Il futuro della nostra civiltà tecnologica: viaggio fra i possibili scenari

Il dovere più importante che abbiamo

nei confronti dei nostri discendenti

è quello di sopravvivere”.

                                      (Harold W. Lewis)

 

Come scrivevo già vent’anni fa nel mio libro Mondi Futuri, “tutti noi, quotidianamente, prevediamo o tentiamo di prevedere in qualche modo il futuro. La maggior parte delle persone, però, si interessano esclusivamente ai problemi personali e si limitano a guardare verso il futuro immediato. Soltanto pochi individui si spingono più in là, occupandosi dei problemi che riguardano gli altri abitanti del pianeta e relativi a un futuro non vicino. Eppure, avere una prospettiva globale, prevedere il futuro a lungo termine della società e del mondo intero, non è per l’«Homo technologicus» attuale solo il modo per soddisfare delle curiosità innate; bensì, ora più che mai, rappresenta soprattutto un esercizio utile per la propria sopravvivenza”. Il libro in questione parlava del futuro dell’attuale stato di cose sul nostro pianeta, collocando l’argomento in un contesto via via sempre più ampio, soffermandosi sul futuro della civiltà tecnologica, su quello dell’Homo sapiens, del pianeta Terra, della Galassia e, infine, sul destino dell’intero universo. In questo articolo, però, mi limiterò ad accennare solo ai primi due, ovvero al futuro della civiltà tecnologica ed a quello della nostra specie, dato che interessano sicuramente di più il lettore.

Una chiave di lettura per comprendere il presente

All’alba del terzo millennio, l’umanità si trova, per la prima volta nella sua storia, di fronte a una serie di grandi sfide e di problemi globali emergenti – crescita della popolazione mondiale, impoverimento delle risorse naturali, deterioramento ambientale, crescente vulnerabilità alle epidemie, proliferazione delle armi di distruzione di massa e, in campo economico, degli strumenti derivati, escalation del terrorismo e delle dispute fra Paesi, aumento delle migrazioni internazionali, sviluppo incontrollato dell’intelligenza artificiale, aumento del potere delle lobby e della censura – che minacciano addirittura la sopravvivenza della civiltà tecnologica e dell’intera specie Homo sapiens sul nostro piccolo e fragile pianeta.

Sono queste, infatti, le 10 grandi tendenze globali del cambiamento che stanno plasmando il mondo e di cui ho accennato già in un precedente articolo [1] pubblicato dalla Fondazione Hume e – nel caso di 7 di esse – ancor prima, nel mio saggio Mondi futuri. Viaggio fra i possibili scenari [2], di cui proprio quest’anno ricorre il ventennale della pubblicazione. Un aspetto fondamentale che va sottolineato è che ciascuna delle tendenze di cambiamento menzionate non è stata selezionata dall’Autore casualmente: ognuna di esse, infatti, reca in sé il potenziale di poter innescare, direttamente oppure indirettamente, il collasso della nostra civiltà tecnologica, ovvero del mondo come noi lo conosciamo.

Le 10 principali forze o tendenze planetarie del cambiamento che sono, a mio avviso, all’origine della maggior parte dei più seri problemi globali attuali e delle principali minacce per il futuro della nostra civiltà tecnologica, “sorprese” escluse, evidentemente.(fonte: adattata da M. Menichella, “Mondi futuri”)

Ma, poiché non è possibile fermare lo sviluppo tecnologico, l’unica strada percorribile per colmare il divario oggi esistente fra ciò che bisognerebbe capire ed i mezzi concettuali necessari alla comprensione è quella di realizzare forti “iniezioni” di educazione nei sistemi umani, utilizzando tutti gli strumenti culturali disponibili. L’obiettivo principale di questo articolo è proprio quello di fornire un piccolo contributo in tale direzione, sulla falsariga di quanto feci a suo tempo con il mio libro: proporre delle semplici chiavi di lettura per capire meglio il mondo in cui viviamo e, soprattutto, il mondo verso cui stiamo andando o, peggio, potremmo andare se non riusciamo a governare quanto prima l’“astronave Terra”.

Oggi ci troviamo  in un’epoca assolutamente unica nella storia della vita, dell’uomo e della civiltà: un’epoca caratterizzata, come non mai, da grandi promesse per il futuro; ma, per la prima volta, gravida di micidiali pericoli per la nostra vita e per il nostro benessere, se non addirittura per la sopravvivenza della specie Homo sapiens sulla Terra. In particolare, attualmente stiamo vivendo in un’epoca davvero unica nella storia dell’uomo, perché solo in tempi recenti l’evoluzione culturale della nostra specie ha iniziato ad accelerare in modo straordinario, provocando un divario tecnologico, demografico ed economico senza precedenti tra paesi ricchi e paesi poveri, e una serie di problemi emergenti a livello mondiale che minacciano il nostro benessere e perfino il nostro futuro su questo nostro pianeta.

Siamo la prima specie vivente a rischio di autodistruzione

I precedenti timori sul nostro futuro non sono certamente esagerati se si considera che, a partire da 550 milioni di anni fa, quando si sono sviluppati i primi grandi organismi pluricellulari, sul nostro pianeta sono apparse miliardi di forme viventi profondamente diverse fra loro e che l’Homo sapiens rappresenta la prima e unica specie, nella lunga storia del mondo animale, ad aver raggiunto – sia pure solo negli ultimi decenni dell’attuale civiltà tecnologica – la capacità di provocare, più o meno deliberatamente, la sua stessa estinzione. Ciò è avvenuto verso la metà del secolo scorso, quando la specie umana ha acquisito, per la prima volta, la capacità di autodistruggersi grazie al controllo dell’immensa energia racchiusa nell’atomo, una conquista della nostra civiltà tecnologica ben presto impiegata dalle due superpotenze, USA e URSS, per la costruzione di migliaia di micidiali ordigni nucleari. Da allora, la spada di Damocle di una guerra termonucleare globale capace di provocare l’estinzione del genere umano pende sulle nostre teste, sebbene la fine della Guerra fredda abbia creato in molti l’illusione che il pericolo sia cessato.

Per capire l’eccezionalità dell’epoca storica in cui siamo entrati relativamente da poco, basta riflettere sul fatto che, fino a cinquant’anni fa, l’Homo technologicus – anche volendo – non avrebbe mai potuto provocare la propria estinzione: né con una guerra, né in alcun altro modo. Perfino i conflitti più violenti della storia recente sono stati, infatti, assai limitati, in termini di potenza distruttiva, rispetto a un moderno missile carico di testate nucleari. La bomba di tipo convenzionale più potente utilizzata durante la Seconda guerra mondiale aveva una potenza di circa 10 tonnellate di TNT (trinitrotoluene, ovvero tritolo), mentre tutte le bombe riversate dagli alleati sulle forze irachene durante l’intera Prima guerra del Golfo non hanno superato, complessivamente, le 85.000 tonnellate di TNT. Una testata nucleare media di un missile balistico ha invece una potenza dell’ordine del megaton, equivalente, cioè, a ben 1.000.000 di tonnellate di TNT. Inoltre, molti missili che fanno parte dell’arsenale strategico delle potenze nucleari sono a testata multipla: hanno, cioè, più testate, indirizzabili ciascuna su un obiettivo diverso.

Oggi l’umanità è costretta a passare attraverso una sorta di “collo di bottiglia” evolutivo, stretto e senza precedenti. È come se noi stessimo conducendo sulla nostra specie un gigantesco esperimento che non ammette possibilità di errore. L’unica strada per uscire davvero da questo collo di bottiglia che abbiamo appena imboccato è quella, troppo lontana nel tempo per rappresentare una soluzione realistica e pratica, di colonizzare prima lo spazio vicino alla Terra e, poi, di espandersi gradualmente nella Galassia: l’emigrazione di un cospicuo numero di persone in zone lontane del Sistema Solare, e in seguito della Via Lattea, libererebbe la specie umana dall’incombente minaccia di estinzione. Infatti, le varie colonie create nello spazio profondo dai nostri discendenti sopravviverebbero a qualsiasi catastrofe terrestre e, grazie alle enormi distanze reciproche che le renderebbero, di fatto, dei mondi isolati dal nostro pianeta e fra loro, potrebbero continuare a percorrere ciascuna una differente strada evolutiva, contro l’unica attuale.

Una rappresentazione artistica del “collo di bottiglia” evolutivo in cui si trova oggi l’umanità, realizzata dall’Autore con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale. Si noti come all’orizzonte incomba lo spettro di una catastrofe nucleare.

Con la trasformazione del cosmo in un nuovo e sconfinato habitat per l’uomo, il pericolo di una nostra completa estinzione potrebbe venir fugato addirittura per sempre. Ma vi è pure un’altra ragione per cui lo spazio potrebbe un giorno costituire, oltre che una garanzia di salvezza, la frontiera finale del genere umano. Il fatto è che, al ritmo di crescita degli ultimi decenni, l’aumento della popolazione, del consumo delle risorse non rinnovabili, del deterioramento ambientale ed i numerosi altri trend negativi in atto non sono sostenibili a lungo sul nostro piccolo pianeta: dunque, lo sviluppo quasi esponenziale che sta caratterizzando, qui sulla Terra, la nostra epoca sembra dover rappresentare soltanto una fase transitoria nella lunga storia dell’uomo e della civiltà. Ma che cosa potrà allora succedere all’umanità, sia nel bene che nel male, nei prossimi anni, secoli o perfino milioni di anni? Quale potrebbe essere, insomma, il futuro a breve, medio e lungo termine della nostra civiltà tecnologica e dell’intera specie umana?

La futurologia, ovvero l’arte di prevedere il futuro

Ovviamente, se ci limitiamo a estrapolare oltre il lecito le tendenze attuali, non arriviamo al futuro ma a una caricatura del presente. Per fortuna, esiste una tecnica predittiva più raffinata, applicabile anche sul medio termine e resa possibile solo in tempi relativamente recenti dall’introduzione del computer: è quella della previsione, per così dire, “scientifica” del futuro. Si tratta di una rivoluzione concettuale, perché occorre vedere tutto in termini di “sistemi”: si parla, così, di sistemi umani o socioculturali (ad es., famiglia, nazione, società mondiale), di sistemi naturali o biologici (gruppo di specie, ecosistema, biosfera) e di sistemi fisici (Sistema Solare, galassia, universo). In generale, un sistema interagisce con altri sistemi o ne fa semplicemente parte (ad es., una nazione appartiene alla società mondiale), e il suo stato è di solito descritto dal valore di alcune “variabili” o parametri, sebbene non possa essere ridotto soltanto a queste. Prevedere il futuro di un sistema, quindi, significa valutare l’andamento futuro delle sue variabili.

Ebbene, l’approccio scientifico alla predizione del futuro consiste nel compiere le estrapolazioni sulla base di un modello del sistema che ci interessa: si cerca, cioè, di trovare delle relazioni matematiche tra le diverse variabili del sistema in modo da poterlo descrivere il più fedelmente possibile e da poter poi effettuare simulazioni del suo comportamento con l’aiuto del computer. Nel caso dei sistemi fisici, spesso è la teoria stessa che fornisce, attraverso alcune leggi, la relazione matematica tra le diverse variabili: il moto dei pianeti nel Sistema Solare, per esempio, è prevedibile in modo preciso perché descritto dalla legge di gravitazione universale di Newton. Ciononostante, questo e alcuni altri sistemi fisici (e non) esibiscono un comportamento caotico: ovvero, un lieve mutamento delle condizioni iniziali conduce a grandi differenze nel risultato finale. In pratica, se un sistema è caotico, esiste una scala di tempo oltre la quale non si possono fare previsioni accurate, ma solo in termini di probabilità: ad esempio, per il sistema atmosfera – e, più in generale, in meteorologia – essa è di appena cinque giorni.

In linea di principio, il metodo dei modelli e delle simulazioni è applicabile, oltre che ai sistemi fisici, a numerose altre situazioni: economia, ecologia, politica, clima, sviluppo demografico e tecnologico sono tutti campi in cui entrano in gioco sistemi complessi e comportamenti umani che mettono alla prova le nostre capacità predittive. Tuttavia, quando c’è di mezzo l’uomo, di solito le variabili che descrivono il sistema sono tantissime e tutte collegate fra loro da complessi cicli di retroazione, il che complica enormemente qualsiasi tentativo di previsione. In tal caso i modelli, specie su tempi abbastanza lunghi, non possono prevedere quale sarà il futuro, ma consentono di pensare ad esso in modo più concreto e quantitativo. Infatti, variando le condizioni del sistema all’inizio o nel corso della simulazione, si può vedere che cosa accadrebbe sotto una varietà di ipotesi, e quindi imparare moltissimo su uno specifico argomento semplicemente analizzando quali e quanto grandi siano gli effetti prodotti da determinati cambiamenti.

La previsione del futuro diventa davvero molto difficile quando c’è di mezzo l’uomo, come mostrato in questa rappresentazione artistica realizzata dall’Autore con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale. Infatti, prevedere il futuro dell’umanità è incredibilmente complesso, non solo per la molteplicità di variabili in gioco – tecnologiche, ambientali, sociali e politiche – ma anche perché l’essere umano, da sempre, cerca di dare un senso al proprio destino attraverso il trascendente. Questa tensione verso qualcosa che va oltre la realtà tangibile può influenzare le nostre decisioni e visioni del futuro, rendendo ancora più difficile una previsione puramente razionale o matematica. Alla fine, quindi, il futuro dell’umanità è una sorta di combinazione di logica, caos e speranza.

Se il futuro dell’uomo e della civiltà non si può prevedere per via matematica, una tecnica relativamente recente ma ampiamente usata consente di saperne di più, anche sul lungo termine, ed è quella di “ragionare per scenari”. Si tratta di fare congetture ragionevoli e alternative fra loro sull’avvenire – gli scenari, per l’appunto – usando molta immaginazione e basandosi sulla conoscenza dei punti fermi, delle incertezze e delle tendenze principali del nostro tempo in campo sociale, economico, politico, tecnologico, eccetera. Naturalmente, se per ogni tendenza si adotta un trend estremamente positivo, si ottiene uno scenario positivo, e in effetti gli scenari più semplici da ottenere sono quelli totalmente ottimistici o pessimistici, ma si possono immaginare una serie di scenari intermedi. Dunque gli scenari permettono, più che di prevedere un ben preciso futuro, di capire meglio la situazione nella sua globalità, di valutare l’importanza di certi eventi o di loro combinazioni, nonché di fare ipotesi sui vari possibili mondi futuri tenendo conto delle “sorprese”, cioè degli eventi per loro natura imprevedibili.

Quali sono i futuri possibili per una civiltà tecnologica?

Il problema di come una generica civiltà tecnologica giunta ad uno stadio di sviluppo simile al nostro possa in seguito evolvere è stato affrontato in passato – sia pure con scopi completamente diversi – non tanto da futurologi, sociologi, economisti o storici, quanto, piuttosto, da una ristretta categoria di ricercatori: quella degli astronomi, dei fisici e degli ingegneri impegnati nella caccia a ipotetiche civiltà extraterrestri che potrebbero nascondersi nelle profondità dell’universo.

In particolare, analizzando i molteplici possibili sbocchi evolutivi futuri di una società tecnologica aliena evolutasi sulla falsariga della nostra, alcuni scienziati interessati al SETI (acronimo di Search for Extra-Terrestrial Intelligence) hanno tentato di valutare, negli ultimi quarant’anni, la durata media di una civiltà tecnologica extraterrestre. Essa, infatti, indicata di solito con la lettera L, rappresenta uno dei parametri fondamentali della famosa “equazione di Drake”, la semplice formula matematica proposta negli anni Sessanta dal radioastronomo americano Frank Drake per stimare il numero di civiltà aliene potenzialmente contattabili oggi presenti nella Galassia. In base a tale equazione, maggiore è la durata media di eventuali società tecnologiche extraterrestri in grado di inviare o ricevere segnali radio, di costruire sonde spaziali, o di manifestare in qualche modo la propria esistenza o di rilevare la presenza altrui, e maggiore è – a parità di altri fattori contemplati dalla formula di Drake – la probabilità, per la nostra giovanissima civiltà, di entrare prima o poi in contatto con delle intelligenze aliene.

Ebbene, uno dei risultati per noi più importanti di questi originali studi è che, prendendo come modello la nostra attuale società tecnologica, si possono immaginare vari tipi di scenari futuri. Il più pessimistico prevede la scomparsa definitiva della specie umana a causa di un’improvvisa e rapida autodistruzione oppure di una catastrofe di origine astrofisica: eventi che, in linea di principio, possono avvenire anche l’anno prossimo, come pure tra secoli o millenni. Invece, lo scenario più ottimistico è quello della sopravvivenza della specie umana e di un progresso tecnologico continuo o quasi-continuo: cioè, di uno sviluppo della tecnologia fino ai suoi estremi limiti, in un futuro che ha apparenti analogie con quello ipotizzato da molti scrittori di fantascienza. Tra queste due ipotesi estreme – e forse per questo, sebbene non necessariamente, meno plausibili – vi sono poi tutta una serie di possibilità intermedie, che racchiudono probabilmente l’evoluzione futura effettiva della nostra civiltà tecnologica.

I due scenari limite ottimistico e pessimistico, e quelli intermedi, possono venire visualizzati in maniera rozza – ma sicuramente assai intuitiva – su un grafico, riportando sull’asse orizzontale il tempo e su quello verticale il livello di sviluppo raggiunto dalla nostra civiltà tecnologica in funzione, appunto, del tempo. Per livello di sviluppo si intende, sostanzialmente, la capacità raggiunta fino a quel momento dall’uomo di allentare la propria dipendenza dai vincoli posti dalla natura. Nel grafico da noi proposto, tuttavia, l’andamento nel tempo del grado di sviluppo a partire dai primi Homo sapiens a oggi è rappresentato, per semplicità, con una linea quasi-retta, la quale potrebbe far pensare a un progresso lineare nel tempo; il che, ovviamente, è vero solo in primissima approssimazione, dal momento che, nella storia umana, a momenti di crescita molto rapidi si sono alternati lunghi periodi pressoché di stasi. L’andamento preciso della curva, in ogni caso, dipende da come viene misurato il livello di sviluppo raggiunto: se, ad esempio, dal grado di complessità dei manufatti prodotti, dalla quantità di informazione gestita, e così via.

Il futuro forse più realistico della nostra civiltà tecnologica, almeno sul brevissimo termine, è compreso tra i due scenari estremi: quello assai pessimistico di una rapida autodistruzione e quello, assai ottimistico, di un progresso tecnologico continuo. (fonte: adattata da M. Menichella, “Mondi futuri”)

Nell’ambito degli scenari futuri intermedi, si possono immaginare innumerevoli andamenti per la curva del livello di sviluppo tecnologico, dati dalle possibili combinazioni di fasi più o meno lunghe di stagnazione, di parziali cadute, di oscillazioni, eccetera. Infatti, il progresso tecnologico praticamente continuo attuale potrebbe essere, piuttosto presto, rallentato o interrotto in modo più o meno brusco da varie cause, quali crisi ambientali, sociali, economiche, oppure distruzioni e catastrofi dovute all’azione dell’uomo o della natura. D’altra parte, se il grado di sviluppo della tecnologia umana scendesse, in seguito a tali eventi, ben al di sotto del livello odierno, si potrebbe avere la fine della civiltà tecnologica propriamente detta – magari a vantaggio di una società più simile a quella, non tecnologica, della Grecia classica – o la fine della stessa civiltà, che significherebbe precipitare in uno stato di barbarie. Almeno nel primo caso, però, una nuova civiltà potrebbe risollevarsi ai livelli di oggi e superarli; o, al contrario, non tornare a uno stadio di sviluppo tecnologico elevato, ma riuscire, in compenso, a sopravvivere più a lungo.

L’imprevedibilità del futuro: la “singolarità” e le “sorprese”

In realtà, gli scenari fortemente ottimistici – o quelli intermedi, che prevedono comunque un discreto progresso tecnologico futuro – possono essere delineati in maniera ancora abbastanza attendibile finché non si supera una certa soglia di sviluppo, oltre la quale non solo non è possibile prevedere granché di preciso, ma probabilmente non ha nemmeno troppo senso parlare di civiltà tecnologica: ad esempio, perché la società umana si sarà evoluta in qualcosa di assai differente, di cui ciò che noi oggi chiamiamo civiltà tecnologica rappresenta soltanto uno stadio di passaggio. Per lo stesso motivo, del resto, non ha granché senso parlare di società tecnologica per l’epoca degli antichi Romani, e mai quei nostri lontani progenitori si sarebbero potuti figurare la moderna società umana. La soglia oltre la quale il futuro diventerà, per definizione, qualcosa di inimmaginabile rappresenta un momento importante nell’evoluzione dell’odierna civiltà, ed è chiamata dai futurologi “singolarità”: in pratica, la si raggiungerà quando i limiti del prevedibile verranno superati in una vasta gamma di aree tecnologiche fondamentali.

A sinistra: La singolarità tecnologica impedisce, in linea di principio, la previsione di ciò che accadrà dopo di essa (qui rappresentato con l’area più scura). Il movimento filosofico e culturale del transumanesimo da una parte, e la fantascienza dall’altra, possono illuminarci su questa sorta di “zona d’ombra” del nostro futuro. A destra: il tumultuoso sviluppo dell’intelligenza artificiale potrebbe portare a una “singolarità” (ed eventualmente a esseri “trans-umani”) molto prima di quanto si creda, impedendoci di fare previsioni sull’evoluzione successiva della nostra civiltà tecnologica. (fonte della figura di sinistra: adattata da M. Menichella, “Mondi futuri”)

Non sappiamo, purtroppo, quanto la singolarità potrebbe collocarsi lontano nel futuro, come pure non abbiamo indicazioni quantitative riguardo l’ancor più importante parametro L, la durata media di una civiltà tecnologica capace almeno di inviare onde radio nello spazio e di riceverne (e dunque con un grado di sviluppo sostanzialmente uguale o anche ben superiore al nostro). Una stima pessimistica porta ad attribuire ad L un valore di poche decine di anni, pari al tempo che può trascorrere, ad esempio, dall’invenzione dei radiotelescopi a una guerra termonucleare globale che provochi una prematura autodistruzione della civiltà. Una stima ottimistica, invece, per quanto ne sappiamo, potrebbe concedere a una civiltà tecnologica una durata di milioni, o addirittura miliardi, di anni: per la verità, non conosciamo un limite superiore a tale longevità, se non quello generico – e comunque estremamente lontano nel tempo per preoccuparsene – rappresentato dal progressivo venir meno di certi requisiti di abitabilità dovuti all’invecchiamento della propria stella, della propria galassia e, infine, dell’intero universo.

Il futuro della nostra civiltà tecnologica si articola, come il passato, su diverse scale temporali, sebbene non sia possibile sapere con esattezza su quale scala si collocheranno i grandi eventi legati all’uomo o ai suoi lontani discendenti. Su una scala temporale molto breve – diciamo, di pochi anni – è ragionevole tentare di estrapolare quasi tutte le tendenze attuali ed escludere, salvo sorprese catastrofiche, cambiamenti radicali. Su una scala temporale di 100 anni, importanti accadimenti storici e rivoluzionarie scoperte scientifiche impediscono già previsioni precise dell’evoluzione successiva. Su una scala di 1.000 anni, si può assistere alla colonizzazione umana del Sistema Solare, come pure al declino della civiltà occidentale e alla comparsa di altre civiltà dominanti. Su una scala di 10.000 anni, l’uomo può scomparire per sempre, o espandersi nello spazio interstellare, magari decidendo nel frattempo di intervenire geneticamente su se stesso a livello di specie. Su una scala di 100.000 o più anni, risulta impossibile fare previsioni, ma probabilmente il nostro destino – buono o cattivo che sia – sarà già stato deciso da tempo.

In realtà, sul breve termine, questo dell’estrapolazione dal passato è un metodo che in genere funziona piuttosto bene, purché ad alterare gli sviluppi futuri non intervengano nel frattempo delle “sorprese”, cioè degli eventi inattesi in grado di modificare bruscamente i cambiamenti che i trend in corso sembrano suggerire. Si tratta di un’ipotesi di solito abbastanza ragionevole nel caso dei sistemi fisici e naturali, molto meno nella nostra società o comunque quando entrano in gioco i comportamenti umani. Per definizione stessa, le sorprese sono eventi – spesso di grande impatto e talvolta catastrofici – che non è possibile anticipare perché mai accaduti prima o perché difficilmente prevedibili: ne sono un esempio l’invenzione del transistor e la formazione del buco nell’ozono, la comparsa del morbo della mucca pazza e dell’epidemia di SARS, nonché il terribile attacco terroristico dell’11 settembre. Le sorprese rendono tipicamente poco attendibili le estrapolazioni delle tendenze umane superiori ai 10-20 anni nel futuro, e possono “mandare all’aria” anche le proiezioni a brevissimo termine.

I rischi globali terminali e quelli sopportabili

L’uomo, sin dalle sue origini, è stato esposto a varie minacce relative alla sua sopravvivenza – malattie, guerre, carestie, eccetera – ma si è sempre trattato di pericoli superabili dall’umanità nel suo insieme. Oggi, invece, per la prima volta nella Storia, sta emergendo una categoria di rischi completamente nuova: quella dei rischi globali terminali, cioè delle minacce in grado di causare la scomparsa in breve tempo dell’intero genere umano, oppure di compromettere in modo drastico e permanente il suo potenziale di sviluppo futuro. Un bang, o “botto”, che provochi l’estinzione rapida e improvvisa dell’Homo sapiens, è l’esito più ovvio e concettualmente facile da capire di un rischio globale terminale. Due modi in cui già ora il mondo potrebbe finire in un botto sono una guerra mondiale combattuta con armi termonucleari e la caduta sulla Terra di un grosso corpo asteroidale o cometario. Ma un crunch, o “lento declino”, della civiltà, come sarebbe ad es. quello provocato da un inarrestabile effetto serra a valanga, non sarebbe meno grave di un botto, se portasse la società a un arresto tecnologico senza fine.

Inoltre, mentre alcuni eventi sono in grado di spazzare direttamente via l’Homo sapiens dal pianeta, altri possono provocare “solo” il rapido collasso della moderna civiltà, in quanto almeno una piccola parte degli esseri umani riuscirebbe a sopravvivere. È il caso, ad esempio, di un’epidemia assai diffusa e letale, di una guerra termonucleare dagli effetti limitati, o magari della caduta di un corpo extraterrestre dalle dimensioni non troppo grosse. Ora, però, non è detto che, una volta collassata, la civiltà possa risorgere e superare i livelli di sviluppo pre-crisi, anche se la specie umana dovesse sopravvivere ancora a lungo. Noi potremmo, ad esempio, aver già esaurito o consumato troppe delle risorse facilmente disponibili di cui una società tornata a vivere alle condizioni dell’età della pietra avrebbe bisogno per raggiungere il nostro livello di tecnologia. Per di più, una razza umana precipitata in uno stato primitivo sarebbe vulnerabile ai processi naturali di estinzione né più né meno di qualsiasi altra specie animale.

I rischi terminali vanno poi ben distinti dai rischi globali sopportabili, cioè quelli che non provocano né l’estinzione dell’umanità, né il suo retrocedere permanente a uno stato di barbarie o a un livello (più basso rispetto all’attuale) di civiltà “quasi non tecnologica”. Questo tipo di rischi include, ad esempio, una recessione economica mondiale senza precedenti, un riscaldamento globale moderato, una consistente perdita della biodiversità planetaria, una guerra su larga scala combattuta con armi convenzionali. Purtroppo, la soglia critica che, per un dato tipo di evento, separa le conseguenze terminali da quelle sopportabili – cioè che distingue un botto “finale” da uno che non lo è – risulta sempre assai difficile da determinare. Naturalmente, il fatto che un rischio globale sia sopportabile non significa che sia accettabile o non particolarmente serio, ma solo che l’umanità può alla fine riprendersi e che gli effetti, per quanto gravi, sono da considerarsi transitori. D’altra parte, è anche vero che un rischio globale sopportabile potrebbe costituire un rischio terminale per molti individui o, localmente, per intere popolazioni.

I rischi globali terminali e i rischi globali sopportabili, in effetti, non sono altro che due delle categorie in cui si possono classificare qualitativamente i rischi. In base alle conseguenze dell’evento e alla sua portata, cioè alle dimensioni del gruppo di persone minacciate, distinguiamo difatti 6 diversi tipi di rischi, come nella tabella qui sotto: i rischi “sopportabili” (che possono essere personali, locali o globali) ed i rischi “terminali” (personali, locali o globali). “Globale” significa che il rischio riguarda l’intero genere umano ed i suoi discendenti; “personale” o “locale” che riguarda, rispettivamente, il singolo individuo o un gruppo circoscritto di persone. Per ogni classe di rischio è riportata in tabella una conseguenza tipica: a livello personale, ad esempio, la morte – ma pure un danno fisico permanente o una condanna al carcere a vita – sono eventi terminali, perché precludono all’individuo la possibilità di vivere il tipo di vita a cui aspira. Infine, un ulteriore parametro che caratterizza ogni rischio è, ovviamente, la sua probabilità di verificarsi: a parità di altri fattori, una minaccia è tanto più seria quanto maggiori probabilità ha di concretizzarsi.

Tabella che mostra una semplice classificazione qualitativa dei diversi tipi di rischi in base alle conseguenze dell’evento e alla portata della minaccia. (fonte della tabella: M. Menichella, “Mondi futuri”)

Il mondo sta andando verso uno schianto…

Lo sviluppo tecnologico della nostra civiltà è diventato ormai rapidissimo e, col suo stesso realizzarsi, fornisce all’uomo mezzi di distruzione sempre più potenti. Se non saremo in grado di controllare la nostra tecnologia, potremmo arrivare ad autodistruggerci all’improvviso e in un tempo relativamente breve: noi chiameremo “schianto” (bang), o “botto”, questa possibile fine della civiltà o dell’intera umanità.

In effetti, la rapida catastrofe associata a uno schianto può, a seconda delle caratteristiche specifiche dell’evento scatenante, provocare varie conseguenze immediate sul genere umano. La peggiore eventualità è rappresentata dall’estinzione della nostra specie, l’Homo sapiens: si tratterebbe, ovviamente, della prima irreparabile crisi della nostra civiltà tecnologica, fatale a tal punto che rimarrebbe anche l’unica, perché non riusciremmo a superarla. Ma se una piccola parte dell’umanità sopravvivesse al disastro, i danni dello schianto si limiterebbero, almeno inizialmente, al repentino collasso dell’attuale civiltà tecnologica, o della civiltà tout court. Un simile esito potrebbe costituire solo una fase transitoria, che non inibirebbe una successiva crescita della civiltà umana oltre i livelli di sviluppo finora raggiunti; o, al contrario, potrebbe compromettere in modo drastico e permanente il potenziale di sviluppo futuro della nostra civiltà tecnologica, che pertanto non ritornerebbe mai più nemmeno ai livelli pre-crisi. In quest’ultimo caso, un’umanità divenuta vulnerabile potrebbe anche finire per estinguersi prematuramente.

Pertanto, si può immaginare l’esistenza di due “soglie” importanti in relazione al livello di sviluppo tecnologico a cui precipita la civiltà immediatamente dopo il botto. Esse permetterebbero di separare i tre possibili esiti finali dello schianto: una prima soglia separerebbe l’esito finale dell’estinzione dell’uomo dal collasso permanente della civiltà tecnologica al di sotto dei livelli pre-crisi; mentre una seconda soglia, più alta, separerebbe tale collasso permanente da un collasso solo temporaneo della nostra civiltà. Il grado di sviluppo tecnologico post-bang corrispondente a ciascuna soglia, però, non è definito da un valore preciso, bensì da un ampio intervallo di valori, perché l’esito finale di uno schianto può variare col tempo trascorso dal botto. Infatti, più questo è lungo, maggiore è la probabilità che la popolazione sopravvissuta al collasso della civiltà si possa, nel frattempo, estinguere. E, nello stesso arco di tempo, una civiltà che all’inizio sembrava incapace di “risollevarsi” dal collasso potrebbe invece risorgere; mentre, al contrario, una ritenuta in grado di superare lo schianto, potrebbe non recuperare.

A sinistra, un libro dell’amico Roberto Vacca, futurologo, che affrontava (in maniera alquanto sommaria) il tema della degradazione dei grandi sistemi. A destra, una figura da me realizzata oltre vent’anni fa per affrontare in maniera più analitica l’argomento del futuro della nostra civiltà tecnologica e dei vari scenari possibili. Essa mostra le due importanti soglie nel livello di sviluppo post-bang che separano i tre possibili esiti di uno schianto, o bang, della nostra civiltà tecnologica. Esse dipendono dal tempo T al quale si valutano tali esiti. In particolare, per la soglia 2, che separa il collasso permanente sotto i livelli pre-crisi dal collasso solo temporaneo, esiste un intero intervallo di valori di soglia che diventa sempre più ampio al crescere di T. (fonte: figura di destra adattata da M. Menichella, “Mondi futuri”)

Può essere, quindi, assai difficile stabilire a priori se le conseguenze di un evento che provochi uno schianto dalla prevedibile portata immediata collochino questo al di sopra o al di sotto delle due soglie critiche – e, nel senso appena illustrato, ambigue – che determinano se si avrà poi, sul lungo termine, un certo esito piuttosto che uno del tutto diverso. Un semplice esempio è rappresentato dalla collisione contro la Terra di un asteroide vagante nello spazio, i cui effetti dipendono, in primo luogo, dalle dimensioni del proiettile cosmico. Se quest’ultimo fosse un asteroide del diametro di 100 chilometri, l’estinzione del genere umano, a causa delle catastrofi che conseguenze climatiche innescate dall’impatto, sarebbe assicurata: cioè l’evento si collocherebbe al di sotto di entrambe le precedenti soglie critiche. Se il diametro dell’asteroide fosse di appena 100 metri, al contrario, le conseguenze dell’urto sarebbero locali e limitate, e l’evento si collocherebbe al di sopra di entrambe le soglie. Non è invece nota la posizione rispetto alle due soglie di un evento intermedio, quale l’impatto con un corpo largo pochi chilometri.

La soglia che separa un crollo improvviso e permanente della civiltà quale noi la conosciamo da un collasso e un ritorno solo temporaneo al livello di una civiltà primitiva rappresenta, già di per sé, una vera e propria incognita. Difatti, la nostra moderna società, che soprattutto nei paesi avanzati è basata sul perfetto funzionamento di grandi strutture e organizzazioni, nonché di grandi sistemi tecnologici, risulta particolarmente fragile e vulnerabile a eventi catastrofici di eccezionale portata che ne riducano in modo rapido e massiccio la popolazione. D’altra parte, la capacità di recupero di una società sottoposta a una rapidissima degradazione dei propri sistemi sociali e tecnologici è proprio uno degli elementi fondamentali che non conosciamo bene. Sui relitti di una civiltà crollata e frazionata in molte piccole realtà indipendenti, autarchiche e arretrate potrebbe in seguito nascere, da qualche isola di ordine sociale magari posta in aree del mondo oggi in via di sviluppo, una nuova civiltà tecnologica; o, diversamente, potrebbero regnare sempre più incontrastati il caos e la barbarie: semplicemente, non lo sappiamo.

Vi sono almeno tre modi noti in cui l’attuale società tecnologica potrebbe già oggi crollare prematuramente in uno schianto come spiacevole risultato del suo stesso sviluppo. Una possibilità ovvia è una guerra nucleare globale seguita da un fallout devastante, che provocherebbe l’estinzione della specie Homo sapiens e di gran parte della vita presente sulla Terra. Come nei quarant’anni di Guerra Fredda, questo tipo di schianto sembra oggi diventato di nuovo probabile, mentre è in diminuzione – grazie ai vaccini a mRNA – il grado di rischio di una pandemia naturale altamente letale, che non potrebbe provocare l’estinzione della nostra specie ma una sua significativa riduzione numerica: evento in teoria sufficiente a far collassare la nostra civiltà. Il terzo e ultimo pericolo mortale, che al contrario si va facendo più probabile con il passare degli anni, è rappresentato dalla messa a punto, in qualche laboratorio, di una micidiale arma genetica, una sorta di “arma finale”: un patogeno in grado di sterminare l’intero genere umano o quasi, e che potrebbe venire impiegato in maniera deliberata o sfuggire al controllo dei suoi ideatori.

…o verso una lenta crisi su scala globale?

L’altro modo in cui la nostra civiltà tecnologica potrebbe regredire rispetto al livello di sviluppo attuale è quello non di un crollo improvviso, bensì di un ben più lento “lamento”: un declino, insomma, assai più graduale – riguardante una scala temporale di decenni, invece che di settimane o mesi – dovuto ai crescenti stress esercitati dall’attività dell’uomo sui sistemi naturali e sui sistemi umani medesimi, e destinati a diventare, oltre una certa soglia, insostenibili.

Il crescente impatto dell’uomo sull’ambiente non sarebbe un problema se non fosse per il fatto che il nostro pianeta ha – globalmente e localmente – una limitata “capacità di carico” o di sostentamento della popolazione, che dipende sia dalla quantità di risorse non rinnovabili di cui esso dispone, sia dalla capacità dell’ambiente di sostenerne le attività. In ecologia, la capacità di carico è definita come “il massimo numero di esemplari di una data specie che un determinato habitat è in grado di sostentare indefinitamente”: quando tale livello massimo viene superato – magari per una crescita eccessiva, non “sostenibile”, appunto, della popolazione – inizia il declino delle risorse, cui farà poi seguito il declino della popolazione stessa. Ad esempio, nel caso di una popolazione batterica che si moltiplica in laboratorio nel mondo limitato di una capsula di Petri, la crescita non è sostenibile proprio a causa della capacità di carico: prima o poi, i batteri consumano tutte le risorse disponibili e vengono sommersi dai propri rifiuti, o “inquinamenti”, estinguendosi, una fine certamente non bella.

Naturalmente, le interazioni umane con l’ambiente sono molto più complesse di quelle dei batteri e una fine simile, per l’uomo, sembrerebbe improponibile. Tuttavia, nella storia della nostra specie esiste un “fresco” precedente, riguardante l’isola di Pasqua, che dovrebbe farci riflettere. Milleseicento anni fa, quando venne colonizzata dai polinesiani, l’isola era un vero paradiso, ricco di foreste, di animali e di terra fertile. Dopo secoli di pace e di prosperità in cui i colonizzatori crearono una società sofisticata dal punto di vista economico, politico e culturale – testimoniata anche dalle famose statue giganti – per la crescita della popolazione gli alberi vennero tagliati a un ritmo superiore a quello di rigenerazione. La conseguente scarsità di legna per le imbarcazioni ridusse la quantità del pescato, costringendo a una caccia intensiva, mentre l’erosione del suolo dovuta alla deforestazione provocò la diminuzione dei raccolti. A causa della fame così sopraggiunta, si scatenarono gravi disordini; e, quando gli europei arrivarono sull’isola, nel 1772, i pochi superstiti vivevano ormai in uno stato di cannibalismo e di violenza su una distesa sterile e desolata.

Un’immagine realizzata dall’Autore, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, di come verosimilmente appariva l’Isola di Pasqua dopo che i suoi abitanti avevano dissennatamente esaurito le risorse che garantivano il loro sostentamento, costringendoli al cannibalismo. Donde l’importanza del concetto di “capacità di carico”, che rappresenta il numero di persone che possono essere supportate in una determinata area entro i limiti delle risorse naturali, senza degradare l’ambiente naturale, sociale, culturale ed economico per le generazioni presenti e future.

Come ci insegna il semplice ma istruttivo esempio dell’isola di Pasqua, infatti, il vero guaio rappresentato dal superamento della capacità di carico a causa dell’eccessivo impatto dell’attività umana sull’ambiente e sugli ecosistemi, è che ciò può provocare, attraverso una fitta rete di rapporti causali tra le varie componenti in gioco, un forte impatto anche sulla società e sui suoi vari sistemi sociali, economici e politici. In altre parole, un impatto crescente dell’uomo sui sistemi naturali, oltrepassata una determinata soglia critica, produrrebbe un notevole impatto – con esito potenzialmente catastrofico – anche sui sistemi umani. Qualora la pressione sui sistemi naturali diventasse insostenibile, si avrebbe un lento declino della società, poiché si innescherebbe un processo di instabilità che porta a un deterioramento irregolare ma relativamente continuo della condizione umana; e, se il sistema è del tutto isolato e in balìa di se stesso, la popolazione e la sua crescita tenderebbero a ridursi a valori molto più bassi di quelli massimi pre-crisi.

Poiché non abbiamo ancora colonizzato lo spazio, la Terra rappresenta di fatto un habitat isolato, sebbene di gran lunga più vasto e complesso della remota e sperduta isola di Pasqua. Ora, fino a un paio di secoli fa, la popolazione umana e i relativi consumi erano così limitati che la capacità di carico poteva essere superata giusto su un’isola. Oggi, però, le tre maggiori “correnti” del cambiamento – crescita della popolazione, sviluppo tecnologico e aumento del benessere economico – sono tali che l’impatto dell’attività umana sui sistemi naturali è rilevante sia per valori assoluti sia per ritmo di incremento. Il rischio è dunque che la capacità di carico venga oltrepassata, un giorno probabilmente non troppo lontano, anche a livello planetario, con tutte le conseguenze che ne potrebbero derivare. Estrapolando su scala globale gli esempi precedenti, il timore è che non soltanto singoli paesi sottosviluppati, ma addirittura il mondo nella sua interezza e le sue istituzioni, entrino in gravissima crisi quando gli eccessivi tassi di crescita attuali portino al superamento della capacità di carico della Terra.

L’interazione fra i trend e le soglie critiche dei sistemi socio-politico-economici

Inoltre, capita di rado che gli attuali trend in materia di popolazione-risorse-ambiente agiscano da soli: il più delle volte, interagiscono con le altrettanto preoccupanti tendenze in tema di malattie, migrazioni, armi di distruzione di massa e terrorismo. In altre parole, l’inquinamento dell’ambiente globale ed i livelli intollerabili di consumo delle risorse sono soltanto due variabili di una serie di fattori politici, economici, sociali ed ecologici in grado di generare direttamente disordini o crisi, soffocando lo sviluppo di un paese o di un’intera società. Il crescente impatto dell’uomo sui sistemi umani non sarebbe tuttavia così temibile se questi ultimi non avessero, come i sistemi naturali, delle soglie critiche e instabili – poco o per niente conosciute – che potrebbero venire, prima o poi, raggiunte e oltrepassate a causa degli stress sempre maggiori a cui le strutture socio-politico-economiche sono sottoposte. A rischio, in particolare, risulta l’equilibrio geopolitico tra alcune superpotenze nucleari, come pure quello fra il Nord del mondo, ricco e industrializzato (con l’Europa e gli Stati Uniti in testa), e il Sud povero ed in via di sviluppo.

L’Occidente, in effetti, si rende conto che la sua sicurezza e il suo benessere, per la prima volta, sono messi in forse da minacce non più solo di tipo militare, che provengono soprattutto dal Sud economico del pianeta e risultano difficili da tenere sotto controllo. Esse sono, da una parte, quelle dirette, rivolte agli interessi vitali e all’integrità territoriale delle nostre nazioni: parliamo del rischio di attentati o, addirittura, di attacchi missilistici con armi di distruzione di massa, scatenati da gruppi terroristici internazionali o da Stati-canaglia. Invece, le minacce indirette, non militari, alla sicurezza e al benessere occidentale provenienti dal Sud del mondo sono quelle derivanti dal degrado dell’ambiente globale, dal rapido esaurimento delle risorse planetarie, dall’emergere di nuove malattie e dal rischio di immigrazioni massicce: tutti fenomeni che nascono, di solito, nei paesi in preda all’esplosione demografica, e sono resi ancor più inquietanti dal sorgere di movimenti radicali islamici, dall’allargarsi del divario economico Nord-Sud e dalla sempre più iniqua distribuzione mondiale di risorse primarie e di tecnologie.

Già solo il divario demografico e tecnologico sempre più ampio fra il Nord ricco e il Sud povero del mondo potrebbe portarci sul medio termine – cioè nei prossimi decenni, e forse secoli – allo stesso risultato di una catastrofe ben più spettacolare e repentina. Questo perché gli attuali andamenti in tema di popolazione-ambiente-risorse e di epidemie-armamenti-migrazioni-terrorismo, che derivano in ultima analisi dal suddetto divario, sono sempre più fonte di povertà, malattie, degrado ambientale, conflitti, violenze e imbarbarimento. Al ritmo di crescita degli ultimi anni, quindi, i trend odierni non sono sostenibili a lungo sul nostro pianeta, a causa della crescente pressione esercitata sui sistemi naturali e umani che potrebbe presto superare la soglia di guardia. Si potrebbe, a quel punto, innescare su scala mondiale una spirale molto pericolosa, che porterebbe verso una situazione esplosiva di instabilità internazionale, di grave crisi ecologica e di maggiore conflittualità fra gli stati, alimentando un circolo vizioso assai difficile da interrompere e, dunque, creando una seria minaccia alla sicurezza e al benessere globali.

Il superamento di soglie critiche poco conosciute e studiate potrebbe causare, molto prima di quanto comunemente si pensi, il collasso dei sistemi socio-politico-economici anche nei paesi del Nord ricco e industrializzato del mondo, come raffigurato in questa immagine drammatica creata dall’Autore con l’aiuto dell’intelligenza artificiale.

Si prospettano, in effetti, più che una serie di crisi limitate e in teoria superabili dovute ad un solo fattore – un effetto serra galoppante, una guerra per l’acqua, un attentato terroristico devastante – crisi di più vasta portata causate da una concomitanza di fattori o di eventi sottovalutati. Esse potrebbero dare il via, con l’eventuale crollo dell’ordine sociale che ne seguirebbe soprattutto nei paesi ricchi e industrializzati – più vulnerabili per la sofisticata organizzazione sociale ed i grandi e complessi sistemi economici e tecnologici che li sostengono – a un processo catastrofico in grado di paralizzare il funzionamento delle società più sviluppate e di condurre alla morte migliaia o milioni di persone. Si preannuncia, quindi, un lento deterioramento del tenore di vita attuale nel mondo occidentale, ed è a rischio addirittura la sopravvivenza di una civiltà tecnologica e dell’uomo sulla Terra, dal momento che il decadimento della società potrebbe far crescere, di pari passo, la probabilità che si possa arrivare a un collasso improvviso della civiltà o a una fine dell’umanità nella follia o nella disperazione di uno schianto.

Desidero dedicare questo articolo, non senza una grande nostalgia nonostante il tempo trascorso dalla sua scomparsa, alla memoria dell’amico e maestro Paolo Farinella (1953-2000), che mi incoraggiò ad affrontare tematiche così importanti fin dai tempi dell’Università. Se ho sviluppato una passione per i temi interdisciplinari, lo devo anche a lui. Ho inoltre un enorme debito nei confronti di Luciano Anselmo (già CNR, Pisa) per i preziosi consigli ricevuti nella fase finale di revisione del testo. Naturalmente, la responsabilità di ogni eventuale errore residuo è esclusivamente dell’Autore.

Mario Menichella (fisico e divulgatore) – m.menichella@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Menichella M., “Le 10 grandi tendenze planetarie che più influenzano il nostro futuro”, Fondazione Hume, 3 febbraio 2025.

[2]  Menichella M., “Mondi futuri: Viaggio fra i possibili scenari, Scibooks Edizioni, 2005.

Il libro è liberamente scaricabile dal mio sito web personale (http://www.menichella.it) all’indirizzo: http://www.menichella.it/MONDI%20FUTURI.pdf




Ci aspetta una guerra? – La stagione dell’incertezza

Non sono un esperto di relazioni internazionali, né di questioni militari, né di geo-politica. Sulla guerra in Ucraina non sono intervenuto quasi mai, e quando l’ho fatto è stato più per porre domande ed esprimere dubbi che per suggerire condotte di azione. Ora però, con i venti di guerra che spirano in Europa, è difficile fare gli spettatori. L’Europa ha scelto la strada del riarmo, la gente scende in piazza per l’Europa, ma a quanto pare non per l’Europa che c’è, bensì per il fantasma dell’Europa ideale che ognuno coltiva dentro di sé.

In questo clima non mi stupisce affatto che esplodano le divisioni. Che la destra sia spaccata, e che lo sia pure la sinistra. E nemmeno mi stupiscono le fratture interne al Pd, il maggiore partito della sinistra, incapace di esprimere una posizione unitaria nel Parlamento Europeo. Quello che mi sorprende, invece, al punto da rendermi incredulo, sono le prese di posizione perentorie pro o contro il riarmo. E dicendo questo non mi riferisco ai posizionamenti categorici di alcuni partiti, come Fratelli d’Italia (pro-riarmo) e Cinque Stelle (anti-riarmo), che capisco benissimo, in quanto obbediscono all’imperativo di scegliere, o se preferite al rifiuto dell’ignavia del “né né”. Quello cui mi riferisco, piuttosto, sono le prese di posizione perentorie di analisti e osservatori indipendenti che, a differenza dei politici, non sarebbero tenuti a schierarsi.

Mi colpiscono, in particolare, le due posizioni speculari di chi appare certo che Putin sia intenzionato a invadere i paesi Baltici e altri paesi Nato confinanti con la Russia, e di chi – viceversa – ritiene che Putin si accontenterebbe di annettere i territori già conquistati e della neutralità dell’Ucraina. Mi colpisce, anche, la sicurezza con cui gli opposti “estremisti analitici” descrivono gli effetti del riarmo degli Stati europei, visto dagli uni come unica via per garantire la sicurezza dell’Unione, e dagli altri come mossa pericolosa, che allontana la pace in Ucraina e può rendere più e non meno aggressiva la politica della Russia. E mi colpisce, infine, la completa mancanza di accordo degli uni e degli altri nella ricostruzione della catena di eventi che, dal 2014 a oggi, hanno segnato la guerra civile in Ucraina.

Gli uni e gli altri si muovono in un delirio di onnipotenza cognitiva. Credono di sapere come sono andate davvero le cose. Credono di sapere che cosa passi per la mente di Putin e di Trump. Credono di saper valutare le forze in campo. Credono di poter prevedere le conseguenze delle loro azioni. Credono di conoscere i rischi delle due opzioni (riarmo sì, riarmo no), e quindi di essere in grado di individuare la mossa più utile per l’Europa. In breve: credono che esista una scelta razionale, e di sapere quale sia.

In breve: gli uni e gli altri si muovono come se fosse in corso un gioco di strategia, ed esistesse un metodo per individuare la strategia migliore. Eppure dovrebbero saperlo che, per individuare la strategia più razionale, la teoria dei giochi prevede condizioni precise, nessuna delle quali ricorre oggi. Non ricorre la condizione che i giocatori siano pochi e ben identificati (non sappiamo nemmeno quanti sono: due, tre, quattro, N?). Non ricorre la condizione che esistano regole del gioco e tutti i giocatori le rispettino. Non ricorre la condizione di conoscere le preferenze (funzioni di utilità, nel lessico della teoria dei giochi) dei vari giocatori. Non ricorre la condizione di conoscere, almeno probabilisticamente, le conseguenze delle proprie scelte. In breve: il gioco che si sta giocando è senza regole condivise, è a informazione limitata (incompleta e imperfetta), è affetto da incertezza generalizzata. Si deve scegliere, perché anche non scegliere è una scelta, ma nessuno è in condizione di fare scelte razionali, evidentemente superiori alle scelte alternative. Possiamo solo fare scommesse, basandoci sulle nostre intuizioni, e sui frammenti di conoscenza che riteniamo di possedere.

Per questo sono stupito che tanti ci offrano le loro certezze, come se oggi ne potessero esistere. E non mi scandalizzano né le incertezze del Pd, né le divisioni della piazza, anzi delle piazze della giornata di ieri. È giusto che ognuno manifesti le sue paure e le sue speranze. Ma sarebbe bello che lo facessimo tutti con umiltà, perché nessuno sa che cosa ci riserva il domani, e qual è il modo più ragionevole per assicurarci che un domani ci sia.

[articolo uscito sul Messaggero il 16 marzo 2025]




8 marzo e dintorni – Femminismi

Ormai è chiaro: il concetto di femminismo – sostantivo maschile singolare – è obsoleto. Me ne sono reso conto, da tempo, sentendo donne che la pensano diversamente fra loro su tutto rivendicare orgogliosamente il loro essere femministe.  Ma ne ho avuto la certezza sabato scorso – 8 marzo, festa della donna – partecipando a un convegno femminista presso la fondazione Einaudi di Roma, significativamente intitolato: “I femminismi di fronte alla cultura woke”. Avete letto bene: “i femminismi”, plurale, non le correnti, o le tendenze, o le tradizioni del “femminismo”, singolare.

Insieme a Edoardo Albinati, ero l’unico relatore maschio, ed ero lì – credo – per il mio essermi occupato di cultura woke in alcuni libri recenti (ultimo Il follemente corretto). Ho ascoltato con interesse tutte le relazioni, tenute da relatrici diverse per età, orientamento politico, sensibilità, ma tutte accomunate – mi sembra – soprattutto da due cose: un profondo rispetto delle rispettive posizioni, e il rifiuto del settarismo del cosiddetto transfemminismo, o femminismo intersezionale.

Introdotto e concluso rispettivamente da Lucetta Scaraffia e Paola Concia, il convegno  ha offerto spunti di grande interesse, ma la relazione che più mi ha colpito è quella tenuta da Claudia Mancina. Il titolo era: “Il sette ottobre e le donne ebree: il femminismo che si volta dall’altra parte”. Il riferimento era, chiaramente, alla manifestazione, di oltre un anno fa, in cui le femministe di Non Una Di Meno non solo – nella piattaforma politica – si erano guardate dal menzionare le donne vittima dell’eccidio di Hamas, ma avevano impedito di manifestare a una ragazza che provava a ricordare quello scempio.

Ne è venuta fuori la migliore spiegazione che mi sia capitato di ascoltare di come funzioni il femminismo intersezionale. Nato nel 1989 da un’idea semplice e del tutto condivisibile della giurista Kimberlé Crenshaw, il femminismo intersezionale (o transfemminismo) ne ha fortemente tradito l’ispirazione originaria, e oggi si caratterizza per tre tratti fondamentali. Primo, privilegia i diritti delle persone transessuali rispetto a quelli delle persone omosessuali (gay e lesbiche). Secondo, conduce una polemica durissima nei confronti delle femministe radicali, o femministe della differenza, accusate di omofobia e bollate con l’etichetta TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminist) per la loro difesa dei diritti basati sul sesso biologico. Terzo, pretende di definire la condizione di chiunque, e in particolare delle donne, specificando quale intersezione di condizioni di oppressione lo caratterizza. Al top la donna nera, lesbica o transessuale, povera, nata in un paese del terzo mondo, meglio se sfruttato e colonizzato. Al fondo la donna bianca, eterosessuale, benestante, nata in un paese occidentale colonialista, o con un passato di potenza coloniale.

È chiaro che, in questo schema, una volta identificato Israele come il paese che sfrutta i palestinesi e ha colonizzato le loro terre, la maggior parte delle ragazze rapite al rave party del 7 ottobre non si trovano all’intersezione di un numero sufficiente di condizioni di oppressione. Anzi, a parte il loro essere donne, non possono vantarne nemmeno una.

Qui però Claudia Mancina ha fatto una mossa cruciale, suggerendo una lettura dell’intersezionalismo secondo me assolutamente rigorosa ma mai messa pienamente a fuoco, nemmeno dai suoi critici più severi. Quando si dice che la donna bianca-occidentale-benestante-israeliana non ha abbastanza condizioni di oppressione per meritare una tutela, si omette il vero retro-pensiero tipico delle dottrine woke, e cioè che la donna bianca-occidentale-benestante-israeliana è essa stessa, in qualche modo, colpevole di oppressione, in quanto co-responsabile dei misfatti di cui bianchi, occidentali, ricchi, ebrei sono o sono stati autori.

Nella visione paranoica della cultura woke, e segnatamente nella cosiddetta Critical Race Theory, la responsabilità non è semplicemente personale, ma anche collettiva. E non è limitata al presente, ma si allarga pure al passato. Una donna può trovarsi così a dover rendere conto non solo di ciò che fa personalmente, ma di quello che fanno gli appartenenti alla categoria cui lei appartiene, e addirittura di quello che hanno fatto in passato. È precisamente per questo motivo che le donne israeliane vittime di Hamas agli occhi delle femministe di Non Una Di Meno non meritano neanche un briciolo di solidarietà: il loro essere donne oppresse è sovrastato dalle colpe delle categorie di cui si trovano all’intersezione.

Ecco perché dicevo all’inizio che il concetto di “femminismo” è obsoleto. Mentre noi discutevamo con curiosità reciproca i vari femminismi possibili, nelle strade di Roma (e di altre città italiane) le transfemministe di Non Una Di Meno, le stesse che dopo il 7 ottobre non avevano voluto ricordare le donne israeliane violentate da Hamas, bruciavano immagini di Giorgia Meloni e Von der Leyen, esibivano impronte di vernice rossa sulle immagini di ministri e politici (compresa Elly Schlein), attaccavano il disegno di legge sul femminicidio, rifiutavano ogni dialogo con le istituzioni. A conferma del fatto, ben evocato dal titolo del nostro incontro, che ormai il femminismo come tale non esiste più: al massimo esistono i femminismi. E di almeno uno è il caso di chiedersi: ma è ancora femminismo se alle donne israeliane uccise e violentate da Hamas si nega ogni compassione, rispetto, e persino memoria?

[articolo uscito sulla Ragione l’11 marzo 2025]




A proposito dell’agguato mediatico a Zelensky – La politica come spettacolo

Fra le accuse che più frequentemente, e più impietosamente, vengono rivolte ai leader europei, vi è quella di non aver mai preso un’iniziativa diplomatica per fare cessare la guerra fra Ucraina e Federazione Russa. Dal primo giorno della guerra, l’unica preoccupazione dell’Europa è stata di respingere l’invasione russa, ristabilendo la legalità internazionale (ossia i confini precedenti allo scoppio della guerra). Di qui l’assoluta latitanza della diplomazia: l’obiettivo di punire Putin ha sempre sovrastato quello di fermarlo.

Ora l’agguato teso da Trump a Zelensky, con il plateale litigio davanti alla stampa e alle tv, ha fatto ulteriormente precipitare le cose, mettendo fuori gioco ogni possibile diplomazia e ricerca di un ragionevole compromesso.

Ok, questo è successo, e si capisce perfettamente che tutti i maggiori editorialisti esternino il loro sgomento per questa rottura, per il cattivo gusto di Trump e Vance, per la violazione plateale delle regole minime dell’ospitalità, dell’educazione, del rispetto reciproco. Insomma, quella che è andata in onda nello Studio Ovale sarebbe una inaccettabile, orribile, disgustosa spettacolarizzazione della politica, che rompe – per la prima volta nella storia – convenzioni e preziose ipocrisie da tempo vigenti nei rapporti internazionali, tanto più quando coinvolgono questioni militari e strategiche. Non a caso le espressioni più usate per descrivere quel che è successo sono “senza precedenti” e “storico”. Come a dire: è inaudito, non era mai successo, è un punto di non ritorno.

In un certo senso è proprio così. Mentre leggevo questi commenti, però, in me è riaffiorato un ricordo. Il ricordo di quel che pensavo e provavo nei primi mesi della guerra. Ebbene, io ricordo che ero semplicemente sbalordito. E, non intendendomi di questioni di guerra, ho sempre pensato che fossi io a non capire.

Che cosa mi sbalordiva?

Mi sbalordiva, innanzitutto, che nel giro di pochi giorni un normale capo di stato fosse stato trasformato dalle autorità europee in una autentica star mediatica. Collegamenti in diretta con i parlamenti, ovazioni delle assemblee collegate, partecipazioni ad incontri che normalmente si svolgono a parte chiuse fra pochi potenti, persino un surreale dibattitto sulla necessità che Zelensky leggesse un messaggio al Festival di Sanremo. Tutto ciò mi sembrava folle, e incompatibile con l’eventuale aspirazione dell’Europa a svolgere un ruolo di mediazione e moderazione. Come era possibile, mi chiedevo, che la politica europea sulla guerra si formasse non nelle segrete stanze della diplomazia, ma attraverso eventi mediatici e spettacolari? Come avrebbero mai potuto, i parlamenti e i governi europei, dibattere serenamente e prendere decisioni ponderate, se tutto veniva discusso enfaticamente, in presenza di una parte in causa, e con toni da comizio?

Insomma, la prima cosa che voglio dire è che la spettacolarizzazione delle questioni internazionali l’abbiamo iniziata noi europei, non certo gli Stati Uniti di Trump.

Ma c’è anche una seconda cosa che mi ha sempre lasciato interdetto, anche qui non capendo se ci fosse qualcosa che mi sfuggiva. Come mai il tema della guerra è sempre stato affrontato, in Europa ma anche negli Stati Uniti di Biden, come un tema etico? Ovvero come un episodio dell’eterna lotta del Bene contro il Male? Come mai questa ossessiva, martellante e acritica retorica dell’aggressore e dell’aggredito? È vero che la eticizzazione del conflitto era il presupposto logico che rendeva possibile inscenare lo spettacolo della santificazione dell’eroe Zelensky, ma come non vedere che nel conflitto ucraino, come in innumerevoli altri conflitti condotti in nome del Bene, nessuna delle parti in conflitto era esente da responsabilità e colpe (nel caso di Zelensky,  per fare un solo esempio, il mancato rispetto degli accordi di Minsk)?

Sul conflitto ucraino, come su quello israeliano, si possono avere, ovviamente, le opinioni più diverse. Nessuno, fra noi comuni cittadini, è adeguatamente informato, e alla fine a guidarci sono l’istinto politico e le nostre passioni. Ma, tornando all’Europa, quel che mi resta incomprensibile è come l’Europa possa dolersi di non avere un ruolo al tavolo della pace, avendo sempre e senza esitazioni parteggiato per una delle parti in campo, e avendolo fatto nel modo più plateale e spettacolare possibile. Se vuoi fare l’arbitro, non puoi giocare tutta la partita con una delle due squadre in campo. Quello che a noi europei appare solo come un tradimento (il brusco voltafaccia di Trump) è anche un modo di indossare la maglietta dell’arbitro. Una maglietta che, se tre anni fa non avessimo sconsideratamente inaugurato la politica-spettacolo con la star Zelensky, oggi potremmo provare a indossare noi stessi.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 marzo]




La frattura tra ragione e realtà 11 / Nemica dell’umanità?

«Nemica dell’umanità»: così Netanyahu ha definito la Corte Penale Internazionale dopo il mandato di arresto contro di lui. L’affermazione può sembrare eccessiva, ma in realtà il vero errore di Netanyahu è stato di parlarne solo con riferimento al suo caso. Se invece consideriamo la situazione globalmente, sembra difficile negare che la Corte è davvero pericolosa per gli equilibri internazionali. E non per quello che fa, ma per quello che è. L’unica soluzione è abolirla.

Quando la Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato di arresto nei confronti di Putin mi ero ripromesso di scrivere un articolo sul grave problema che essa rappresenta e di cui ben pochi sembrano essere consapevoli, ma poi, preso da altri impegni, ho lasciato stare. Ci ho pensato di nuovo quando la CPI ha emesso un mandato di arresto contro Netanyahu, ma ho ancora rimandato. Poi, proprio quando avevo finalmente deciso di affrontare la questione, la realtà stessa si è incaricata di farlo al posto mio attraverso il caso Almasri. Eppure, nonostante tutto quel che è successo, ancora una volta ben pochi sembrano aver colto il vero problema.

A scanso di equivoci, chiariamo subito un punto: non c’è nessun dubbio (e sottolineo nessuno) che in questo caso la CPI abbia sbagliato e che quindi sbagli anche l’opposizione ad accusare il governo italiano di aver violato la legge. Se era la CPI che doveva informarlo, infatti, è irrilevante che il governo fosse giunto a conoscenza della cosa per altre vie, proprio come una prova ottenuta in modo non conforme alla legge non può essere usata in un processo anche se tutti la conoscono. Nel diritto la forma è sostanza. E così deve essere, anche se talvolta ciò può causare ingiustizie, perché è l’unico modo di evitare ingiustizie molto peggiori.

Cionondimeno, qualcosa di vero c’è, nelle critiche dell’opposizione (almeno di quella più moderata e responsabile, come Renzi e Calenda): è evidente a tutti, infatti, che la vera motivazione della frettolosa espulsione di Almasri (che non è stato liberato dal governo, ma che il governo poteva trattenere in attesa di chiarire la situazione) è stata di natura politica.

L’errore formale commesso dalla CPI ha permesso al governo di far valere la ragion di Stato senza doverlo ammettere esplicitamente, in un paese come il nostro che non lo accetta mai facilmente, come ha ben spiegato Luca Ricolfi (https://www.fondazionehume.it/politica/a-proposito-del-caso-almasri-ipocrisia/). Ma così si è perso di vista il vero problema, che non è di natura giuridica, ma politica. E che sarebbe ugualmente esistito (anzi, sarebbe stato ancor più serio) se la richiesta di arresto di Almasri fosse stata presentata in modo corretto.

Come si può infatti ritenere ragionevole la pretesa della CPI che l’Italia si intrometta negli affari interni di un paese straniero fino al punto di arrestare il capo della sua polizia, per crimini certo gravissimi, ma che non ci riguardano, essendo stati commessi fuori dall’Italia e a danno di cittadini non italiani?

A rendere la cosa ancor più paradossale c’è il fatto che in genere chi sostiene la legittimità di questo comportamento è contrario all’idea di “esportare la democrazia” con la forza. Ma non mi risulta che la polizia, quando arresta qualcuno, si presenti disarmata. Pertanto, per un paese come la Libia, che non riconosce l’autorità della CPI, questo sarebbe stato un uso illegittimo della forza contro un alto esponente delle sue istituzioni: cioè, un atto di guerra.

Se non ne siete convinti, provate a immaginare che un paese straniero arresti il capo della nostra polizia per crimini magari anche veri, ma comunque non commessi in quel paese né a danno dei suoi cittadini, solo per eseguire l’ordine di un tribunale internazionale che l’Italia non riconosce e che è invece sostenuto da paesi a noi ostili, tipo la Russia, l’Iran, la Cina o la Corea del Nord. Sareste disposti ad accettarlo?

Se la vostra risposta è no, allora dovreste cominciare a chiedervi perché mai siete invece disposti ad accettare, magari anche con entusiasmo, che la stessa identica cosa venga fatta dall’Italia su richiesta della CPI.

Forse qualcuno obietterà che Almasri è “palesemente” un criminale della peggiore specie. Non c’è dubbio. Ma questo è un giudizio politico e morale, non giuridico, perché Almasri non è ancora stato condannato e quindi per la legge al momento è innocente. Inoltre, se accettiamo che ciò sia lecito per Almasri, poi dovremo accettarlo per chiunque, anche per persone che non sono così “palesemente” colpevoli, compresi noi stessi. E ciò, lungi dal favorire la pace nel mondo, rischia invece di comprometterla gravemente.

Cosa succederebbe, per esempio, se la CPI accusasse il nostro governo di crimini contro l’umanità per le sue politiche contro l’immigrazione oppure di complicità nei crimini di guerra commessi da qualche paese con cui l’Italia intrattiene rapporti di collaborazione?

Non si tratta di ipotesi campate in aria. Accuse molto simili sono già state mosse, per esempio, dal procuratore di Roma Francesco Lo Voi, prima nell’incredibile indagine contro Salvini, accusato di sequestro di persona per la vicenda della Open Arms, poi nell’altra, ancor più incredibile (e ai limiti della vera e propria eversione), contro la premier Meloni, i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Mantovano, accusati di favoreggiamento nei confronti di Almasri. Di conseguenza, nulla ci garantisce che un domani la CPI non decida di adottare la stessa “interpretazione creativa” delle leggi, muovendo accuse analoghe alle autorità italiane.

In tal caso, la nostra magistratura sarebbe tenuta ad arrestare i nostri governanti e a mandarli all’Aja, cioè in un paese straniero (ché tale è l’Olanda, giacché la UE non è uno Stato federale, ma solo un federazione di Stati), per essere giudicati da un gruppo di magistrati anch’essi tutti stranieri, che poco o nulla conoscono della situazione italiana e che, diversamente da loro, non sono stati eletti da nessuno, ma solo nominati dai governi di ben 124 paesi, buona parte dei quali in fatto di diritto dall’Italia hanno solo da imparare, quando non sono addirittura retti da feroci dittature (basti dire che il primo in ordine alfabetico è l’Afghanistan, mentre il penultimo è il Venezuela).

E non basta. Tutto ciò, infatti, potrebbe accadere non solo all’Italia, ma a qualsiasi altro paese, compresi i nostri alleati. In parte è già successo con Netanyahu, che, a causa del mandato di arresto contro di lui, non può più entrare in nessun paese della UE. Ma spingiamoci ancora oltre e proviamo a immaginare che la CPI emetta un mandato di arresto contro Trump, per esempio per complicità nei (presunti) crimini di guerra dello stesso Netanyahu.

Se il veto all’ingresso del premier israeliano nei paesi europei può ancora essere tollerato, quello al presidente degli Stati Uniti (che tra l’altro non riconoscono la CPI) provocherebbe invece una gravissima crisi internazionale. E cosa succederebbe se Trump decidesse di recarsi lo stesso in Europa? Davvero qualcuno pensa che dovremmo vietarglielo? O addirittura abbattere l’Air Force One? Oppure farlo atterrare e poi arrestare Trump? C’è qualcuno che si rende conto che fare questo significherebbe di fatto entrare in guerra con gli Stati Uniti? Apparentemente no…

Davvero non capisco come una qualsiasi persona sana di mente possa tollerare che un pugno di magistrati che non rappresentano nessuno se non sé stessi e non rispondono a nessuno se non a sé stessi possa influenzare fino a questo punto le relazioni tra gli Stati. E perché sia chiaro che la mia critica non nasce da una posizione di parte, faccio presente che, come accennavo all’inizio, il primo impulso a scrivere un articolo contro la CPI mi è venuto quando essa ha ordinato l’arresto di Putin.

Ora, chiunque abbia la bontà di leggermi sa benissimo che io Putin più che in galera vorrei vederlo morto e che ho sempre sostenuto che fare la pace con lui sull’Ucraina senza prima averlo chiaramente sconfitto sul campo sarebbe pericolosissimo, perché servirebbe solo a permettergli di riprendere fiato e riorganizzarsi, per poi, fra qualche anno, scatenare una nuova guerra da una posizione di maggiore forza (https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/).

Tuttavia, è ancor più pericoloso permettere che decisioni del genere, che sono di natura strettamente politica, possano essere determinate o anche solo influenzate dalla magistratura.

Se i legittimi rappresentanti dei popoli occidentali, cioè i rispettivi parlamenti e governi, decidono di fare la pace con Putin, allora devono poterla fare, senza che un mandato di arresto a suo carico complichi ulteriormente una situazione già di per sé complicatissima. E chi, come me, considera invece nefasta questa trattativa ha ovviamente tutto il diritto di avversarla, ma agendo attraverso gli strumenti della politica e non per via giudiziaria.

Perché allora la CPI, nonostante la sua evidente pericolosità per gli equilibri internazionali, gode di un consenso così ampio?

In parte si tratta di un atteggiamento ideologico, che per sua natura ignora la realtà, ma per un’altra parte, forse anche più ampia, credo che ciò dipenda dalla convinzione che la Corte non si spingerà mai tanto oltre da produrre questi scenari da incubo. Purtroppo, però, questo modo di pensare è erroneo, sia in teoria che in pratica.

In linea di principio, infatti, è sempre sbagliato creare un’istituzione potenzialmente pericolosa confidando che la saggezza di chi la dovrà gestire le impedirà di fare troppi danni. Al contrario, un principio fondamentale dello Stato di diritto è che le istituzioni dovrebbero essere (per quanto possibile) “a prova di cretino”, cioè costruite pensando non al miglior scenario possibile, ma al peggiore, in modo da minimizzare i danni anche se quest’ultimo si dovesse realizzare. Ora, creare un potere giudiziario internazionale senza prevedere nessun organo di controllo che possa realmente limitarlo (l’Assemblea degli Stati Parte fa ridere i polli) è ben più che pericoloso: è un vero e proprio abominio logico e giuridico.

Inoltre, in linea di fatto, tale ottimistica convinzione sulla CPI poteva forse essere giustificata fino a qualche tempo fa, ma oggi non più. Non solo, infatti, con gli ultimi tre mandati di arresto la “linea rossa” è stata chiaramente superata, ma la cosa più preoccupante è che c’è un’evidente “escalation” di pericolosità.

È vero che il bersaglio più grosso era il primo, Putin, ma con lui i rapporti erano già al minimo storico e quindi non potevano peggiorare più di tanto. Israele, invece, è un paese amico e quindi il mandato contro Netanyahu può causare danni molto più gravi. Quello contro Almasri, infine, i danni li sta già causando, avendo creato nel nostro paese un clima quasi da guerra civile. E danni ancor peggiori potrebbe causarli se dovesse portarci a uno scontro aperto con la CPI, come è purtroppo perfettamente possibile, anche se le voci di un’indagine sul nostro governo, messe in giro da alcuni irresponsabili esponenti del PD, sono state (per ora…) smentite.

D’altronde, ciò non deve stupire. La CPI, infatti, non è piovuta dal cielo, ma rappresenta solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più ampio e preoccupante: la crescente tendenza a giuridicizzare la politica, alterando l’equilibrio dei poteri tipico degli Stati democratici a favore di quello giudiziario, cosa ben più radicale e profonde della pur già deleteria politicizzazione della magistratura (ne riparleremo presto).

A livello internazionale, poi, è ancor peggio, perché qui un potere esecutivo e un potere legislativo semplicemente non esistono (a meno che, con sovrano sprezzo del ridicolo, non si voglia considerare tali il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale dell’ONU). E poiché ogni vuoto tende ad essere riempito, col tempo la CPI, unico vero potere sulla scena, tenderà non soltanto a invadere gli ambiti di competenza degli altri (inesistenti) poteri, ma a occuparli completamente e stabilmente, trasformandosi così in un organo totalizzante e perciò tendenzialmente totalitario.

Quando venne emesso il mandato di arresto contro di lui per crimini di guerra, Netanyahu disse che la CPI doveva essere considerata «nemica dell’umanità» perché si trattava di un atto antisemita. Aveva ragione, ma non per questo motivo, benché indubbiamente ci sia un pizzico di antisemitismo (e forse anche più di un pizzico) negli attuali abnormi attacchi contro lo Stato di Israele e il suo governo, per criticabile che sia il suo operato (anche di ciò riparleremo presto).

Ma la Corte Penale Internazionale non è pericolosa per questo o quell’altro suo provvedimento specifico: è pericolosa per la sua stessa natura e quindi per il fatto stesso di esistere.

Così stando le cose, l’unico modo di evitare che in futuro possa destabilizzare ancor più gravemente i già fragili equilibri internazionali è abolirla.

È soprattutto per questo che è auspicabile che il nostro governo la smetta di nascondersi dietro il dito dei formalismi giuridici e ponga apertamente la vera questione (politica) sul tavolo della UE: con le buone se sarà possibile, con le cattive se sarà necessario.