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Società

Sull’avanzata delle destre – Quattro donne alla conquista dell’Europa

10 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Non so se sia giustificata la disattenzione con cui quasi tutti i media hanno trattato l’incontro che, tra ieri e oggi, si è svolto a Madrid fra i leader del maggiore gruppo di opposizione del parlamento europeo, quello dei Patrioti per l’Europa. All’incontro, presieduto dallo spagnolo Santiago Abascal leader di Vox, erano presenti – fra gli altri – Marine Le Pen, Matteo Salvini, Herbert Kickl (Austria), Viktor Orbán (Ungheria), Geert Wilders (Olanda), Andrej Babis (Repubblica Ceca).

Galvanizzati dallo slogan MEGA (Make Europe Great Again) di Elon Musk, i leader dei Patrioti per l’Europa sono accomunati da almeno tre battaglie: contro il politicamente corretto e la cultura woke, contro le politiche green, contro l’immigrazione irregolare. Delle tre, la più importante (almeno elettoralmente) è senz’altro quella conto gli ingressi irregolari in Europa. È battendo su questo tasto che, nell’ultimo decennio, le formazioni di destra hanno conquistato frazioni sempre più ampie di elettorato. Ma attenzione: quando parliamo della destra che avanza in Europa non dobbiamo dimenticare che il raduno di Madrid rappresenta solo un pezzo della destra ostile all’immigrazione.

Nel Parlamento europeo i Patrioti per l’Europa pesano per circa il 12%, ma se aggiungiamo le altre due formazioni – l’ECR di Giorgia Meloni e la ESN di Alice Weidel, presidente di Alternative für Deutshland (Afd) – si arriva in prossimità del 27%. Non solo: i sondaggi degli ultimi mesi rivelano che quasi ovunque la destra radicale è in crescita in Europa: in Germania l’Afd supera il 22%, in Francia, il Rassemblement National si attesta intorno al 37% (5 punti in più rispetto alle elezioni politiche 2024), nel Regno Unito Reform UK, il partito di Nigel Farage, sfiora il 30% e supera i laburisti di Keir Starmer, al governo da pochi mesi. Per non parlare di quel che è accaduto nel partito conservatore inglese, che pochi mesi fa ha scelto come leader Kemi Badenoch, una politica nera su posizioni ben più radicali i quelle dei suoi predecessori.

Insomma, voglio dire che il raduno di Madrid ci fornisce una idea molto parziale e imperfetta dello stato di salute della destra nel continente Europeo. Se guardiamo le cose in prospettiva, ovvero ci chiediamo che cosa potrebbe succedere di qui alla fine del decennio, uno degli scenari più verosimili è quello di un’ Europa in cui i quattro maggiori paesi sono governati dalla destra, o più precisamente sono sotto l’influenza decisiva di quattro donne di destra. In Germania, già fra due settimane (si vota il 23 febbraio) potrebbe accadere che i voti del partito di Alice Weidel (presidente di Afd) risultino decisivi per far passare leggi anti-immigrati care ai Popolari di Friedrich Merz, leader dei popolari e probabile nuovo cancelliere. Nel 2027, in Francia Marine Le Pen potrebbe diventare presidente della Repubblica, mentre in Italia Giorgia Meloni potrebbe rivincere le elezioni. Quanto al Regno Unito, è tutt’altro che improbabile che il prossimo premier sia Kemi Badenoch, prima donna nera a Downing Street.

È ovviamente solo uno fra gli scenari possibili, ma serve a darci l’idea di quanto le cose siano in movimento, quale sia la direzione del movimento, e quanto ampie possano essere le conseguenze: la questione migratoria polarizza l’attenzione degli elettorati europei, e accade che – nei quattro maggiori paesi del continente – siano altrettante leader donna a guidare la deriva delle opinioni pubbliche.

Ma quanto è probabile un simile scenario?

Molto dipende dalle forze progressiste. Se la linea restasse quella attuale, di completa chiusura verso i partiti radicali di destra e di sordità verso le istanze anti-migranti dell’opinione pubblica, i soli governi possibili diventerebbero quelli di grosse koalition (partiti moderati contro tutti gli altri), e l’avanzata delle destre potrebbe risultare travolgente. Lo scontro fra forze anti-sistema (di destra) e partiti di governo (di varia matrice politica) diventerebbe tossico. Le manifestazioni anti-fasciste e anti-naziste, che già ora cercano di impedire raduni, riunioni ed eventi pubblici di destra, finirebbero per moltiplicarsi, mettendo a dura prova la convivenza civile.

Se invece la linea attuale di chiusura venisse abbandonata, e la sinistra si risolvesse a prendere sul serio il nodo migratorio (ingressi irregolari, criminalità, comunità islamiche, eccetera) la situazione sarebbe più aperta, e decisamente meno inquietante. In alcuni paesi il problema migratorio potrebbe essere affrontato associando al governo partiti finora esclusi, in altri paesi potrebbe succedere quel che è accaduto in Danimarca, dove i socialisti governano proprio perché hanno preso sul serio il dossier migratorio. In entrambi i casi l’onda che sospinge il consenso elettorale verso le formazioni di destra più estremiste perderebbe lo slancio che ha acquisito negli ultimi anni, e probabilmente regredirebbe pure un po’.

Ma è uno scenario improbabile, per ora. Le forze progressiste, almeno nel nostro paese, vedono l’avanzata delle destre come un’onda nera, un pericoloso ritorno di pulsioni razziste, fasciste, neonaziste. Pensano che il problema dell’immigrazione sia un artefatto ideologico delle destre, e che prenderlo sul serio non porterebbe voti alla sinistra. Le quattro donne che stanno conquistando l’Europa sentitamente ringraziano.

[articolo uscito sul Messaggero il 9 febbraio 2025]

Il presunto irriducibile contrasto tra Croce ed Einaudi e la retorica mercatista

10 Febbraio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Sulla rivista on line del ‘Corriere della Sera’, ’La nostra storia’, diretta da Dino Messina, Paolo Bernardini (Università dell’Insubria), pubblicava il 15 luglio 2016, un lungo articolo Per una libertà senza garanti: rileggere Vittorio De Caprariis inteso a chiudere definitivamente il discorso sullo storico scomparso nel 1964.. Vi si legge:” Per un pensatore libertario, ma anche liberale classico, il suo liberalismo, spesso, direi sempre asserito e ribadito in queste pagine, è liberalismo molto speciale, molto “italiano” o se vogliamo crociano. Da Croce eredita la diffidenza per il mercato troppo libero, perfino per il mercato delle idee, di cui propone una statalizzazione |…| o comunque una regolazione pubblica. Insomma, un liberalismo ai confini con lo statalismo, che fa venire i brividi, ma che purtroppo è il marchio del ‘liberalismo’– chiamiamolo così, en faute de mieux – italiano, che vede tuttora marginale l’autentico liberalismo di un Bruno Leoni, ma perfino di un Einaudi, e delle loro scuole”.

In realtà, è vero il contrario, se si pensa che, persino uno studioso ‘azionista’, come Norberto Bobbio, così conclude il saggio Benedetto Croce e il liberalismo–in Politica e cultura (Ed. Einaudi 1955): ”Chi volesse oggi capire il liberalismo non mi sentirei di mandarlo a scuola da Croce. Gli consiglierei piuttosto di leggere i vecchi monarcomachi e Locke e Montesquieu e Kant, il Federalist e Constant e Stuart Mill. In Italia più Cattaneo che non gli hegeliani napoletani, compreso Silvio Spaventa; e gli metterei in mano più il Buongoverno di Einaudi che non la Storia come pensiero e come azione (che fu il libro certamente più importante dei movimenti di opposizione “(pag.265). Era l’inizio di una equivoca rivolta anticrociana su cui ha richiamato l’attenzione Marcello Montanari nello scritto Croce ed Einaudi: un confronto su liberalismo e liberismo (Enciclopedia Treccani 2016): «Gli interventi di Einaudi hanno contribuito a creare la vulgata secondo cui l’idealismo crociano è pur sempre, come quello di Gentile, di carattere statalistico. Su questa linea si sono mossi studiosi del calibro di Norberto Bobbio (1953 e 1955), Giovanni Sartori (1966) e Luigi Firpo (1986) |…| Tuttavia, una simile interpretazione scaturisce da una forzatura dei testi crociani. Vale la pena, allora, guardare da vicino i testi da Einaudi presi in considerazione nella sua recensione del 1928.Croce aveva criticato il liberismo non in quanto metodo o pratica economica, non nel suo essere espressione della libera iniziativa privata, ma per la sua pretesa di elevare i principi dell’utilitarismo a “regola e legge suprema della vita sociale” (Liberismo e liberalismo, in Etica e politica, 1931). Che l’attività economica sia orientata da criteri utilitaristici ed egoistici, come la dottrina di Bastiat insegna – sembra dire Croce –, è cosa non discutibile; tuttavia, un intero sistema sociale non può fondarsi e reggersi su questi soli criteri. La sfera economica va ristretta, isolata e governata entro una particolare sezione della vita sociale complessiva. Non si possono innalzare a valore etico universale i principi utilitaristici, di cui il liberismo economico si nutre». Seguendo la logica di Croce, Bobbio avrebbe potuto giustificare il New Deal, lo stato sociale messo in piedi dalle socialdemocrazie scandinave laddove, richiamandosi a Einaudi, lui che per l’economia politica non aveva mai nutrito un reale interesse, continuava soltanto la guerra dichiarata dal neo-illuminismo torinese ad ogni forma di neo-idealismo.

Va pur detto che–come è stato rilevato da studiosi come Corrado Ocone e Giancristiano Desiderio – Croce e Einaudi non erano poi così lontani. Se ne Lezioni di politica sociale (Einaudi, Torino 1965) Einaudi poteva scrivere, quasi con accenti crociani, «:La libertà, che è esigenza dello spirito, che è ideale e dovere morale, non abbisogna di istituzioni giuridiche che la sanciscono e la proteggono, non ha d’uopo di vivere in questa o quella specie di società politica, autoritaria o parlamentare, tirannica o democratica; di una particolare economia liberistica o di mercato ovvero comunistica o programmata. La libertà esiste, se esistono uomini liberi; muore se gli uomini hanno l’animo di servi», Croce sarebbe giunto infine ad affermare nel secondo dopoguerra che «la proprietà privata non si potrà mai radicalmente abolirla in quanto coincide col concetto dell’individuo» (Monotonia e vacuità della storiografia comunista, ‘Quaderni della Critica’, XIII- XV, 1949).

“L’individuo, non lo Stato, è la prima garanzia della libertà”, scrive Bernardini per il quale più lacci, più regole, più imposizioni gravano sull’individuo meno lo stato può dirsi liberale. Questa cannibalizzazione del liberalismo da parte del mercatismo non spiega, però, quanto Luigi Einaudi, scriveva nel saggio Liberismo e comunismo (1941): «Il legislatore liberista dice io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio liberamente muoverti. Se sei industriale, potrai liberamente scegliere i tuoi operai; ma non li potrai occupare più di tante e tante ore di giorno o di notte, variamente se adolescenti, donne o uomini; li dovrai assicurare contro gli infortuni del lavoro, la invalidità, la vecchiaia, le malattie. Dovrai apprestare stanze di ristoro per le donne lattanti, e locali provvisti di docce e di acqua per la pulizia degli operai; osservare nei luoghi di lavoro prescrizioni igieniche e di tutela dell’integrità degli operai. Potrai contrattare liberamente i salari con i tuoi operai; ma se costoro intendono contrattare per mezzo di loro associazioni o leghe, tu non potrai rifiutarti e dovrai osservare i patti con esse stipulati. Tu, nel vendere merci, non potrai chiedere allo stato alcun privilegio il quale ti consenta di vendere la tua merce a prezzo più alto di un qualunque tuo concorrente, nazionale o forestiero; e se, dopo accurate indagini, un tribunale indipendente accerterà che tu godi di qualche privilegio che non sia la tua intelligenza o intraprendenza o inventività, il quale ti consentirebbe di vendere la tua merce a prezzo superiore a quello che sarebbe il prezzo normale di concorrenza, il tribunale medesimo potrà fissare un massimo, da variarsi di tempo in tempo, per i tuoi prezzi. E così di seguito: nel regime liberistico la legge pone i vincoli all’operare degli uomini; ed i vincoli possono essere numerosissimi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la struttura economica». “I vincoli possono essere numerosissimi”, quindi: un principio, questo , del tutto incompatibile con l’individualismo mercatista dell’Istituto Bruno Leoni e del mainstream del ‘liberalismo’ italiano contemporaneo. Sarebbe meglio che gli storici costruissero i loro racconti sui fatti, mettendo da parte le loro predilezioni ideologiche.

La lezione di Örebro: non sono le armi che uccidono, ma le persone (disperate)

10 Febbraio 2025 - di Paolo Musso

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Quella avvenuta nella scuola Risbergska della cittadina svedese di Örebro non è solo la peggiore strage mai avvenuta in Svezia: è anche l’ultima di una serie (che sembra purtroppo destinata ad allungarsi) di stragi analoghe che negli ultimi tempi si sono verificate nei paesi scandinavi.

Non intendo qui occuparmi delle miserabili strumentalizzazioni dei soliti servi sciocchi del politically correct, che hanno subito fatto a gara nell’attribuirne la responsabilità al “razzismo”, alimentato (ovviamente) dalla “destra”, per definizione fonte di ogni male. È chiaro, infatti, che quando qualcuno compie un’azione del genere le sue “motivazioni” esplicite contano ben poco, essendo soltanto un pretesto per sfogare un disagio psichico che ha origini ben diverse: se non fosse stato il razzismo, il signor Rickard Andersson ne avrebbe trovato un altro. Perciò anche la lezione da trarre da questa tragica vicenda (e dalle altre che l’hanno preceduta) è un’altra.

Fino ad oggi stragi di questo tipo sono sempre state ritenute una “specialità” degli Stati Uniti e la loro causa è sempre stata identificata con l’estrema facilità con cui chiunque negli USA può procurarsi non solo armi leggere per la difesa personale, ma anche veri e propri arsenali di armi da guerra. Ma ora che stragi simili hanno cominciato a verificarsi con preoccupante frequenza anche nei paesi scandinavi, dove questa libertà di armarsi non esiste, questo giudizio va per forza rivisto.

Anzitutto, infatti, ciò dimostra che per fare una strage avere armi pesanti certamente aiuta, ma non è indispensabile: si possono fare moltissime vittime anche con armi leggere o addirittura senza armi, come è accaduto in alcune stragi in cui sono stati usati camion lanciati contro la folla.

È vero che finora questo sistema è stato usato solo a fini terroristici, ma nulla vieta che possa essere adottato anche da persone che vogliono uccidere per ragioni personali. Anzi, in un certo senso ciò è già accaduto, dato che le motivazioni addotte dall’autore della strage al mercatino di Natale di Magdeburgo dello scorso 19 dicembre sono molto più vicine a quelle del signor Andersson che a quelle di un terrorista tradizionale.

Questo non fa che riportarci a una verità in fondo banale, ma ormai quasi dimenticata: non sono le armi a uccidere, come molti (tra cui, ahimè, anche Papa Francesco) si ostinano a ripetere, ma le persone. Ne segue che limitare l’accesso alle armi è certamente auspicabile, ma non servirà a molto, perché chi vuole davvero fare una strage troverà sempre il modo di farla.

La seconda verità banale ma essenziale che dobbiamo ricuperare è che chi compie queste azioni è sempre mentalmente disturbato, ma raramente le sue sono tare psichiche innate: in genere si tratta di problemi causati da soprusi che la persona ritiene di aver subito. Tuttavia, la reazione è talmente sproporzionata all’offesa che evidentemente la ragione di fondo dev’essere un’altra.

Questa ragione è la disperazione, cioè l’incapacità di trovare un senso per la propria vita, che ingigantisce tutti i problemi, trasformando qualsiasi contrarietà, anche la più piccola, in un macigno da cui la persona si senta schiacciata. Perciò, se vogliamo evitare che fatti come questi si ripetano e, più in generale, limitare la violenza irrazionale, che si sta diffondendo sempre più, soprattutto fra i giovani, quello che ci serve non sono leggi più severe, bensì ridare speranza alla gente.

E questo ci porta alla terza e ultima lezione. I paesi nordici, infatti, appaiono sempre in testa alle classifiche internazionali che tentano di misurare la qualità della vita o, addirittura, la “felicità”. Eppure, da sempre hanno un numero di suicidi molto superiore alla media e negli ultimi tempi hanno anche avuto un numero di omicidi e femminicidi molto più alto del nostro. Ora che cominciano ad avere anche un numero di stragi superiore alla media, forse è il caso di mettere in discussione gli “indicatori” che vengono usati in queste indagini (che in realtà non “indicano” un bel niente) e riscoprire un’ultima banale ma essenziale verità: la felicità non si può misurare.

La battaglia di Milei – Femminicidio?

5 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Hanno scatenato e continuano a scatenare torrenti di indignazione le recenti prese di posizione di Javier Milei, presidente argentino, relative al reato di femminicidio e alla necessità di abolirlo dall’ordinamento penale. In realtà né in Argentina né in Italia esiste un reato specifico, distinto dall’omicidio, che definisce i casi in cui l’uccisione di una donna configura un reato a sé stante. Quello che esiste nell’ordinamento giuridico è l’aggravante che consiste nell’uccisione di una donna “in quanto donna” o, secondo un’altra formulazione, “per motivi di genere”.

I problemi, con queste definizioni, sono due. Il primo è di tipo logico: nessuno scienziato sociale serio accetterebbe mai, in un’indagine empirica, una definizione così fumosa e soggetta a interpretazioni soggettive. In termini tecnici: femminicidio è un concetto privo di una definizione operativa. E infatti non esistono statistiche sui femminicidi intesi in questa accezione, nonostante da anni le burocrazie e gli uffici studi dell’Unione Europea si arrabattino nel tentativo di produrre una definizione condivisa dai 27 paesi. Inutile aggiungere che, se sociologi e statistici non riescono a venire capo del problema, non si vede come un giudice che deve decidere se applicare oppure no l’aggravante possa stabilire con ragionevole certezza se una donna è stata uccisa “in quanto donna” o per altro motivo. Per non parlare del problema speculare: come regolarsi se una donna uccide un uomo “in quanto uomo”, qualsiasi cosa ciò voglia dire?

Il secondo problema – il problema vero, in quanto problema politico-culturale di fondo – è se abbia senso continuare sulla strada, intrapresa da molti paesi negli ultimi decenni, di prevedere aggravanti sulla base dell’appartenenza della vittima a una o più categorie protette. È questo, ad esempio, il caso delle norme che in Italia restringono la libertà di espressione nei casi in cui i comportamenti di incitamento all’odio, alla discriminazione o alla violenza appaiono dettati da “motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali” (legge Mancino, 25 giugno 1993, n. 205). Qui le categorie protette sono implicite, ma accomunate dal fatto che non rimandano a comportamenti, o a scelte personali, ma a caratteri ascritti o sostanzialmente ascritti, nonché potenzialmente identitari: essere rom, essere nero, essere ebreo, essere cristiano. È su tale zoccolo duro che, qualche anno fa, ha tentato (invano) di intervenire il Ddl Zan, con la estensione dei motivi aggravanti a quelli “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”.

Vista in questo quadro, la presa di posizione di Milei appare in una luce molto diversa da quella che, su di essa, viene proiettata dalle proteste di piazza delle donne argentine. Per le donne argentine, e per le tante femministe indignate europee, quello di Milei è un attacco al mondo femminile, una sorta di legittimazione del femminicidio e della violenza sulle donne. Ma l’obiettivo di Milei è diverso e molto più vasto, e non ha certo le donne come bersaglio privilegiato. Il bersaglio del presidente argentino (come quello del presidente americano), non sono le donne, o i neri, o gli ispanici, o gli omosessuali, o gli islamici ma le norme che, negli ultimi decenni, hanno eroso alla radice il principio di equità, alterando gravemente i meccanismi di reclutamento (politica delle quote, penalizzazione dei maschi bianchi, perseguimento della diversity), le regole di ammissione nelle gare sportive (caso Khelif), l’accesso agli spazi riservati alle donne nelle carceri (trasferimento in reparti femminili di maschi biologici in transizione).

L’idea generale è che l’esistenza di categorie protette comprometta gravemente il principio del merito e dell’uguaglianza davanti alla legge. Per Milei, come a suo tempo per Martin Luther King, le persone andrebbero giudicate, apprezzate, criticate, o punite in quanto individui, non come appartenenti a una categoria.

È questa la vera posta in gioco. Un gioco che le proteste delle donne semplicemente non stanno capendo.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 febbraio]

Le 10 grandi tendenze planetarie che più influenzano il nostro futuro

3 Febbraio 2025 - di Mario Menichella

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“Chi non pensa al futuro, non ne avrà uno”

John Galsworthy

Una ventina d’anni fa usciva il mio libro “Mondi futuri. Viaggio fra i possibili scenari”, che affrontava il tema delle reciproche interconnessioni fra i problemi globali, le minacce emergenti e le grandi forze del cambiamento che plasmano lo sviluppo della nostra civiltà tecnologica. Accanto a scenari ottimistici, si prospettavano catastrofi che avrebbero potuto mettere a rischio il futuro del mondo. Oggi questi ultimi scenari sembrano essere quelli più vicini a realizzarsi e il libro pare rivelarsi profetico. La strada per migliorare le condizioni del nostro mondo passa attraverso l’individuazione dei problemi realmente importanti e la successiva ricerca di soluzioni interdisciplinari e condivise. L’uomo, con i suoi comportamenti, le sue conoscenze, la sua coscienza e responsabilità può agire positivamente, sia nei diversi campi a cui è chiamato ad impegnarsi che sul proprio territorio di appartenenza. Ma tutto parte da una chiara consapevolezza di quella che è l’evoluzione in atto e degli enormi rischi ad essa connessi, che sono spesso sottovalutati o per ignoranza o perché – erroneamente – ritenuti improbabili.

L’importanza di una visione d’insieme che oggi manca

Se vi chiedessi all’improvviso di elencare le 10 principali forze di cambiamento che stanno maggiormente influenzando il presente e il prossimo futuro della nostra civiltà tecnologica, è probabile che fatichereste a trovare una risposta completa (ma, anche solo per curiosità, chiudete un attimo gli occhi e provateci per davvero): forse ne individuereste alcune, ma dubito che riuscireste a identificarne più di 6 o 7, anche concedendovi un’ora di tempo per rifletterci.

La ragione principale risiede nel fatto che, in una società così complessa e interconnessa, manca una visione d’insieme, quello che mi piace definire “il guardare la foresta invece dei singoli alberi”. Il sistema scolastico e universitario, infatti, forma nella maggior parte dei casi degli specialisti che, proprio a causa di una eccessiva specializzazione, finiscono col sapere – passatemi l’espressione un po’ tranchant – “tutto di nulla”, dato che il loro campo di approfondimento è assai ristretto. Ciò porta a una grave carenza di veri scienziati o esperti in grado di cogliere i collegamenti fra discipline diverse.

Occorre, in altre parole, avere la capacità di cogliere le connessioni invisibili fra problemi, fenomeni, avvenimenti e aree del sapere all’apparenza distanti fra loro. E non è solo una questione teorica: basti pensare a come la pandemia di COVID-19 abbia mostrato quanto siano fragili e interdipendenti le nostre strutture sanitarie, economiche e sociali su scala globale. Oppure come l’innovazione tecnologica accelerata dall’intelligenza artificiale stia ridefinendo non solo il lavoro, ma anche le nostre relazioni sociali, politiche e culturali. Siamo, insomma, soggetti a potenti forze del cambiamento ed ai relativi rischi.

Questo è stato uno dei motivi, insieme alla mia curiosità e alla passione per le tematiche interdisciplinari, che mi spinsero, 26 anni fa, a intraprendere un’approfondita analisi dei problemi globali e delle loro interconnessioni. Questo percorso mi portò, sette anni più tardi, a scrivere e pubblicare il libro “Mondi futuri: Viaggio fra i possibili scenari” (oggi non più in commercio, ma scaricabile gratuitamente dal mio sito web personale: trovate il link nella bibliografia in fondo a questo articolo), che è stato definito da molti lettori  un saggio sorprendentemente attuale e, in certi aspetti, quasi “profetico”.

Tuttavia, considerando che nel frattempo la situazione è evoluta e sono emerse nuove minacce per l’umanità, ho ritenuto opportuno aggiornare quell’analisi. Ho presentato per la prima volta una sintesi di questo aggiornamento durante una conferenza pubblica tenutasi circa un anno fa presso la splendida Biblioteca Comunale di Pistoia. L’evento faceva parte di una serie di incontri-dibattito intitolata “Dal Macro al Micro“, organizzata dall’associazione culturale Orizzonte Green (https://www.orizzontegreen.it/), fondata principalmente grazie all’iniziativa dell’ing. Marco Bresci.

Le 10 principali forze del cambiamento nella civiltà attuale

Considerando la vastità dell’argomento trattato nel mio libro, in questo articolo mi concentrerò su uno degli aspetti a mio avviso fondamentali: le grandi tendenze a breve ed a medio termine. Queste tendenze sono, da un lato, la causa dei problemi immediati che l’umanità deve affrontare e, dall’altro, rappresentano minacce future già visibili o che potrebbero emergere nel lungo periodo.

Una mia illustrazione grafica della relazione fra 1. Tendenze, 2. Problemi attuali e 3. Minacce future. In primo piano la copertina del libro “Mondi futuri”, da cui la figura è tratta.

Un esempio concreto è l’epidemia di SARS-CoV-2, che possiamo considerare quello che io chiamo “un problema immediato” (almeno lo è stato fino a poco tempo fa), derivante da una tendenza più ampia: la “crescente vulnerabilità alle epidemie”. Questa tendenza racchiude in sé minacce per il futuro potenzialmente ancora più gravi, come quella descritta nel mio libro: un virus ingegnerizzato in laboratorio che combini la letalità del virus Ebola, il lungo periodo di incubazione dell’HIV e la facilità di trasmissione dell’influenza. Un virus del genere potrebbe avere una letalità vicina al 100%!

Non stiamo quindi parlando affatto di questioni marginali, bensì di tematiche fondamentali per il futuro della nostra civiltà su questo pianeta. Ma andiamo al sodo: in questa slide, tratta dalla mia conferenza, è riportato l’elenco delle 10 grandi tendenze di cui ho parlato in apertura. Le prime 7 erano già presenti nel mio libro “Mondi futuri”, mentre le ultime 3 rappresentano, purtroppo, delle nuove e sgradite “new entry”.

Le 10 grandi tendenze del cambiamento che sono, a mio avviso, all’origine della maggior parte dei più seri problemi globali attuali e delle principali minacce per il futuro della nostra civiltà tecnologica.

Come si può notare, le aree trattate spaziano dalla demografia all’ecologia, dalla genetica alla fisica, dalla geopolitica all’antropologia, dall’economia all’intelligenza artificiale, solo per citare alcune delle macro-discipline coinvolte in questa analisi. Naturalmente, non intendo qui approfondire ciascuna di queste tendenze, molte delle quali sono illustrate dettagliatamente nel mio libro. Il mio obiettivo è piuttosto quello di far comprendere l’importanza di adottare una visione globale e sistemica del mondo.

All’inizio di questo articolo ho citato un aforisma del romanziere inglese John Galsworthy: “Chi non pensa al futuro non ne avrà uno”. Questo aforisma sembra voler sottolineare l’importanza, valida anche per la nostra civiltà tecnologica, di pianificare e riflettere sul futuro. Se non ci si preoccupa delle scelte che si fanno oggi e di come queste possano influenzare il domani, si rischia di non avere un futuro soddisfacente o, peggio, di non averlo affatto! È come dire che le azioni di oggi determinano il nostro domani: se non ci si prepara, il futuro potrebbe risultare fortemente problematico o assolutamente buio e incerto.

Le connessioni tra le problematiche e il fattore “imprevisti”

Un aspetto fondamentale che desidero sottolineare è che ciascuna delle tendenze di cambiamento menzionate non è stata selezionata casualmente: ognuna di esse ha il potenziale di innescare, direttamente o indirettamente, il collassodella nostra civiltà tecnologica. Si tratta quindi di questioni di massima rilevanza, che devono essere considerate all’interno di un quadro complessivo più ampio e che ci invitano a prendere responsabilità per le decisioni presenti, affinché possano guidarci verso un domani migliore.

Il punto centrale è che molte delle 10 tendenze descritte sono strettamente interconnesse. Per esempio, la carenza di determinate risorse può sfociare in conflitti armati; il cambiamento climatico può provocare migrazioni su larga scala; e l’incremento demografico può intensificare sia il consumo di risorse che il degrado ambientale. Non sorprende, dunque, che nel mio libro abbia incluso un grafico delle interconnessioni tra i vari “problemi”, “minacce” e “tendenze” (intese/i nel senso illustrato in precedenza), elaborato durante i sette anni di preparazione del testo e di ricerca di informazioni presso le più prestigiose biblioteche italiane (all’epoca Internet era ancora agli inizi, non ricco di materiali come oggi).

Nonostante l’analisi delle connessioni tra le sfide attuali e le minacce future aiuti a immaginare i possibili scenari futuri, esistono sempre dei fattori imprevedibili, che nel mio libro definisco “imprevisti”. Due esempi emblematici risalenti agli anni Ottanta sono la scoperta, nel 1985, del buco dell’ozono stratosferico (causato dai clorofluorocarburi rilasciati dall’uomo nell’atmosfera attraverso le bombolette spray, gli agenti refrigeranti, etc.) e, l’anno seguente, l’identificazione del morbo di Creutzfeldt-Jacob – noto come la “mucca pazza” – dovuto ai prioni.

In ambito economico, questi eventi imprevisti e negativi sono spesso denominati “cigni neri”. Un “cigno nero” rappresenta un evento estremamente improbabile ma dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche. Un esempio potrebbe essere l’impiego (da parte di qualsivoglia soggetto e per qualsivoglia ragione) di una bomba atomica tattica, che potrebbe rapidamente degenerare in un conflitto termonucleare globale, come ipotizzato in alcuni celebri film del passato (The Day After, Wargames, ecc.).

Un “cigno nero” è un evento che esula dalle aspettative convenzionali, il quale solitamente quanto più ha un impatto significativo e può cambiare l’attuale stato delle cose, tanto più è ritenuto improbabile.

La durata tipica di una civiltà tecnologica

Una delle motivazioni principali che mi spinsero a scrivere Mondi futuri fu la mia curiosità generale e, in particolare, l’interesse verso la durata di una civiltà tecnologica. Già qualche anno prima, infatti, avevo affrontato questo tema nel libro A caccia di E.T.: La ricerca di vita e intelligenza nello spazio, seguendo le orme di Piero Angela, che lo aveva esplorato agli inizi della sua carriera di divulgatore.

Escludendo l’ipotesi che la nostra civiltà sia un caso unico nell’Universo, è logico supporre che nella nostra galassia si siano sviluppate altre civiltà tecnologiche. Il loro numero può essere stimato, seppur in modo approssimativo, tramite la piuttosto nota “equazione di Drake”, formulata dall’astronomo americano Frank Drake. Questa equazione considera diversi fattori: il tasso medio di formazione di stelle simili al Sole, la frazione di queste stelle con sistemi planetari, e così via. L’ultimo termine dell’equazione è rappresentato da L, ovvero la durata di una civiltà tecnologica capace di comunicare, cioè in grado di emettere onde radio e segnali ottici nello spazio.

Slide che mostra l’astronomo Frank Drake e la sua famosa equazione per stimare il numero di civiltà galattiche comunicative. In primo piano, il mio libro “A caccia di E.T.”, con prefazione di Margherita Hack.

Il problema è che disponiamo di un solo esempio concreto di civiltà tecnologica: la nostra. Siamo diventati una civiltà comunicativa poco più di un secolo fa e potremmo autodistruggerci in qualsiasi momento. Questo pensiero mi ha spinto a esplorare il futuro e la possibile fine del mondo, dell’Universo, del pianeta Terra e della specie Homo sapiens. Era un tema che nessuno aveva mai analizzato in modo sistematico e interdisciplinare come tentai di fare nel mio saggio, nonostante fosse principalmente un’opera divulgativa.

Il mondo, così come lo conosciamo oggi, potrebbe finire, come già suggeriva il poeta Thomas S. Eliot, con un “botto” improvviso o con un “laménto”, intendendo con quest’ultimo semplicemente un lento declino. Per determinare la durata tipica di una civiltà tecnologica come la nostra, è necessario analizzare a fondo le possibili strade che conducono al declino o al collasso, sia totale che parziale. Questo è un tema affascinante che offre molte scoperte davvero interessanti durante il percorso.

La crisi di “intelligibilità” e le sfide attuali

Già vent’anni fa, nella prefazione del mio libro Mondi futuri, scrivevo che “avere una prospettiva globale e prevedere il futuro a lungo termine della società e del mondo intero non è, per l’Homo technologicus attuale, solo un modo per soddisfare una curiosità innata; rappresenta soprattutto un esercizio utile per la propria sopravvivenza. Oggi, infatti, ci troviamo in una crisi di ‘intelligibilità’: si è creato uno scarto profondo tra ciò che bisognerebbe comprendere e i mezzi concettuali necessari alla comprensione, dovuto alla differente velocità di crescita tra tecnologia e cultura”.

Nella stessa prefazione, rileggendola oggi, si possono trovare previsioni che si sono rivelate sorprendentemente accurate, come quelle relative alle epidemie e alle migrazioni di massa: “All’alba del terzo millennio, l’umanità si trova, per la prima volta nella sua storia, di fronte a una serie di grandi sfide e problemi globali emergenti che minacciano non solo la sicurezza e il benessere dei paesi più ricchi e industrializzati (come l’Europa e gli Stati Uniti), ma anche la sopravvivenza della civiltà tecnologica e dell’intera specie Homo sapiens sul nostro sempre più piccolo e fragile pianeta”.

Oggi è evidente a chiunque che ci troviamo sull’orlo di potenziali catastrofi in diversi ambiti. Tuttavia, la tendenza a concentrarsi sui singoli problemi, piuttosto che avere una visione d’insieme, rende difficile per i cittadini comuni e per i leader politici stabilire una gerarchia chiara dei rischi e delle priorità da affrontare (un esempio di problema assai serio ma largamente sottovalutato per la disinformazione alimentata dalle lobby è la crescita esponenziale dell’inquinamento elettromagnetico, ma questo è un tema che merita un articolo a sé). Dunque è come navigare a vista in un mare pieno di pericoli, senza un radar, proprio come fece il Titanic meno di un secolo fa… e sappiamo tutti come è andata a finire!

Se siete arrivati a leggere fino a qui, comprenderete meglio cosa intendevo quando affermavo, un po’ brutalmente, che la nostra società forma persone che sanno “tutto di nulla”: si approfondisce la conoscenza in settori molto ristretti a scapito di una visione globale e interdisciplinare, quella che servirebbe ai decisori politici. Paradossalmente, le uniche figure che mantengono una visione più ampia sono scrittori e giornalisti, che però oggi si trovano sempre più limitati dall’aumento della censura e dell’auto-censura, fenomeni legati al crescente potere delle lobby (la già citata tendenza n°10).

L’ultima slide della mia conferenza, dedicata proprio al tema della censura, purtroppo sempre più di attualità. Nella foto, l’ing. Marco Bresci, organizzatore dell’evento.

Esiste, è vero, la cosiddetta “teoria dei sistemi”, una disciplina interdisciplinare che analizza come le parti di un sistema complesso interagiscono fra loro per formare un sistema coerente. La teoria dei sistemi si occupa di studiare i modelli complessi e le interconnessioni fra i diversi elementi in vari ambiti, come la biologia, la sociologia, l’ecologia e la filosofia. Ma ciò non basta minimamente per avere una visione dei problemi globali presenti e futuri e delle loro interconnessioni, tant’è che nel mio libro essa rappresenta una parte piccolissima – seppure molto interessante e originale – delle tematiche trattate.

Quel “vuoto” che va colmato quanto prima

All’epoca della stesura del mio libro a mia conoscenza non esistevano, a livello mondiale, istituzioni accademiche che si interessassero di problemi globali in maniera interdisciplinare: una organizzazione internazionale – peraltro privata – che mi viene a mente è il “Club di Budapest”, fondato dal filosofo e sistemologo Ervin Laszlo, che si occupa(va) di promuovere la consapevolezza globale e il cambiamento sociale sostenibile. Per il resto, gli unici modesti tentativi di interpretazione delle complesse interazioni fra le varie tendenze planetarie erano i lacunosi studi “Global Trends” della CIA.

Perfino l’utile serie dei famosi libri Vital Signs, editi dal prestigioso Worldwatch Institute, che ha fornito annualmente analisi dettagliate su tendenze globali in ambiti quali energia, ambiente, economia e società (insieme ai volumi, altrettanto preziosi, del rapporto State of the World), è andata avanti dal 1992 fino al 2015 (data dell’ultimo volume pubblicato, il numero 22), poiché questo Istituto – fondato nel 1974 dall’economista Lester R. Brown, un pioniere della ricerca sulle questioni ambientali e sulla sostenibilità globale – ha purtroppo cessato la sua attività nel 2017, ovvero ben otto anni fa.

Purtroppo, la “colpa” – se naturalmente di colpa si può parlare – di queste poche istituzioni (mi sono limitato a citarne due fra le più famose a livello mondiale) che si sono interessate di problemi globali in maniera interdisciplinare è quella di non aver lasciato un’“eredità”, intesa sia in termini di continuità operativa sia di una vera e propria “scuola” (come si direbbe in ambito accademico). Sebbene Brown e Laszlo siano ancora vivi e rimangano figure rispettate, oggi sostanzialmente dietro di loro c’è il “vuoto”, complici anche i cambiamenti degli ultimi vent’anni nel panorama della comunicazione.

Infatti, l’ascesa di nuove piattaforme digitali, dei social media e di forme di comunicazione “dal basso”, delle “fake news” e di quant’altro hanno reso più difficile perfino a istituzioni e personaggi autorevoli e già affermati mantenere la loro posizione centrale nel dibattito globale. Inoltre, le organizzazioni no profit e di ricerca affrontano notoriamente problemi legati ai finanziamenti – indispensabili per conservare la propria indipendenza – specialmente in un contesto in cui le priorità politiche e sociali possono cambiare. Il risultato è che oggi viviamo in un “deserto” di ricerca e comunicativo su questioni chiave.

Mario Menichella (fisico e divulgatore) – m.menichella@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Menichella M., “Mondi futuri: Viaggio fra i possibili scenari, Scibooks Edizioni, 2005.

Il libro è liberamente scaricabile dal mio sito personale (http://www.menichella.it) all’indirizzo: http://www.menichella.it/MONDI%20FUTURI.pdf

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