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L’Italia è un paese sicuro?

26 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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L’Italia è un paese sicuro?

La domanda riceve risposte perentorie solo da chi è schierato in modo ideologico. Se prendete un politico di destra, ad esempio Salvini, vi sentirete rispondere che l’Italia non è un paese sicuro, e che occorre un giro di vite. Se prendete un intellettuale di sinistra, ad esempio Gianrico Carofiglio, vi può capitare di sentir dire che l’Europa è uno dei posti più sicuri del mondo, e che noi italiani “stiamo vivendo nell’epoca in assoluto più sicura della nostra storia”. Se poi parlate con una militante femminista, vi inonderà di indignazione per i femminicidi, descritti come una mattanza, uno sterminio, un’ecatombe.

Il tutto, non di rado, condito da dati statistici: ad esempio i tassi di criminalità degli immigrati, che sembrano dare ragione a Salvini, i tassi di omicidio, che sembrano dare ragione a Carofiglio, il numero di donne uccise dal partner, che sembrano dare ragione alla femminista.

Se vogliamo capire come stanno le cose, la prima cosa da fare è evitare quello che gli inglesi chiamano cherry picking (selezionare ciliegie), ovvero usare solo i dati che fanno comodo alla tesi cui siamo affezionati. E allora proviamoci, nei limiti di spazio di un articolo.

Punto numero uno: effettivamente, se consideriamo i comportamenti violenti, e in particolare quelli contro la donna (femminicidi e stupri), l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa. Però attenzione, c’è una importante differenza: gli omicidi, sia di uomini sia di donne, sono relativamente pochi, e abbastanza stazionari negli ultimi anni, ma le violenze sessuali sono in forte aumento, sia nel breve periodo (ultimi anni) sia nel lungo (rispetto agli anni ’50 e 60). Difficile, senza prove, rassicurarsi ipotizzando che il loro aumento nel tempo rifletta solo un aumento del tasso di denuncia.

Anche sugli omicidi in generale occorre andarci piano. Usando il cherry picking possiamo auto-rassicurarci dicendo che, rispetto al picco del 1991 (in cui c’erano stati quasi 2000 omicidi) le cose vanno benissimo (nel 2024 sono sati solo 319). Ma quel che invariabilmente si dimentica, quando ci compiacciamo della spettacolare riduzione del numero di omicidi dal 1991 a oggi, è il fatto che il 1991 è un anno specialissimo, che conclude una altrettanto spettacolare ascesa degli omicidi iniziata subito dopo il ’68, allorché gli omicidi erano ancora sotto quota 400, dunque non molto lontano dal livello cui sono oggi.

In breve: se parliamo di violenza, è vero che in Italia ce n’è meno che in Europa, ma non si può dire che sia minore di com’era negli anni ’60. Il vero crollo degli omicidi è avvenuto fra gli anni dell’immediato dopoguerra, in cui erano diverse migliaia all’anno, e la metà degli anni ’60, in cui erano scesi sotto i 400: una diminuzione di un fattore 10.

Ma la insicurezza non è fatta solo di esposizione alla violenza. È fatta anche, forse soprattutto, di esposizione a reati più comuni e diffusi, come quelli che attentano alla proprietà privata (furti, rapine, truffe).

Ebbene, se diamo un’occhiata alle statistiche disponibili per i paesi avanzati (Oecd o UE) scopriamo che, in generale, l’Italia si situa nel gruppo dei paesi in cui la proprietà è esposta a maggiori pericoli. E, sorpresa, in tale gruppo – oltre all’Italia – troviamo paesi considerati civilissimi come Svezia, Norvegia, Svizzera, Danimarca, Canada, Francia. Mentre nel gruppo dei paesi in cui i crimini predatori sono più diffusi troviamo soprattutto i paesi dell’Est europeo, tendenzialmente meno ricchi, meno democratici, meno avanzati sul piano dei diritti, meno aperti all’immigrazione.

Conclusione. Quando parliamo di sicurezza, dobbiamo distinguere nettamente fra attacchi alle persone fisiche (omicidi e violenze sessuali) e attacchi alla proprietà. Chi cerca di rassicurarci ha ragione se parliamo di attacchi alla persona e il termine di paragone sono le altre società avanzate. Ma ha torto se il termine di paragone è il passato remoto del nostro paese (l’Italia non è più sicura che negli anni ’60 del Novecento), o se parliamo di attacchi alla proprietà (l’Italia è meno e non più sicura delle altre società avanzate).

[articolo uscito sulla Ragione il 24 giugno 2025]

Criminalità – La paura e il rimpianto

24 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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Anche se ogni tanto qualcuno a sinistra ci prova, il tema della sicurezza non riesce proprio a far breccia nella mente dell’establishment progressista. A neutralizzare questa eventualità provvede un racconto standard, terribilmente ripetitivo, che più o meno suona così.

Viviamo nell’epoca più sicura della storia, l’Europa è una delle aree più sicure del pianeta, l’Italia è uno di paesi più sicuri d’Europa. I crimini violenti, e in particolare gli omicidi, sono in calo vertiginoso dall’Ottocento, se qualche tipo di reato (ad esempio stupri ed estorsioni) è in crescita in realtà è un bene, perché vuol dire che la gente denuncia di più. Gli immigrati non sono il problema, non delinquono più degli italiani. La paura non è razionale, perché ad alimentarla provvedono i media e gli “imprenditori della paura”, non certo l’aumento effettivo dei crimini commessi. La buona politica deve impegnarsi a mostrare ai cittadini l’infondatezza delle loro paure.

Questo racconto è basato su un buon numero di errori statistici e logici, e pure su qualche piccola furbizia. Ad esempio usare come termine di paragone il 1991, anno in cui i crimini hanno toccato il picco, o concentrarsi sugli omicidi, ossia su uno dei pochissimi crimini su cui effettivamente l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa. Ma il difetto principale del racconto rassicurante è di fraintendere radicalmente lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Oggi la preoccupazione per il crimine, i vissuti di insicurezza, l’ostilità verso gli immigrati non poggiano, come in passato, sulla sensazione, più o meno fondata, di un recente più o meno improvviso aumento dei reati. La loro base è molto più ampia e profonda, perché affonda le radici in un cambiamento più generale della nostra percezione della realtà in cui viviamo.

Dopo i quattro grandi shock degli ultimi anni – Covid, guerra in Ucraina, guerra Israele-Hamas, attacco all’Iran – la sensazione di vivere in un mondo profondamente insicuro e sempre più a rischio di catastrofi globali (pandemie, disastri climatici, guerra nucleare), è diventata pane quotidiano delle nostre coscienze. Ma questo ha anche modificato il modo di vivere la preoccupazione per il crimine. Se ieri potevamo essere turbati da ondate, vere o presunte, di comportamenti criminali, oggi quello che si fa strada nella mente di molti è un sospetto molto più radicale: che il progresso non sia progresso, che il mondo di ieri fosse ben più sicuro e vivibile di quello di oggi. Detto in altre parole, la gente, specie se ha vissuto parte della sua vita nel Novecento, non si chiede se l’Italia sia più sicura di 5 anni fa, ma semmai se lo sia rispetto a decine di anni fa.

Ma come stanno le cose?

Difficile, con l’informazione statistica disponibile, formulare una risposta rigorosa, ma una approssimativa invece la possiamo dare. Fatto 1 il livello dei vari crimini a metà degli anni ’60, possiamo dire che oggi le lesioni dolose sono salite a livello 3, i furti a livello 5, le violenze sessuali e le estorsioni a livello 6, le frodi e le truffe a livello 7, le rapine a livello 12, la produzione e commercializzazione di stupefacenti oltre livello 100. In breve: la gente ha ragione, oggi la criminalità è più forte, molto più forte di ieri. E sono diversi i reati (ad esempio furti e frodi) per cui l’Italia è meno e non più sicura della maggior parte degli altri paesi europei.

C’è una sola eccezione importante, che non a caso è sistematicamente invocata da chi nega o cerca di sminuire il problema della sicurezza: gli omicidi.

Effettivamente è vero che il tasso di omicidio in Italia è fra i più bassi d’Europa. Ed effettivamente è vero che negli ultimi 30 anni il numero di omicidi è crollato. E infine è vero che, nel lunghissimo periodo, con la modernizzazione e la crescita del benessere, il numero di omicidi volontari tende a diminuire. Negli ultimi decenni dell’Ottocento erano circa 4000 (su una popolazione di 30 milioni di abitanti), mentre oggi sono poco più di 300 (su una popolazione di 58 milioni di abitanti).

Quello che sempre si dimentica, tuttavia, è di specificare che il grosso del tracollo degli omicidi è avvenuto nei primi 100 anni della nostra storia nazionale, fra gli anni ’60 dell’Ottocento e gli anni ’60 del Novecento, e che negli ultimi 60 anni la diminuzione è stata modestissima, dai circa 400 del 1965 ai circa 300 di oggi. L’impressione di un crollo del numero di omicidi è dovuta a un rozzo trucco statistico: per dare l’impressione di un inarrestabile progredire della civiltà si usa come termine di paragone il 1991 (quasi 2000 omicidi), ossia l’anno terminale di una drammatica galoppata degli omicidi, enormemente cresciuti dopo il ’68. Se il paragone, anziché con il 1991, si facesse con il dato del 1965, dovremmo amaramente ammettere che – in quasi 60 anni – gli omicidi sono scesi da circa 400 a circa 300, un ben misero risultato considerata la lunghezza del periodo.

Ecco perché, oggi, parlare semplicemente di paura è riduttivo. Quello che si sta facendo strada nell’opinione pubblica è un sentimento assai più complesso, che ha più a che fare con il rimpianto che non con la paura. Rimpianto di un’epoca forse un po’ idealizzata, ma in cui i crimini erano molti di meno, e l’impunità era meno sistematica e legalizzata di oggi. Un’epoca in cui non era vivo quanto oggi il sentimento generale di ingiustizia che ogni crimine impunito suscita nelle vittime e nei comuni cittadini.

Possiamo deplorare la nostalgia per il passato, e sforzarci di elencare le innumerevoli cose che vanno meglio oggi di ieri. Ma non possiamo non vedere che il futuro non è più costellato di speranze come lo si pensava nel secolo scorso, e la nostalgia ha le sue buone ragioni.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 giugno 2025]

La macedonia avvelenata

19 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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C’erano una volta i movimenti collettivi. Ricordate le grandi manifestazioni delle donne negli anni ’70? La battaglia sul divorzio? E quella sull’aborto? La mobilitazione contro il nucleare? Il referendum contro il finanziamento pubblico dei partiti? E quello sulla scala mobile? E le grandi manifestazioni per la pace ai tempi delle guerre del Golfo?

La stagione dei movimenti è durata una quarantina di anni, dalla fine degli anni ’60 ai primi anni 2000. Poi, più o meno lentamente, le grandi ondate dell’azione collettiva hanno perso vigore, e sono state sostituite da sommovimenti più piccoli, più contingenti, più frammentati. I grandi movimenti collettivi, capaci di polarizzare l’opinione pubblica e mobilitare grandi masse di cittadini, oggi non ci sono più, sostituiti da sussulti di breve durata e scarso respiro.

Perché?

Una spiegazione possibile è che la nostra società è diventata molto più individualista. Siamo molto più concentrati su noi stessi, le battaglie collettive ci interessano sempre di meno. Ognuno cerca la sua strada da solo. La “società liquida” di cui parla Zygmunt Bauman non consce né la fatica dell’impegno pubblico né la pazienza dell’attesa.

Un’altra possibile spiegazione è che molte delle rivendicazioni dei movimenti del passato sono state soddisfatte. Se le donne di oggi lottano di meno è anche perché hanno ottenuto molto di ciò per cui le loro madri e nonne si sono battute.

E tuttavia, forse, c’è anche un’altra ragione, stranamente dimenticata, per cui oggi non ci sono più veri movimenti collettivi di massa: non c’è uno straccio di attore politico che sappia resistere alla tentazione della macedonia avvelenata.

Che cos’è la macedonia avvelenata?

È la tendenza a costruire, intorno al tema principale per cui si convoca una manifestazione o si indice un’iniziativa, una macedonia di temi supplementari, tenuti insieme e spesso infiammati dal veleno dell’ideologia, quando non dal carburante dell’odio.

L’esempio più recente è stato fornito giusto sabato scorso dal Gay Pride di Roma, una manifestazione che in teoria era di difesa dei diritti LGBT+, in realtà è diventata tutt’altro. Le bandiere della Palestina l’hanno trasformata anche in una manifestazione pro-Gaza e anti-Netanyahu. E un mostruoso manifesto, con Netanyahu, Trump, Musk  e Joanne Rowling a testa in giù, l’ha trasformata in una macchina dell’odio e dell’incitamento alla violenza.

Ma la stessa cosa era successa, una settimana prima, nella grande manifestazione della sinistra a sostegno dei Palestinesi, che si è rapidamente trasformata in una iniziativa per il sì ai referendum del giorno dopo, in patente violazione del silenzio elettorale. Episodi di questo genere, in cui la piazza viene convocata su un tema, ma gli organizzatori confezionano la “macedonia avvelenata” aggiungendo altri temi, mettendo nel mirino gli avversari politici, indicando bersagli da colpire, non sono certo nuovi. Fra quelli relativamente recenti ricordo l’incredibile insalata di slogan – dai femminicidi al Ponte sullo Stretto – che caratterizzò la piattaforma politica della manifestazione transfemminista del 25 novembre 2023, poco tempo dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin. E, fra quelli remoti, la politicizzazione in chiave anti-Berlusconi (erano i tempi del bunga bunga) della grande manifestazione nazionale del 2011 “in difesa della dignità delle donne”, promossa dalle femministe di “Se non ora quando”.

Ecco, forse è stato proprio in quel momento che è iniziata l’agonia dei movimenti collettivi. Che ha una matrice molto semplice: se chiami la gente in piazza in nome di una parte politica contro la parte avversa, se appiccichi al tema mobilitante una pletora di temi parassitari che c’entrano nulla o poco, se spargi odio contro chi non la pensa come te, allora non stai facendo impegno civile: stai distruggendo le pre-condizioni che lo rendono possibile.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 giugno 2025]

Sul tramonto di Tinder – Crisi o resurrezione delle app di incontri?

11 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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Che le ultime due generazioni (Millenials e Zoomers) non disdegnino ricorrere ai siti di incontri per trovare partner più o meno stabili è noto da una dozzina di anni, ossia da quando, nel 2012, venne creato Tinder, il sito più frequentato. Che questo fenomeno crei in molti utenti stress e frustrazione è altrettanto noto, oltreché ovvio. Che negli ultimi anni diversi utenti, giovani e meno giovani, abbiano abbandonato Tinder è pure risaputo. Quello che, invece, è meno chiaro è se il mercato di questi servizi sia in crisi o in espansione.

Alcuni dati generali fanno propendere per il declino. Se, ad esempio, consideriamo le app totali scaricate negli ultimi anni, si può notare che, dopo il boom del 2020 (dovuto al lockdown), si è avuta una contrazione nel 2021, una lenta crescita nei due anni successivi, e un calo nel 2024. Può sembrare una leggera crisi, ma bisogna considerare che, pur essendo le varie app scaricabili in quasi tutti i paesi del mondo, il fenomeno è quasi interamente occidentale. La vera notizia, quindi, è che – a differenza di altri consumi – questo tipo di servizi non si sta espandendo nel resto del mondo. E anche considerando le società avanzate (occidentali o occidentalizzate), il grado di penetrazione è modesto: i pochi dati che circolano parlano di meno di 200 milioni di utenti, su 1 miliardo di persone. Se poi passiamo alle cifre di quanti pagano e al fatturato, il quadro si fa ancora più negativo: gli utenti paganti sono circa 1 su 7, e il fatturato globale del settore (in tutto il mondo) è dell’ordine di 4-5 miliardi di euro, grosso modo un decimo del fatturato di Vodafone in Italia. Insomma: stiamo parlando di una industria piccola, che vale più o meno 1 centesimo di quella del porno. E i cui numeri in borsa sono calanti.

Fin qui, dunque, crisi del settore. Se però per un momento abbandoniamo Tinder (la app principale), che è in crisi da 4-5 anni, e prendiamo in considerazione altre aziende di incontri, il quadro cambia notevolmente. Due app in particolare, Bumble e Hinge, sono in crescita da diversi anni, e considerate insieme hanno ormai quasi raggiunto Tinder, con circa 60 milioni di download nel 2024. Senza l’apporto di queste due app emergenti, il mercato sarebbe in crollo verticale.

Perché?

La ragione pare essere la loro filosofia, che per certi versi è opposta a quella di Tinder. Quest’ultima è strutturata in modo tale da favorire nettamente due minoranze: i maschi belli e fisicamente attraenti (i cosiddetti hot men), che possono ottenere facilmente la donna che vogliono, e le donne che cercano solo sesso. Tutti gli altri (maschi non bellissimi e donne alla ricerca di una relazione stabile), che costituiscono circa l’80% degli utenti di Tinder, hanno scarsissime possibilità di successo e sono destinati ad accumulare frustrazioni, come ha ben spiegato Tomas Pueyo in un recentissimo post (The Problem with Dating Apps). Questo vuol dire che il declino di Tinder era, in certo senso, già inscritto nella sua architettura, che ne fa una macchina delle illusioni (da ultimo supportata dall’intelligenza artificiale).

Del tutto diversa, per non dire opposta, la filosofia di Bumble e Hinge. La prima (Bumble) si caratterizza perché tiene conto dell’asimmetria di potere e di aspettative fra maschi e femmine, che viene neutralizzata concedendo solo alle donne di fare la prima mossa (i maschi non possono interagire con donne che non li hanno selezionati).

La seconda app (Hinge) si indirizza sia a maschi sia a femmine, ma si dà come missione quella di favorire l’instaurazione di relazioni stabili, con conseguente uscita dalla app. In altre parole, il fine ultimo di chi va su Hinge deve essere il distacco dalla app, reso possibile dall’incontro con il partner o la partner giusti: una sorta di rivalutazione laica e tecnologica del matrimonio d’amore.

In una prospettiva simile, ossia di rivolgersi a target ristretti e relativamente ben definiti, sembrano orientarsi anche altre app che stanno ottenendo notevoli adesioni, ad esempio Grindr, che si rivolge al mondo LGBT.

Forse, a dispetto del declino di Tinder, sul mondo dei siti di incontri non è ancora calato il sipario.

[articolo uscito sulla Ragione il 10 giugno 2025]

A proposito dell’epidemia di solitudine – Le conseguenze dell’amore

9 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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I sociologi americani se n’erano accorti già a metà degli anni ’80, allorché Robert Bellah ebbe a pubblicare il volume Le abitudini del cuore (sottotitolo: Individualismo e impegno nella società complessa): l’individualismo esasperato della società americana (ma il discorso vale per quasi tutte le società occidentali) erode inesorabilmente il senso di comunità e l’impegno civico. E 15 anni dopo un altro sociologo americano, Robert Putnam, sembrò chiudere definitivamente il discorso con un libro sconsolato, Bowling Alone (giocare a bowling da soli), in cui constatava la distruzione del tessuto comunitario, il declino dell’associazionismo, la contrazione delle relazioni faccia a faccia.

In queste analisi, tuttavia, la preoccupazione principe degli studiosi era l’erosione del “capitale sociale”, fatto di partecipazione e impegno pubblico, più che la condizione dell’individuo. È vero che la condizione umana che traspariva da quelle analisi era quella di individui sempre meno connessi, e quindi sempre più soli, ma è solo recentemente che, grazie soprattutto ad alcuni psicologi sociali americani (Haidt e Twenge su tutti), la solitudine del singolo individuo è diventata l’oggetto e il centro degli studi. Oggi, diversamente da ieri, si parla esplicitamente di “epidemia di solitudine”, e il fenomeno è diventato oggetto di attenzione da parte di psicologi, medici, operatori sociali, schiere di terapeuti di ogni specie. Persino l’Organizzazione mondiale della sanità, un paio di anni fa, ha definito la solitudine “una preoccupazione globale per la salute pubblica”. Per non parlare dei governi che, come quello britannico e quello giapponese, non hanno trovato di meglio che istituire un “ministero della solitudine”.

In effetti i dati, sia quelli comportamentali (come usi il tuo tempo?), sia quelli soggettivi (come ti senti?), supportano pienamente l’idea di una epidemia di solitudine, soprattutto fra le ultime generazioni (Millenials e Zoomers), e in special modo specie nei paesi occidentali.

Ma qual è l’origine di questa ondata di solitudine?

I sociologi tendono a rispondere: è l’individualismo, bellezza! La ricerca ossessiva della felicità e l’imperativo dell’autorealizzazione tolgono spazio alle forme tradizionali della socialità, basate sull’associazionismo e i riti comunitari. Gli psicologi sociali osservano che l’epidemia di solitudine e i sintomi di disagio si sono moltiplicati dopo l’invenzione dell’iPhone4, che ha enormemente facilitato l’accesso a internet e ai social.

Uno sguardo più lungo, tuttavia, suggerisce che, forse, un fattore importante sono state anche le modificazioni della nostra concezione dell’amore, e più in generale dei rapporti con l’altro sesso. Modificazioni che non datano da oggi, ma risalgono ai primi anni ’70, quando è iniziato il lungo processo di disgregazione (o superamento?) della famiglia tradizionale. Secondo il filosofo francese Pascal Bruckner è proprio l’affermazione del matrimonio d’amore, basato sulla passione e la libertà individuale anziché sull’interesse e sul bisogno di sicurezza, che ha reso le relazioni più instabili, più brevi, più a rischio (Il matrimonio d’amore ha fallito?, 2011). E questo ben prima dell’avvento di internet e della vita online: il crollo dei matrimoni e la moltiplicazione di separazioni e divorzi hanno preceduto di diversi decenni la nascita dei social, che hanno dovuto attendere l’invenzione dell’iPhone4 (2010) per decollare veramente.

Ma, anche qui, forse la novità più importante non è che i social hanno confinato un paio di generazioni di giovani nelle loro stanzette, sottraendo tempo ed energie alle interazioni faccia a faccia. La vera novità è che, insieme ai social, sono nate le piattaforme di incontri (come Tinder, Bumble, Hinge), che hanno consentito a tutti, giovani e meno giovani, di inaugurare una nuova stagione nella ricerca del partner. Una stagione in cui la visione romantica, dominante nella seconda metà del secolo scorso, sta progressivamente cedendo il posto a una concezione disincantata, pragmatica, o mercatista, in cui ciascuno opera come mero consumatore, che sfoglia il catalogo dei partner che la piattaforma gli sottopone, alla ricerca più o meno ansiogena di “match”, ossia di potenziali corrispondenze fra domanda e offerta.

Che cosa c’entra questo con la solitudine?

Lo spiega bene un recente report di Tomas Pueyo, brillante analista dei dati attivo negli Stati Uniti: le app di incontri hanno fallito, gli utenti si stanno rendendo sempre più conto che ne beneficiano solo due minoranze (i maschi molto attraenti e le donne che cercano solo sesso) e che la base di tutto è la finzione (profili inventati, ora anche con l’aiuto dell’intelligenza artificiale). La conseguenza è l’aumento del senso di solitudine, aggravato da una circostanza: avendo passato troppo tempo online, e avendo rinunciato a imparare l’arte del corteggiamento durante gli anni giovanili, diventa sempre più difficile rientrare nel mondo reale, un po’ come accade ai reduci di una guerra quando tornano a casa. Se la prima ondata di solitudine, quella iniziata negli anni ’70 del secolo scorso, era il (paradossale) risultato del trionfo dell’amore romantico, la seconda ondata sembra essere, semmai, il frutto dell’abbandono degli ideali romantici, travolti dagli algoritmi di match fra utenti alla ricerca del partner ideale.

Cumulando i loro effetti, le due ondate hanno prodotto uno degli esiti più sconcertanti del nostro tempo: la proliferazione delle “famiglie unipersonali”, ossimoro con cui i demografi indicano le persone che vivono da sole. Il peso di queste “famiglie non-famiglie” era rimasto prossimo al 10% per tutta la storia d’Italia, fino alla fine degli anni ’60. Era balzato al 25% alla fine del millennio, dopo 30 anni di femminismo. Oggi, dopo 20 anni di internet e di social, è arrivato a sfiorare il 40%: niente meglio della demografia ci mostra “le conseguenze dell’amore”, per dirla con il celebre film di Paolo Sorrentino.

[articolo uscito sul Messaggero l’8 giugno 2025]

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