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La macedonia avvelenata

19 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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C’erano una volta i movimenti collettivi. Ricordate le grandi manifestazioni delle donne negli anni ’70? La battaglia sul divorzio? E quella sull’aborto? La mobilitazione contro il nucleare? Il referendum contro il finanziamento pubblico dei partiti? E quello sulla scala mobile? E le grandi manifestazioni per la pace ai tempi delle guerre del Golfo?

La stagione dei movimenti è durata una quarantina di anni, dalla fine degli anni ’60 ai primi anni 2000. Poi, più o meno lentamente, le grandi ondate dell’azione collettiva hanno perso vigore, e sono state sostituite da sommovimenti più piccoli, più contingenti, più frammentati. I grandi movimenti collettivi, capaci di polarizzare l’opinione pubblica e mobilitare grandi masse di cittadini, oggi non ci sono più, sostituiti da sussulti di breve durata e scarso respiro.

Perché?

Una spiegazione possibile è che la nostra società è diventata molto più individualista. Siamo molto più concentrati su noi stessi, le battaglie collettive ci interessano sempre di meno. Ognuno cerca la sua strada da solo. La “società liquida” di cui parla Zygmunt Bauman non consce né la fatica dell’impegno pubblico né la pazienza dell’attesa.

Un’altra possibile spiegazione è che molte delle rivendicazioni dei movimenti del passato sono state soddisfatte. Se le donne di oggi lottano di meno è anche perché hanno ottenuto molto di ciò per cui le loro madri e nonne si sono battute.

E tuttavia, forse, c’è anche un’altra ragione, stranamente dimenticata, per cui oggi non ci sono più veri movimenti collettivi di massa: non c’è uno straccio di attore politico che sappia resistere alla tentazione della macedonia avvelenata.

Che cos’è la macedonia avvelenata?

È la tendenza a costruire, intorno al tema principale per cui si convoca una manifestazione o si indice un’iniziativa, una macedonia di temi supplementari, tenuti insieme e spesso infiammati dal veleno dell’ideologia, quando non dal carburante dell’odio.

L’esempio più recente è stato fornito giusto sabato scorso dal Gay Pride di Roma, una manifestazione che in teoria era di difesa dei diritti LGBT+, in realtà è diventata tutt’altro. Le bandiere della Palestina l’hanno trasformata anche in una manifestazione pro-Gaza e anti-Netanyahu. E un mostruoso manifesto, con Netanyahu, Trump, Musk  e Joanne Rowling a testa in giù, l’ha trasformata in una macchina dell’odio e dell’incitamento alla violenza.

Ma la stessa cosa era successa, una settimana prima, nella grande manifestazione della sinistra a sostegno dei Palestinesi, che si è rapidamente trasformata in una iniziativa per il sì ai referendum del giorno dopo, in patente violazione del silenzio elettorale. Episodi di questo genere, in cui la piazza viene convocata su un tema, ma gli organizzatori confezionano la “macedonia avvelenata” aggiungendo altri temi, mettendo nel mirino gli avversari politici, indicando bersagli da colpire, non sono certo nuovi. Fra quelli relativamente recenti ricordo l’incredibile insalata di slogan – dai femminicidi al Ponte sullo Stretto – che caratterizzò la piattaforma politica della manifestazione transfemminista del 25 novembre 2023, poco tempo dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin. E, fra quelli remoti, la politicizzazione in chiave anti-Berlusconi (erano i tempi del bunga bunga) della grande manifestazione nazionale del 2011 “in difesa della dignità delle donne”, promossa dalle femministe di “Se non ora quando”.

Ecco, forse è stato proprio in quel momento che è iniziata l’agonia dei movimenti collettivi. Che ha una matrice molto semplice: se chiami la gente in piazza in nome di una parte politica contro la parte avversa, se appiccichi al tema mobilitante una pletora di temi parassitari che c’entrano nulla o poco, se spargi odio contro chi non la pensa come te, allora non stai facendo impegno civile: stai distruggendo le pre-condizioni che lo rendono possibile.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 giugno 2025]

A proposito di Renzi e campo largo – Sinistra e Quarta Via

12 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Da quella benedetta partita di football in cui Matteo Renzi e Elly Schlein hanno giocato nella medesima squadra, si torna a parlare di un ritorno di Renzi nella casa del centro-sinistra, magari già alle prossime elezioni locali (a partire da quelle della Regione Liguria, rese necessarie dalle dimissioni di Toti).

La ratio del riavvicinamento è fin troppo ovvia: dopo lo smacco alle Europee, Renzi sa benissimo che confluire in uno dei due schieramenti è l’unica carta di cui dispone, se vuole sopravvivere politicamente.

Può darsi che, alla fine, tutto si riduca a qualche dichiarazione di facciata, che permetta a Renzi non meno che a Schlein di evitare imbarazzi e marce indietro esplicite rispetto alle prese di posizione del passato, a partire dal “pomo della discordia”, quel Jobs Act che Renzi ancora difende e Schlein non ha mai smesso di esecrare.

Ma potrebbe anche darsi – e sarebbe auspicabile – che il ritorno all’ovile del volubile ex segretario del Pd apra finalmente una discussione vera dentro il fronte progressista, da troppi anni incerto fra vocazione riformista e spinte massimaliste. Perché è vero che su alcune, poche cose (salario minimo legale, più soldi alla sanità) l’accordo sarà facilissimo, ma su tutto il resto i nodi devono ancora essere sciolti.

Vogliamo ricordarne alcuni?

Sulla politica economica, i progetti di iper-tassazione dei ricchi e redistribuzione del reddito confliggono con la linea di detassazione delle imprese e flessibilizzazione del mercato del lavoro.                                                                                                                 Sul versante delle politiche sociali, l’assistenzialismo dei Cinque Stelle fa a pugni con le politiche attive per l’occupazione. Riguardo ai diritti LGBT+ non tutti, a sinistra, condividono le posizioni più radicali in tema di utero in affitto, autoidentificazione di genere (self-id), inclusione di transgender e intersessuali nelle competizioni sportive femminili.                                                         In materia di giustizia, il garantismo liberal-riformista è incompatibile con il giustizialismo fin qui egemone a sinistra, non solo fra i Cinque Stelle.

E poi, naturalmente, c’è il tema dei temi, la patata bollente delle politiche migratorie. Qui le cose sono complicate. Le posizioni pro-accoglienza di Elly Schlein paiono vicinissime a quelle passate di Renzi (uno degli artefici dell’operazione di salvataggio
Mare Nostrum), ma in compenso stridono con quelle dei Cinque Stelle, da sempre prudenti in tema di migrazioni irregolari.

Su tutte queste e altre cruciali questioni, non solo Renzi, ma tutte le forze del futuro campo largo sono chiamate a discutere, a prendere posizione, e a trovare un accordo comprensibile. Perché può anche darsi che, per vincere alle prossime elezioni
politiche, al centro-sinistra bastino gli errori del governo di centro-destra e la propensione degli italiani a bocciare i governi uscenti. Ma potrebbe anche succedere che il bilancio di cinque anni di governo Meloni non sia negativo e che, per convincere gli italiani a cambiare governo, occorra anche avere un programma chiaro e credibile.

Ma quale programma?

A giudicare da alcuni recenti successi della sinistra in Europa – penso in particolare ai casi del Regno Unito e della Danimarca – sembra che la risposta possa essere: né con i massimalisti alla Jeremy Corbyn e alla Bernie Sanders, idoli dell’estrema sinistra, né con i riformisti-liberisti alla Tony Blair, tanto cari a Renzi e alla sinistra riformista. La sinistra che vince in Europa (e a novembre, forse, potrebbe farcela pure negli Stati Uniti), è una sinistra molto meno convinta delle virtù della globalizzazione, e molto più consapevole del problema migratorio. In breve, una sinistra più vicina alla sensibilità dei ceti popolari, che chiedono protezione in materia economico-sociale e sicurezza sui versanti della criminalità e dell’immigrazione irregolare. Una sorta di Quarta Via, ben lontana dalla destra e dalla sinistra classiche, ma anche dalle illusioni della Terza Via di Anthony Giddens, che per troppi anni
hanno ipnotizzato i leader del campo riformista.

[Articolo uscito sul Messaggero l’11 agosto 2024]

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