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Gradimento di Sindaci e Governatori: le classifiche in-credibili

10 Luglio 2025 - di Paolo Natale

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Il rapporto tra media e istituti demoscopici pare ormai essere diventato una sorta di gioco di ruolo: alcuni (non tutti, per fortuna!) sondaggisti spacciano determinati (inaffidabili) risultati con l’obiettivo di fare parlare di sé, mentre i media che li ospitano accolgono ben volentieri l’invito a veicolarli affinché si parli anche di loro, di chi li ospita, con tanto di successivo dibattito, tra gli esperti della materia, i politici e i commentatori.

Un circuito virtuoso, si diceva una volta; oggi potremmo parlare al contrario di circuito vizioso che si alimenta vicendevolmente. Chi ci va di mezzo sono soprattutto gli italiani, destinatari di informazioni a volte fallaci e, sebbene con meno evidenza o forse con meno interesse mediatico, il sapere e la scienza statistica.

Non occorre ricordare ancora una volta, biasimandolo, il consueto balletto delle stime sull’orientamento di voto: con cadenza settimanale, i quotidiani o i programmi televisivi parlano di grandi miglioramenti o peggioramenti per partiti che guadagnano o perdono 0,2-0,3 punti percentuali, quando nella realtà statistica si tratta di incrementi o decrementi inesistenti, una o due persone in più o in meno per quel partito.

Battaglia persa, me ne rendo conto, ma quanto meno i dati presentati, loro sì, sono corretti. È la loro amplificazione apodittica che è quantomeno fastidiosa alle orecchie di un metodologo o di uno statistico…

Abitudine diffusa, peraltro. Ricordo un uomo politico che, di fronte ad un sondaggio pre-elettorale che dava i due contendenti distanziati di 0,2%, ebbe il coraggio di chiedermi: sì, ma per chi?

A volte però capita qualcosa di più che fastidioso, che veicola informazioni approssimative e non attendibili, sulle quali si aprono dibattiti piuttosto surreali anche tra i partiti politici, basati sul nulla, o quasi. L’ultimo esempio in ordine di tempo di questo “fenomeno” è il sondaggio pubblicato dal Sole24ore lunedì 7 luglio, l’annuale rilevazione “Governance Poll”, in cui veniva presentato un dato chiamato “indice di gradimento” per 97 sindaci di capoluoghi di provincia e 18 Presidenti regionali.

Iniziamo proprio da questo indice, come viene appunto definito. Cos’è esattamente? Non è ben chiaro. Nella esaustiva scheda tecnica (troppo esaustiva, purtroppo per l’Istituto responsabile dell’indagine, sarebbe stato forse meglio restare sul vago…) viene correttamente riportata la domanda posta agli intervistati: “Le chiedo un giudizio complessivo sull’operato del sindaco (o del presidente della regione). Se domani ci fossero le elezioni comunali (o regionali), lei voterebbe a favore o contro l’attuale sindaco (o presidente della regione)?”

Tralasciamo qui, per non appesantire il discorso, il fatto che molti dei sindaci o presidenti sono al secondo mandato e quindi non possono essere più votati. Ma in questo caso il senso è comunque chiaro…

Quello che invece non funziona è invece il fatto che questo è un tipo di domanda che, nei manuali delle survey, viene etichettata come “double-barreled”, vale a dire una doppia domanda con una sola possibile risposta. Qui le domande sono appunto due: la prima riguarda il giudizio sull’operato, la seconda l’orientamento di probabile voto. Se sono un cittadino veneto vicino al centro-sinistra, posso anche essere abbastanza soddisfatto di come ha governato Zaia ma certamente non lo voterei. O viceversa, se fossi un cittadino di centro-destra in Campania. Quindi: a quale domanda rispondo? Non si sa.

Viene poi presentato un approfondimento, anch’esso alquanto singolare: si confronta in maniera puntuale questo fantomatico indice di gradimento con il risultato fatto registrare da ciascun sindaco (o governatore) alle elezioni in cui è stato eletto! Sì, avete letto bene: come si diceva alle elementari, si paragonano le mele con le pere. Cosa possa c’entrare il gradimento attuale con la scelta elettorale di qualche anno addietro non è chiarissimo.

La competizione elettorale, inutile soffermarci più di tanto, ha delle dinamiche sue proprie e dipende spesso dai contendenti in lizza; ha poco a che vedere con questo indice di gradimento, oltretutto perché il confronto viene fatto non con il risultato del primo turno, che porrebbe tutti allo stesso livello, ma con quello che ha determinato la vittoria.

Un esempio chiarisce il punto: il sindaco di Bari, Vito Leccese, ha ottenuto il 48% al primo turno (con 4 candidati) ed è stato eletto al ballottaggio con oltre il 70%, quando i contendenti erano ovviamente soltanto due.

Nella tabellina pubblicata, Leccese risulta in deficit di gradimento di quasi 10 punti, avendo ottenuto un indice di 61, ma se l’avessimo confrontato con il dato del primo turno, risulterebbe più “gradito” di ben 12 punti. Il risultato al ballottaggio è sempre ovviamente più alto del primo turno: ne risultano svantaggiati, in questo particolare (e poco sensato) procedimento, coloro che sono stati eletti al secondo turno.

Una distorsione che, per fortuna, non sussiste almeno per le elezioni regionali, dove il turno è stato unico dovunque e quindi da questo punto di vista il paragone è corretto.

Fin qui dunque le distorsioni nel merito del sondaggio effettuato. Veniamo ora al metodo, che certamente richiede un surplus di fiducia nei confronti dell’Istituto di ricerca che ne è responsabile.

Partiamo dalla numerosità campionaria, che viene indicata in 1000 individui intervistati nelle regioni e in 600 nei capoluoghi. Possiamo supporre, benché in questo caso non ci venga fornito il dato puntuale (che sarebbe obbligatorio inserire nella scheda metodologica, peraltro non presente nell’apposito sito “Sondaggi

politico-elettorali”), che le non-risposte siano – per difetto – nell’ordine del 15%. Le interviste valide sarebbero 500 circa per comune, da Milano fino ad Enna.

Il famoso “intervallo di confidenza”, cioè il margine di errore delle stime presentate, è dell’ordine di +/- 4%. Se ottengo una stima del 51%, il risultato “vero” si situa dunque in un intervallo compreso tra il 47% e il 55%.

Se andiamo a controllare la tabella pubblicata, possiamo notare facilmente come tutte le stime di gradimento dei 97 sindaci (tranne in 12 casi) sono comprese proprio tra i 47 e i 55 punti percentuali. Il che significa, in parole semplici, che possiamo essere certi solamente dell’eccellenza dei primi 7 e della relativa insufficienza degli ultimi 5 in classifica.

Di tutti gli altri sappiamo poco di più, al di là di quell’intervallo di valori possibili. Certo, se un sindaco o un governatore ottiene un punteggio di 55 e un altro quello di 47, possiamo correttamente pensare che il primo stia molto probabilmente davanti al secondo, ma non sappiamo esattamente di quanto. Così alla fine la cosa più corretta da fare sarebbe quella di presentare una classifica “senza” il dato puntuale, ma soltanto con un raggruppamento in classi, tipo “tra 45 e 50, tra 50 e 55”, e così via. Non si perderebbero informazioni essenziali mentre si eliminerebbero quelle imprecise od erronee.

Ma è l’ultimo elemento di questo sondaggio che rende perplessi tutti gli osservatori neutrali: l’elevatissimo costo dell’intera operazione. Vediamo brevemente in cosa consistono le perplessità: come riportato, sono stati intervistati 600 individui in 97 comuni e altri 1000 nelle 18 regioni, per un totale di 76.200 casi, in parte online (web survey) in parte al telefono (Cati).

Normalmente, il costo di ognuna delle interviste, in media tra i due metodi, è stimabile in almeno 4 euro l’una. Senza voler fare i conti in tasca né al committente né all’Istituto che ha realizzato le interviste, se tutte le interviste sono state effettivamente effettuate, si tratta di un costo complessivo di almeno 300mila euro. Liberi di credere se questo sia stato un investimento, chiaramente in perdita, oppure no.

Università degli Studi di Milano

Il fantasma del consenso

9 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Gerard Depardieu, Leonardo Apache La Russa, Ciro Grillo. Anche se per reati di diversa gravità (aggressione sessuale, stupro, stupro di gruppo), tutti e tre sono incappati in un processo a seguito delle denunce delle vittime. Il caso di Depardieu si è risolto con una condanna a 18 mesi di carcere (con sospensione della pena), quello del figlio di La Russa ha dato luogo a una richiesta di archiviazione della Procura di Milano (impugnata dalla difesa della vittima), quello di Ciro Grillo, a 6 anni dai fatti, è ancora fermo alle prime battute (l’accusa ha richiesto 9 anni di carcere).

C’è una differenza importante, tuttavia. Nel caso del settantacinquenne Depardieu alcol e sostanze non c’entrano. L’accusa è di molestie, non di stupro, e meno che mai di stupro di donna incapace di esprimere il consenso. Nel caso dei “figli di papà” Grillo e La Russa, invece, la sostanza dell’accusa è precisamente quella: aver approfittato di ragazze in palese stato di alterazione, e perciò – per definizione – non in grado di esprimere un consenso. Di qui una importante domanda: se una ragazza denuncia uno stupro dopo aver avuto rapporti sessuali in stato di alterazione psico-fisica (non importa se a causa di alcol, stupefacenti, o entrambi) il maschio o i maschi accusati sono automaticamente colpevoli?

La dottrina femminista secondo cui senza consenso esplicito l’atto sessuale è stupro risponde: certo che sì.

La macchina della legge, invece, sembra muoversi lungo un sentiero più accidentato. Nel caso di La Russa junior la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione in base alla seguente considerazione: “non vi è in atti la prova che gli indagati, pur consapevoli dell’assunzione di alcuni drink alcolici da parte della ragazza, abbiano percepito, in modalità esplicita o implicita, la mancanza di una valida volontà” della giovane “nel compiere gli atti sessuali”. A sostegno della sua richiesta di archiviazione la Procura sostiene, sulla base di alcuni video, che i comportamenti della ragazza “non denotano in alcun modo quella posizione di asimmetria psicologica o fisica che deve sussistere perché sia configurabile una delle ipotesi di violenza sessuale”. Tesi contestata dalla difesa della denunciante, secondo cui i medesimi video “dimostrano pacificamente che la parte offesa era in uno stato di palese alterazione laddove la stessa, nella seconda parte del video prodotto e oggetto di valutazione, risponde con titubanza e in modo assolutamente slegato e incomprensibile rispetto alla domanda che le viene posta da Leonardo La Russa”.

L’aspetto interessante è che, pur dissentendo sulla interpretazione dei video, accusa e difesa sembrano concordare su un punto: lo stato di alterazione non basta a escludere il consenso, occorre anche che sia rintracciabile una “posizione di asimmetria psicologica o fisica” a scapito della vittima.

Nel caso di Grillo Junior (e dei 3 ragazzi coimputati con lui), a quello che riferiscono le cronache, difesa e accusa paiono muoversi in modo difforme: i video che riprendono i rapporti sessuali sono invocati dalla difesa di uno degli imputati per contestare la presunta “incapacità di reagire” della vittima, mentre l’accusa (la procura di Tempio Pausania) sembra puntare sul mero fatto che, avendo bevuto a più riprese ed essendo stanca per la nottata,  la ragazza non poteva essere in grado di esprimere un valido consenso. La procura, in altre parole, sembra rendersi conto che i video non testimoniano a favore della ragazza, e che dunque – per accusarla – occorre fare propria quella che abbiamo chiamato la dottrina femminista per cui “il sesso senza consenso è stupro”.

In concreto, questo significa che i 6 ragazzi accusati (2 nel caso La Russa, 4 nel caso Grillo) potrebbero essere sia tutti condannati (se prevale la dottrina femminista) sia tutti assolti (se prevale la dottrina della Procura di Milano). Nel primo caso, la lezione sarebbe: caro maschio, non provare ad avere rapporti sessuali con una femmina in stato alterato, perché se lei ti denuncia il carcere è assicurato. Nel secondo caso, la lezione sarebbe: cara femmina, non permettere che i tuoi rapporti sessuali con uno o più maschi vengano filmati, perché il sexting potrebbe diventare una prova contro di te.

In entrambi i casi, l’unica soluzione – almeno in teoria – sarebbe quella a suo tempo (ai tempi del MeToo) paventata da Catherine Deneuve: “di questo passo avremo un’app sullo smartphone che due adulti che vorranno andare a letto insieme useranno per spuntare esattamente quali atti sessuali accettano di fare e quali no”: peccato che i giuristi spieghino che, anche questa, non potrebbe funzionare.

Insomma, soluzioni vere non esistono, in qualsiasi modo si muova la magistratura. O meglio, le uniche soluzioni solo quelle tradizionali, retrograde, romantiche: ripristinare il corteggiamento, scegliere accuratamente il partner, evitare il sexting come la peste. Se non ci piacciono, siamo tutti – maschi e femmine – costretti ad accettare il rischio di finire nei guai.

[articolo uscito sulla Ragione l’8 luglio 2025]

A scuola è riconosciuta solo la libertà de noantri

9 Luglio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Nel terzo volume del testo di storia Trame del tempo, dal Novecento a oggi (Ed, Laterza) ,scritto  da V. Colombi , C. Ciccopiedi e C. Greppi e adottato da vari licei, si leggono passaggi che definire faziosi è un eufemismo: le elezioni del  settembre 2022 (vinte dal centro-destra) sono state ‘impietose’; FdI è il «catalizzatore dei voti dell’estrema destra»; il governo Meloni  prende  «misure liberticide» sull’ordine pubblico e vara piani di deportazione; la premier guida  un partito politico «arrivato al potere per la prima volta un secolo dopo la marcia su Roma e 77 anni dopo la Liberazione dal fascismo», un partito che ha raccolto l’eredità del regime e «continua ad avere una stretta relazione con la sua “base” dichiaratamente fascista».. Non meraviglia che Augusta Montaruli, FdI, abbia pre-sentato un’interpellanza alla Camera, ritenendo  il manuale «un condensato di false notizie, offensivo e lesivo per chiunque voglia studiare la storia contemporanea». Non si può «manipolare la verità e la storia al servizio di un’ideologia», ha detto. Un atto dovuto, quindi, quello del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara che ha chiesto all’Associazione Italiana Editori una rapida verifica sulla questione all’Associazione Italiana Editori. Confesso, però, qualche perplessità: le opinioni dei tre storici, lontanissime dalle mie, sono ampiamente condivise nel mondo della scuola, da anni feudo inespugnabile della sinistra, e, pertanto, l’editore ritenendo che il libro ‘avesse mercato, lo ha pubblicato secondo una ineccepibile logica imprenditoriale.

 Il problema è un altro: possono invocare la libertà di espressione quanti la negano ad altri? Quando ci rassegneremo a prendere sul serio il pluralismo  e a vedervi l’anima della società aperta? Se un docente avesse deciso di adottare gli scritti di Gioacchino Volpe—un nazionalfascista a ragione ritenuto il più grande storico italiano della prima metà del Novecento—o i saggi del pur antifascista Giampaolo Pansa sulla Resistenza e un ministro avesse preso provvedimenti contro l’incauto docente, ci sarebbe stata la stessa levata di scudi contro il governo liberticida? Il fatto è che nel nostro paese libertà è solo quella de noantri.

Sul problema delle carceri – Umanità e sicurezza

7 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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I mali delle carceri italiane sono ben noti: mancanza di personale e di servizi,  sovraffollamento, condizioni degradate di molte celle, suicidi 20 o 25 volte più frequenti che nel resto della popolazione. La situazione italiana non è mai stata quella di un paese civile, ma si è fortemente aggravata a partire dal 2018, anche per il progressivo venir meno degli effetti dell’indulto varato nel 2016. Periodicamente sentiamo lanciare appelli e proposte per alleggerire la situazione: nuovi indulti e amnistie, depenalizzazione di determinati reati, pene alternative al carcere, assunzione di nuovo personale specializzato, costruzione di nuove carceri.

Anche a me, più di una volta, è capitato di denunciare – cifre alla mano – la situazione disumana delle carceri italiane. Con il passare del tempo, tuttavia, mi sono formato la convinzione che, se davvero vogliamo affrontare il problema, dobbiamo – prima di tutto – liberarci di alcuni pregiudizi.

Il primo pregiudizio è l’idea che, in Italia, vi sia un ricorso eccessivo alla carcerazione. I dati, in realtà, indicano l’esatto contrario. Il nostro tasso di incarcerazione (circa 106 detenuti ogni 100 mila abitanti) è più basso di quello medio delle società avanzate, e pure di quello medio dell’Unione europea. E questo a dispetto del fatto che, con la rilevante eccezione degli omicidi, il nostro tasso medio di criminalità è maggiore sia di quello medio europeo, sia di quello medio delle società avanzate. Stante il numero di crimini commessi, ci aspetteremmo più e non meno detenuti.

Il sovraffollamento delle carceri non dipende dalla durezza della repressione penale, ma dal fatto che in Italia si finisce in carcere di meno nonostante si delinqua di più: se il numero di carcerati fosse commisurato al tasso di criminalità, il numero di detenuti sarebbe ancor maggiore.

Il secondo pregiudizio è che si possa far fronte al dramma dei suicidi in carcere semplicemente riducendo l’affollamento attraverso nuove carceri (che richiedono tempi lunghi) o mediante nuovi indulti (che esauriscono rapidamente i loro effetti). I suicidi non dipendono solo dai metri quadri per detenuto, ma dalla condizione spesso drammatica delle celle, dalla carenza di personale specializzato (medici, psicologi, sociologi), dalla possibilità di lavorare, studiare o essere coinvolti in attività dentro e fuori del carcere. Se si vogliono ridurre i suicidi, la costruzione di nuove carceri è meno importante (e probabilmente più costosa) della ristrutturazione e riorganizzazione di quelle esistenti.

Il terzo pregiudizio è che i detenuti stranieri debbano tutti scontare la pena in carceri italiane. Il percorso sarà lungo, ma non si può escludere che, in futuro, una frazione crescente di detenuti stranieri possa scontare la pena nei paesi di origine, o in paesi terzi che hanno sottoscritto accordi con l’Italia (in questa direzione si sono già mossi, negli ultimi anni, la Danimarca e il Regno Unito). Così come non possiamo escludere che il timore di essere espulsi o trasferiti abbia un effetto deterrente, con conseguente abbassamento del tasso di criminalità e alleggerimento delle carceri. Giusto per dare un ordine di grandezza: se il tasso di criminalità degli stranieri scendesse al livello di quello degli italiani si libererebbero circa 16 mila posti in carcere. E anche se risultasse 2 o 3 volte superiore a quello degli italiani (anziché 6-7 volte come oggi), si libererebbero comunque 8-10 mila posti. Più o meno quelli che, attualmente, occorrerebbe creare ex novo per neutralizzare il sovraffollamento.

C’è, infine, un’ultima considerazione. Quando si affronta il tema delle carceri, è inevitabile che si scontrino visioni liberali e garantiste da una parte e istanze securitarie dall’altra. Generalmente, quel che la politica è chiamata a fare è di riequilibrare un sistema che si è sbilanciato in una direzione o nell’altra, o perché ha dimenticato i diritti dei detenuti a un trattamento umano, o perché ha dimenticando i diritti dei cittadini a un accettabile livello di sicurezza. Il guaio del nostro sistema è che, ormai, si è sbilanciato in entrambe le direzioni: è troppo repressivo dentro le carceri, ma al tempo stesso è troppo remissivo al di fuori.

La “missione impossibile” della politica è di rimettere in equilibrio le cose: restituendo dignità ai detenuti, ma anche sicurezza ai comuni cittadini.

[articolo uscito sul Messaggero il 6 luglio 2025]

Il pride di Budaspest

2 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Il successo del Pride di domenica a Budapest è andato, molto ampiamente, al di là delle più ottimistiche previsioni degli organizzatori. Non sappiamo se i partecipanti siano stati davvero 200 mila, ma anche fossero stati la metà, il successo resta. La destra italiana si consola osservando che, per compattare il campo largo, hanno dovuto esportarlo a Budapest, e che in nessuna altra occasione e su nessun altro tema i progressisti sono stati capaci di marciare uniti.

Ma è una ben magra consolazione. Meglio farebbero, i nostri partiti conservatori, a prender atto del successo dei progressisti e a comprenderne le ragioni. Che a mio parere sono soprattutto due, tra loro strettamente intrecciate. La prima è che, quali che siano le buone ragioni di chi governa, non è mai una buona idea farle valere limitando il dissenso e la manifestazione del pensiero. Vale per il Pride ungherese, dove il premier Viktor Orbán ha sbagliato, e dove l’andamento civile e ordinato della manifestazione ha reso ancora più palese l’arbitrarietà – per non dire l’assurdità – del divieto governativo. Ma vale anche per altri tipi di limitazioni, come alcune di quelle introdotte in Italia dal recente decreto sicurezza riguardo alle manifestazioni, dove a sbagliare sono stati i nostri governati. Non che non possano esservi, in specialissime circostanze, buone ragioni per limitare il diritto di manifestazione del pensiero o la protesta politica, ma il punto è che la legge dovrebbe perimetrare in modo estremamente restrittivo e rigoroso i casi in cui il divieto governativo è ammissibile e giustificato. Insomma, c’è caso e caso: l’impedimento del traffico ferroviario o l’occupazione di case sono comportamenti ben diversi da una manifestazione di piazza. L’eccessiva estensione, o l’insufficiente specificazione, dei casi in cui si può vietare una manifestazione rischia di squalificare anche i divieti più ragionevoli.

C’è anche una seconda ragione, però, per cui il Pride di Budapest ha segnato una grave sconfitta dei conservatori, ed è che – vietando la semplice manifestazione del pensiero – essi hanno fatto venir meno le proprie buone ragioni, o meglio le ragioni che, giuste o sbagliate che siano, sono pubblicamente difendibili. Quello che spesso si dimentica, infatti, è che il nucleo duro dell’ostilità contro il mondo Lgbtq+ non è il “diritto ad amare chi si vuole”, un principio ormai ampiamente e quasi universalmente affermato, almeno in occidente e perlomeno dai tempi di Giorgio Gaber (ricordate i versi di quella canzone del 1975? Vedi, cara, l’amore è una cosa normale, uno lo può fare con chi vuole, donne, uomini, animali… caloriferi…). No, il nucleo delle battaglie anti-Lgbtq+, chiunque le conduca (la Chiesa, i tradizionalisti, i moralisti), non è il diritto degli adulti consenzienti di fare sesso con chi vogliono e come vogliono, ma è la tutela dei minori e dei loro diritti contro rischi e conseguenze, reali o presunte, delle rivendicazioni Lgbtq+ e più in generale della cultura woke.

Quali rischi e conseguenze?

Fondamentalmente quattro. Primo, l’indottrinamento a scuola in materia sessuale, che secondo alcuni entrerebbe in conflitto con l’articolo 26 della “Dichiarazione universale dei diritti umani” (dicembre 1948), che al comma 3 recita: i genitori hanno diritto di priorità nella scelta dell’istruzione da impartire ai loro figli. Secondo, i rischi per la salute fisica e mentale connessi ai cambiamenti di sesso precoci, mediante bloccanti della pubertà e/o operazioni chirurgiche. Terzo, la violazione del diritto dei bambini ad avere una madre e un padre nei casi di adozioni non convenzionali (single e coppie omosessuali). Quarto, le complesse problematiche etiche della maternità surrogata (utero in affitto) sia sotto il profilo dello sfruttamento economico delle gestanti sia sotto quello del benessere psicologico del nascituro.

Qualsiasi cosa se ne pensi, credo si possa concordare che si tratta di materie delicate, sulle quali sono legittime e comprensibili le opinioni più diverse, perché è nella società che – come testimoniano i sondaggi – le troviamo tutte ampiamente rappresentate. Ecco perché la mossa di Orbán – vietare la manifestazione – è stata non solo profondamente sbagliata, ma stupidamente autolesionistica: mettendo la questione in termini di libertà di manifestazione, ha concesso un rigore a porta vuota ai propri avversari.

[articolo uscito sulla Ragione il 1° luglio 2025]

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