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Salvate il soldato Schlein

17 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Quando, poco meno di un anno fa, Elly Schlein espugnò il Pd, una delle prime cose che disse fu che il male era anche dentro il Pd, che c’era molto da fare dentro il partito, e che non voleva più vedere né “stranezze nei tesseramenti”, né “cacicchi” né “capibastone”.

Non so se fosse consapevole di quanto antiche fossero quelle pratiche nel mondo post-comunista, o se ricordasse che a evocare per la prima volta l’espressione “cacicchi” per stigmatizzare le correnti del partito era stato – un quarto di secolo fa – nientemeno che Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, il partito erede del Partito Comunista, e secondo anello della catena Pci-Pds-Ds-Pd.

Né so se la neo-segretaria si rendesse conto che, ai membri del suo partito, quelle parole avrebbero potuto ricordare quelle pronunciate da Renzi pochi anni fa, dopo aver lasciato il Pd: “il mio errore più grande è stato non ribaltare il partito. Non entrarci con il lanciafiamme come ci eravamo detti. In alcuni casi il Pd ha funzionato, in altre zone è rimasto un partito di correnti. Ritengo che le correnti siano il male del partito”.

Soprattutto, non so se Elly Schlein, quando ebbe a pronunciare quelle parole di rinnovamento e di speranza, avesse contezza dell’enormità dell’impresa che si accingeva a compiere. Perché, dieci mesi dopo le fatidiche parole contro i cacicchi, l’impressione è che la guerra la stiano vincendo proprio loro, i signori delle tessere, i notabili locali, ma soprattutto i capi delle correnti.

E non sto pensando solo alle guerre sulle candidature, per le elezioni Regionali come per le Europee. O agli episodi che hanno visto i membri del Pd dividersi (cioè votare diverso) sia in Europa, sia nel Parlamento italiano: è successo nei giorni scorsi sulle armi all’Ucraina, ed è successo sull’abolizione del reato di abuso di ufficio.

Quello che più mi colpisce non è l’incapacità della segretaria di imporre a tutti la disciplina di partito, come accadeva ieri nel Pci e accade oggi nel centro-destra, ma è la sua incapacità di sciogliere i nodi politici di fondo. Hai un bel dire che è bello stare in un partito in cui si discute, o trastullarsi sulle pochissime cose su cui non c’è dissenso (salario minimo legale e più soldi alla sanità), il vero problema è tutto il resto. Sulle cose che contano, il Pd è diviso fra quanti la pensano come i Cinque Stelle, e quanti la pensano – se non come Renzi e Calenda – come il Pd prima del governo giallo-rosso.

Quali sono queste cose che contano?

Sono almeno cinque: l’atlantismo e la guerra; l’assistenzialismo e il reddito di cittadinanza; la riforma della giustizia; il mercato del lavoro; la patrimoniale e le tasse.

Su questi temi la segretaria, finora, non ha ancora saputo assumere una posizione chiara e netta. Detto in termini classici, non ha saputo scegliere fra massimalismo e riformismo. O forse sarebbe più esatto dire: in cuor suo ha scelto, ma non ha la forza di esplicitare e imporre la sua linea al partito.

È anche questo, a mio parere, il motivo per cui i cacicchi (e le cacicche) prosperano, e  della guerra contro le correnti non si scorge traccia. Se non scegli, se non dici per andare dove invochi il diritto di decidere, non fai che alimentare il brodo in cui prosperano le fazioni, le cordate, le piccole alleanze di potere.

È un peccato, soldato Schlein. Si può preferire la tua linea o quella di Bonaccini, ma era sano che chi – con le sue idee – era salito sul ponte di comando, poi quelle medesime idee avesse la forza, la volontà e la possibilità di farle vivere. Ed è insano che, chi la battaglia delle idee l’aveva vinta, debba restare intrappolato nella palude, vittima delle imboscate dei suoi stessi commilitoni.

Perché di una cosa si può stare sicuri: se non osa combattere la battaglia per le proprie idee, e rinuncia a debellare le correnti, alla prima difficoltà i cacicchi del suo partito faranno quello che hanno fatto con tutti i segretari. E non ci sarà nessun commando a salvare il soldato Elly (o la soldata Elly?).

Italia Oggi intervista Luca Ricolfi

28 Dicembre 2023 - di fondazioneHume

In primo pianoPolitica

Professore, in Francia, grazie ai voti di Rn e senza la sinistra, è stata approvata una legge che inasprisce le misure contro l’immigrazione irregolare e rende più facile anche revocare i permessi di soggiorno. Macron è più a destra del governo di destra italiano?

Per quel che capisco, il punto è che Macron non dispone di una maggioranza autonoma, e quindi è in balia delle opposizioni, di destra e di sinistra. Ma forse la riflessione che la vicenda di questa legge suggerisce è anche che abbiamo un po’ troppo idealizzato il sistema francese, e che dobbiamo compiacerci di non averlo preso come modello per la riforma del nostro sistema. Tra l’altro, trovo stupefacente che un primo ministro – in questo caso la semisconosciuta Mme Élisabeth Borne – sia costretta a varare una legge dicendo che probabilmente è incostituzionale. Almeno, in Italia le accuse di incostituzionalità provengono da chi le leggi non le ha votate…

Quanto alla sostanza del problema, credo che la chiave sia molto semplice: fra 6 mesi si vota per il Parlamento europeo, e i politici stanno capendo che l’opinione pubblica – oggi più che mai – vede gli immigrati come un problema, più che come una risorsa.

Non è strano per i politici di destra e centro-destra, ma è una novità per quelli di sinistra, che sono spaccati fra chi comincia a capire il nesso fra immigrazione e criminalità e chi resta abbarbicato alle vecchie parole d’ordine cosmopolite.

Perché l’immigrazione irregolare è diventata tema così sentito anche nell’elettorato di sinistra?

Non è una novità assoluta, il problema è sentito a destra almeno da 30 anni. Quel che è nuovo, forse, è che ormai anche i progressisti si rendono conto che c’è un conflitto insanabile fra imperativo dell’accoglienza e sicurezza dei cittadini. In Italia è chiarissimo: gli immigrati sono meno del 9% della popolazione, ma commettono circa il 40% dei reati, compresi quelli più odiosi, come le aggressioni in strada e gli stupri. E, a giudicare dagli ultimi dati ufficiali e consolidati (fermi al 2022), dopo il Covid i minorenni stranieri stanno dando un apporto sempre maggiore alla criminalità.

Alcuni le risponderebbero che se ci sono più minori stranieri che delinquono rispetto agli italiani è perché non siamo stati capaci di fare abbastanza integrazione. Siamo noi a essere inadeguati.

Certo, in astratto è così. Ma vale in tutti i campi. C’è sempre qualcosa che la società avrebbe potuto fare per evitare centinaia di emergenze sociali. Avremmo potuto mettere più medici e infermieri negli ospedali, più insegnanti nelle scuole, più alloggi popolari nelle periferie, più badanti nelle case, più psicologi alle calcagna di ogni sbandato, più cultura e meno violenza/sesso/droga nei media, più sport e meno telefonini, più concerti e meno trapper, più scienziati e meno influencer, ma la domanda è: con quali risorse, con quali priorità, con quali restrizioni alla nostra libertà?

Più specificamente: la precondizione di un’accoglienza riuscita è la possibilità di regolare il flusso degli ingressi sulle risorse disponibili per accoglienza e integrazione. È illogico teorizzare il diritto di entrare liberamente in Europa, e poi stupirsi se le condizioni di vita di una parte degli immigrati non sono degne di un paese civile.

L’accoglienza diffusa dei migranti resta uno dei cavalli di battaglia del Pd di Elly Schlein. Quanto vale elettoralmente questa posizione?

A occhio, direi che vale un -10% di consensi, che poi è precisamente quel che manca alla sinistra per diventare maggioranza.

Romano Prodi è tornato a evocare la necessità di un federatore per il campo del csx. Conte ha subito replicato che forse servirà per le correnti del Pd. Che cosa si giocano i due partiti alle prossime Europee?

Come partiti, non si giocano molto. Avranno comunque il 35% dei seggi europei destinati all’Italia, e difficilmente si assisterà a un trionfo di Schlein su Conte, o di Conte su Schlein. La vera posta in gioco dell’appuntamento europeo, a mio parere, non è il destino di Pd e Cinque Stelle, ma il colore della prossima Commissione, che potrebbe – per la prima volta – escludere o marginalizzare i socialisti. Quanto a Conte e Schlein, ho l’impressione che non saranno né lei né lui a federare il centro-sinistra alle prossime elezioni. Mi aspetto che, di qui al 2027 emergano altre figure, un po’ meno scialbe.

Certo, è anche possibile che a cavare le castagne dal fuoco dello schieramento progressista non sia l’apparizione di un federatore (o di una federatrice), ma che ci pensi il governo in carica, che potrebbe inciampare in qualche guaio così grosso da far rimpiangere il Pd e i Cinque Stelle. Ma se questo non dovesse accadere, ai progressisti resterebbe il problema di trovare un leader o una leader in grado di reggere il confronto con Giorgia Meloni. E secondo me è più verosimile che un leader nuovo e carismatico emerga dal mondo Cinque Stelle piuttosto che dalla nomenklatura del Pd.

Quindi lei pensa a uno schieramento di sinistra-centro in cui a federare sia il M5s?

No, penso che anche la mia ipotesi sia improbabile, ma non così improbabile come l’ipotesi che dai 20 capicorrente del Pd miracolosamente salti fuori un leader capace di controllare il partito e imporre la propria guida anche ai Cinque Stelle.

Sta formulando una specie di endorsement dei Cinque Stelle?

Per niente. La mia opinione sui Cinque Stelle resta negativa, se non altro perché hanno scassato i conti pubblici (se Giorgia Meloni dovrà remare tutta la Legislatura per tentare di varare qualche straccio di riforma economico-sociale, è solo perché i Cinque Stelle hanno devastato la finanza pubblica).

In realtà la mia apertura – possiamo chiamarla così? – verso i Cinque Stelle nasce da una considerazione sociologica: il problema del centro-sinistra è recuperare i ceti popolari, e i Cinque Stelle sono l’unica forza politica (nominalmente) di sinistra ancora in grado di attirarne i voti. Il compito storico del Pd è tenersi i voti dei ricchi e dei “ceti medi riflessivi”, cosa per la quale Elly Schlein è fin troppo attrezzata con le sue idee sul green, la transizione energetica, i diritti LGBTQIA+ (ho dimenticato qualche lettera?). Il compito dei Cinque Stelle è riportare a sinistra nuovi segmenti dell’elettorato popolare.

Sarebbe la fine della centralità del Pd…con quali effetti sul csx?

Malefici, se i Cinque Stelle non riusciranno a liberarsi del qualunquismo e della superficialità che si portano dietro dall’origine. Benefici, se la cultura politica dei Cinque Stelle evolvesse, e dovesse riuscire a sinistra quel che, negli ultimi 10 anni, Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia hanno fatto a destra: convogliare verso di sé una parte dei voti popolari così cospicua da rompere l’egemonia del partito più grande (Forza Italia) e del leader più ingombrante (Berlusconi).

A più di un anno dall’insediamento del governo Meloni, come è cambiata la politica italiana? Le esperienze dei governi tecnici sono alle spalle?

Direi proprio di sì. Se si farà, la riforma presidenzialista renderà impossibile la formazione di “governi del Presidente” (che poi questo sia un bene, è tutto da vedere, anche se è difficile negare che è stato proprio un certo abuso del potere presidenziale a legittimare il cambio di assetto istituzionale). Quanto ai mutamenti della politica italiana nell’era Meloni, direi che sono essenzialmente due, strettamente interdipendenti: poche riforme economico-sociali (perché le risorse sono state prosciugate dallo sciagurato bonus del 110%), e conseguente spostamento dell’asse dell’azione di governo sul teatro internazionale. Dove, a quanto pare, Meloni ha una marcia in più.

Della stoltezza – La maledizione del Pd

13 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Ci sono parole che si inabissano, anche nel breve corso di una vita. Quand’ero ragazzo, tutte le settimane compravo “Il monello”, uno dei giornalini per ragazzi degli anni ’60, come “L’intrepido”, o “Nembo Kid”. Oggi nessuno usa più la parola monello. Perché le monellate sono derubricate a ordinaria amministrazione, e per essere trattati da trasgressori bisogna essere almeno teppisti, bulli, o membri di mini-gang. Così nessuno usa più parole come piroscafo, réclame, pudico, o bestemmie come “crìbbio!”, alterazione eufemistica di Cristo!

Poco male, si dirà, la lingua trattiene quel che serve. C’è un caso, però, nel quale il setaccio della lingua non ha funzionato a dovere, perché la parola scomparsa servirebbe eccome. È il caso dell’aggettivo ‘stolto’ e del sostantivo ‘stoltezza’. Quante volte lo abbiamo incontrato nelle versioni di latino… E quante volte siamo stati avvertiti del pericolo. La cultura dell’antica Roma, ma anche la Bibbia, sono piene di riferimenti (e di ammonimenti) in materia di stoltezza. La figura dello stolto assume un ruolo centrale nella definizione dei principi morali, della condotta di vita, della via della saggezza e della virtù.

La stoltezza è diversa dalla stupidità, profondamente diversa. Nessuna delle due ha un contrario perfetto, ma se dobbiamo assegnarne uno potremmo dire che il contrario di stupido è intelligente, il contrario di stolto è saggio. O, se vogliamo, la stupidità è un particolare deficit di intelligenza, la stoltezza è un particolare deficit di saggezza. Più esattamente: lo stolto è chi agisce senza vedere le conseguenze del proprio agire che potranno essere negative per lui stesso. La stoltezza, in altre parole, è una mancanza  di lungimiranza che ha effetti autolesionistici.

Perché è un peccato che la parola stoltezza sia scomparsa dal nostro vocabolario? È semplice: perché la stoltezza non è scomparsa dal nostro mondo. Ci sono situazioni e comportamenti che sarebbero meglio compresi, e forse corretti, se sapessimo ancora maneggiare la categoria della stoltezza.

Esempi?

Sono innumerevoli. Il genitore che, per essere esonerato dalla fatica di interagire con i pargoli, li dota di smartphone fin dai 2 anni, causando dipendenza, danni cerebrali, e innumerevoli problemi di relazione quando sarà più grande. Lo studente che, durante la carriera scolastica o universitaria, fa il minimo necessario per essere promosso, salvo poi scoprire che le sue (in-)competenze non sono apprezzate sul mercato del lavoro. Il datore di lavoro che spreme all’inverosimile un dipendente esemplare, salvo perderlo quando quest’ultimo trova un posto migliore.

E poi c’è il Pd, o meglio la sua dirigenza. Nessuna categoria della scienza politica coglie l’essenza di questo partito meglio di quella della stoltezza. Perché, negli ultimi tempi, il nucleo dell’azione politica del Pd è stato: attaccare gli avversari in un modo che li rafforza, e al tempo stesso indebolisce il partito.

È stato così con Enrico Letta e la campagna antifascista che ha preceduto le elezioni del 25 settembre 2022, una campagna così surreale che ha finito per accelerare la corsa dei “fascisti” di Fratelli d’Italia. Ma è stato così anche con le mosse più recenti di Elly Schlein. Attaccare il governo perché non ferma gli sbarchi, come se questo potesse portare consensi a un partito che, in nome dell’accoglienza, ne vorrebbe ancora di più. Descrivere l’Italia come un paese allo sfascio, dove scuola e sanità sono a pezzi, i salari sono da fame, i lavoratori muoiono sul posto del lavoro, le donne vengono perseguitate, stuprate e uccise, come se questo dipendesse dal governo in carica, e non da quelli precedenti, tutti (tranne uno) con il Pd in posizioni chiave. Sostenere un referendum contro una legge del passato promossa dallo stesso Pd (il Jobs Act), come se questo potesse non scatenare una guerra civile dentro un partito che quella legge l’ha voluta e votata.

Si potrebbe continuare. Ma credo che la morale sia chiara: senza la categoria della stoltezza, diventa difficile descrivere il mondo in cui viviamo.

La battaglia per il salario minimo legale

1 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo pianoPolitica

Sembra sia stato soprattutto Carlo Calenda, nei giorni scorsi, a infervorarsi per l’idea di proporre una legge sul salario minimo legale che abbia il sostegno di tutti i partiti di opposizione. E si capisce bene perché: quella del salario minimo legale è, finora, l’unica proposta che potrebbe coalizzare non solo Pd e Cinque Stelle, ma anche i partiti del Terzo Polo (Azione e Italia viva).

È una buona idea?

Per certi versi è un’idea sacrosanta. Secondo una mia stima di pochi anni fa, in Italia esiste un’infrastruttura para-schiavistica di circa 3 milioni e mezzo di persone che lavorano in condizioni di precarietà, insicurezza e bassi salari non degne di un paese civile (il caso limite sono gli immigrati addetti alla raccolta di frutta e ortaggi). Altre stime suggeriscono che, a seconda del livello a cui verrebbe fissato il minimo legale, i beneficiari di aumenti salariali potrebbero oscillare fra 1 e 3 milioni di lavoratori.

C’è un problema, tuttavia. In Italia i salari effettivi variano enormemente in funzione del settore produttivo, del costo della vita, della produttività. Inoltre, una parte delle micro-attività che impiegano manodopera male o malissimo pagata hanno margini estremamente ridotti, e non sarebbero in grado di sostenere gli aumenti salariali richiesti. In concreto, significa che la fissazione di un salario minimo legale a 9 o 10 euro lordi, uniforme su tutto il territorio nazionale, avrebbe effetti a loro volta tutt’altro che uniformi. Nei contesti ad alta produttività porterebbe a miglioramenti retributivi sostanziali, in quelli a bassa produttività condurrebbe alla chiusura di attività che operano al limite della redditività (sempre, beninteso, che governo e sindacati si impegnino a far rispettare la legge, anziché continuare a chiudere ipocritamente un occhio come si è sempre fatto in passato). In concreto, vorrebbe dire: salari più alti in molte realtà del centro-nord, più disoccupati in molte aree del sud.

Se i meccanismi fondamentali sono questi, forse sarebbe il caso di considerare l’ipotesi di un salario minimo legale differenziato per settore e zona del paese, in modo da non penalizzare troppo le attività con la produttività più bassa.

Saprà l’opposizione di sinistra muoversi in questa direzione?

È improbabile, vista la tendenza di Pd e Cinque Stelle ad affrontare tutte le questioni in termini etici e di principio, anziché in termini pragmatici e realistici. E non è questione di Schlein o non-Schlein, perché quella tendenza era già in atto in epoca pre-Schlein, e non su temi secondari. Pensiamo all’approccio ideologico in materia di immigrazione e accoglienza, o alla disastrosa gestione del Ddl Zan sull’omotransfobia, quando per preservare la purezza politica venne rifiutata l’offerta della destra di approvare il disegno di legge Scalfarotto (un’ottima legge, priva dei difetti del Ddl Zan).

È verosimile che tutta la discussione che partirà sui contenuti esatti della proposta di salario minimo legale verterà sul suo livello, con i riformisti a tirare per un livello ragionevole, e i massimalisti per un livello irragionevole ma auto-gratificante. Il risultato sarà che il governo avrà gioco facile a ignorare le proposte dell’opposizione, mostrandone l’irrealismo e gli effetti perversi.

Eppure dovrebbe essere chiaro che è il modo peggiore per provare a costruire un campo largo. Per riconquistare la fiducia degli italiani, ai progressisti serve mostrarsi in grado di fare proposte così sensate che risulti difficile rifiutarle. E incalzare il governo a farle rispettare.

Proporre un salario minimo elevato, uguale in tutta Italia, e quindi impossibile da rispettare per molte imprese, può scaldare il cuore dei militanti più ideologizzati o moralisti. Ma difficilmente può convincere la maggioranza degli italiani.

Il fascino discreto della rottamazione: Schlein come Renzi?

10 Giugno 2023 - di fondazioneHume

In primo pianoPolitica

Che cosa abbia esattamente in testa Elly Schlein non si è ancora capito. Si citano, al riguardo, le incertezze o ambiguità sul termovalorizzatore di Roma, sull’utero in affitto, sull’invio di armi all’Ucraina. Però, se andiamo a rileggere il programma su cui ha vinto la battaglia per la segreteria del Pd, almeno una cosa risulta in modo chiarissimo: non farò come Renzi. Nella mente della neo-segretaria del Pd, Renzi e il renzismo sono, all’interno della sinistra, una sorta di male assoluto. Se c’è una cosa che il nuovo Pd non deve ripetere sono gli “errori” di Renzi. Che non riguarderebbero solo le scelte in materia di mercato del lavoro (Jobs Act), ma anche le relazioni industriali (asse con Marchionne contro la Cgil), le politiche migratorie (memorandum Italia-Libia di Marco Minniti), per non parlare del referendum istituzionale (Elly Schlein votò contro).

Da questo punto di vista, non è esatto dire che Elly Schlein non abbia le idee chiare. Sarà pure stata incerta su alcune tematiche sensibili (green, guerra, utero in affitto), ma non si può dire che le manchi una stella polare: portare il Pd lontano dal renzismo. Questa è la missione, su questo non ammette tentennamenti.

Però…

Però c’è una cosa su cui Elly Schlein non solo non è lontana da Renzi, ma pare ricalcarne perfettamente le orme. Ricordate gli anni della “rottamazione”? Ricordate l’aspra polemica con Massimo d’Alema? Le frecciate a Bersani e Veltroni? Ricordate quanti esponenti del Pd vennero messi da parte, o indotti ad andarsene? E la rivoluzione delle cinque capolista, tutte donne, alle (trionfali) elezioni europee del 2014? O la nascita di Articolo 1, in cui si rifugiarono Bersani, Speranza, e tanti altri illustri esponenti del Pd?

Insomma, c’è molto del (vecchio) Renzi nel modo in cui Elly Schlein tenta di governare il suo (nuovo) Pd. Con una importante differenza, però: lo stile. Che non può mai essere elegante quando si rottama, ma c’è modo e modo. Ha destato molto sconcerto, negli ultimi giorni, il modo in cui è stato rimosso e sostituito il vice-capogruppo Pd della Camera. Perché la rimozione di Piero de Luca, figlio di Vincenzo de Luca, ha tutto il sapore di una vendetta per le pungenti critiche del padre, governatore della Campania. E la sua sostituzione con Poalo Ciani, un esterno che ha votato contro l’invio di armi in Ucraina, è parsa a molti un gesto incomprensibile, per non dire arrogante. La sensazione, nel Pd, è che Elly Schlein non abbia alcuna intenzione di ascoltare i membri della minoranza riformista, più o meno bonacciniana, e ciò a dispetto del loro essere maggioranza fra gli iscritti del partito (ricordiamo che, nel voto degli iscritti, Schlein ha avuto appena il 35% dei consensi, contro il 53% di Bonaccini).

Persino Sansonetti, “vecchio comunista” e direttore del recentemente resuscitato quotidiano “L’Unità”, si è sentito in dovere di ricordare a Elly Schlein che il Partito comunista, spesso accusato di stalinismo, usava più rispetto verso i dissenzienti, al punto da nominare capigruppo alla Camera e al Senato personaggi dell’opposizione interna come Pietro Ingrao, o non allineati come Umberto Terracini.

Che dire, a questo punto?

Forse soltanto che, se vuole sopravvivere al partito di cui è divenuta segretaria, a Elly Schlein converrebbe trattenere il buono e prendere rapidamente congedo dal cattivo (o dal meno buono) dello stile di Renzi. Dove il buono è stato di ingaggiare con l’opposizione interna una battaglia politica aperta, fatta di idee e di proposte. Mentre il meno buono è stata la spavalderia con cui è stata rottamata la vecchia guardia. Anche perché, non va mai dimenticato, in un partito fatto di correnti e di cordate di potere, c’è sempre il rischio che i rottamati e le vecchie guardie, prima o poi, ti tendano un’imboscata.

Luca Ricolfi

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