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Un tabù dei nostri tempi – Mutilazioni genitali femminili

12 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Non tutti lo sanno, ma di giornate mondiali (o internazionali) di qualcosa, o per qualcosa, o contro qualcosa, ce ne sono più di 150. Praticamente una ogni due giorni. A deciderle, su proposta dei vari Stati, provvede l’ONU, ma non solo. Ci sono anche giornate mondiali che nascono così, perché a un’associazione, a un gruppo, a un singolo viene in mente di proclamarle. È il caso, per fare un esempio, della giornata internazionale della Nutella (6 febbraio), ideata e proclamata quasi vent’anni fa dalla blogger americana Sara Rosso. E poi ci sono giornate in cui si celebrano più temi simultaneamente, come il 15 febbraio che ufficialmente è giornata mondiale contro il cancro infantile, ma per altri è giornata dell’ippopotamo, per altri della gioventù ortodossa, per altri ancora della sindrome di Angelman.

Si potrebbe pensare che il caso della giornata mondiale della Nutella sia un’eccezione, ma in realtà le giornate bizzarre sono decisamente numerose. Fra le tematiche per cui si chiede l’attenzione di tutto il mondo si annoverano: la neve, la pizza, il gatto, i legumi, le zone umide, la migrazione dei pesci, la salvaguardia delle rane…

Quanto alle giornate mondiali serie, per cause unanimemente considerate importanti, la più nota è probabilmente il 27 gennaio, “Giorno della memoria”, in ricordo delle vittime dell’Olocausto, e recentemente anche la “Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne” (25 novembre).

Meno attenzione riceve, e anche quest’anno (non) ha ricevuto, la “Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili” (o MGF), istituita dalle Nazioni Unite nel 2012, e collocata il 6 febbraio, pochi giorni fa.

Al riguardo non si può certo dire che l’Italia sia stata con le mani in mano. Una legge apposita (la legge 9 gennaio 2006, n. 7), che istituisce il reato di mutilazione genitale, fu promulgata quasi 20 anni fa per iniziativa del senatore Giuseppe Consolo (Alleanza Nazionale), sotto il governo Berlusconi. E non mancano le associazioni, le organizzazioni, gli enti pubblici e privati, compreso il Ministero della Sanità, che si occupano attivamente del problema. Esiste persino un apposito numero verde governativo (800300558), gestito della Polizia di Stato e dal Dipartimento Pari opportunità della Presidenza del Consiglio.

Sono semmai i mondi dell’informazione, della cultura e dell’editoria che paiono del tutto indifferenti al problema, come si è potuto constatare – anche quest’anno – con il totale silenzio di tutti i maggiori media in prossimità del 6 febbraio, una data schiacciata fra le celebrazioni della giornata della Memoria (27 gennaio) e quelle del giorno del Ricordo (10 febbraio), che rievoca le vittime delle foibe.

Una delle conseguenze (o delle cause?) di questa disattenzione generale per il dramma delle mutilazioni genitali femminili è che del fenomeno e delle sue dimensioni si sa pochissimo. Le scarne cifre che circolano sono del tutto congetturali, e mai sostenute da indagini estese e approfondite. L’OMS parla di oltre 200 milioni di bambine, ragazze e adulte vittime di questa pratica nel mondo (di cui 600 mila vivono in Europa). L’Italia, a causa dell’immigrazione, parteciperebbe con circa 80 mila donne, di cui 7-8 mila minorenni. Alcune stime indicano come paesi più colpit (oltre l’85% della popolazione) Somalia, Guinea, Gibuti, Mali, Egitto e Sudan. Ogni anno, nel mondo, le bambine e le donne a rischio sarebbero circa 3 milioni, di cui una quota non trascurabile destinata a subire effettivamente tale pratica.

Perché così pochi dati e tanto silenzio? Come mai fiumi di attenzione si riversano sui problemi psicologici ed esistenziali che affliggono le comunità LGBTQIAPK+, mentre il dramma fisico e sanitario delle vittime delle MGF non riesce a sfondare il muro del conformismo mediatico?

Difficile rispondere. Però, leggendo quel che scrivono l’OMS e le rare organizzazioni che si occupano del problema, forse possiamo trovare un indizio, se non proprio la risposta. Colpisce il fatto che, fra le scarnissime informazioni fornite, ricorra l’ammonimento: la religione e l’Islam non c’entrano. Come se la preoccupazione regina non fosse di studiare e combattere un fenomeno poco conosciuto, ma di tutelare – anche in questo campo, e anche a contatto con un dramma come quello delle MGF – l’ortodossia del politicamente corretto.

[articolo uscito sulla Ragione l’11 febbraio]

Sull’avanzata delle destre – Quattro donne alla conquista dell’Europa

10 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Non so se sia giustificata la disattenzione con cui quasi tutti i media hanno trattato l’incontro che, tra ieri e oggi, si è svolto a Madrid fra i leader del maggiore gruppo di opposizione del parlamento europeo, quello dei Patrioti per l’Europa. All’incontro, presieduto dallo spagnolo Santiago Abascal leader di Vox, erano presenti – fra gli altri – Marine Le Pen, Matteo Salvini, Herbert Kickl (Austria), Viktor Orbán (Ungheria), Geert Wilders (Olanda), Andrej Babis (Repubblica Ceca).

Galvanizzati dallo slogan MEGA (Make Europe Great Again) di Elon Musk, i leader dei Patrioti per l’Europa sono accomunati da almeno tre battaglie: contro il politicamente corretto e la cultura woke, contro le politiche green, contro l’immigrazione irregolare. Delle tre, la più importante (almeno elettoralmente) è senz’altro quella conto gli ingressi irregolari in Europa. È battendo su questo tasto che, nell’ultimo decennio, le formazioni di destra hanno conquistato frazioni sempre più ampie di elettorato. Ma attenzione: quando parliamo della destra che avanza in Europa non dobbiamo dimenticare che il raduno di Madrid rappresenta solo un pezzo della destra ostile all’immigrazione.

Nel Parlamento europeo i Patrioti per l’Europa pesano per circa il 12%, ma se aggiungiamo le altre due formazioni – l’ECR di Giorgia Meloni e la ESN di Alice Weidel, presidente di Alternative für Deutshland (Afd) – si arriva in prossimità del 27%. Non solo: i sondaggi degli ultimi mesi rivelano che quasi ovunque la destra radicale è in crescita in Europa: in Germania l’Afd supera il 22%, in Francia, il Rassemblement National si attesta intorno al 37% (5 punti in più rispetto alle elezioni politiche 2024), nel Regno Unito Reform UK, il partito di Nigel Farage, sfiora il 30% e supera i laburisti di Keir Starmer, al governo da pochi mesi. Per non parlare di quel che è accaduto nel partito conservatore inglese, che pochi mesi fa ha scelto come leader Kemi Badenoch, una politica nera su posizioni ben più radicali i quelle dei suoi predecessori.

Insomma, voglio dire che il raduno di Madrid ci fornisce una idea molto parziale e imperfetta dello stato di salute della destra nel continente Europeo. Se guardiamo le cose in prospettiva, ovvero ci chiediamo che cosa potrebbe succedere di qui alla fine del decennio, uno degli scenari più verosimili è quello di un’ Europa in cui i quattro maggiori paesi sono governati dalla destra, o più precisamente sono sotto l’influenza decisiva di quattro donne di destra. In Germania, già fra due settimane (si vota il 23 febbraio) potrebbe accadere che i voti del partito di Alice Weidel (presidente di Afd) risultino decisivi per far passare leggi anti-immigrati care ai Popolari di Friedrich Merz, leader dei popolari e probabile nuovo cancelliere. Nel 2027, in Francia Marine Le Pen potrebbe diventare presidente della Repubblica, mentre in Italia Giorgia Meloni potrebbe rivincere le elezioni. Quanto al Regno Unito, è tutt’altro che improbabile che il prossimo premier sia Kemi Badenoch, prima donna nera a Downing Street.

È ovviamente solo uno fra gli scenari possibili, ma serve a darci l’idea di quanto le cose siano in movimento, quale sia la direzione del movimento, e quanto ampie possano essere le conseguenze: la questione migratoria polarizza l’attenzione degli elettorati europei, e accade che – nei quattro maggiori paesi del continente – siano altrettante leader donna a guidare la deriva delle opinioni pubbliche.

Ma quanto è probabile un simile scenario?

Molto dipende dalle forze progressiste. Se la linea restasse quella attuale, di completa chiusura verso i partiti radicali di destra e di sordità verso le istanze anti-migranti dell’opinione pubblica, i soli governi possibili diventerebbero quelli di grosse koalition (partiti moderati contro tutti gli altri), e l’avanzata delle destre potrebbe risultare travolgente. Lo scontro fra forze anti-sistema (di destra) e partiti di governo (di varia matrice politica) diventerebbe tossico. Le manifestazioni anti-fasciste e anti-naziste, che già ora cercano di impedire raduni, riunioni ed eventi pubblici di destra, finirebbero per moltiplicarsi, mettendo a dura prova la convivenza civile.

Se invece la linea attuale di chiusura venisse abbandonata, e la sinistra si risolvesse a prendere sul serio il nodo migratorio (ingressi irregolari, criminalità, comunità islamiche, eccetera) la situazione sarebbe più aperta, e decisamente meno inquietante. In alcuni paesi il problema migratorio potrebbe essere affrontato associando al governo partiti finora esclusi, in altri paesi potrebbe succedere quel che è accaduto in Danimarca, dove i socialisti governano proprio perché hanno preso sul serio il dossier migratorio. In entrambi i casi l’onda che sospinge il consenso elettorale verso le formazioni di destra più estremiste perderebbe lo slancio che ha acquisito negli ultimi anni, e probabilmente regredirebbe pure un po’.

Ma è uno scenario improbabile, per ora. Le forze progressiste, almeno nel nostro paese, vedono l’avanzata delle destre come un’onda nera, un pericoloso ritorno di pulsioni razziste, fasciste, neonaziste. Pensano che il problema dell’immigrazione sia un artefatto ideologico delle destre, e che prenderlo sul serio non porterebbe voti alla sinistra. Le quattro donne che stanno conquistando l’Europa sentitamente ringraziano.

[articolo uscito sul Messaggero il 9 febbraio 2025]

La battaglia di Milei – Femminicidio?

5 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Hanno scatenato e continuano a scatenare torrenti di indignazione le recenti prese di posizione di Javier Milei, presidente argentino, relative al reato di femminicidio e alla necessità di abolirlo dall’ordinamento penale. In realtà né in Argentina né in Italia esiste un reato specifico, distinto dall’omicidio, che definisce i casi in cui l’uccisione di una donna configura un reato a sé stante. Quello che esiste nell’ordinamento giuridico è l’aggravante che consiste nell’uccisione di una donna “in quanto donna” o, secondo un’altra formulazione, “per motivi di genere”.

I problemi, con queste definizioni, sono due. Il primo è di tipo logico: nessuno scienziato sociale serio accetterebbe mai, in un’indagine empirica, una definizione così fumosa e soggetta a interpretazioni soggettive. In termini tecnici: femminicidio è un concetto privo di una definizione operativa. E infatti non esistono statistiche sui femminicidi intesi in questa accezione, nonostante da anni le burocrazie e gli uffici studi dell’Unione Europea si arrabattino nel tentativo di produrre una definizione condivisa dai 27 paesi. Inutile aggiungere che, se sociologi e statistici non riescono a venire capo del problema, non si vede come un giudice che deve decidere se applicare oppure no l’aggravante possa stabilire con ragionevole certezza se una donna è stata uccisa “in quanto donna” o per altro motivo. Per non parlare del problema speculare: come regolarsi se una donna uccide un uomo “in quanto uomo”, qualsiasi cosa ciò voglia dire?

Il secondo problema – il problema vero, in quanto problema politico-culturale di fondo – è se abbia senso continuare sulla strada, intrapresa da molti paesi negli ultimi decenni, di prevedere aggravanti sulla base dell’appartenenza della vittima a una o più categorie protette. È questo, ad esempio, il caso delle norme che in Italia restringono la libertà di espressione nei casi in cui i comportamenti di incitamento all’odio, alla discriminazione o alla violenza appaiono dettati da “motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali” (legge Mancino, 25 giugno 1993, n. 205). Qui le categorie protette sono implicite, ma accomunate dal fatto che non rimandano a comportamenti, o a scelte personali, ma a caratteri ascritti o sostanzialmente ascritti, nonché potenzialmente identitari: essere rom, essere nero, essere ebreo, essere cristiano. È su tale zoccolo duro che, qualche anno fa, ha tentato (invano) di intervenire il Ddl Zan, con la estensione dei motivi aggravanti a quelli “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”.

Vista in questo quadro, la presa di posizione di Milei appare in una luce molto diversa da quella che, su di essa, viene proiettata dalle proteste di piazza delle donne argentine. Per le donne argentine, e per le tante femministe indignate europee, quello di Milei è un attacco al mondo femminile, una sorta di legittimazione del femminicidio e della violenza sulle donne. Ma l’obiettivo di Milei è diverso e molto più vasto, e non ha certo le donne come bersaglio privilegiato. Il bersaglio del presidente argentino (come quello del presidente americano), non sono le donne, o i neri, o gli ispanici, o gli omosessuali, o gli islamici ma le norme che, negli ultimi decenni, hanno eroso alla radice il principio di equità, alterando gravemente i meccanismi di reclutamento (politica delle quote, penalizzazione dei maschi bianchi, perseguimento della diversity), le regole di ammissione nelle gare sportive (caso Khelif), l’accesso agli spazi riservati alle donne nelle carceri (trasferimento in reparti femminili di maschi biologici in transizione).

L’idea generale è che l’esistenza di categorie protette comprometta gravemente il principio del merito e dell’uguaglianza davanti alla legge. Per Milei, come a suo tempo per Martin Luther King, le persone andrebbero giudicate, apprezzate, criticate, o punite in quanto individui, non come appartenenti a una categoria.

È questa la vera posta in gioco. Un gioco che le proteste delle donne semplicemente non stanno capendo.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 febbraio]

A proposito del caso Almasri – Ipocrisia?

3 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Credo siano in pochissimi a sapere quel che davvero è successo nelle convulse giornate che hanno portato prima all’arresto, poi alla scarcerazione, infine al rimpatrio su un aereo di Stato italiano, del capo della polizia giudiziaria libica. In compenso siamo in tantissimi ad esserci fatte alcune domande fondamentali: perché il governo ha scelto di rimpatriare Almasri anziché arrestarlo? Perché Giorgia Meloni non ha detto a chiare lettere quello che quasi tutti credono di sapere, e cioè che la vera ragione del frettoloso rimpatrio di Almasri è stato il timore di ritorsioni del governo libico, pronto a scagliare verso il nostro paese orde di richiedenti asilo? E infine: perché Giorgia Meloni non ha fatto come Trump, che non ha esitato a sbandierare ai quattro venti la durezza delle proprie misure contro i migranti illegali? Perché tanta ipocrisia nella vicenda del torturatore libico?

Come cittadino, sono sconcertato come tutti. Ma, come sociologo, non lo sono per niente. Viste con la lente della mia disciplina, le vicende del caso Almasri sono perfettamente comprensibili. Uno dei cardini della sociologia, posto da Max Weber fin dal 1919 nel saggio La politica come professione, è la distinzione fra etica della convinzione, o dei principi (tipica di missionari e predicatori), e etica della responsabilità (che secondo Weber dovrebbe guidare i politici). Agisce secondo l’etica della convinzione chi opera secondo principi ritenuti giusti, senza curarsi delle conseguenze pratiche che ne possono derivare. Agisce secondo l’etica della responsabilità chi valuta le proprie azioni non solo in base a principi etici o morali, ma anche in base alle loro conseguenze. Ad esempio: un cultore dell’etica della convinzione in nessun caso potrebbe sottoporre a sevizie e torture un altro essere umano, ma che fare se torturare un terrorista è l’unico modo per evitare la morte di migliaia di innocenti minacciati da un ordigno a orologeria che solo lui può disinnescare?

Ebbene, alla luce della distinzione weberiana, è chiaro che Giorgia Meloni si è mossa secondo l’etica della responsabilità, mettendo sui due piatti della bilancia sia la palese ingiustizia di lasciare libero un criminale, sia la (meno palese) ingiustizia di esporre i cittadini italiani alle conseguenze di vari tipi di possibili ritorsioni (ripresa degli sbarchi, sequestri di cittadini italiani in Libia, per non parlare degli interessi dell’ENI in quel paese). Nell’ottica di Weber, stupefacente e discutibile sarebbe stato che il governo avesse agito secondo l’etica della convinzione, anziché secondo quella della responsabilità. Se le cose stanno così, a maggior ragione sembrerebbero porsi gli altri interrogativi: perché non proclamare le proprie ragioni davanti ai cittadini? Perché non adottare una postura trumpiana? Perché tanta reticenza e ipocrisia?

Anche qui la sociologia ha molto da dire, benché non sia stata certo la prima a farlo. Secondo Jon Elster, uno dei più grandi scienziati sociali del Novecento, l’ipocrisia praticata nella scena pubblica ha una fondamentale funzione di coesione sociale, di irrobustimento delle istituzioni, di rafforzamento di valori positivi condivisi. A suo modo, e paradossalmente, funziona come una “forza civilizzatrice”. Il cattivo che ipocritamente si finge buono, proprio attraverso quella finzione proclama il valore della bontà. È esattamente quello che, quattro secoli fa, aveva intuito François de La Rochefoucauld con il suo fulminante aforisma: “l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio tributa alla virtù”. Il vizioso che si finge virtuoso riconosce con ciò stesso il valore della virtù.

Ed eccoci al tema della mancata postura trumpiana. Perché adottare un profilo basso? Perché non maramaldeggiare assumendo atteggiamenti ostili nei confronti dei migranti detenuti in Libia?

L’interpretazione malevola è che il governo, come i governi precedenti, si vergogni degli accordi con la Libia ma in cuor suo (ammesso che un governo abbia un cuore) ne è ben felice, purché gli accordi funzionino. L’interpretazione del sociologo che ha recepito la lezione di Elster è che siamo in Europa, non in America. Il nostro orizzonte valoriale certo include la necessità di trovare una soluzione al problema della sicurezza e dei confini, ma include anche l’imperativo etico di rispettare i diritti dei richiedenti asilo. È per questo che, in Italia, nessuno – nemmeno la destra – si permette di fare la faccia feroce, come succede in America con Trump e in Germania con l’Afd di Alice Weidel. L’imbarazzo di Meloni è l’ammissione che, nell’affare Almasri, più che fare la cosa giusta il governo ha scelto il male minore, nonché l’implicito riconoscimento che i campi di detenzione in Libia sono un problema, e non da oggi (già nel 2018 ne diedero un resoconto illuminante Franco Viviano e Alessandra Ziniti in Non lasciamoli soli, Chiare Lettere).

Forse è questo il motivo per cui, nonostante la maggioranza degli italiani non approvi il comportamento del governo in questa vicenda, il consenso alla premier e al suo partito restano alti, se non in ulteriore ascesa. Segno che, almeno nei paesi mediterranei, tanto per l’opinione pubblica quanto per la classe di governo quello del rapporto con l’immigrazione resta un tragico dilemma, più che una crociata politica da intraprendere con la baldanza di chi si sente dalla parte della ragione.

[articolo uscito sul Messaggero il 2 febbraio 2025]

Deportazioni o rimpatri?

29 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Sono tante le ragioni per cui la grande stampa nazionale, e più in generale i grandi media, hanno perso autorevolezza. Certo, anche in passato ben pochi si fidavano ciecamente di “quel che scrivono i giornali”, o di “quel che dice la tv”. Però mai
come oggi il pubblico ha tanto diffidato dell’informazione che pretende di essere obiettiva, non faziosa, o super partes.

Fra le tante ragioni per cui ciò è accaduto, ve ne è una che forse meriterebbe maggiore attenzione, e forse maggiore vigilanza: l’informazione main stream è diventata subdola. Ossia non conduce le sue battaglie fondamentali in campo aperto,
dichiarando esplicitamente da che parte sta, ma manipolando il flusso delle notizie. Un’arte che, con il tempo, si è arricchita di strumenti via via più potenti (e pericolosi).

Un posto importante, in proposito, è occupato dalla sistematica censura delle notizie gravemente dissonanti, condannate a vivere solo su fogli minori, per ciò stesso considerati estremisti, inaffidabili, o semplicemente irrilevanti. Ma un posto forse ancora più importante è costituito dall’uso, cosciente e intenzionale, di termini inappropriati e fuorvianti per descrivere i fatti della realtà.

Il modo di chiamare le cose è importante, perché può suscitare sentimenti e giudizi, ma proprio per questo è essenziale che non sia distorsivo. Qui si annida un pericoloso equivoco: molti giornalisti, e più in generale comunicatori, pensano di essere responsabili dei sentimenti che i loro scritti possono suscitare, e proprio per questo praticano sistematicamente la censura, la deformazione, la manipolazione terminologica. Come se chiamare le cose con il loro nome fosse legittimo solo quando la verità che il nome rivela è innocua, o non rischia di suscitare i sentimenti sbagliati, o è adatta a suscitare i sentimenti giusti.

Di questo tendenzioso uso della lingua abbiamo avuto un esempio lampante negli ultimi giorni. Tutte le maggiori testate italiane hanno tradotto il termine inglese deportation, che negli Stati Uniti è usato per indicare espulsioni o rimpatri, con il termine italiano ‘deportazione’ che nella nostra lingua ha un significato ben diverso, oltreché un sinistro richiamo alle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento nazisti (vedi in proposito il Dizionario Treccani, che dà due significati principali di ‘deportazione’, nessuno dei quali corrisponde a espulsioni o rimpatri). È vero che se si deve tradurre il nostro ‘deportazione’ si deve usare deportation (non c’è altra parola in inglese), ma il punto è che – nell’uso che ne fanno gli americani – deportation significa espulsione o rimpatrio, e quindi così andrebbe tradotto.

I giornalisti italiani non sono in grado di cogliere la distinzione fra rimpatrio e deportazione? No, semplicemente hanno ritenuto proprio dovere stigmatizzare le politiche migratorie di Trump, e altrettanto loro dovere non stigmatizzare le medesime politiche quando erano attuate da presidenti democratici.

Con questo non voglio dire che chi è contro le espulsioni non abbia le sue ragioni, o non abbia il pieno diritto di esporle pubblicamente. Il punto è che tali ragioni (che in parte io stesso condivido) dovrebbero essere argomentate come tali, non sostenute surrettiziamente manipolando il linguaggio per deformare l’immagine dell’avversario politico. Usare termini inappropriati (e squalificanti) per descrivere quel che l’avversario fa è una variante peggiorativa della ben nota e screditata tecnica dello straw man, ovvero criticare l’avversario mettendogli in bocca cose che non ha detto. Qui, in altre parole, non gli si fa dire quel che non ha detto, ma – chiamando con altro nome quel che ha fatto – gli si fa fare quel che non ha fatto.

E non si venga a dire che le manipolazioni della lingua sono a fin di bene, ovvero per mostrare al mondo in che orribili mani si sono posti gli americani, e rischiamo di finire pure noi. Questa obiezione è sbagliata non solo perché il compito specifico dell’informazione è dire la verità, non cambiare il mondo nella direzione prescritta dalla “linea” della testata. È sbagliata anche perché, proprio se si crede (erroneamente) che il giornalista sia responsabile dei sentimenti che suscita, è arduo non vedere che parlare di deportazioni produce almeno due effetti opposti: non solo indignazione nei già sempre indignati, ma anche ulteriore entusiasmo e odio in quanti sarebbero ben felici di vedere vere deportazioni. È amaro constatarlo, ma si può istigare all’odio anche cercando di spegnerlo.

[articolo inviato uscito sulla Ragione il 28 gennaio]

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