Hume PageHume Page

Che cos’è un’emergenza?

7 Febbraio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Sono molti a pensare che la stampa, e più in generale gli organi di informazione, denunciando ingiustizie di ogni tipo e sollecitando la politica ad intervenire, svolgano una attività meritoria.

Spesso è così. Ci sono drammi, iniquità, angherie che mai verrebbero alla luce se non vi fosse un organo di informazione che le porta all’attenzione dell’opinione pubblica. Nello stesso tempo, però, può accadere che il ruolo dei media sia fortemente distorsivo, o quantomeno arbitrario. Per capire perché, dobbiamo partire da una premessa: non solo il budget del governo, ma anche lo stock di attenzione dei governanti, è una grandezza finita. Nemmeno il più sensibile capo dello stato, presidente del consiglio, ministro, è in grado di stare dietro a tutte le innumerevoli questioni di cui, in linea di principio, dovrebbe occuparsi attivamente, a maggior ragione in un paese come l’Italia, in cui quasi nulla funziona come dovrebbe. Di qui una conseguenza cruciale: non potendo occuparsi di tutto, la politica cerca sì – come è naturale – di attuare le misure programmatiche che considera prioritarie, ma sul resto, sulla porzione altamente discrezionale dei suoi interventi, è in balia delle campagne di stampa. Le quali, proprio per questo, hanno un enorme potere di selezione dei temi su cui – alla ricerca del consenso – finirà per attivarsi l’azione dei governanti.

E’ ben usato questo potere?

Impossibile dirlo in generale, ma è facile notarne l’aleatorietà, l’arbitrarietà, e la volatilità. Prendiamo il caso della piccola Kata, la bambina peruviana di 5 anni scomparsa il giugno scorso. Il suo caso ha suscitato un enorme interesse nei primi tempi, e ora è quasi completamente dimenticato. Ma perché tanta attenzione e tante risorse investigative proprio su Kata? Pochi lo sanno, ma i minori scomparsi sono circa 50 al giorno, di cui la metà non vengono mai rintracciati. Chi si occupa degli altri 10 mila minori scomparsi da allora? Perché Kata ha goduto del (per ora inutile) privilegio di essere cercata assiduamente, e gli altri 9999 bambini e bambine no?

Un discorso analogo, con risvolti paradossali, si potrebbe fare sul caso di Ilaria Salis. Gli italiani detenuti all’estero sono più di 2000, non di rado in condizioni critiche. Ma, anche qui, la possibilità di ricevere la dovuta attenzione è altamente soggetta al caso. Se non avesse avuto la “fortuna” di essere ripresa in catene in un’aula giudiziaria, Ilaria Salis non beneficerebbe dell’attenzione che i media le stanno riservando. E possiamo pure star certi che, dopo che due o tre casi analoghi saranno stati portati all’attenzione, degli altri 2000 italiani all’estero non parlerà più nessun giornale nazionale e non si occuperà nessun politico in vista.

Ho fatto questi esempi per illustrare l’enorme potere dei media nel selezionare le questioni di cui, volente o nolente, il potere politico sarà costretto ad occuparsi, sottraendo attenzione ed energie ad altre questioni, magari ancora più rilevanti o drammatiche. Ecco perché ha senso chiedersi come i media usano la loro discrezionalità.

La mia impressione è che la esercitino più secondo le leggi dello spettacolo che secondo quelle della ragione. Spesso i temi portati all’attenzione sono semplicemente quelli capaci di suscitare le emozioni più forti, dall’odio alla compassione alla paura, con poco riguardo alla rilevanza sociale, o alla effettiva possibilità di intervento da parte della politica. Soprattutto, sono temi volatili, fondati sulla definizione di “emergenze” immancabilmente destinate a scomparire dalla scena nel giro di pochi giorni.

Eppure non dovrebbe essere difficile riconoscere una vera emergenza, e distinguerla dalle emergenze puramente mediatiche. Per far questo, dovremmo almeno imparare a individuare e distinguere gli ingredienti essenziali di una vera emergenza. Che sono almeno tre: la presenza di un interesse pubblico, un improvviso peggioramento della situazione, la possibilità di intervenire per modificare il corso delle cose.

Per fare un esempio provocatorio: i morti sul lavoro sono una cosa bruttissima, sarebbe opportuno intervenire per ridurli, ma tecnicamente non sono un’emergenza, perché sono stazionari (anzi in lieve diminuzione, secondo gli ultimi dati). I suicidi in carcere, al contrario, sono una vera emergenza, perché stanno aumentando a un ritmo mai visto in passato, e sono ben note le misure che potrebbero frenare il fenomeno. Eppure, se contate gli articoli di stampa o i moniti dei capi dello stato degli ultimi anni, vi sembrerà che la vera emergenza sia la prima e non la seconda.

Saluto romano e giudici onniscienti

24 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Dove finisce la libertà di manifestazione del pensiero?

Su questo non si raggiungerà mai un accordo, non solo perché abbiamo idee diverse, ma perché le leggi in materia lasciano ai giudici larghi (eccessivi?), margini di interpretazione delle norme. Apparentemente, l’articolo 21 della Costituzione garantisce la più ampia libertà di manifestazione del pensiero, perché fissa un solo limite: sono proibite le manifestazioni del pensiero “contrarie al buon costume”.

In realtà, di limiti ve ne sono tantissimi, ma non hanno quasi mai a che fare con il buon costume, nozione che l’evoluzione libertaria dei costumi stessi ha reso evanescente. I veri limiti alla libertà di manifestazione del pensiero derivano, innanzitutto, dalla necessità di bilanciare tale diritto con altri diritti o beni costituzionalmente protetti, come l’ordine pubblico, l’onore, l’integrità e la dignità della persona. Ma derivano anche da un altro fattore: sono le leggi stesse, a partire dalla legge Scelba (1952) e dalla legge Mancino (1993), che lasciano un enorme margine di discrezionalità al singolo giudice, le cui decisioni possono benissimo essere – e spesso sono – diverse da quelle di un altro giudice.

È quel che è accaduto, in particolare, con il saluto romano, e più in generale con le manifestazioni di atteggiamenti, pensieri, convinzioni favorevoli al regime fascista. Comportamenti che per alcuni giudici rientrano nella libertà di riunione, associazione e manifestazione del pensiero, per altri configurano il reato di apologia di fascismo (legge Scelba), per altri ancora violano la legge Mancino contro la “discriminazione razziale, etnica e religiosa”.

Si potrebbe pensare che le diversità di interpretazioni della legge siano una conseguenza logica inevitabile del meccanismo giuridico del bilanciamento fra diritti tra loro conflittuali. Nel caso di un processo per diffamazione contro un giornalista, ad esempio, un giudice potrebbe assegnare più importanza al diritto di cronaca del giornalista, o al diritto ad essere informato del pubblico, mentre un altro giudice al rispetto della dignità della persona.

Ma non è sempre così. Nei casi come quello di Acca Larentia, così come in quelli analoghi accaduti in passato e su cui nei giorni scorsi si è pronunciata la Corte di Cassazione, la vera fonte dell’ambiguità non è la mera competizione fra due diritti costituzionalmente protetti, ma – più fondamentalmente – la circostanza che la legge usa dei concetti che, per loro natura, si prestano a letture soggettive. Al giudice non si chiede di accertare se gli imputati abbiano o non abbiano commesso determinati atti, ma se il loro modo di commetterli abbia determinato il concreto pericolo di esiti sovversivi o violenti: ricostituzione del partito nazionale fascista, violenza e discriminazione nei confronti di membri di minoranze protette.

È un doppio salto mortale epistemologico, perché al giudice viene attribuita la facoltà di stabilire nessi causali, e di farlo non fra due fatti entrambi accaduti, ma fra un fatto accaduto (il comportamento incriminato) e un evento ipotetico che potrebbe derivarne come conseguenza. Ma il giudice, di norma, non possiede gli strumenti per stabilire nessi causali ipotetici, come peraltro – nella maggior parte dei casi non banali – non li possiede il miglior scienziato sociale.

Visto in questa prospettiva, forse è più chiaro il senso della recente sentenza della Corte di Cassazione sul saluto romano. Contrariamente a quanto è capitato di leggere, la Corte non ha sdoganato il saluto romano, ma ha fatto una cosa molto più importante, perché più generale. In sostanza ha detto: se volete perseguire le adunate e le manifestazioni del pensiero, dovete dimostrare che il comportamento dei manifestanti è effettivamente (ossia con alta probabilità) in grado di condurre ad esiti come la ricostruzione del partito fascista, la commissione di atti violenti, l’attuazione di pratiche discriminatorie. In poche parole: la Corte ha dato una sacrosanta tirata d’orecchi ai giudici.

Che tuttavia risulterebbe più convincente se il legislatore, a sua volta, la smettesse di scrivere norme che assumono l’onniscienza dei giudici.

La chiusura della mente progressista – A proposito di “egemonia culturale”

5 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Se c’è una cosa che, ogni volta, è capace di suscitare il mio stupore è il modo, sostanzialmente autolesionista, in cui i media progressisti parlano di Giorgia Meloni, e più in generale del suo primo anno di governo.

Ma forse, più che di stupore, dovrei parlare di incredulità. Non riesco a credere, infatti, che tutto – ma proprio tutto – quello che questo governo ha fatto nel primo anno sia sbagliato. Eppure è questo il messaggio che, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, riga dopo riga, battuta dopo battuta, vignetta dopo vignetta, promana dall’universo progressista. Dove il fatto sorprendente è che le critiche non riguardano solo le cose di destra che questo governo ha fatto, come i condoni, le norme ostili alle Ong, l’inasprimento delle pene per alcuni reati, ma anche le innumerevoli misure di sinistra che un’opposizione pensante e intellettualmente onesta avrebbe dovuto accogliere con sorpresa e compiacimento, anziché con rabbia e ostilità. La politica economico-sociale, dagli sconti in bolletta alla riduzione del cuneo fiscale, dalle misure a sostegno delle fasce deboli all’intervento sulle pensioni (punitivo verso i ricchi), ha avuto fin qui un chiarissimo segno progressista. Condoni a parte, non ricordo leggi finanziarie così univocamente sbilanciate a favore dei ceti medio-bassi.

Persino sulla politica migratoria, ci sarebbero molte cose da eccepire. Capisco che l’opposizione abbia sparato a zero sul decreto Cutro, sull’accordo con la Tunisia, sul progetto di smistare in Albania una parte degli arrivi, ma che dire della politica degli ingressi legali? Qualcuno ha notato che nessun governo precedente aveva mai programmato tanti ingressi per lavoro mediante i decreti flussi?

Certo, le lamentele dell’opposizione sugli innumerevoli problemi dell’Italia sono più che fondate: liste d’attesa inaccettabili negli ospedali, fuga dei cervelli, insegnanti mal pagati, scuole pericolanti, dissesto idrogeologico, bassi salari, alto debito pubblico, povertà. Ma come pensare che l’opinione pubblica sia così stupida e smemorata da mettere tutto questo in conto al governo Meloni, senza riflettere per un solo momento sul fatto che, dopo la crisi del 2011, l’unico partito che è stato quasi sempre al governo è il Pd?

Però, si dirà, il fatto è che la Meloni ha tradito tutte le sue solenni promesse. Le tasse restano alte, la legge Fornero non è stata abolita né superata, gli sbarchi sono triplicati, la criminalità dilaga nelle strade. Qualche commentatore, si avventura a pronosticare che, per l’imbarazzo di non aver saputo attuare il “blocco navale”, i media di destra e la tv pubblica – in vista delle elezioni europee – non oseranno più parlare di sicurezza, criminalità, immigrazione.

Anche qui, non ci posso credere: come non capire che, se critichi la Meloni perché non ha saputo fermare i migranti, stai chiedendo più destra, non certo più sinistra? che se denunci le troppe tasse, stai invocando più liberismo, non più welfare? come illudersi che esista un percorso logico che dalle promesse tradite di Giorgia Meloni possa condurre verso il voto a Elly Schlein?

Ma non è solo questo. La “chiusura della mente progressista” (per richiamare un felice titolo di Allan Bloom) va ben oltre queste stranezze della comunicazione. Il suo vero punto debole è sostanziale, e consiste nell’incapacità di rispondere alla domanda-chiave: perché i ceti popolari, da diversi decenni, guardano più a destra che a sinistra?

Accontentarsi della solita risposta – la destra parla alla pancia del paese, la destra fornisce soluzioni semplicistiche a problemi complessi – non è solo vagamente razzista (il popolo è ignorante e manipolabile), ma è drammaticamente controproducente perché non coglie i due tratti fondamentali che, finora, hanno reso la destra più attrattiva della sinistra. Il primo è che ci sono un sacco di cose giuste e di sinistra nella politica della destra. Il secondo è che la destra che Giorgia Meloni ha costruito e vuole rappresentare è culturalmente vicina al modo di sentire della maggioranza degli italiani, e in special modo dei ceti popolari. Una circostanza che, ove avessero ascoltato con animo aperto il discorso pronunciato ad Atreju, non sarebbe sfuggita neppure ai critici più prevenuti.

Quando solidarizza con l’inquilino che non può rientrare in casa propria perché gliel’ hanno occupata. Quando difende il diritto dei bambini ad avere un padre e una madre, e a non essere separati dalla propria madre biologica. Quando prende le distanze dalle follie del politicamente corretto e della mentalità woke. Quando solidarizza con l’insegnante “sparata” e filmata dagli allievi, o stigmatizza i genitori che si fanno sindacalisti dei figli. Quando denuncia l’iniquità del reddito di cittadinanza se erogato a chi potrebbe lavorare. Quando, alludendo agli influencer come Chiara Ferragni, contrappone chi il made in Italy lo fa (a beneficio di tutti), a chi cinicamente lo sfrutta (a proprio esclusivo vantaggio).  In questi e tanti altri casi, Giorgia Meloni fa anche un discorso morale, che non piace a tanti intellettuali progressisti ma incontra, intercetta, e legittima sentimenti profondamente radicati nella sensibilità popolare, e più in generale nel senso comune.

Finché non prenderà atto di questo, la sinistra avrà ben poche chance di tornare al potere. E alla destra, forse, non occorrerà cimentarsi nella mission impossible di costruirsi una propria egemonia culturale: dopotutto, fra i ceti popolari l’egemonia ce l’ha già. E la chiusura della mente progressista, incapace di vedere quel che di sinistra c’è nella destra, e quel che di destra c’è nei ceti popolari, è – per Giorgia Meloni – la miglior polizza di assicurazione.

Primo anno di governo – Thank you, boomers!

28 Dicembre 2023 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo pianoPolitica

Con l’uscita degli ultimi dati Istat sul mercato del lavoro, relativi al 3° trimestre 2023 (luglio-settembre), si può tentare un bilancio del primo anno del governo Meloni sul fronte dell’occupazione, che è poi la vera stella polare della sua politica economica. Il 3° trimestre è un ottimo punto di riferimento non solo perché è il periodo più recente per cui si hanno dati ufficiali affidabili, ma perché si situa a un anno esatto di distanza dall’ultimo trimestre interamente “draghiano” (3° trimestre 2023)

Premessa doverosa: pochissimo di quel che cambia nel breve periodo (e un anno è un periodo breve) è dovuto al governo in carica, nel bene e nel male. Però, sapere quel che è successo nel primo anno, è utile lo stesso, perché almeno ci permette di rispondere a una domanda: è giustificato il pianto greco delle opposizioni e della Cgil sull’andamento del mercato del lavoro?

Vediamo. L’indicatore più significativo, che condensa in sé meglio di qualsiasi altro l’andamento del mercato del lavoro, e cioè il tasso di occupazione della popolazione in età da lavoro (15-64 anni) è aumentato di 1.3 punti, toccando il 61.5%, massimo storico da quando (1977) inizia la serie storica su cui è calcolato.

Già, ma obiettano i critici: bisogna vedere di che tipo sono i posti di lavoro, se sono precari o stabili; come va il numero di ore lavorate; che succede nel Mezzogiorno; che ne è delle donne.

E allora procediamo. L’aumento dei posti di lavoro (+481 mila in un anno) riguarda sia i lavoratori indipendenti (+1.6%), sia i lavoratori dipendenti stabili (+3.1%), ma non quelli a temine (o “precari”), che diminuiscono leggermente, con effetti benefici sul “tasso di occupazione precaria”.

Ma le ore lavorate? Non sarà che l’occupazione aumenta ma le ore lavorate diminuiscono, come in effetti può succedere, ed è già successo in passato? Niente affatto, il monte ore lavorate aumenta del 4.1%.

Ok, ma il Mezzogiorno? Che succede nel Mezzogiorno?

Anche lì, niente da fare. Non c’è tracollo, né crisi, né crisetta, né stagnazione. Al contrario, il Mezzogiorno è la ripartizione territoriale in cui l’occupazione cresce di più (+1.9%), davanti al Nord (+1.0%) e al Centro (+0.9%). E se fossero i primi effetti della stretta sul reddito di cittadinanza?

E l’occupazione femminile, la discriminazione delle donne sul mercato del lavoro?

Stessa storia, i dati dicono che il tasso di occupazione femminile cresce di più (+1.4%) di quello maschile (+1.1%).

Possibile che non ci sia nulla che va storto?

Tranquilli, qualcosa che non va c’è. Intanto la produzione industriale sta perdendo colpi da circa un anno, anche a causa della frenata della Germania, entrata in recessione. Se ciononostante l’economia italiana cresce e l’occupazione sale è soprattutto merito del terziario e dell’edilizia, drogata dal super-bonus del 110%.

Quanto al tasso di occupazione è vero che aumenta, ma se andiamo a vedere chi lo fa aumentare, non solo nell’ultimo anno, ma negli ultimi 15 anni, scopriamo un fatto inquietante. I contributi più importanti vengono inequivocabilmente da due grandi categorie, in parte sovrapposte: i lavoratori immigrati, che oggi hanno un tasso di occupazione più alto di quello degli italiani, e i cosiddetti baby boomers, quell’esercito di vecchi, quasi-vecchi e ultra-vecchi, nati fra gli anni ’40 e gli anni ’60.

Potrà sembrare incredibile, ma nel quindicennio che va dal 2008 a oggi il tasso di occupazione che è cresciuto di più è quello della fascia 50-65 anni. E quello della fascia 35-50 anni ha tenuto di meno di quello della fascia 65-90 anni, che è aumentato di oltre 2 punti.

Ci stanno salvando i Matusalemme?

Italia Oggi intervista Luca Ricolfi

28 Dicembre 2023 - di fondazioneHume

In primo pianoPolitica

Professore, in Francia, grazie ai voti di Rn e senza la sinistra, è stata approvata una legge che inasprisce le misure contro l’immigrazione irregolare e rende più facile anche revocare i permessi di soggiorno. Macron è più a destra del governo di destra italiano?

Per quel che capisco, il punto è che Macron non dispone di una maggioranza autonoma, e quindi è in balia delle opposizioni, di destra e di sinistra. Ma forse la riflessione che la vicenda di questa legge suggerisce è anche che abbiamo un po’ troppo idealizzato il sistema francese, e che dobbiamo compiacerci di non averlo preso come modello per la riforma del nostro sistema. Tra l’altro, trovo stupefacente che un primo ministro – in questo caso la semisconosciuta Mme Élisabeth Borne – sia costretta a varare una legge dicendo che probabilmente è incostituzionale. Almeno, in Italia le accuse di incostituzionalità provengono da chi le leggi non le ha votate…

Quanto alla sostanza del problema, credo che la chiave sia molto semplice: fra 6 mesi si vota per il Parlamento europeo, e i politici stanno capendo che l’opinione pubblica – oggi più che mai – vede gli immigrati come un problema, più che come una risorsa.

Non è strano per i politici di destra e centro-destra, ma è una novità per quelli di sinistra, che sono spaccati fra chi comincia a capire il nesso fra immigrazione e criminalità e chi resta abbarbicato alle vecchie parole d’ordine cosmopolite.

Perché l’immigrazione irregolare è diventata tema così sentito anche nell’elettorato di sinistra?

Non è una novità assoluta, il problema è sentito a destra almeno da 30 anni. Quel che è nuovo, forse, è che ormai anche i progressisti si rendono conto che c’è un conflitto insanabile fra imperativo dell’accoglienza e sicurezza dei cittadini. In Italia è chiarissimo: gli immigrati sono meno del 9% della popolazione, ma commettono circa il 40% dei reati, compresi quelli più odiosi, come le aggressioni in strada e gli stupri. E, a giudicare dagli ultimi dati ufficiali e consolidati (fermi al 2022), dopo il Covid i minorenni stranieri stanno dando un apporto sempre maggiore alla criminalità.

Alcuni le risponderebbero che se ci sono più minori stranieri che delinquono rispetto agli italiani è perché non siamo stati capaci di fare abbastanza integrazione. Siamo noi a essere inadeguati.

Certo, in astratto è così. Ma vale in tutti i campi. C’è sempre qualcosa che la società avrebbe potuto fare per evitare centinaia di emergenze sociali. Avremmo potuto mettere più medici e infermieri negli ospedali, più insegnanti nelle scuole, più alloggi popolari nelle periferie, più badanti nelle case, più psicologi alle calcagna di ogni sbandato, più cultura e meno violenza/sesso/droga nei media, più sport e meno telefonini, più concerti e meno trapper, più scienziati e meno influencer, ma la domanda è: con quali risorse, con quali priorità, con quali restrizioni alla nostra libertà?

Più specificamente: la precondizione di un’accoglienza riuscita è la possibilità di regolare il flusso degli ingressi sulle risorse disponibili per accoglienza e integrazione. È illogico teorizzare il diritto di entrare liberamente in Europa, e poi stupirsi se le condizioni di vita di una parte degli immigrati non sono degne di un paese civile.

L’accoglienza diffusa dei migranti resta uno dei cavalli di battaglia del Pd di Elly Schlein. Quanto vale elettoralmente questa posizione?

A occhio, direi che vale un -10% di consensi, che poi è precisamente quel che manca alla sinistra per diventare maggioranza.

Romano Prodi è tornato a evocare la necessità di un federatore per il campo del csx. Conte ha subito replicato che forse servirà per le correnti del Pd. Che cosa si giocano i due partiti alle prossime Europee?

Come partiti, non si giocano molto. Avranno comunque il 35% dei seggi europei destinati all’Italia, e difficilmente si assisterà a un trionfo di Schlein su Conte, o di Conte su Schlein. La vera posta in gioco dell’appuntamento europeo, a mio parere, non è il destino di Pd e Cinque Stelle, ma il colore della prossima Commissione, che potrebbe – per la prima volta – escludere o marginalizzare i socialisti. Quanto a Conte e Schlein, ho l’impressione che non saranno né lei né lui a federare il centro-sinistra alle prossime elezioni. Mi aspetto che, di qui al 2027 emergano altre figure, un po’ meno scialbe.

Certo, è anche possibile che a cavare le castagne dal fuoco dello schieramento progressista non sia l’apparizione di un federatore (o di una federatrice), ma che ci pensi il governo in carica, che potrebbe inciampare in qualche guaio così grosso da far rimpiangere il Pd e i Cinque Stelle. Ma se questo non dovesse accadere, ai progressisti resterebbe il problema di trovare un leader o una leader in grado di reggere il confronto con Giorgia Meloni. E secondo me è più verosimile che un leader nuovo e carismatico emerga dal mondo Cinque Stelle piuttosto che dalla nomenklatura del Pd.

Quindi lei pensa a uno schieramento di sinistra-centro in cui a federare sia il M5s?

No, penso che anche la mia ipotesi sia improbabile, ma non così improbabile come l’ipotesi che dai 20 capicorrente del Pd miracolosamente salti fuori un leader capace di controllare il partito e imporre la propria guida anche ai Cinque Stelle.

Sta formulando una specie di endorsement dei Cinque Stelle?

Per niente. La mia opinione sui Cinque Stelle resta negativa, se non altro perché hanno scassato i conti pubblici (se Giorgia Meloni dovrà remare tutta la Legislatura per tentare di varare qualche straccio di riforma economico-sociale, è solo perché i Cinque Stelle hanno devastato la finanza pubblica).

In realtà la mia apertura – possiamo chiamarla così? – verso i Cinque Stelle nasce da una considerazione sociologica: il problema del centro-sinistra è recuperare i ceti popolari, e i Cinque Stelle sono l’unica forza politica (nominalmente) di sinistra ancora in grado di attirarne i voti. Il compito storico del Pd è tenersi i voti dei ricchi e dei “ceti medi riflessivi”, cosa per la quale Elly Schlein è fin troppo attrezzata con le sue idee sul green, la transizione energetica, i diritti LGBTQIA+ (ho dimenticato qualche lettera?). Il compito dei Cinque Stelle è riportare a sinistra nuovi segmenti dell’elettorato popolare.

Sarebbe la fine della centralità del Pd…con quali effetti sul csx?

Malefici, se i Cinque Stelle non riusciranno a liberarsi del qualunquismo e della superficialità che si portano dietro dall’origine. Benefici, se la cultura politica dei Cinque Stelle evolvesse, e dovesse riuscire a sinistra quel che, negli ultimi 10 anni, Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia hanno fatto a destra: convogliare verso di sé una parte dei voti popolari così cospicua da rompere l’egemonia del partito più grande (Forza Italia) e del leader più ingombrante (Berlusconi).

A più di un anno dall’insediamento del governo Meloni, come è cambiata la politica italiana? Le esperienze dei governi tecnici sono alle spalle?

Direi proprio di sì. Se si farà, la riforma presidenzialista renderà impossibile la formazione di “governi del Presidente” (che poi questo sia un bene, è tutto da vedere, anche se è difficile negare che è stato proprio un certo abuso del potere presidenziale a legittimare il cambio di assetto istituzionale). Quanto ai mutamenti della politica italiana nell’era Meloni, direi che sono essenzialmente due, strettamente interdipendenti: poche riforme economico-sociali (perché le risorse sono state prosciugate dallo sciagurato bonus del 110%), e conseguente spostamento dell’asse dell’azione di governo sul teatro internazionale. Dove, a quanto pare, Meloni ha una marcia in più.

image_print
1 2 3 23
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy