotidiani: dove un punto di vista, per quanto marginalizzato e confinato in un taglio basso all’interno, mantiene la propria autonomia e compiutezza. È invece nei talk show che i contrari al lasciapassare sono invitati spesso: proprio con lo scopo di attaccarli, offenderli, metterli all’angolo, per mezzo di un’aggressione di gruppo che assume nel migliore di casi i toni del bullismo, se non quelli dello squadrismo. Così Maddalena Loy – un raro esempio di giornalista non sottomessa al governo – è stata derisa da Bianca Berlinguer e Bruno Vespa per aver affermato che i vaccinati si contagiano: cioè quello che di lì a breve sarebbe stato riconosciuto da tutti. Un medico ed un giornalista (Matteo Bassetti e Luca Telese) avevano fatto lo stesso contro Mariano Amici, trattandolo letteralmente come un pazzo. Alberto Contri è stato provocato con una raffica di offese e attacchi personali che sarebbero inqualificabili in una lite al ginnasio. Francesco Borgonovo è stato assalito mentre cercava di venire a capo di una questione tremenda – che i giornalisti fanno finta di non vedere – quale l’esclusione dei non vaccinati dalle cure ospedaliere. Giovanni Frajese viene regolarmente invitato e regolarmente sepolto da accuse pretestuose; per quanto mostri una surreale capacità di autocontrollo. A Paolo Gibilisco, un matematico con cui condivido la mozione contro il green pass nelle università[20], il vice-ministro Sileri ha detto che il governo gli sta rendendo la vita impossibile – sì, ha detto proprio così, senza essere costretto alle dimissioni – perché chi non rispetta le regole è pericoloso.

     Si potrebbe continuare all’infinito con gli esempi, ma è più interessante ragionare sulla funzione di questo script: mettere in scena l’aggressione alla minoranza; mostrare a tutti cosa succede – in piccolo, negli studi televisivi; in grande, nell’Italia del 2022 – a chi non si allinea alle volontà del governo. Sono ormai caduti, infatti, tutti gli orpelli e gli argomenti di facciata, inclusi quelli medici, e siamo arrivati infine alla radice del discorso, all’osso del problema – al potere quale “segreta, inquietante, ultima cosa”, volendo citare Carl Schmitt[21]. Tutto qua, nudo e semplice, depurato della sua poco plausibile legittimazione medica, il discorso dei media: esistono due cose e due cose soltanto, l’obbedienza oppure la persecuzione. Intendiamoci, la cosa non riguarda soltanto i media, e anzi in tutti gli ambiti del mondo sociale è caduto l’ultimo velo, quello della presunzione di legittimità formale: tanto che i parlamentari positivi al Sars-Cov-2 – che dovrebbero essere in quarantena – vanno a votare per l’elezione del Presidente della Repubblica, mentre non possono farlo i parlamentari non vaccinati. E il mondo intellettuale non sta tanto meglio, vista la moderata reazione del Presidente della Conferenza dei Rettori alla nostra raccolta di firme contro il Green Pass: l’università italiana ha soltanto una linea, ed è quella del governo[22] (che è una frase quintessenzialmente fascista, al di là del fatto che la CRUI non ha alcun titolo per parlare a nome dell’università). Quello che pochi di noi hanno intravisto da subito[23], è ormai conclamato ed evidente – e più chiaro di così, non potrebbe essere. Se ci sono ancora donne e uomini liberi, là fuori, è tempo che si facciano sentire; iniziando a chiamare le cose col loro nome.

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[1] Ad esempio R. Takhur, Human Rights: Amnesty International and the United Nations, “Journal of Peace Research”, 31, 2, 1994, 143-160.

[2] Dodici mesi di buone notizie, Amnesty International e le battaglie vinte, “Corriere della Sera”, 1 gennaio 2022.

[3] M. Tagliano, In piazza Martiri a Cervo una pianta per i sessant’anni di Amnesty International, “La Stampa”, 7 dicembre 2021.

[4] R. Bongiorni, Rapporto Amnesty: quando la Pandemia travolge gli ultimi diventa un’alleata dei regimi, “Il Sole 24 Ore”, 7 aprile 2021.

[5] Mattarella, “Promozione dei diritti umani imperativo etico. Italia in prima linea”, “la Repubblica”, 10 dicembre 2018.

[6] Amnesty International, Posizione di Amnesty International Italia sulle misure adottate dal governo per combattere il covid-19, 14 gennaio 2022, https://www.amnesty.it/posizione-di-amnesty-international-italia-sulle-misure-adottate-dal-governo-per-combattere-il-covid-19/.

[7] Amnesty all’Italia: emergenza deve finire, non discriminare i non vaccinati, “L’Indipendente”, 15 gennaio 2022.

[8] Vaccino, green pass e stato d’emergenza: anche Amnesty International denuncia discriminazioni, “Il Tempo”, 14 gennaio 2022.

[9] Amnesty: “Spingere sui vaccini, ma obbligo ultima risorsa. No a Super Green Pass per lavoro e trasporti”, “L’Arena”, 15 gennaio 2022.

[10] Ad esempio V. Chin, J. Ioannidis & altri, Effects of non-pharmaceutical intervention on COVID-19: A Tale of Three Models, “MedRxiv”, 10 dicembre 2020, doi.org/10.1101/2020.07.22.20160341; E. Bendavid, J. Ioannidis & altri, Assessing mandatory stay-at-home and business closure effects on the spread of COVID-19, “European Journal of Clinical Investigation”, 51, 4, 2021.

[11] I. van Brugen & J. Jekielek, COVID-19 a Pandemic of Fear “Manufactured” by Authorities: Yale Epidemiologist, “The Epohc Times”, 5 dicembre 2021.

[12] https://gbdeclaration.org. Corretto precisare che ho firmato anche io la GBD, ovviamente a titolo personale.

[13] R. Colombo, Contenere il coronavirus senza ampliare le disparità, “Avvenire”, 21 ottobre 2020.

[14] E. Tognotti, L’inquietante apartheid anagrafico, “La Stampa”, 30 ottobre 2020.

[15] Jay Bhattacharya su Twitter, 18 dicembre 2021, https://twitter.com/DrJBhattacharya/status/1471986453823459330.

[16] How Fauci and Collins Shut Down Covid Debate, “Wall Street Journal”, 21 dicembre 2021.

[17] J. Bhattacharya e M. Kulldorff, The Collins and Fauci Attack on Traditional Public Health, “The Epoch Times, 2 gennaio 2022.

[18] M. Kulldorff e J. Bhattacharya, The smear campaign against the Great Barrington Declaration, “Spiked Online”, 2 agosto 2021.

[19] J. Ioannidis, A. Tezel e R. Jagsi, Overall and COVID-19 specific citation impact of highly visible COVID-19 media experts: bibliometric analysis, “British Medical Journal”, 2021, doi:10.1136/ bmjopen-2021-052856.

[20] https://nogreenpassdocenti.wordpress.com.

[21] C. Schmitt, Nomos, presa di possesso, nome [1959], in Stato, grande spazio, nomos, Milano, Adelphi, 2015, p. 339.

[22] C. Caruso, “L’università sta con il governo. No ai manifesti anti green pass”. Parla il capo dei rettori, “Il Foglio”, 8 settembre 2021.

[23] A. Miconi, Epidemie e controllo sociale, Roma, manifestolibri, 2020.

Istituzionalismo, contrattualismo, storia

25 Gennaio 2022 - di Marco Ricolfi

DirittoIn primo piano

Sommario: 1. L’antinomia. – 2. Il perimetro dell’antinomia. – 3. Il contrattualismo trionfante (1978-2007): fra shareholder value ed egemonia della finanza. – 4. Un passo indietro: contrattualismo e istituzionalismo nell’epoca del capitalismo industriale (1919-1978). – 5. Un passo avanti: istituzionalismo redux? (2008-oggi). – 6. Piattaforme digitali e responsabilità sociale: verso uno “statuto speciale”? – 7. Quasi una conclusione. –

  1. L’antinomia. – “La contrapposizione tra contrattualismo e istituzionalismo può dirsi oggi un’antinomia superata?”[1]. Su questo quesito, ricorrente nel diritto dell’impresa e delle società, non solo italiano ed europeo ma anche nordamericano, l’Onorato è ritornato con frequenza, in particolare in anni recenti[2]. In questo interrogarsi, si è trovato in ottima compagnia: infatti l’attenzione per il tema è ricorrente e non può dirsi sopita ma anzi risulta rinfocolata dall’evoluzione, normativa ma anche economico-sociale, degli ultimi quindici anni [3].

Nel dibattito l’Onorato assume, come è noto, una posizione “centrale”, che forse si può cogliere più accuratamente impiegando la nozione di “sintesi”, come del resto suggerisce il titolo stesso del suo scritto più impegnato sul tema[4], piuttosto che, come pure è stato detto, di neutralità o di relativismo[5]. Dove la centralità si definisce in rapporto alla difesa del contrattualismo come chiave di lettura del diritto societario, ancor oggi propugnata con veemenza da alcuni studiosi[6], da un lato, e dall’altro lato, all’opposto e simmetrico sforzo di adeguamento ai cambiamenti di scenario operato da altri studiosi [7]: posizione che si colloca in una linea di continuità ideale rispetto alle prese di posizione, anch’esse ‘centrali’ di un Maestro del diritto commerciale [8].

Vi sono infiniti modi per rivisitare quello che spesso è caratterizzato come “l’eterno dilemma” fra contrattualismo e istituzionalismo nel diritto dell’impresa e delle società. Ci si può domandare se, in un dibattito così articolato e ulteriormente arricchito anche dallo sfondo comparatistico in cui questo suole essere collocato, possa conseguirsi qualche guadagno conoscitivo privilegiando una prospettiva storica, la quale, si può supporre, può presentare il vantaggio di suggerire qualche riflessione particolarmente utile in tempi in cui la velocità del cambiamento si è rivelata esponenziale. Dove, conviene soggiungere, se per storia molto spesso si intende storia delle idee; qui invece, per comprendere quali idee abbiano forza di incidere sulla realtà, quando e con quali “gambe”, appare assai più utile esplorare i nessi fra le forze in campo e le idee che esse portano all’affermazione o espellono dal discorso, piuttosto che attardarsi a ricostruire la genealogia dei pensieri disincarnati nella loro concatenazione e consecuzione ideale. Per questa ragione qui si cercherà, nei limiti del possibile, di indagare sui rapporti concreti fra pensiero ed azione piuttosto che inseguire il filo labile del rapporto fra pensiero e pensiero.

Entro questa visuale, pare che si possano considerare tre ipotesi collegate fra di loro: a) che di una vera e propria antinomia o “dilemma” si sia potuto parlare solo in una prima fase, anzi, entro un limitato periodo di quella prima fase, del capitalismo “industriale”, che, secondo la periodizzazione consueta, volge alla fine al termine degli anni ’70 del secolo scorso; b) che il medesimo dilemma abbia perso molto del suo mordente nella fase successiva, di egemonia tutta dispiegata del capitale finanziario, nella quale si è assistito ad un vero e proprio trionfo di un termine della dicotomia, il contrattualismo, rispetto al suo opposto, l’istituzionalismo; ed infine, c) che nella fase presente, inaugurata, per così dire, nel 2007-2008 dalla più grande crisi economica vissuta dalle nostre società dopo la Grande Crisi del 1929, si stia assistendo ad un vero e proprio rovesciamento di fronte, che ripropone con forza istanze e priorità vicine alle impostazioni istituzionalistiche che nei decenni precedenti parevano dimenticate. Non ci si potrà infine sottrarre al compito di domandarsi se la prepotente affermazione dei giganti dell’informazione, le piattaforme digitali [9], non sia destinata ad incidere sulla rilevanza stessa del dilemma, relegandolo ad un’area molto più ristretta e circoscritta di quanto non siamo stati abituati ad assumere.

Prima di provarci a dar corpo e sostanza a questa – certamente molto discutibile – periodizzazione del dilemma, o, meglio, dei termini in cui esso si pone, occorre però spendere qualche parola per definire il perimetro delle questioni che, nel presente contesto, vengono, nel diritto commerciale, designate con i termini qui impiegati di contrattualismo e di istituzionalismo.

  1. Il perimetro dell’antinomia. – Solitamente (e con la dovuta approssimazione necessaria quando si affronta un tema multi-giurisdizionale) il discrimen fra istituzionalismo e contrattualismo nel diritto societario sta nella rilevanza degli “interessi altri” nelle decisioni sociali [10]. Nella visione dell’istituzionalismo, ai diversi livelli in cui si formano le decisioni dell’ente sociale, possono e talora debbono prendersi in considerazione interessi diversi da quelli dei soci e degli altri contraenti dell’ente; secondo questa impostazione si danno anche situazioni nelle quali gli “interessi altri” debbono addirittura prevalere su quelli dei soci. Secondo le impostazioni contrattualistiche, invece, nelle decisioni concernenti la vita della società, come anche nell’interpretazione ed applicazione delle norme di riferimento. avrebbe legittimazione solo la considerazione degli interessi dei soci e dei terzi contraenti con la società medesima; interessi questi, si sottolinea spesso, da intendersi con tutta la dovuta latitudine e quindi non solo di breve periodo, rivolti al conseguimento di utili ed alla loro divisione, ma anche di medio e lungo periodo, ad es. preordinati alla valorizzazione del patrimonio aziendale; non solo dei soci ma anche dei diversi tipi di terzi contraenti con la società, dai lavoratori al pubblico ai fornitori di risorse produttive e mezzi finanziari, in quanto, si precisa però giustamente[11], congruenti e complementari a quelli dei soci, senza trascurare, si aggiunge opportunamente, la dovuta considerazione degli interessi sottesi ai diversi interventi pubblici e statuali, ivi inclusi quelli risultanti dalle norme imperative cui la società soggiace [12]. Non avrebbe però ingresso l’interesse dell’istituzione medesima, la società, in quanto tale ed a prescindere dai suoi soci[13]; l’interesse di terzi che abbia titolo autonomo rispetto a vincoli obbligatori della società[14] e tantomeno interessi pubblici, collettivi o generali, che non abbiano trovato espressione in un vincolo contrattuale o in una norma imperativa di legge.

Se la divaricazione nei presupposti delle due concezioni è, come si è visto, assai netta, ancor più lo è la divergenza nelle loro conseguenze e nei rispettivi esiti applicativi. Come è stato costantemente osservato, la legittimazione di “interessi altri” nella sfera decisionale delle società non restringe affatto, ma piuttosto amplia i poteri discrezionali degli amministratori e degli organi decisionali, lasciandoli arbitri di ponderare fra i diversi – e normalmente divergenti – interessi che di volta in volta vengono in considerazione.

Meno ovvia, e tuttavia non meno interessante e degna di considerazione, è una prospettiva che è stata introdotta nel dibattito solo di recente [15]. Nella specifica prospettiva del nostro diritto, si è argomentato che, allontanandosi da un approccio rigidamente contrattualistico, diverrebbe possibile intendere i poteri degli organi sociali come poteri funzionali, rivolti anche al perseguimento di interessi diversi e sovraordinati rispetto agli interessi individuali dei soci e dei contraenti con la società[16]. Correlativamente si potrebbe immaginare di assoggettare l’esercizio di quei poteri ad un sindacato non solo basato sullo strumentario generalcivilistico ordinario, imperniato sugli obblighi di buona fede e sul divieto di abuso di potere, ma anche integrato analogicamente dal ricorso alle norme “più evolute, riguardanti il sindacato di legittimità degli atti del potere pubblico”[17]. In questa prospettiva, che il suo Autore ha efficacemente descritto come “neo-istituzionalismo debole”, l’avvicinamento ad un’impostazione istituzionalista comporterebbe non tanto (e comunque non solo) un ampliamento dei poteri discrezionali degli organi decisori delle società ma anche un allargamento ed un’espansione dei contrappesi a questi poteri decisionali, in modo da collocare nell’architettura societaria più efficaci strumenti di contestazione (voice) al fine di “contrastare le scelte gestionali dissipatorie o inefficienti”[18].

  1. Il contrattualismo trionfante (1978-2007): fra shareholder value ed egemonia della finanza. – Anche se questa scelta può suonare controintuitiva, vi sono buone ragioni di ordine concettuale, oltre che espositivo, che suggeriscono di prendere le mosse da quella che, nella periodizzazione proposta, risulta la seconda fase della vicenda in cui si è dipanato il tormentato rapporto fra i termini della dicotomia. Infatti, nel periodo preso in considerazione il contrattualismo si presenta in forma così pura, rispetto alle molteplici e cangianti declinazioni e combinazioni che caratterizzano le altre fasi, da consentire una messa a punto particolarmente univoca e nitida.

Dunque: per circa trent’anni, che vanno dall’ascesa al potere di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti alla grande crisi economica di questo millennio, la stella polare del diritto societario è stata recisamente contrattualistica. L’interesse sociale viene risolutamente fatto coincidere con la massimizzazione dei profitti degli azionisti, obiettivo assolutizzato con riferimento all’imperativo dello shareholder value. In presenza di mercati capitali efficienti, il cui buon funzionamento sarebbe garantito dall’operare della efficient capital markets hypothesis (ECMH), la disciplina imposta dal mercato per il controllo delle società (il market for corporate control) sulle scelte gestionali garantirebbe contegni ottimali degli amministratori, impegnati nel perseguimento degli interessi dei loro mandanti, i soci, e, a seconda dei casi, destinati ad essere premiati in caso di successo e rimpiazzati a seguito di scalate ostili in caso di cattiva gestione. Questi comportamenti sarebbero d’altro canto anche conformi ai canoni dell’efficienza produttiva ed allocativa e quindi contribuirebbero in senso positivo non solo ai profitti sociali ma anche alla massimizzazione del benessere collettivo, rendendo così ridondante ed anzi controproducente la considerazione di “interessi altri” nella gestione delle società.

Contemplando in retrospettiva questi trent’anni, non necessariamente ‘gloriosi’, ci si avvede che essi, come anche il trionfo del contrattualismo che li accompagna, sono la risultanza di quattro vettori.

Il primo vettore è ideologico. Il lavoro di lunga lena iniziato dalla Mount Pèlerin Society nel primo dopoguerra (1947) prima e canonizzato dall’opera di Milton Friedman dopo[19], offre un contributo essenziale per argomentare a favore della primazia dell’iniziativa economica privata e al libero dispiegarsi dell’economica di mercato e contro qualsiasi forma di intervento dello Stato nell’economia. Alla fine degli anni Settanta i tempi sono maturi perché l’ideologia neoliberale divenga egemonica in tutto l’occidente [20].

Il secondo vettore rappresenta la prosecuzione del precedente sul piano della teoria economica. È infatti a partire dalla riconferma del paradigma economico neoclassico che prendono piede sia la Scuola di Chicago, sia il collegato movimento dell’analisi economica del diritto[21]. È qui che vengono forgiati gli argomenti per tornare a sostenere, in una versione riveduta e corretta del pensiero classico di Adam Smith (e, prima, della bella favola delle api del signor De Mandeville), che è l’egoismo dei protagonisti del mercato, protesi alla massimizzazione del profitto, ad assicurare l’ottimizzazione non solo dei valori reddituali e patrimoniali di azionisti (ed amministratori) ma anche del benessere sociale. Ciò, era sottinteso, in presenza di mercati dei capitali efficienti in conformità all’ECMH: basterebbe la struttura concorrenziale a rimediare all’eventualità di fallimenti di mercato in quanto l’asimmetria informativa di cui soffrono i singoli investitori sarebbe colmata dal meccanismo dei prezzi dei titoli, che in ogni momento incorpora in tempo reale in sé tutte le informazioni disponibili al mercato[22].

Anche nel caso, frequente, in cui il possesso dei titoli sia disperso fra una moltitudine di risparmiatori, passivi e poco informati, il rischio di comportamenti degli amministrator non in linea con gli interessi dei loro mandanti – il c.d. agent/principal problem – troverebbe agevole soluzione nei soprarichiamati meccanismi spontanei del mercato (il market for corporate control) e nell’operare dei doveri fiduciari che incombono sugli amministratori [23].

Quanto poi al mantenimento della struttura concorrenziale dei diversi mercati rilevanti (e quindi non solo di quello finanziario), secondo le impostazioni propugnate dalla Scuola di Chicago l’intervento dell’antitrust dovrebbe a sua volta restare confinato ad “un limitato intervento” dei pubblici poteri “in processi economici liberi e privati allo scopo di consentire a tali processi di rimanere liberi”[24]. Guai a calcare la mano con l’antitrust, secondo l’opinione di uno dei più influenti studiosi chicagoan, posto che “Antitrust, after all, is a massive introduction of public force into an area of private activity which is valuable both to the actors as an aspect of their freedom and to the society as a source of its wealth” [25].

È però il terzo vettore, quello politico, che è il più potente, tant’è che potrebbe essere appropriatamente descritto come il motore di tutto il processo. Stiamo parlando dei decenni inaugurati dalle nette vittorie di Thatcher e di Reagan, che danno slancio e forza ad una svolta duramente neoliberista, preparata dalle nette sconfitte sindacali degli anni immediatamente antecedenti [26]. Il libero dispiegarsi delle forze di mercato e la libertà di movimento dei capitali diventavano parte integrante del Washington consensus.

Infine, il vettore giuridico-regolatorio. Deregolamentazione, liberalizzazioni, in primis del mercato dei capitali e privatizzazioni (in particolare dove c’erano imprese pubbliche o a partecipazione pubblica): questi erano i corollari, logici ed inevitabili, una volta accettato l’assunto del primato delle libere forze di mercato e delle sue virtù autoregolatorie.

Tutti e quattro questi fattori si intrecciano strettamente con il contrattualismo e lo innervano. Il capitalismo finanziario, issato il vessillo dello shareholder value, trasforma la struttura portante dei mercati segnando la fine dei grandi conglomerati che caratterizzavano il periodo precedente attraverso ondate successive di fusioni ed acquisizioni, il più delle volte realizzate nella forma di offerte pubbliche di acquisto. Certo i protagonisti delle scalate non si preoccupano del loro impatto né sull’occupazione, vae victis!, esattamente come i regolatori si disinteressano delle implicazioni concorrenziali salvo nei casi più macroscopici, hands off!, a patto, si intende, che gli azionisti, i finanziatori e soprattutto gli amministratori possano dichiararsi soddisfatti. Certo, l’evoluzione incontra resistenze, soprattutto nei sistemi, come quello europeo-continentale e giapponese[27], nei quali il finanziamento dell’impresa avviene lungo il percorso lungo risparmio, intermediari, impresa, invece del percorso breve risparmio-impresa garantito dalla presenza di mercati borsistici ampi e liquidi.

Si è a questo proposito suggerito sovente che le due impostazioni, contrattualista ed istituzionalista, abbiano “convissuto”[28]. Affermazione questa che è forse condivisibile, a condizione che si abbia ben chiaro che nel periodo di riferimento il primo approccio ha tutte le caratteristiche di un tratto dominante, mentre il secondo sopravvive nei limiti di un tratto recessivo. Il che è perfettamente logico, se si pensi che il contrattualismo volava sulle ali del Zeitgeist e dei poteri che lo innervavano, come qui si è cercato di suggerire, mentre la residua adesione a visioni più comunitarie ed aperte ad interessi “terzi” si collocava in quell’area che gli studiosi delle grandi trasformazioni assegnano ai fenomeni di resistenza[29].

  1. Un passo indietro: contrattualismo e istituzionalismo nell’epoca del capitalismo industriale (1919-1978). – Facciamo un passo indietro. Un quadro assai diverso, assai più movimentato e contradditorio, ci si presenta se si fa un passo indietro e si mette a fuoco le modalità con le quali si presenta la medesima antinomia (o dilemma) nel periodo precedente.

Con riguardo a questo periodo, due sono le osservazioni che si impongono. In primo luogo, qui l’alternativa contrattualistica non è del tutto assente; e tuttavia inizia a profilarsi con una certa nettezza solo alla fine del periodo. In precedenza, a tenere il campo è stato soprattutto l’approccio istituzionalista. In secondo luogo, e conseguentemente, per un lungo tratto di questo periodo non si profila ancora appieno il dilemma fra istituzionalismo e contrattualismo, e neppure l’alternativa fra affermazione e negazione dell’istituzionalismo, ma la scelta fra varianti, declinazioni e versioni dell’istituzionalismo, peraltro assai divergenti fra di loro. A seconda dei contesti e delle costellazioni di potere di volta in volta date, l’istituzionalismo può presentarsi in veste autoritaria e gerarchica, o, in alcuni casi, francamente repressiva (si pensi, al Führerprinzip nazista, che trasla il verticismo dalla sfera politica a quella aziendale), oppure in veste comunitaria, conciliativa e soft.

In effetti, come è stato osservato da molti[30], non esiste affatto un rapporto biunivoco fra i regimi politici sperimentati in questo lungo lasso di tempo e il versante istituzionalistico del “dilemma costante” presentato dal diritto societario. In Germania, l’istituzionalismo è servito sia alla visione progressiva di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese di un grande imprenditore, studioso e politico socialdemocratico come Walter Rathenau sia alla minacciosa concezione nazista dell’Unternehmen an sich chiamato a concretizzare il Führerprinzip. D’altro canto, negli Stati Uniti studiosi di grande calibro e di sicura fede democratica come Berle e Means concludevano la loro innovativa visione della public corporation e della separazione fra proprietà e gestione con un’esaltazione dell’impresa come istituzione, guidata dalla mano salda della tecnostruttura al di sopra ed al di là degli interessi dispersi degli azionisti. A sua volta la vicenda italiana è troppo nota perché valga qui la pena di ripercorrerla, se non per ricordare come l’istituzionalismo, pur sempre – ed inevitabilmente – legato al corporativismo ed al fascismo, abbia sovente assunto tratti gentili e certo non illiberali non solo in studiosi giuscommercialisti come Asquini, Greco e Lorenzo Mossa ma anche nelle sistemazioni di più ampio respiro di filosofi notevoli, e generosi, come Ugo Spirito [31].

Insomma, le concezioni istituzionalistiche del diritto societario sono, in questi primi decenni, caratterizzate da un’accentuata anfibologicità. Quale sia la ragione di questa dualità di significati non è facile dire; e certo le spiegazioni al riguardo non sono mancate.

Qui si può aggiungere un’ipotesi. Si può intanto osservare che in questo periodo il capitalismo ha ancora veste prevalentemente industriale, anziché quella spintamente finanziaria che assumerà nella fase successiva (su cui già ci si è soffermati al precedente § 3). I profitti sono ancora generati prevalentemente dalla manifattura, e quindi dalla produzione e dallo scambio di beni e servizi; non dalle operazioni finanziarie. Ma la fabbrica nel frattempo sta divenendo, o è divenuta, fabbrica fordista e occupa masse crescenti di forza lavoro. Altre concentrazioni di manodopera si addensano in tutti i distretti minerari; e va ricordato che questi sono ancora un fenomeno fondante della struttura industriale: la progressiva chiusura delle miniere di carbone inizia solo molti decenni dopo, con le due crisi petrolifere degli anni ’70. A partire da queste premesse, la strutturale contrapposizione fra capitale e lavoro tende a porsi come la principale questione politico-sociale del tempo; e, come è noto, essa trova una sua composizione in soluzioni, a seconda dei casi, autoritarie o democratico-partecipative. Si potrebbe pensare, dunque, che sia questa la variabile macro che determina la configurazione, sul piano cruciale degli assetti dell’impresa, delle diverse varianti di istituzionalismo che tengono il campo in questo periodo.

Il quadro cambia nettamente dopo la Seconda guerra mondiale. Ritornando all’osservazione formulata all’inizio di questo paragrafo, va considerato che almeno fino agli anni del secondo dopoguerra è assai più difficile discorrere di chiari influssi contrattualistici nel diritto societario. Mancava ancora, soprattutto in Europa ed in Italia, un’adesione incondizionata ai valori dell’autonomia dei privati e della libertà di iniziativa economica. Questa sarebbe arrivata nel nostro diritto societario con le prese di posizione di Ascarelli, di Mengoni e di Mignoli, sullo slancio prima della Carta Costituzionale e poi dell’opzione filoconcorrenziale espressa dall’adesione al Trattato di Roma (1958). Ma anche negli Stati Uniti si sarebbe dovuto attendere fino agli anni ‘Cinquanta del secolo scorso perché la struttura della società venisse stabilmente concettualizzata con la potente formula del nexus of contracts.

Naturalmente le impostazioni contrattualistiche prendono più facilmente il sopravvento là dove il finanziamento dell’impresa è prevalentemente affidato al percorso breve che, attraverso i mercati borsistici, va dal risparmio alle imprese; mentre ha slancio e cogenza minore laddove continua ad essere dominante il percorso lungo dai risparmiatori agli intermediari e dagli intermediari alle imprese [32], anche se, alla fine del periodo, anche i sistemi europeo-continentali accorciano il distacco rispetto a quelli anglosassoni. E tuttavia, non essendo ancor stato portato a compimento questo processo, qui non di rado si assiste a ritorni di fiamma di impostazioni istituzionalistiche[33], che confermano come sia questo primo periodo l’unico in cui si è assistito con una certa frequenza alla effettiva compresenza dei due termini del dilemma nello stesso sistema e nello stesso periodo storico.

***

Il quadro fin qui trattato si presenta, dunque, con una certa nitidezza. Il capitalismo industriale (§ 4) in un primo tempo esibisce varianti assai diversificate fra di loro della concezione istituzionalistica del diritto societario; poi, nel periodo postbellico, si assiste all’emersione del paradigma alternativo del contrattualismo. È nella fase successiva, di consolidata egemonia del capitalismo finanziario, che il contrattualismo celebra i suoi trionfi come concezione del diritto societario dominante e perfettamente congruente a tutti i tratti caratteristici della Weltanschauung dominante nell’Occidente (o, meglio, nel Nord) del mondo. Questo fino a tempi recenti: poi la débâcle della crisi iniziata nel 2007-2008 incrina le certezze del periodo precedente e dà nuovo vigore alle impostazioni che, anche nella fase anteriore, ancor avevano insistito sulla necessità di includere nel calcolo economico gli interessi di stakeholder esterni al perimetro societario e di richiamare la grande impresa a principi di responsabilità sociale. Se oggi si assista ad una svolta in senso istituzionalista o, forse, come si è precisato [34], “neo-istituzionalista”, non è facile dire. Certo è che le coordinate del mutamento, ancor in atto, sono molto meno nitide e decifrabili di quelle rilevante con riguardo alle due fasi precedenti. Ad esse sono dedicate le notazioni che seguono.

  1. Un passo avanti: istituzionalismo redux? (2008-oggi). – Forse, in effetti, negli ultimi tre lustri, si è nuovamente prodotto un rovesciamento di fronte nelle coordinate che reggono l’alternativa fra contrattualismo ed istituzionalismo. I fattori che fanno pensare che si stia assistendo ad un ritorno di fiamma di concezioni istituzionalistiche del diritto societario sono molteplici. Intanto la crisi economica, iniziata nel 2007-2008 e continuata con modalità ed intensità diverse nel decennio successivo, sembra avere profondamente minato le basi ideologiche su cui si reggeva la fase precedente (1978-2007: v. § 3), mettendo in discussione la legittimazione dell’egemonia del capitale finanziario e le stesse ideologie neoliberali che avevano sorretto i decenni precedenti.

Ulteriori conferme, ed importanti, all’ipotesi che si stia assistendo ad un rovesciamento di fronte provengono altresì da due altri sviluppi altrettanto significativi, che paiono operare nella stessa direzione: l’accresciuta percezione dell’urgenza di misure di contrasto della crisi ambientale e, da ultimo, della pandemia [35].

L’operare congiunto di questi tre fattori ha avuto un impatto sicuro sul secondo e sul quarto fra i vettori che nel periodo precedente avevano sorretto la spinta verso il contrattualismo.

Sul versante economico la maggior parte degli studiosi sta ripensando profondamente le categorie concettuali impiegate in passato [36]. Si revoca in dubbio la validità del parametro della massimizzazione dell’efficienza delle scelte, rilevando che i modelli di equilibrio prevalenti nell’arco che va da David Ricardo a Paul Samuelson semplicemente ignorano la dimensione del tempo e quindi vanno integrati con nozioni, come quella di sostenibilità, idonee a prendere adeguatamente atto della circostanza, ovvia ma trascurata dagli economisti neoclassici, che il futuro non è esclusivamente funzione del passato. D’altro canto questa critica, o, in alcuni casi, autocritica, si incontra con ripensamenti già in atto da tempo, fra cui una sempre più frequente presa di distanza dall’analisi economica del diritto, la cui credibilità è in effetti stata messa in dubbio da tempo.

Sul versante giuridico-regolatorio si assiste ad una vera e propria inversione di rotta. Su uno sfondo nel quale tutte le politiche pubbliche nazionali ed internazionali rinnegano, in particolare per contrastare la pandemia, i rigori dell’austerità predicati e praticati nel ventennio precedente [37], ed assicurano un flusso costante di liquidità agli operatori attraverso il c.d. quantitative easing, l’immissione di risorse monetarie attraverso l’acquisto di titoli di Stato “tossici”, l’intervento di sostegno dello Stato e delle istituzioni pubbliche assume in tempi brevi dimensioni ingenti [38]. Anche a livello micro, alle politiche di privatizzazione del trentennio precedente si sostituiscono forme di intervento pubblico diretto nell’economia che ricordano da vicino le modalità e le dimensioni attestate dopo la Grande Crisi del ’29 del secolo scorso [39].

Se, almeno per chi scrive, è molto più difficile esprimere valutazioni sia sugli effetti della tripletta di fattori di crisi sul piano sia ideologico sia politico, è tuttavia già a questo punto facile comprendere come sviluppi come quelli ora inventariati paiono aprire molteplici punti di ingresso per argomentare la doverosità, ai vari livelli di decisioni nella vita delle società, della presa in considerazione di interessi “altri” rispetto a quelli tradizionali e riassunti dalla formula fortunata del “nexus of contracts”.

Gli stimoli in questa direzione sono molteplici.

Alcuni provengono dal diritto dell’Unione europea. Il riferimento è qui alla disciplina delle “dichiarazioni non finanziarie”, che, introdotta dalla direttiva 2014/95 e da noi attuata mediante il d.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254[40], prevede per le società maggiori l’obbligo di fornire informazioni in materia di «temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani» e costituisce, come ha puntualmente osservato l’Onorato, “un tassello normativo rilevante per l’esplorazione del tema degli interessi degli stakeholder e dei fattori Environment, Social and Governance (ESG)”. Il passo successivo è rappresentato dalla direttiva (UE) 2017/828, c.d. Shareholders’ Rights II, da noi attuata con il d.lgs. 10 maggio n. 49, che prevede l’inserimento nella Relazione sulla politica di remunerazione e sui compensi corrisposti di indicazioni sugli «interessi a lungo termi­ne» e sulla «sostenibilità della società» [41].

Altri stimoli sono forniti dai diritti interni nazionali: tralasciando il nostro ordinamento, che comunque, come si è visto, ha dato attuazione a queste direttive, particolarmente notevole è la modifica all’art. 1883 del Code Civil apportata dalla c.d. “Loi Pacte”, la quale ha aggiunto un comma che sancisce che l’interesse sociale va perseguito tenendo “en consideration” le sfide sociali ed ambientali [42].

Conferme significative a queste impostazioni provengono anche dal mondo anglosassone: così la Sec. 172 del Companies Act, che impone agli amministratori di “have regard” degli interessi dei lavoratori, fornitori e clienti, della comunità di riferimento e dell’ambiente, il tutto in una prospettiva di lungo periodo[43].

Misure come queste, che tutte si collocano sul piano legislativo, si trovano a convergere con iniziative radicate nell’autonomia privata: dove assumono rilievo le innovazioni introdotte dal Codice di Corporate governance 2020 di Borsa Italiana, che a sua volta spezza una lancia perché l’organo di amministrazione persegua un “successo sostenibile” tenendo conto anche degli interessi altri, ed in particolare “degli altri stakeholder rilevanti per la società[44].

Sempre dalla sfera dei privati provengono altre spinte importanti, che sembrano trovare le proprie radici in trasformazioni strutturali dei mercati dei capitali. Così, è stato convincentemente mostrato come la concentrazione dei titoli nelle mani di un numero molto piccolo di index fund providers, fra i quali negli USA spiccano i Big Three, Vanguard, Black Rock e State Street, abbia portato a dare priorità al dibattito generale su issues e policies piuttosto che a specifiche questioni gestionali [45]. Una notevole risonanza anche mediatica hanno avuto le prese di posizione attente ai fattori ESG della Business Roundtable nordamericana del 2019 e la “lista nera” di Black Rock, che sancisce la proscrizione dei titoli contrari ai valori ESG [46].

Né potrà trascurarsi l’espansione, davvero ragguardevole, della presenza pubblica nell’economia; la quale, per quanto specificamente concerne il nostro ordinamento, si auspica sia informata ad obiettivi di sostenibilità ed a comportamenti coerenti con la prospettiva ESG [47].

Nella prospettiva qui prescelta, quel che più rileva è che il mutamento di accenti e di priorità, registrato da queste innovazioni normative ed operative, non manca di riflettersi sul nodo cruciale della definizione (e talora ri-definizione) del perimetro degli interessi che assumono rilievo nelle decisioni sociali. Talora questa ri-definizione è espressamente legittimata, ed in qualche misura imposta, dalla modifica del dato normativo, come indicano le recenti modifiche normative in Gran Bretagna e Francia sopra menzionate. Altre volte il dato normativo relativo al profilo causale del contratto di società e al perimetro degli interessi rilevanti ai fini delle diverse decisioni sociali non ha conosciuto variazioni in occasione dei round di innovazioni legislative che si sono menzionate: ed allora diviene compito dell’interprete ricostruire se si siano venuti aprendo spazi, e quali, per l’emersione di interessi “altri” ai diversi livelli dell’azione sociale. Compito che, come è facile comprendere, ripropone per l’appunto l’eterno dilemma fra istituzionalismo e contrattualismo, magari nei termini riveduti e corretti proposti da chi suggerisce attenzione verso forme di “neoistituzionalismo debole”[48].

Certo, in prima approssimazione, si dovrà assolvere il compito tenendo conto di segnali importanti. Dopo la crisi del 2007-2008 si sono moltiplicati i dati normativi che stanno ad indicare ad una crescente attenzione per finalità che trascendono la stretta osservanza del precetto dello shareholder value, come declinato nella precedente fase che va dal 1978 al 2007 (v. § 3) e che ora, come si è visto, assegnano un ruolo normativo significativo, e talora sovraordinato, a valori connessi ad interessi “terzi”, degli stakeholder che si collocano al di fuori del perimetro del nexus of contracts, alla responsabilità sociale della grande impresa e all’adesione alla prospettiva ESG.

Né si potrà trascurare, nell’esaminare la questione, che gli stessi fautori più convinti del contrattualismo si soffermano ora a segnalare quali e quanti nodi siano venuti al pettine che “minano la tenuta di questo modo di impostare i problemi” [49].

Non si può tuttavia tacere che possono permanere molti dubbi sull’idoneità dell’innovazione normativa societaria post-2007 di cui si è detto a riorientare complessivamente le coordinate di vertice del sistema fino a toccare, ancora una volta, i termini dell’“eterno dilemma”. Ci si può domandare intanto se ed in quale misura alcune fra le previsioni inventariate posseggano davvero la capacità di incidere sulla scala di valori di questo segmento del diritto oppure abbiano una valenza prevalentemente cosmetica; dubbio questo che è destinato a permanere fin quando la declamazione della ricerca della sostenibilità del sistema socioeconomico eluda nodi che intrinsecamente ne fanno parte come l’equità della tassazione e della distribuzione del reddito. In assenza di interventi coerenti in queste aree, una prospettiva come quella suggerita dall’ESG rischia di essere retrocessa al rango minore di una ricerca di ri-legittimazione di un sistema che quella legittimazione pare avere perduto.

Lo stesso vale per la ripulsa delle pregresse scelte di austerità fiscale e per il favor di interventi correttivi dell’economia pubblica. Si può pensare che questi dati normativi possano contribuire a far sistema solo quando ne venisse chiarito l’orizzonte temporale. Ed al momento essi sembrano potere essere revocati dall’oggi al domani, o viceversa resi permanenti; ma allora sulla base di fattori che, verosimilmente, più dipendono dall’evoluzione del confronto fra gli USA e la Cina[50] che dalla ricerca di modalità di gestione dell’impresa in linea con i valori fondamentali.

Vi è però una ragione ancor più radicale per dubitare che si stia davvero esistendo ad una riproposizione dell’“eterno dilemma” nei termini in cui lo conosciamo; ma, siccome quest’ultima ragione di dubbio dipende dal rapporto che si sta instaurando fra le piattaforme digitali ed il resto dell’economia, conviene fissare il tema con alcune notazioni provvisorie.

  1. Piattaforme digitali e responsabilità sociale: verso uno “statuto speciale”? – A ben vedere, il dubbio che i termini della dicotomia contrattualismo/istituzionalismo siano da ridefinire profondamente nell’epoca delle piattaforme digitali è suggerito dalla circostanza che il passaggio dall’analogico al digitale sta trasformando (o ha già trasformato) le categorie di base dell’economia capitalistica, dalla finanza alla proprietà intellettuale [51]; e sarebbe in qualche misura sorprendente se dovessimo registrare che invece il digitale non cambia i termini di una questione che è risultata così centrale per tanto tempo.

Ciò tanto più se si registri il consenso che si è formato sia sulle premesse sia sulle conseguenze del potere esorbitante delle piattaforme digitali. Così come, sul piano delle premesse, è troppo noto perché valga la pena soffermarvisi che la base della posizione di dominio dei giganti dell’informazione sta nell’assenza di costi di produzione e di distribuzione marginali e nell’esistenza di forti esternalità di rete [52], sul piano delle conseguenze si sta diffondendo sempre più la percezione dei molteplici livelli a cui si manifesta il dominio delle piattaforme. Il loro potere di mercato è meglio compreso se esaminato sul versante dell’acquisizione dei dati, tant’è che, non a torto si è proposto di considerarle “monopsonisti” dei dati [53]; ciò che spiega le consecutive “invasioni di campo” delle piattaforme in ambiti come la stampa e l’editoria, la musica, la pubblicità[54], destinate ad estendersi, progressivamente, a (quasi) tutti i settori dell’economia [55]. E soprattutto fa intuire, e talora rivela in piena luce, i rischi che le piattaforme digitali pongono in ambiti assolutamente cruciali per le nostre società: la riscossione delle tasse, la composizione della domanda aggregata, l’occupazione e la distribuzione del reddito ma anche le determinanti essenziali per la formazione non distorta della pubblica opinione e del dibattito pubblico e, in parallelo, il rispetto dei diritti fondamentali, dalla protezione dei dati alla libertà di espressione.

Si dice spesso che la velocità del cambiamento ha “spiazzato” le istituzioni di governo; ma ciò che interessa ai fini di queste note è che i decisori pubblici su entrambi i lati dell’Atlantico (come anche, per la verità, in Cina) sembrano ora intenzionati a correre ai ripari e ad apprestare forme di regolazione.

Alle spalle delle proposte oggi sul tappeto sta, per la verità, un lavoro di lunga lena degli studiosi, dei gruppi della società civile e delle istituzioni, nazionali ma ancor più internazionali [56]. Il dibattito si riallaccia per più profili ai termini delle discussioni oggetto di questo scritto, spesso concettualizzando gli obblighi delle piattaforme nei confronti dei singoli e delle comunità proprio nei termini della corporate social responsibility [57]. Uno fra i lavori più influenti in materia[58] raggruppa la responsabilità sociali delle piattaforme in tre segmenti, l’uno attinente all’organizzazione ed accesso ai contenuti caricati dagli utenti, l’altro alla libertà di espressione e l’ultimo alla privacy; e spezza una lancia per considerare le piattaforme come destinatari di obblighi sotto ciascuno di questi profili cruciali per la convivenza democratica, ad onta della circostanza che si tratti di entità private e quindi per altro verso sottratte ad obblighi “costituzionali” che sono prerogativa delle entità pubblicistiche [59]. Impostazioni come questa hanno trovato riscontri importanti non solo in ambienti accademici ma anche nei documenti di policy internazionali [60].

Dal dibattito si sta ora passando alle iniziative legislative. Lasciando da parte i termini della questione negli USA[61], val la pena volgere lo sguardo alle iniziative europee, che, in effetti si moltiplicano, anche se non sempre in un quadro armonico. Da un lato si segnalano le iniziative esplicitamente rivolte a contenere ed indirizzare il potere esorbitante delle piattaforme, come le due proposte di regolamento che compongono il “pacchetto digitale” propugnato dalla Commissione UE: il “Digital Services Act” (DSA) e il “Digital Markets Act[62], cui si accompagnano testi normativi talora più polivalenti [63], talaltra rivolti in direzione, parrebbe, opposta [64].

Per quanto qui interessa, sono fondamentali tre profili della disciplina dei servizi digitali contenuta nel DSA.

In primo luogo, si tratta di una regolazione “a piramide”, che, prendendo le mosse da una disciplina base (nel Capo II e nella Sez. 1 del Capo III) della responsabilità dei service providers per le loro attività di mere conduit, caching e hosting e dei loro obblighi di diligenza “per un ambiente online sicuro e trasparente”, si specifica (alle Sez. 2 e 3 del Capo III) in disposizioni particolari per le piattaforme online che disseminano tra il pubblico il contenuto caricato dagli utilizzatori per culminare (alla Sez. 4) nelle “ulteriori obbligazioni facenti capo alle “Piattaforme online molto grandi”, che raggiungano più di 45 milioni di utenti (par. 1 dell’art. 25). Dove, va notato, ai sensi dell’art. 40 gli Stati membri dell’UE hanno giurisdizione anche su piattaforme che non abbiano né uno “stabilimento principale” nell’Unione (par. 1) né ivi nominato un rappresentante legale (parr. 2 e 3).

In secondo luogo, fra gli obiettivi del regolamento proposto è indicato, al par. 2 dell’art. 1, oltre allo scontato fine di “a) contribuire al corretto funzionamento del mercato interno dei servizi intermediari”, quello assai più mirato ed impegnativo, di “b) stabilire norme uniformi per un ambiente online sicuro, prevedibile e affidabile, in cui i diritti fondamentali sanciti dalla Carta” dei Diritti Fondamentali[65] “siano tutelati in modo effettivo”. Questa finalità è illustrata in modo assai esplicito in alcuni Considerando, fra cui vanno menzionati il 56, il 58 e il 59. Secondo il Considerando 56 “Le piattaforme online di dimensioni molto grandi sono utilizzate in un modo che influenza fortemente la sicurezza online, la definizione del dibattito e dell’opinione pubblica nonché il commercio online. La modalità di progettazione dei loro servizi è generalmente ottimizzata a vantaggio dei loro modelli aziendali spesso basati sulla pubblicità e può destare preoccupazioni sociali. In assenza di regolamentazione ed esecuzione efficaci, esse possono stabilire le regole del gioco, senza di fatto individuare e attenuare i rischi e i danni sociali ed economici che possono causare. Ai sensi del presente regolamento le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero pertanto valutare i rischi sistemici derivanti dal funzionamento e dall’uso dei loro servizi, nonché dai potenziali abusi da parte dei destinatari dei servizi, e adottare opportune misure di attenuazione.” A sua volta il Considerando 58 recita: “Le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero porre in essere le misure necessarie per attenuare con diligenza i rischi sistemici individuati nella valutazione del rischio. Nell’ambito di tali misure di attenuazione le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero prendere in considerazione, ad esempio, la possibilità di rafforzare o altrimenti adeguare la progettazione e il funzionamento delle loro attività di moderazione dei contenuti, dei loro sistemi algoritmici di raccomandazione e delle loro interfacce online, così da scoraggiare e limitare la diffusione di contenuti illegali, oppure l’adeguamento dei loro processi decisionali o delle loro condizioni generali. Esse possono inoltre includere misure correttive, quali la soppressione degli introiti pubblicitari per specifici contenuti, o altre azioni, quali il miglioramento della visibilità delle fonti di informazione autorevoli”. Ed infine il Considerando 59: “Ove opportuno, le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero svolgere le proprie valutazioni dei rischi e mettere a punto le proprie misure di attenuazione dei rischi con il coinvolgimento di rappresentanti dei destinatari del servizio, rappresentanti dei gruppi potenzialmente interessati dai loro servizi, esperti indipendenti e organizzazioni della società civile”.

Ora, se si vogliono ancora una volta inforcare le lenti degli “interessi terzi”, ci troviamo qui al cospetto di una massiccia irruzione di interessi terzi: non si deve pensare solo alla violazione dei diritti di proprietà intellettuale o alla pedopornografia, ma a tutti quei processi dei social media che possono portare (o, forse sarebbe meglio dire, portano) alla perversione del dibattito democratico e alla coartazione della libertà di espressione. I quali “interessi terzi” non vengono, dalla proposta di regolamento, presi in considerazione come norme imperative la cui violazione è proibita, ma come valori che devono essere incorporati dall’interno nel processo decisionale delle piattaforme online di dimensioni molto grandi. Tant’è che le norme impongono una “mitigazione dei rischi” sopra delineati, art. 27 della proposta di DSA; una “valutazione del rischio”, art. 26; degli audit indipendenti, art. 28; degli obblighi di comunicazione trasparente, art. 33, nominando anche compliance officers indipendenti chiamati a monitorare l’osservanza delle prescrizioni del Regolamento, art. 32; i quali, si noti, devono riferire “direttamente al più alto livello dirigenziale della piattaforma”, par. 6 dell’art. 32. Ciò che è perfettamente logico se si consideri che quel più alto livello dirigenziale, normalmente il Board, è quello che è chiamato ad un vero e proprio bilanciamento fra l’interesse degli azionisti alla massimizzazione dei profitti e le obbligazioni di rispetto fattivo degli “interessi terzi” fatti propri dal DSA.

Non va trascurato che, almeno allo stato, i poteri sanzionatori, che sono saldamente in pugno non delle autorità nazionali ma, centralmente, della Commissione UE, possono arrivare al 6% del fatturato totale della piattaforma interessata.

Pare dunque che si stia delineando uno “statuto speciale” delle piattaforme digitali, in particolare di quelle molto grandi, che presenta tre caratteristiche. L’obbligo di contemperamento fra gli interessi sociali e gli “interessi terzi” deriva non da un’opzione ricostruttiva di vertice fra istituzionalismo e contrattualismo ma da norme di legge. Si tratta poi di legge euro-unitaria; la quale potrà avere riflessi sul piano dei diritti nazionali applicabili secondo la lex societatis (e, quindi, verosimilmente del diritto nordamericano, visto che stiamo parlando dei c.d. GAFAM ed in particolare di Google, nella sua declinazione You Tube, e Facebook, con le sue controllate Instagram e WhatsApp) che restano assai incerti e tutti da esplorare [66]. Cosicché si potrebbe, infine, immaginare che il diritto delle piattaforme digitali stia portando alla ribalta una nuova forma di istituzionalismo, per un verso “imposto”, che fa entrare gli “interessi terzi” per la porta maestra di norme che impongono il bilanciamento a tutti i livelli delle decisioni societarie, e per altro verso “separato”, in quanto toccherebbe solo le società che rientrano nei presupposti delineati dalla norma.

Se così fosse, l’“eterno dilemma” fra contrattualismo ed istituzionalismo potrebbe continuare a porsi; ma solo per quelle società, a tutti gli effetti ormai minori, che non sono protagoniste dell’era digitale.

  1. Quasi una conclusione. – Quindi, impiegando una prospettiva storica come quella qui adottata, risulta da accogliere la conclusione cui perviene l’Onorato, quando scrive che “La contrapposizione tra contrattualismo e istituzionalismo può dirsi oggi un’antinomia superata?” [67]. La risposta è affermativa; ma solo in parte e comunque richiede qualche qualificazione.

Secondo la ricostruzione qui proposta, solo nella fase finale del capitalismo industriale (§ 4) il dilemma si è posto davvero e in termini netti. In precedenza avevano dominato varietà anche molto diverse fra di loro di istituzionalismo, senza lasciare spazi al secondo termine dell’alternativa. Successivamente, nell’era del capitalismo finanziario (§ 3), la situazione si è capovolta: il contrattualismo ha trionfato fino al punto di oscurare l’alternativa istituzionalista (anche se, come è naturale, ogni epoca ammette in qualche misura voci dissenzienti).

È per il periodo post-crisi che nasce qualche dubbio sulla cogenza delle conclusioni dell’Onorato, in due direzioni. La prima, come si è visto, deriva da tutti i rovesciamenti di fronte che sono arrivati con la crisi del 2007-2008, il disastro ambientale e la pandemia. Qui mi pare scorgere i segni di una chiara débâcle del contrattualismo; ma non è immediato immaginare che questo comporti un univoco ritorno all’istituzionalismo, anche se, per quanto mi concerne, la proposta di prendere in considerazione una variante “debole” di neo-istituzionalismo mi pare molto azzeccata.

È la seconda direzione che però indica una deviazione più netta perché coinvolge i termini stessi di un dilemma che, forse, è stato eterno ma ora probabilmente sta perdendo molta della sua rilevanza. Infatti, con l’avvento delle piattaforme digitali, si sta delineando una forma inedita di istituzionalismo, per un verso imposto (dall’Unione europea) e per altro verso separato (perché vale solo per le piattaforme più grandi). Se le iniziative sul tappeto avranno un seguito, è probabile che esse inneschino una partita geopolitica assai più interessante dell’“eterno dilemma”.

Torino, 24-1-2022

[ Saggio destinato agli Studi in onore di Paolo Montalenti ]

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[1] P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, in Riv. soc., 2018, 303 ss., 305.

[2] Oltre all’appena citato scritto L’interesse sociale v. P. Montalenti, La nuova società quotata: quali prospettive? in La nuova società quotata. Tutela degli stakeholder, sostenibilità e nuova governance, Giuffrè, Milano, 2021, §§ 2 e 13; L’Università e il diritto commerciale, oggi. L’evoluzione della società per azioni: quali prospettive? in Orizzonti del diritto commerciale, 2021; La nuova società quotata: profili generali, in AA.VV., Disciplina delle società e legislazione bancaria. Studi in onore di Gustavo Visentini (a cura di A. Nuzzo e A. Palazzolo), Vol. I, Principi e metodo, società e organizzazione, Roma, 2020, 169 ss., §§ 5 e 12; ma v. già Conflitto di interesse nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Giur. comm., 1995, I, 710 ss., 718 ss.

[3] Emblematici di orientamenti anche molto diversi fra di loro sono scritti come quelli di F. Denozza, Logica dello scambio e “contrattualità”: la società per azioni di fronte alla crisi, in Giur. comm., 2015, I, 5 ss.; di M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società. Un commento a Francesco Denozza, in difesa dello “istituzionalismo debole” in www.orizzontideldirittocommerciale.it e in Giur. comm., 2014, I, 669 ss. ed Economia sociale di mercato e responsabilità sociale di impresa, in V. Di Cataldo e P.M. Sanfilippo (a cura di), La responsabilità sociale dell’impresa. In ricordo di Giuseppe Auletta, Giappichelli, Torino, 2013, 9 ss., di R. Costi, Banca etica e responsabilità sociale delle banche, anch’esso in La responsabilità sociale dell’impresa, cit., 119 ss. e di G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo (variazioni sul tema da uno spunto di Giorgio Oppo), in Riv. soc., 2005, 693 ss. L’illustrazione della dicotomia fra contrattualismo ed istituzionalismo trova spazio anche nelle trattazioni manualistiche: v. da ultimo G. Presti-M. Rescigno, Corso di diritto commerciale, Vol. I, Impresa – Contratti – Titoli di credito – fallimento Vol. II, Società, Zanichelli, Bologna, 202110, 395-396.

            Sul ruolo dell’istituzionalismo nella teoria dell’ordinamento da Durkheim ad oggi è nel pregevole lavoro di F. Pallante, Il neoistituzionalismo nel pensiero giuridico contemporaneo, Jovene, Napoli, 2008.

[4] P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, cit.

[5] In questo senso F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 11 (a nota 21).

[6] In particolare F. Denozza, Logica dello scambio, cit

[7] Fra cui, per l’appunto, M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[8] Il riferimento, come è ovvio, è a G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit.

[9] Su cui v., di recente, D. Coyle, Cogs and Monsters: What Economics is, and What it should be, Princeton University Press, 2021 e, sul versante delle diverse ipotesi regolatorie, J. Balkin, How to Regulate (and Not Regulate) Social Media, in 1 Journal of Free Speech Law 2021, 71 ss. e M. Lemley, The Contradictions of Platform Regulation, ivi, 303 ss. entrambi disponibili a https://www.journaloffreespeechlaw.org/.

[10] G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit., 709 e P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, cit., 314.

[11] R. Costi, Banca etica, cit., 130.

[12] Ivi incluse quelle a tutela di interessi extracontrattuali, ivi include le previsioni preordinate a promuovere il c.d. gender balance (così anche F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 7 ss.).

[13] Così, con grande nettezza, F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 13.

[14] Così, con molta chiarezza, R. Costi, Banca etica, cit., 131.

[15] Da M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[16] M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit., 692 ss., 694.

[17] M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit., 688 ss. ove il riferimento alla tutela di annullamento si estende all’eccesso di potere e alla considerazione degli oneri procedimentali e di motivazione (691) assistiti da facoltà di accesso agli atti (692).

[18] M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit., 688.

[19] Capitalism and freedom, Chicago, University of Chicago Press, è del 1962.

[20] In argomento Q. Slobodian, Globalists: The End of Empire and the Birth of Neoliberalism
Harvard University Press, 2018.

[21] Le cui origini e sviluppi sono stati di recente rivisitati dall’importante scritto di R. Van Horn, Reinventing Monopoly and the Role of Corporations. The Root of Chicago Law and Economics, in Ph. Mirowski e D. Pleheve (a cura di), The Road from Mont Pèlerin. The Making of the Naoliberal Thought Collective, Harvard University Press, Cambridge, Mass., London, 2009, 204 ss.

[22] È questa, naturalmente, la tesi popolarizzata da F. Easterbrook-D.R. Fischel, The Economic Structure of Corporate Law, Harvard University Press, 1996. Ma la fragilità delle basi teoriche di queste impostazioni era già all’epoca piuttosto evidente (in argomento si consentito rinviare alla mia voce “SEC (Securities Exchange Commission)”, in Digesto, 1997, IV, vol. XIII, pp. 284 ss., a 289-291).

[23] Per un’esposizione recente di queste teorie nella prospettiva del diritto nordamericano v. J.C. Coates, The future of Corporate Governance Part I: The Problem of Twelve, (September 20, 2018). Harvard Public Law Working Paper No. 19-07, 4, disponibile a SSRN: https://ssrn.com/abstract=3247337 o http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3247337 o https://corpgov.law.harvard.edu/wp-content/uploads/2019/11/John-Coates.pdf

[24] R. Bork, The Antitrust Paradox. A Policy at War with Itself, Basic Books, New York, 1978, 418.

[25] R. Bork, The Antitrust Paradox, cit., 417.

[26] Sull’impatto delle durissime politiche antiinflazionistiche adottate, già sul finire della presidenza di Carter, dalla Federal Reserve capeggiata da Paul Volker, al fine di “stabilize prices, crush labour, discipline the South” (del mondo), è tornato di recente C. Durand, 1979 in Reverse, in New Left Review 1° giugno 2021, https://newleftreview.org/sidecar/posts/1979-in-reverse.

[27] Così, con grande chiarezza, R. Chernow, The Death of the Banker: the Decline and Fall of the Great Financial Dynasties and the Triumph of the Small Investor, Vintage Books, Random House, New York, 1997, 50 ss. e 59 ss. rispettivamente; per la Germania v., con particolare riferimento all’ostacolo all’allargamento dei mercati dei valori mobiliari costituito della normativa sulla cogestione, M.J. Roe, German Codetermination and German Securities Markets, in 5 Columbia J. Eur. Law, 1999, 199 ss. Va detto che non sono mancate resistenze a questo modo di pensare neppure negli Stati Uniti, ben rappresentate dalla posizione difesa a spada tratta da M. Lipton, Takeover Bids in the Target’s Boardroom, in 35 The Business Lawyer, 1979, 101 ss. e quindi da un giurista pratico cui viene ascritto il merito (o il demerito, a seconda dei punti di vista) di avere inventato le c.d. poison pills (e anche su questo tema si possono ancor oggi rileggere con profitto le pagine, preveggenti, scritte dall’Onorato: P. Montalenti, Il leveraged buy-out, Milano, 1991, specie 35 ss. e 38, ove alla nota 122 un richiamo allo studio di Lipton sopra citato).

[28] Così M. Libertini, Economia sociale di mercato, cit., che per la verità contrappone al contrattualismo la teoria della Corporate Social Responsibility (CSR).

[29] K. Polanyi, The Great Transformation. The Political and Economic Origins of our Time, 1944 (Beacon Press, 1957).

[30] E con particolare efficacia da G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit., 698 ss.

[31] Sugli uni e sull’altro v. di nuovo le nitide pagine di G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit., 699 ss. e, con riguardo a Lorenzo Mossa e Ugo Spirito, il ricordo simpatetico di P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Giuffrè, Milano, 2000, 197 ss.

[32] R. Chernow, The Death of the Banker, cit.

[33] Mi sia consentito rinviare a questo riguardo al mio L’impresa e il mercato, in L. Nivarra (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato, Giuffrè, Milano, 2008, 199 ss.

[34] E v. M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[35] Sulle conseguenze della pandemia sui “competing regulatory systems” dei poteri pubblici v. U. Pagallo, Sovereigns, Viruses, and the Law. The Normative Challenges of Pandemic in Today’s Information Societies, in 37 Law in Context, 2020, disponibile a SSRN: https://ssrn.com/abstract=3600038 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3600038.

[36] V. in particolare le considerazioni di R. Skidelsky, The End of Efficiency, in Project Syndicate 17 dicembre 2020, in

https://www.project-syndicate.org/commentary/economic-thought-efficiency-versus-sustainability-by-robert-skidelsky-2020-12, qui di seguito riassunte. E v. altresì S. Keen, The New Economics: A Manifesto, Polity Press, Cambridge, 2021.

[37] Con specifico riferimento all’Unione Monetaria Europea v., tra i molti, J. Halevi, From the EMS to the EMU and … to China, in https://www.ineteconomics.org/uploads/papers/WP_102-Halevi.pdf.

[38] Questo rovesciamento di visuale è particolarmente appariscente nelle azioni pubbliche attuate dal nostro attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi, il quale, dopo avere, in un discorso tenuto il 2 giugno 1992 agli investitori internazionali sul panfilo Britannia (ora rievocato dal Fatto quotidiano del 22 gennaio 2020, p. 15), come Direttore generale del Tesoro annunciato privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazione, vent’anni dopo, nel luglio del 2012, ha proclamato, questa volta come Direttore della Banca Centrale Europea (BCE), di essere pronto a interventi non convenzionali di sostegno dell’euro “whatever it takes” ed infine, il 25 marzo 2020, cessato il suo incarico alla BCE, ha caldeggiato una risposta ai guasti economici provocati dalla pandemia di amplissimo raggio ed estesa alla remissione (cancellation) dei debiti accesi per l’occasione.

[39] Uno spaccato estremamente significativo della massiccia ripresa dell’intervento pubblico è offerto da un intervento recente dell’Onorato: P. Montalenti, Intervento, in AA.VV., Le imprese pubbliche nel Rapporto Barca e il diritto azionario italiano, in Giur. comm., I, 2021, p. 538 ss.

[40] Che concerne le relazioni di carattere non finanziario e sulla diversità da parte delle imprese di maggiori dimensioni: v. P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 4.

[41] Sul tema v. in particolare P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., §§ 6-7 che sottolinea la rilevanza nella prospettiva di cui al testo, dell’“obbligo degli investitori istituzionali e dei gestori di attivi di comunicare al pubblico la «politica di impegno», in particolare sui «risultati non finanziari» e «sull’impatto sociale e ambientale» (art. 124-quinquies, comma 1, t.u.f.), assistiti da un apposito apparato sanzionatorio (cfr. d.lgs. n. 49/2019, art. 4).

[42] In argomento v. P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 8.

[43] In argomento v. nuovamente P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 8.

[44] P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 9.

[45] J.C. Coates, The future of Corporate Governance, 13 ss.

[46] Per in necessari riferimenti v. P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 8, ove, al § 10, notizie sulla nuova proposta di direttiva europea. Sulla presa di posizione della Business Roundtable si legge utilmente altresì G. Tett, Capitalism – a new dawn? in FT 7-8 settembre 2019, Life & Arts, 1-2.

[47] Sul punto v. di nuovo P. Montalenti, Intervento, in AA.VV., Le imprese pubbliche, cit., 541-543.

[48] Il riferimento è, evidentemente, a M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[49] F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 39-41.

[50] E dalle scelte di politica industriale che questa comporta: v. E. Colby, The Strategy of Denial: American Defense in Age of Great Power Conflict, Yale University Press, 2021.

[51] A quest’ultimo riguardo sia consentito rinviare al mio Il futuro della proprietà intellettuale nella società algoritmica, in Giur. it., Supplemento 2019, 10-36 e, già molto prima, allo scritto Le nuove frontiere della proprietà intellettuale. Da Chicago al ciberspazio, in G. Clerico e S. Rizzello (a cura di), Diritto ed economia della proprietà intellettuale, Cedam, Padova, 1998, 83 ss., che aveva esplorato l’ampiezza dell’impatto dell’epoca digitale sulle categorie fondamentali di analisi dell’economia, a partire della ivi rilevata “fine della fabbrica”.

[52] V. già M.A. Lemley-D. McGowan, Legal Implications of Network Economic Effects, in 86 Cal. L. Rev., 1998, 479 ss.

[53] O, forse più correttamente, oligopsonisti: e v. M. Lemley, The Contradictions of Platform Regulation, cit., 313.

[54] Per qualche dato sia consentito rinviare al mio La tutela delle pubblicazioni giornalistiche in caso di uso online, in AIDA 2019, 33-67.

[55] Per un’efficace esposizione giornalistica v. S. Quintarelli, Capitalismo immateriale. Le tecnologie digitali e il nuovo conflitto sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 2019.

[56] Per un’analisi accurata del dibattito v. G. Frosio, Why Keep a Dog and Bark Yourself? Intermediary Liability to Responsibility, in 25 Oxford Int’l J. of Law and Information Technology, 2017, 1 ss., a 7 ss.

[57] V. G. Frosio, Why Keep a Dog and Bark Yourself? cit., 8.

[58] M. Taddeo-L. Floridi (a cura di), The Responsibilities of Online Service Providers, Springer, 2017.

[59] Un’ampia ricognizione delle iniziative in materia dal 1999 al 2015 è in L. Gill-D. Redeker-U. Gasser, Towards Digital Constitutionalism? Mapping Attempts to Craft an Internet Bill of Rights, Berkman Center Research publication No 2015-15, 9 novembre 2015.

[60] Completi richiami in G. Frosio, Why Keep a Dog and Bark Yourself? cit., 7, n. 30 e 9.

[61] Per i quali v., su versanti opposti, riflessioni di grande livello come quelle rispettivamente proposte da J. Balkin, How to Regulate (and Not Regulate) Social Media, e M. Lemley, The Contradictions of Platform Regulation, citt.

[62] Rispettivamente Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo a un mercato unico dei servizi digitali (legge sui servizi digitali) e che modifica la direttiva 2000/31/CE, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/en/TXT/?uri=COM%3A2020%3A825%3AFIN e Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale (legge sui mercati digitali), disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52020PC0842&from=en.

[63] V. il c.d. Data Governance Act (Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla governance europea dei dati (Atto sulla governance dei dati) (Testo rilevante ai fini del SEE), Commissione europea, Bruxelles, 25.11.2020 COM (2020)767final, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020PC0767&from=EN) e la c.d. AI Regulation (Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (Legge sull’intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell’Unione{SEC(2021) 167 final} – {SWD(2021) 84 final} – {SWD(2021) 85 final).

[64] È il caso del Regolamento (UE) 2021/1232 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 luglio 2021 relativo a una deroga temporanea a talune disposizioni della direttiva 2002/58/CE per quanto riguarda l’uso di tecnologie da parte dei fornitori di servizi di comunicazione interpersonale indipendenti dal numero per il trattamento di dati personali e di altro tipo ai fini della lotta contro gli abusi sessuali online sui minori, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX%3A32021R1232 e del Regolamento (UE) 2021/784 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 29 aprile 2021 relativo al contrasto della diffusione di contenuti terroristici online, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32021R0784&from=EN, che incrementano, anziché ridurre, le facoltà di accesso dei prestatori alle comunicazioni online fra privati.

[65] La vincolatività della Carta dei diritti fondamentali è stata sancita dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009. Sulla Carta v. R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza e O. Razzolin (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Giuffrè, Milano, 2017 e S. Peers, T. Hervey, J. Kenner e A. Ward (a cura di), The EU Charter of Fundamental Rights, Hart, Oxford and Portland (Oregon), 2014.

[66] M. Leistner, The Commission’s vision for Europe’s Digital Future: Proposals for the Data Governance Act, the Digital Markets Actand the Digital Services Act – A critical primer (February 23, 2021), a SSRN: https://ssrn.com/abstract=3789041 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3789041.

[67] P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, cit., 305.

Il martello o la danza: rileggere Pueyo alla luce dei fatti

20 Gennaio 2022 - di Paolo Musso

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Le vicende dei paesi del Pacifico, così ben documentate su questo sito dagli articoli di Silvia Milone, richiedono a mio avviso un ripensamento, almeno parziale, del giudizio sugli articoli di Tomas Pueyo, che sono da molti ritenuti il miglior “manuale di istruzioni” per la gestione del Covid-19.

Pueyo, che non è né un medico né un biologo, ma sostanzialmente un esperto di informatica, anche se ha studiato un po’ di tutto, si è imposto all’attenzione generale con un articolo intitolato Coronavirus: Why you must act now (Coronavirus: perché dobbiamo agire adesso, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-act-today-or-people-will-die-f4d3d9cd99ca). Apparso il 10 marzo 2020 sulla piattaforma digitale Medium, in soli 9 giorni l’articolo ha avuto oltre 40 milioni di visualizzazioni e 53 traduzioni spontanee fatte dagli utenti di Internet per un totale di ben 42 lingue (43 contando l’inglese dell’originale), risultando ancor oggi l’articolo sul Covid più letto in assoluto.

Nonostante l’articolo, lungo ben 31 pagine, contenesse decine di grafici e tabelle, il concetto che intendeva comunicare era fondamentalmente uno solo e anche abbastanza semplice, benché della massima importanza: le epidemie presentano una crescita di tipo esponenziale, per cui bisogna agire con la massima decisione il più presto possibile, anche se la situazione non sembra ancora così grave da giustificare misure drastiche, perché guadagnare anche solo pochi giorni può fare un’enorme differenza.

Purtroppo, al grande interesse teorico per l’articolo di Pueyo non fece seguito una sua coerente traduzione in pratica, perché, come più volte è stato spiegato su questo sito da me e da altri, a cominciare da Ricolfi, i governi occidentali, seguendo il (pessimo) esempio di quello italiano guidato da Giuseppe Conte, fecero esattamente il contrario, rincorrendo l’andamento dell’epidemia anziché anticiparlo. Così ben presto ci si ritrovò con un livello elevatissimo di contagi, proprio come Pueyo aveva previsto.

Nel frattempo, però, appena 9 giorni dopo, il 19 marzo, Pueyo aveva già pubblicato il suo secondo articolo, The hammer and the dance (Il martello e la danza, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-hammer-and-the-dance-be9337092b56), in cui intendeva spiegare come dovevano comportarsi quei paesi (tra cui l’Italia) nei quali il virus si era ormai diffuso su vasta scala. L’idea di base era anche qui abbastanza semplice: in un primo tempo occorre usare il “martello”, cioè delle misure restrittive molto dure per abbattere i contagi, dato che se questi sono troppo numerosi nessun metodo di contenimento può funzionare, per poi passare non appena possibile alla “danza”, cioè, appunto, a un metodo di contenimento, che per Pueyo, come vedremo fra poco, coincide di fatto con il metodo coreano.

Il 2 aprile uscì Out of many, one (Dai molti, uno, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-out-of-many-one-36b886af37e9), dedicato specificamente alla situazione degli Stati Uniti (il titolo dell’articolo riprende infatti il motto “E pluribus unum” che compare nel loro stemma), che perciò non considererò, se non per notare che anche qui la sua stella polare continua ad essere la Corea del Sud e che per la prima volta Pueyo afferma chiaramente e dimostra persuasivamente che la strategia eliminativa è non solo più efficace, ma anche meno costosa di quella che punta alla sola mitigazione («a Suppression strategy would likely be less costly than a Mitigation strategy», p. 26): un concetto, questo, che i governi occidentali sembrano non aver mai capito, neppure ora, dopo quasi due anni di pandemia.

Il 20 aprile uscì A dancing masterclass (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-learning-how-to-dance-b8420170203e), scritto in collaborazione con decine di esperti di varie discipline e paesi, prima parte di Learning how to dance (Imparare a danzare), un lavoro monumentale (forse anche troppo, visto che è rimasto incompiuto) in cui Pueyo intendeva tradurre in analisi e istruzioni dettagliate le idee-guida descritte nelle loro linee fondamentali in Il martello e la danza.

A questo articolo seguirono: il 23 aprile il secondo capitolo, The basic dance steps everybody can follow (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-basic-dance-steps-everybody-can-follow-b3d216daa343); il 28 aprile il terzo, How to do testing and contact tracing (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-how-to-do-testing-and-contact-tracing-bde85b64072e); e infine il 13 maggio il quinto, Prevent seeding and spreading (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-prevent-seeding-and-spreading-e84ed405e37d), che fu anche l’ultimo.

Il quarto capitolo, infatti, pur annunciato, non è ancora stato pubblicato (così come, di conseguenza, la sintesi finale) e verosimilmente non lo sarà mai. Il motivo non è mai stato spiegato dall’autore, ma non si può fare a meno di notare la progressiva perdita di interesse da parte del pubblico. I suoi primi tre articoli, infatti, hanno avuto complessivamente oltre 60 milioni di visualizzazioni, più di 40 dei quali, però, dovute al primo. Considerando che Out of many, one aveva interesse solo per gli USA e confrontando il numero di like e commenti (rispettivamente 8.100 e 50 contro 106.000 e 526), si può dire che con ogni probabilità Il martello e la danza ha avuto oltre il 90% degli altri 20 milioni di visualizzazioni, cioè più di 18 milioni, mentre Out of many, one ne ha avute meno di 2 milioni.

Pueyo non ha mai fornito dati sulle visualizzazioni degli articoli successivi (il che già di per sé è un segnale negativo), ma non devono essere state molte, dato che all’inizio del suo ultimo articolo, The Swiss cheese strategy (La strategia del groviera, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-swiss-cheese-strategy-d6332b5939de), uscito l’8 novembre 2020, continuava a riportare lo stesso dato («Our Coronavirus articles have been read more than 60 million times»). Ciò è inoltre confermato dal crollo verticale sia dei like e dei commenti, sia (dato ancor più significativo) delle lingue in cui gli articoli sono stati tradotti dagli utenti: rispettivamente 18, 15, 13 e 8 per i quattro capitoli pubblicati di Imparare a danzare.

Dopo altri tre articoli dedicati a temi più specifici e sempre di basso impatto, Pueyo concluse provvisoriamente la sua opera sul Covid l’8 novembre 2020 con l’appena menzionato La strategia del groviera, scritto di nuovo da solo e molto più vicino allo stile dei primi due, dopodiché se ne disinteressò per quasi un anno. Ci è ritornato solo il 15 settembre 2021 con The most alarming problem about Long COVID, un articolo sugli effetti di lungo periodo del Covid (https://tomaspueyo.medium.com/the-most-alarming-problem-about-long-covid-9929af7fabb9) che però è sostanzialmente caduto nel nulla, anche perché si tratta di un tema specificamente medico, campo cui lui non ha alcuna competenza e in cui non basta l’abilità nell’analizzare i dati per dire qualcosa di significativo.

Quindi Pueyo si è dedicato ad altri temi, ma anche qui senza mai avvicinarsi nemmeno lontanamente allo sfolgorante e probabilmente irripetibile successo degli inizi: basti dire che l’articolo più recente da lui pubblicato su Medium, How to fight ocean plastic (https://tomaspueyo.medium.com/?p=3dfd38edd824), al 31 dicembre 2021 aveva ottenuto appena 178 like e 5 commenti, contro i 247.000 like e i 902 commenti del suo primo articolo.

Che dobbiamo pensare di tutto ciò? Si potrebbe semplicemente dire che “sic transit gloria mundi” e soprattutto quella del mondo di Internet, ma credo che stavolta ci sia qualcosa di più.

Infatti, mentre Perché dobbiamo agire adesso è ancor oggi condivisibile quasi al 100%, lo stesso non si può dire di Il martello e la danza, cioè il lavoro di Pueyo che ha avuto le maggiori probabilità di influire sulle decisioni reali dei governi (anche se è praticamente impossibile dire in che misura l’abbia fatto davvero). Esso è infatti uscito proprio nel momento in cui i principali paesi occidentali cominciavano a adottare le prime vere misure di contenimento, venendo subito tradotto in ben 39 lingue (40 con l’originale inglese) e, soprattutto, potendo sfruttare l’effetto di trascinamento prodotto dal successo planetario del primo articolo.

Purtroppo, però, a differenza di quest’ultimo, qui c’è veramente tutto e il contrario di tutto, sicché, insieme a molte idee sicuramente giuste (peraltro quasi tutte riconducibili al “dobbiamo agire subito” del primo articolo), vi ritroviamo anche tutti i principali errori che abbiamo commesso: dall’eccessiva insistenza sul lavaggio delle mani e sull’uso delle mascherine alla mancanza della prevenzione del contagio via aerosol, dalla sottovalutazione dei contagi negli uffici e nelle fabbriche all’eccessiva insistenza sugli assembramenti all’aperto, fino alla valutazione positiva del coprifuoco (la misura più stupida di tutte e, in certo senso, la sintesi di tutti i nostri errori, dato che unisce tutte le idee sbagliate appena elencate al “linguaggio di guerra” irresponsabilmente adottato dai governi occidentali).

Questa tendenza si è ulteriormente accentuata nelle varie parti di Imparare a danzare, che per di più sono state scritte col contributo di così tante persone che è impossibile perfino dire esattamente quante. Questo ricorda da vicino gli errori commessi dai nostri governi anche dal punto di vista del metodo, dato che essi sono stati (e continuano purtroppo ad essere) il frutto di una babele di opinioni che si intrecciano freneticamente, senza una chiara idea di fondo che le unifichi e soprattutto senza una guida autorevole che si prenda la responsabilità di indicarla, col risultato che le decisioni vengono prese sostanzialmente a caso, in base a chi grida più forte o sulla spinta dell’emotività. Non è dunque tanto strano che l’interesse dei lettori di Pueyo sia rapidamente scemato, visto che è altrettanto rapidamente scemata anche la qualità dei suoi articoli.

Questo, però, non è tutto. È proprio l’idea di fondo che lascia a dir poco perplessi, secondo me già allora, ma in ogni caso di certo almeno oggi, alla luce dei fatti successivi. Infatti, se si può capire che all’inizio dell’epidemia si possa preferire la “danza” al “martello” in quanto meno traumatica, quello che invece appare del tutto incomprensibile è perché mai, una volta che (per necessità o per scelta) si sia optato per la “martellata”, non si dovrebbe poi tirarla fino in fondo, cioè fino alla totale eliminazione del virus. E ciò suona ancora più strano considerando che poco prima Pueyo aveva affermato in modo inequivocabile che la strategia che punta all’eliminazione del virus non solo è la migliore, ma è l’unica accettabile («Everybody should follow the Suppression Strategy»).

Eppure, poco oltre non solo Pueyo afferma che una volta che il tasso di trasmissione (il famoso R) sia sceso sotto 1 si deve fermare il “martello” per passare alla “danza”, cioè al contenimento, ma addirittura sostiene che quest’ultimo dovrebbe essere calibrato in modo tale che R resti sempre il più possibile vicino a 1, anche se in media sempre al di sotto di esso («during the Dance of the R period, they want to hover as close to 1 as possible, while staying below it over the long term term», The hammer and the dance, p. 28).

Ora, questo non è solo concettualmente sbagliato, ma è un’autentica follia, perché significa auto-costringerci a vivere perennemente sul filo del rasoio, con il rischio continuo (che alla lunga inevitabilmente si realizzerà) che la situazione ci sfugga di mano e si debba tornare al “martello”. E, di fatto, questo è esattamente ciò che è accaduto (e continua tuttora ad accadere) in Italia e un po’ in tutto l’Occidente, con i catastrofici risultati che ben conosciamo.

La spiegazione che dà Pueyo di questa clamorosa contraddizione è che ciò permetterebbe di eliminare le misure più pesanti, che alla lunga risulterebbero troppo onerose («That prevents a new outbreak, while eliminating the most drastic measures», The hammer and the dance, p. 28). Ma questo è falso (cfr. Luca Ricolfi, La notte delle ninfee, La Nave di Teseo, Milano 2021) e la cosa più sconcertante è che, come abbiamo detto prima, in Out of many, one, uscito appena due settimane dopo, Pueyo stesso dimostrerà che in realtà sono proprio le misure più drastiche ad essere le meno costose. Anche ammettendo che al momento della pubblicazione di Il martello e la danza non l’avesse ancora capito, perché non correggerlo successivamente, trattandosi di un articolo online pubblicato in un suo spazio personale e quindi modificabile in qualsiasi momento?

A questo punto, come suol dirsi, la domanda sorge spontanea: da dove vengono queste apparentemente inspiegabili incongruenze all’interno di un’analisi che per tanti altri aspetti è invece così precisa?

In realtà una spiegazione c’è, ed è che per Pueyo sembra esistere un unico modello di successo, cioè quello della Corea del Sud. Ciò si spiega col fatto che all’inizio della pandemia la Corea era sembrata per qualche tempo il paese messo peggio al mondo dopo la Cina e poi quello che si era ripreso più rapidamente, sempre dopo la Cina. Così, lasciata da parte quest’ultima, che, essendo una dittatura, non poteva costituire un modello per i paesi democratici, Pueyo si è concentrato sulla Corea e non ha mai considerato seriamente nessun’altra strategia,

Ciò si vede chiaramente dal fatto che ogni volta che parla di qualcuno degli altri paesi che hanno avuto successo nella lotta al virus tende invariabilmente ad assimilare la loro strategia a quella coreana (senza rendersi conto delle differenze) oppure a sottovalutarla (senza rendersi conto dei risultati). Per esempio, in Il martello e la danza Pueyo equipara sbrigativamente i sistemi di Taiwan e Singapore a quello coreano. Inoltre, nella nota finale a tutte le 4 parti pubblicate di Imparare a danzare scrive esplicitamente che i suoi modelli sono «Taiwan, Singapore, Cina e Corea del Sud» («In Part 1, we discuss best practices from Taiwan, Singapore, China and South Korea»), nemmeno menzionando Australia e Nuova Zelanda.

Peraltro, contraddittoriamente, Pueyo conclude la nota suddetta scrivendo che «la maggior parte dei paesi non stanno approcciando bene il tracciamento dei contatti» e che «continuando così faranno la fine di Singapore» («Most countries are not approaching contact tracing right. If they continue their current path, they will end up like Singapore»), il che non solo è contrario a quanto lui stesso aveva scritto poche righe prima, ma anche e soprattutto ai fatti, visto che Singapore è uno dei paesi che meglio hanno gestito l’epidemia, benché non abbia mai adottato il tracciamento elettronico in stile coreano (cfr. Silvia Milone, Il successo del sistema misto di Singapore, https://www.fondazionehume.it/societa/il-successo-del-sistema-misto-di-singapore/).

È vero che tra i primi di aprile e la fine di maggio del 2020, cioè esattamente nel periodo in cui sono uscite le quattro parti di Imparare a danzare, a Singapore c’era stata un’improvvisa impennata dei contagi nei dormitori destinati ai lavoratori stranieri. È altrettanto vero, però, che si era trattato di un focolaio grande ma isolato e che il numero di contagi poteva essere considerato alto solo in relazione a quello, bassissimo, dei mesi precedenti, mentre il numero dei decessi (20 in due mesi, cioè uno ogni 3 giorni) era stato bassissimo in qualsiasi modo lo si volesse considerare. Forse all’epoca questo non era ancora così evidente, ma, di nuovo, perché non correggere questa affermazione nemmeno successivamente, quando è diventato chiaro che era clamorosamente sbagliata?

Certo, su questa indisponibilità a modificare il suo punto di vista e sulla sua apparente indifferenza verso le contraddizioni suddette ha probabilmente influito anche l’inatteso successo planetario del primo articolo, che ha spinto Pueyo a scrivere tutti gli altri nel giro di appena due mesi (a parte l’ultimo, che infatti è molto più coerente). Con ritmi del genere e con una così grande quantità di tematiche, non c’è da stupirsi che non abbia avuto il tempo (né, probabilmente, la voglia) di rimettere in discussione la sua stella polare, su cui si basava tutta la sua impostazione teorica e a cui doveva tutta la sua fortuna.

Se però questa può essere la spiegazione del suo comportamento, non può esserne anche la giustificazione, soprattutto considerando che, come si è detto, Pueyo non ha modificato le sue convinzioni neanche successivamente, quando i limiti del modello coreano sul lungo periodo sono diventati sempre più evidenti, così come la maggiore efficacia di altri modelli, soprattutto quello della Nuova Zelanda. Ma la Nuova Zelanda è esattamente l’unico paese di cui Pueyo non parla mai: in tutti i suoi articoli a parte l’ultimo la nomina in tutto due volte e sempre di sfuggita, il che è davvero incredibile, ma certamente niente affatto casuale.

L’unico articolo in cui ne ha parlato (e anche qui brevemente) è stato La strategia del groviera, non a caso molto meno ambizioso, ma sicuramente molto più utile di Imparare a danzare. In esso Pueyo auspica l’uso contemporaneo di diverse strategie di difesa, in modo tale che se il virus ne supera una venga bloccato da un’altra, proprio come accade in una serie di fette di groviera sovrapposte: ciascuna di esse ha dei buchi che la attraversano da parte a parte, ma se le fette sono abbastanza numerose nessun buco riuscirà ad attraversarle tutte.

Qui Pueyo ha dedicato un breve paragrafo anche alla Nuova Zelanda e all’Australia, ma senza coglierne la specificità e minimizzando i successi da loro ottenuti (che a quel punto, a novembre del 2020, erano veramente clamorosi, anche rispetto agli altri paesi del Pacifico) con il solito ritornello per cui essi sarebbero dovuti essenzialmente al fatto di essere isole con una densità di popolazione molto bassa. Ma questa è una considerazione superficiale e fuorviante, che stupisce molto in un autore che certamente superficiale non è.

Infatti, la bassa densità di popolazione dei due paesi oceanici è un mero dato statistico, del tutto irrilevante ai nostri fini, dato che si deve essenzialmente al fatto che gran parte del loro territorio è disabitato. Tuttavia, nella parte abitata la loro densità di popolazione è sostanzialmente la stessa dei paesi europei: oltre il 60% dei neozelandesi vivono infatti in due sole città, Auckland e Wellington, entrambe più grandi di Milano, mentre gli australiani stanno quasi tutti sulle strette fasce costiere orientali e meridionali, lasciando l’immenso Outback desertico ai canguri e ai pochi aborigeni sopravvissuti, nonché ad alcuni gruppi di coloni sparpagliati in qualche migliaio di chilometri quadrati intorno ad Alice Springs.

Di conseguenza, i problemi che hanno dovuto affrontare sono stati del tutto simili ai nostri, ma i loro risultati sono stati enormemente migliori. E questo si deve, evidentemente, alla loro strategia, che è molto diversa da quella coreana, ma non meno efficace: anzi, sul lungo periodo si è addirittura rivelata più efficace, così come anche quella di Singapore, altro paese poco capito da Pueyo.

Ma c’è di più. Infatti, non solo l’alternanza martello-danza è chiaramente insensata, ma la stessa idea della “danza”, cioè del contenimento del virus in stile coreano messa in atto fin dal principio, appare oggi assai più discutibile, alla luce di quanto accaduto negli ultimi mesi. Infatti, rispetto al 13 maggio 2020, quando Pueyo pubblicava l’ultima parte di Imparare a danzare, la Corea del Sud ha avuto uno dei peggiori incrementi di mortalità al mondo: ben 21 volte, mentre in Italia, per esempio, nello stesso periodo la mortalità è cresciuta “solo” di circa 5 volte.

Certo, questo si deve al fatto che allora la sua mortalità era bassissima (centinaia di volte più bassa della nostra), per cui è bastato un piccolo numero di morti per farla crescere moltissimo in termini relativi, benché in termini assoluti sia tuttora enormemente inferiore alla nostra. Ma questo vale anche per la Nuova Zelanda, la cui mortalità è invece cresciuta di appena 2 volte. E ciò dipende dal fatto che, diversamente da quelle di Nuova Zelanda, la strategia coreana non è realmente eliminativa: è anch’essa una strategia di convivenza con il virus, che si differenzia dalla nostra solo per il fatto di essere molto più efficiente e, di conseguenza, “a bassa intensità”.

Questo spiega anche perché Pueyo abbia sempre detto che il lockdown non può eliminare completamente il virus. Infatti, il lockdown coreano è molto più simile (benché molto più efficiente) al semi-lockdown all’italiana che non al vero lockdown in stile neozelandese, che invece, come i fatti hanno dimostrato, è in grado di azzerare il contagio (cfr. Paolo Musso, Jacinda forever: perché il metodo neozelandese è migliore di quello coreano, https://www.fondazionehume.it/societa/jacinda-forever-perche-il-metodo-neozelandese-e-migliore-di-quello-coreano/).

Insomma, a conti fatti non sarei così sicuro che Pueyo in Occidente non sia stato ascoltato. Non lo è stato di certo (purtroppo) per quanto riguarda il suo primo articolo, che era anche il più importante, ma per il resto quello che abbiamo fatto non è stato poi così diverso da ciò che lui auspicava, anche se di sicuro non lo abbiamo fatto (neanche lontanamente) con l’efficienza che lui auspicava. Ma l’esempio della Corea ci dimostra che sul breve periodo la “danza” può funzionare, ma sul lungo periodo non è la strategia migliore, neanche se eseguita con il massimo di efficienza umanamente possibile. Quindi, anche se avessimo seguito alla lettera tutti i suggerimenti di Pueyo le cose sarebbero andate sicuramente meglio di come sono andate, ma probabilmente non tanto quanto lui e i suoi ammiratori ritengono.

Concludendo, ciò che si può ricavare da una rilettura delle teorie di Pueyo alla luce dei fatti successivi è innanzitutto la necessità di agire sempre e comunque il più rapidamente possibile. Quanto alla strategia da scegliere, se un’epidemia viene presa per tempo e se ci si può ragionevolmente aspettare che non duri troppo a lungo, allora la “danza”, cioè il metodo coreano, può andar bene, perché certamente crea meno traumi. Ma se così non è, allora è meglio passare subito al “martello” (ovvero al lockdown alla neozelandese) e usarlo fino in fondo, il che, se fatto con sufficiente decisione e rapidità in tutto il mondo, potrebbe addirittura stroncare l’epidemia sul nascere e impedirle di trasformarsi in pandemia. La “strategia del groviera” può essere usata come “rinforzo” del “martello” oppure come suo sostituto se per una qualsiasi ragione esso non dovesse avere successo (come è purtroppo accaduto da noi): anche in questo caso, però, bisognerebbe sempre puntare alla eliminazione del virus e non alla convivenza con esso, perché è ormai chiaro che sul lungo periodo quest’ultima non funziona.

Se questi sono dunque i principali insegnamenti di Pueyo, il suo principale errore si può invece riassumere tutto in una congiunzione: infatti non è “il martello e la danza”, ma “il martello o la danza”. E tutti i nostri guai sono nati non dal dover scegliere tra le due alternative, ma dal non aver saputo (o voluto) farlo.

Liberismo sanitario

12 Gennaio 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Ero già stupito a fine ottobre, quando i primi chiari segnali di ripartenza dell’epidemia (incidenza e Rt) vennero ignorati dalle nostre autorità politiche e sanitarie. Da allora non ho fatto che ristupirmi, perché né la scoperta di omicron e della sua trasmissibilità, né i rischi connessi alle vacanze natalizie hanno condotto al varo di misure tempestive e incisive. Ma ieri il mio stupore si è trasformato in incredulità. Nel giorno in cui i contagi hanno superato la cifra record di 200 mila casi al giorno, il Consiglio dei ministri ha deciso che entro lunedì 10 gennaio tutti gli ordini di scuole riapriranno, e che solo nelle scuole materne lo faranno con la cautela minima necessaria, ossia con la regola: se c’è anche un solo positivo in classe la frequenza si interrompe per tutti. Non me lo aspettavo, non tanto perché lo giudico molto imprudente (a decisioni che considero incaute sono abituato da due anni, ma può essere che sia io a essere troppo cauto), ma perché sui rischi di apertura si erano espressi chiaramente molti presidenti di regione e molti dirigenti scolastici. I primi invocando il via libera preventivo del Comitato tecnico-scientifico, i secondi spiegando dettagliatamente perché le scuole e le Asl non erano in condizione di garantire un rientro “in sicurezza”.

Quando succede una cosa che non ti aspetti, la domanda da farsi non è “perché sbagliano?” ma “che cosa gli fa pensare di fare la cosa giusta?” Perché se l’esecutivo agisce come agisce, e il Comitato tecnico-scientifico avalla tacendo, una logica ci deve pur essere. Ma quale può essere questa logica?

A me pare che la logica che guida la filosofia di “apertura a oltranza” poggi su una scelta di fondo, maturata e ribadita innumerevoli volte in questi mesi: lasciamo pure correre i contagi, tanto – grazie ai vaccini – si muore poco e si va poco in ospedale. Questa scelta di “liberismo sanitario”, paradossalmente, è stata rafforzata e non indebolita dalla comparsa della variante omicron, di cui si è preferito sottolineare la mitezza condizionale (“poco più di un raffreddore, se si è vaccinati”) che l’estrema contagiosità. Di qui l’idea che il vero problema sia la resistenza del popolo novax, e che obbligando tutti a vaccinarsi usciremo dall’incubo.

Ma regge questo ragionamento?

Sfortunatamente no. La scommessa liberista è incompatibile con i dati su quattro punti fondamentali.

Primo, l’esperienza degli altri paesi mostra che la vaccinazione di massa è necessaria ma non sufficiente a fermare il contagio. Lo mostra senza ombra di dubbio il fatto che Rt è sopra la soglia critica di 1 in tutte le società avanzate, compresi i paesi che hanno vaccinato tutti i vaccinabili  (Portogallo) o sono molto avanti con le terze dosi (Israele, Regno Unito).

Secondo, noi discutiamo come se il nostro problema fossero i 5 milioni di maggiorenni non vaccinati, o i 2 milioni di ultra-cinquantenni non vaccinati (che sarebbero tenuti a vaccinarsi entro metà febbraio), ma i non vaccinati sono ben 11 milioni, di cui circa 3 non vaccinabili in assoluto (bambini fino a 4 anni), e altri 3 (bambini da 5 a 11 anni) vaccinabili solo nei casi in cui i genitori superassero i loro dubbi, peraltro condivisi da una parte della comunità scientifica e delle istituzioni sanitarie (nel Regno Unito la vaccinazione dei più piccoli non è ammessa). Tutto questo significa che l’obbligo per gli ultra 50-enni, ove venisse rispettato integralmente, coprirebbe circa il 20% della popolazione non vaccinata, mentre più del 50% del problema sta precisamente negli allievi delle scuole materne, elementari e medie, che ci apprestiamo a riaprire da lunedì.

Terzo, oggi il problema principale non è che 5 milioni di adulti non si vogliono vaccinare, ma che 15 milioni di adulti non riescono a farlo, perché gli hub vaccinali non sono in grado di coprire la richiesta di terze dosi per coloro che hanno perso la protezione.

Quarto, il calcolo secondo cui possiamo permetterci di lasciar correre il contagio perché la probabilità di ammalarsi gravemente è bassa, si scontra con l’aritmetica dell’epidemia: se la letalità si dimezza, ma i contagi quadruplicano (cosa per cui bastano 2 settimane), il numero di morti e di ospedalizzati raddoppia, rendendo catastrofica una situazione che negli ospedali di molte regioni è già oggi drammatica.

Ecco perché dicevo che la scommessa liberista di lasciar correre i contagi è incompatibile con i dati, ovvero con quel che si sa dei meccanismi che governano questa epidemia. Qualsiasi cosa si pensi del perché siamo arrivati fin qui, è difficile non prendere atto che lasciar (ancora) correre il virus è un azzardo che non ha alcun supporto nei dati.

Possiamo dolerci della chiusura delle scuole e del ritorno alla Dad, ma se siamo lucidi dovremmo riconoscere che è prima che avremmo dovuto tutelarle, le nostre amate scuole, con le tante cose che sono state invano proposte, dall’aumento delle aule alla ventilazione meccanica controllata. Ora ci resta solo da prendere atto che rimandarne l’apertura, come per primo ha proposto il governatore della Campania, non è certo la soluzione, ma è il minimo sindacale per provare a rallentare l’epidemia.

Assalto di branco

12 Gennaio 2022 - di Luciana Piddiu

In primo pianoSocietà

La pacca sul sedere alla giornalista sportiva Greta Beccaglia ha fatto versare fiumi d’inchiostro e per parecchio tempo giornali locali e nazionali, nonché reti televisive hanno commentato l’increscioso episodio con parole di fuoco. L’aggressione sessuale è stata considerata intollerabile e il tifoso, autore del gesto, è stato additato come un mostro e denunciato per violenza sessuale.

Risulta perciò tanto più incredibile che sulle violenze di gruppo perpetrate a Milano la notte di Capodanno da parte di un branco di maschi nei confronti di giovani ragazze (almeno cinque i casi registrati) per giorni non sia stata data alcuna notizia.Timidamente e solo dopo alcuni giorni Il Corriere della sera per primo e poi, buon ultima, La Repubblica hanno dato spazio alla notizia seguiti dai telegiornali nazionali.

Eppure i fatti rivelano, come si evince dai due video che sono circolati in rete, una carica di aggressività e di ferocia che fa paura. Il cerchio di maschi urlanti e assatanati che si stringono attorno alle giovani vittime denota una prepotenza misogina sconfinata e la convinzione di poter godere dell’impunità. I fatti sono avvenuti in pieno centro, in Piazza Duomo, nel cuore di una Milano in festa illuminata a giorno e presidiata da forze di polizia che avrebbero dovuto garantire il massimo della sicurezza.

La voce della segretaria del Pd milanese ha definito ‘strazianti’ le immagini della violenza di branco contro giovani ragazze inermi, ma ha poi intonato la solita litania generica sulla persistenza del patriarcato nella nostra società e sulla necessità che la scuola educhi al rispetto. Il sindaco Sala ha parlato di molestie indegne di una città come Milano, che si presenta come capitale morale, smart e all’avanguardia. Solo Sardone ha messo in evidenza l’analogia tra i fatti di Milano e quanto accaduto a Colonia nella notte di Capodanno del 2016, quando gruppi di giovani immigrati hanno aggredito e stuprato decine di donne giovani e meno giovani che festeggiavano in piazza.

Perché questa minimizzazione, questo passare sotto traccia il fatto che gli assalitori parlavano arabo? Cosa si vuole nascondere?

Scrive Bhakti Patel, giornalista di Womenplanet: “Si tratta di un attacco sessuale su donne che non avviene in un bosco o in strade solitarie. È l’assalto di un gruppo di uomini a donne nello spazio pubblico, sotto gli occhi di centinaia di altri uomini che possono assistere al crimine odioso cui sono sottoposte la vittime. Questo atto barbarico ha fatto la sua prima comparsa in Egitto più di dieci anni fa e si è diffuso in Europa attraverso immigrati e rifugiati che si sono riversati nel vecchio continente dopo il periodo delle rivoluzioni arabe. Il primo episodio è stato registrato al Cairo, durante le manifestazioni per il referendum costituzionale del 25 Maggio 2005.” In quella occasione furono aggredite attiviste e ragazze egiziane che partecipavano alle manifestazioni.

E come non ricordare Lara Logan, corrispondente della CBS, che è stata assalita da duecento uomini per trenta minuti in piazza Tahrir, prima di essere messa in salvo da un gruppo di donne e soldati. Questa pratica ha un nome preciso si chiama in arabo Taharrush jama’i e da quel lontano 2005 ha preso piede nelle piazze in lotta delle primavere arabe, ma è arrivata anche da noi sia pure in tutt’altro contesto.

Il messaggio esercitato grazie alla forza è chiaro: lo spazio pubblico è di esclusiva appartenenza maschile e va interdetto alle donne. Se osano avventurarsi da sole, in piazza, nel luogo del dominio maschile, sappiano che diventano delle prede. Questo dato va taciuto o la stampa deve metterlo in evidenza? A onor del vero sulla pagina di Wikipedia le aggressioni di Milano sono state subito ascritte alla pratica barbarica del Taharrush jama’i. Ma allora perché stampa e televisioni nazionali, che si fanno vanto di svolgere un compito fondamentale di informazione hanno minimizzato e chiuso gli occhi? Che cosa va nascosto ? Che le differenze culturali ci sono e sono difficili da superare ? Che se un crimine di questa gravita è commesso da giovani immigrati o figli di immigrati è meno grave? Che se gli autori vengono dalle periferie disagiate della città i mass media non devono dedicare alla cosa la stessa attenzione?

Abbiamo combattuto duramente per conquistarci il diritto di uscire e abitare lo spazio pubblico e non ce lo faremo scippare certo per un malinteso senso di compiacenza verso maschi trogloditi che di strada ne devono fare se vogliono vivere tra noi ed essere rispettati.

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