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Società

A proposito della proposta di indulto – Scelte tragiche

30 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Ci sarà un indulto o un’amnistia per i detenuti?

Dopo la visita del Papa a Rebibbia e le parole dette in carcere (e prima ancora nella Bolla di indizione del Giubileo), la domanda è tornata di attualità. Ma per la verità, e giustamente, la domanda aleggiava da tempo grazie ai rapporti delle associazioni che – come Antigone – si occupano della condizione carceraria. Credo dovremmo essere grati a quanti, nella società civile e pure nel mondo politico (penso in particolare ai Radicali), tengono viva l’attenzione sul dramma delle carceri italiane: vecchie, spesso fatiscenti, indegne di un paese civile. Un dramma che, negli ultimi anni, si è aggravato per il sovraffollamento: attualmente il numero di detenuti supera del 32% i posti effettivamente disponibili, e il numero di suicidi di detenuti (89 quest’anno) ha toccato il massimo storico. In breve, le condizioni che suggeriscono un provvedimento di alleggerimento ci sono tutte.

Eppure, un tale provvedimento non arriva, e non da oggi (l’ultimo indulto è di quasi 20 anni fa). Perché?

Una spiegazione ovvia è la convenienza elettorale: né la destra né la sinistra sono pronte a intestarsi un provvedimento di clemenza, che inevitabilmente contrasterebbe con la domanda di sicurezza che proviene dall’opinione pubblica. E anche nel caso in cui, grazie alle aperture di Forza Italia e del Pd, un fronte pro-indulto si formasse, i voti in parlamento non sarebbero sufficienti: l’articolo 79 della Costituzione, infatti, prescrive che un provvedimento del genere sia sostenuto da una maggioranza qualificata (2/3 dei senatori e 2/3 dei deputati).

Ma queste sono cattive ragioni per respingere la domanda di un atto di clemenza. La domanda vera è: vi sono anche buone ragioni?

Temo di sì. La prima buona ragione è che l’esperienza del passato mostra che questo genere di provvedimenti non è risolutivo: nel giro di 2-3 anni la situazione torna ad essere quella precedente. A questo argomento si può obiettare che, per evitare un ritorno alle cifre pre-clemenza, si può – insieme all’atto di parziale svuotamento delle carceri – varare un mix di misure di alleggerimento collaterali: aumento dei posti in carcere, depenalizzazione di molti reati, potenziamento delle misure alternative al carcere. Ma qui interviene una seconda buona ragione contraria a un atto di clemenza: anche se le misure di alleggerimento collaterali, per lo più costose e di non immediata attuazione, fossero effettivamente adottate, resterebbe il fatto che una parte non trascurabile degli scarcerati tornerebbero a commettere reati più o meno gravi, di cui sarebbero vittime diverse migliaia di cittadini.

Detto brutalmente: le pagine di cronaca si riempirebbero, come accadde dopo l’ultimo indulto, di nuovi crimini commessi proprio dai beneficiari dell’atto di clemenza. Il che potrebbe non fare molta impressione finché si trattasse solo di furti e borseggi, ma diventerebbe emotivamente insostenibile di fronte ad aggressioni, rapine, violenze sessuali, uccisioni, femminicidi compiuti da soggetti che, senza l’indulto, sarebbero stati ancora in carcere. Che diremo quando scopriremo che l’ennesima ragazza stuprata o uccisa è stata vittima di un indultato?

Quello che spesso si dimentica è che, accanto alla fondamentale (e troppo poco attuata) funzione di rieducazione, il carcere svolge una non meno importante funzione di “incapacitazione”, ossia di protezione dei cittadini mettendo (temporaneamente) in condizione di non nuocere chi ha commesso reati abbastanza gravi da comportare il carcere.

Ecco perché il gesto di clemenza, pur giustificato dalla inaccettabile condizione di degrado di tanti carceri, risulta ingiustificabile da altri punti di vista, primo fra i quali quello delle future vittime. Ciò di fronte a cui ci troviamo, in altre parole, è un formidabile dilemma etico, che non vede coinvolti due soggetti – i detenuti e lo Stato – ma ne vede implicati tre: detenuti, Stato, future vittime. Se il rapporto fosse solo fra Stato e detenuti, varrebbe unicamente il principio che uno Stato non può privare della libertà un cittadino se non è in grado di assicurargli una detenzione umana. Ma essendo il rapporto a tre, vale la domanda: può lo Stato scaricare su cittadini innocenti la sua incapacità di gestire le carceri?

Non sono dilemmi nuovi, anche in campo giuridico. Se ne occuparono magistralmente, quasi mezzo secolo fa, Guido Calabresi e Philip Bobbit in un celebre libro (Tragic choices, 1978), che metteva di fronte alle decisioni che, specie in una situazione di risorse scarse, l’azione pubblica è costretta ad assumere. Ebbene, quella di un eventuale indulto è una di tali decisioni tragiche, perché qualsiasi cosa il decisore pubblico scelga, ci saranno effetti negativi e vittime incolpevoli.

Possiamo avere convinzioni più o meno ferme su quale dei due sia il male minore, ma dobbiamo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che, qualsiasi decisione prendiamo, non potrà mai essere una decisione giusta.

[articolo uscito sul Messaggero il 29 dicembre 2024]

Sulla giornata in memoria delle vittime della giustizia – La battaglia di Gaia Tortora

25 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Non sta suscitando l’attenzione che meriterebbe la proposta, avanzata da diverse forze politiche, di istituire una “giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari”, fissando come giorno di celebrazione il 17 giugno, anniversario dell’arresto di Enzo Tortora, avvenuto quel giorno del 1983. Come molti ricorderanno o sapranno, il celebre e amatissimo conduttore fu rinchiuso in carcere per 7 mesi (più vari mesi di arresti domiciliari), e infine condannato a 10 anni di carcere sulla base di accuse che, solo a 4 anni dall’arresto, vennero definitivamente riconosciute come del tutto false. Enzo Tortora morì poco dopo, all’età di soli 59 anni, forse anche per la terribile ferita che la sua vicenda giudiziaria inflisse a lui a alla sua famiglia.

La proposta è arrivata in Commissione Giustizia alla Camera, e avrebbe avuto via libera per un rapido approdo e approvazione in Aula se a mettersi di traverso, oltre al voto contrario dei Cinque Stelle a all’astensione dell’Alleanza Verdi-Sinistra, non vi fosse stata l’astensione dei rappresentanti del Pd.

Le motivazioni dei rappresentanti del Pd sono state così cervellotiche e capziose da suscitare la reazione sdegnata di Gaia Tortora, figlia di Enzo, che ha accusato il Partito democratico di mancanza di coraggio e di subalternità a “certa magistratura”.

Ancora peggio le motivazioni contrarie dell’Associazione nazionale magistrati che, per bocca del suo presidente Giuseppe Santalucia, si chiede come mai non venga istituita una giornata nazionale per le vittime degli errori sanitari, come se non sapesse che, a differenza di quel che capita ai magistrati, i medici quasi sempre pagano i loro errori dal punto di vista disciplinare, penale e civile, e proprio per questo sono spesso costretti a sottoscrivere costose polizze assicurative.

L’unica obiezione convincente che mi è capitato di leggere contro la proposta di ricordare gli errori giudiziari è quella del prof. Dino Cofrancesco, eminente studioso e liberale a tutto tondo, che ha fatto notare (feste-civili-e-giornate-della-memoria-che-dividono ) che, a differenza di quel che capita in altri paesi, in Italia le giornate della memoria non sono quasi mai un fattore di ricomposizione e di unità nazionale, ma finiscono per riaccendere le divisioni che lacerano la nostra democrazia. E in effetti il caso dell’Anniversario della Liberazione (25 aprile), mal digerito dalla destra, e il caso del giorno del ricordo delle vittime delle Foibe (10 febbraio), mal digerito dalla sinistra, sembrano dargli ragione. A ulteriore sostegno di questo argomento si può aggiungere l’ovvia ma non irrilevante considerazione che la giornata in memoria delle vittime della giustizia rischia di minare il prestigio della magistratura, riducendo ulteriormente la già bassa fiducia dei cittadini nella macchina giudiziaria.

Per quanto mi riguarda, mentre trovo ridicola e succube della magistratura la posizione del Pd, capisco perfettamente le ragioni del prof. Cofrancesco, ma mi sento più vicino al grido di dolore di Gaia Tortora e delle migliaia di vittime della superficialità, arroganza e impunità di tanti magistrati. Certo può darsi che una giornata in memoria delle vittime della giustizia aggiunga una nuova fonte di divisione alle molte che già ci dilaniano, ma vorrei attirare l’attenzione su un paio di punti. Primo, non tutte le giornate rievocative ci dividono (si pensi al 2 giugno, Festa della Repubblica), molto dipende da come si arriva a scegliere una data, e non è detto che, al momento del voto finale, il Partito democratico ignori gli accorati appelli di vari suoi membri o ex membri a rivedere la posizione pilatesca assunta fin qui.

Secondo, proprio un accordo sul gesto simbolico di istituire una giornata della memoria delle vittime della giustizia potrebbe contribuire ad avviare quel processo di profonda riforma e autoriforma della giustizia di cui, invano, si parla da decenni.

Ma è proprio questo, si obietterà, quello che magistrati e Pd non vogliono. Può darsi, ma allora bisognerà rispondere alla domanda: se l’unico modo per evitare le divisioni è lasciare le cose come stanno, non vale forse la pena accettarle, quelle divisioni, e provare a combatterla a viso aperto, questa essenziale battaglia di civiltà?

[articolo uscito sulla Ragione il 24 dicembre 2024]

Sui limiti della libertà di espressione – Le parole sono importanti

23 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Non ricordo un periodo in cui si sia parlato così tanto, e così costantemente, di libertà di espressione. Il caso di Tony Effe, di cui tanto si è parlato nei giorni scorsi, è infatti solo l’ultimo episodio di una serie di controversie che, in un modo o nell’altro, hanno coinvolto ogni sorta di soggetti: politici, ministri, scrittori, docenti, giornalisti, comuni cittadini. Giusto per fare alcuni esempi: la presidente della Camera Laura Boldrini che denuncia i suoi detrattori in rete; l’università di Milano che sospende il prof. Marco Bassani per aver condiviso (su Facebook) una vignetta sarcastica su Kamala Harris; Giorgia Meloni che querela il prof. Canfora per averla definita “neo-nazista nell’animo”; gli scrittori sgraditi silenziati dai contestatori al Salone del Libro di Torino; lo scrittore Saviano disinvitato da un programma Rai per i contenuti anti-governativi di un suo discorso sul 25 aprile. Eccetera.

Apparentemente, in molti di questi casi, ci troviamo di fronte a un dilemma: da una parte la libertà di espressione, dall’altra qualche principio altrettanto alto (la dignità umana, l’anti-fascismo, ecc.), che però confligge con la prima. È questo il motivo per cui, in ultima analisi, è praticamente impossibile stabilire in modo chiaro, univoco e condiviso i limiti della libertà di espressione.

E tuttavia…

Tuttavia c’è almeno una cosa che potremmo fare per regolare in modo ragionevole queste controversie: non forzare il senso delle parole. Morettianamente, ricordarci sempre che “le parole sono importanti”. Usarle a sproposito porta a fraintendimenti e inutili conflitti.

La parola censura, ad esempio. Censura è quando un’autorità vieta la circolazione di un testo, o impedisce a un cittadino di esprimere le sui opinioni, non quando un autore o un artista (o persona che tale si sente), non viene invitato a un evento, o a una trasmissione, o a esprimersi su una piattaforma. Il potere culturale, editoriale, letterario esiste, talora favorisce gli autori di destra, talora (più di frequente) quelli di sinistra, ma quella non è censura. È esercizio, più o meno partigiano, più o meno illuminato, di un potere costitutivamente arbitrario. San Remo non è un concorso universitario, e il direttore artistico ha tutto il diritto di invitare chi vuole, perché a lui è staro delegato quel potere. Possiamo criticare Carlo Conti se esclude Patty Pravo o Al Bano, ma non gridare alla censura. Lo stesso vale per i tanti che si sentono esclusi dalla programmazione Rai, o da un talk show, o da un concorso letterario. Possiamo parlare di “amichettismo”, circuiti privilegiati, cerchie che escludono e cerchi magici che includono. Ma di censura no, se non altro per rispetto verso i veri censurati sotto le dittature e i regimi dittatoriali.

Un altro esempio è la parola pensiero. Gli insulti, le offese, le ingiurie, non sono manifestazioni della libertà di pensiero, anche quando usate nell’ambito di un ragionamento politico. Si può discutere, caso per caso, dell’opportunità di querelare per diffamazione (un reato che è stato rilanciato dalla depenalizzazione dell’ingiuria), ma non si può invocare la libertà di pensiero per giustificare un’offesa, o teorizzare che le querele vanno ritirate se c’è squilibrio di potere fra querelante e querelato.

Soprattutto non si possono usare due pesi e due misure: se Laura Boldrini faceva bene a denunciare i suoi odiatori (per lo più anonimi), altrettanto bene fa Giorgia Meloni con i propri detrattori (per lo più ben protetti dall’establishment culturale).

Un altro esempio ancora sono le parole dissenso, contestazione, critica usate per giustificare chi impedisce materialmente lo svolgimento di una manifestazione, di un incontro, di un convegno, di un evento culturale. Qui gli esempi – in parte già richiamati – sono tantissimi e molto diversi fra loro. Studenti che, in diverse università, impediscono di parlare a Maurizio Molinari e David Parenzo in quanto ebrei. Contestatori che impediscono a Eugenia Roccella di parlare al Salone del libro e agli Stati generali della natalità. Attivisti che impediscono il volantinaggio ad attivisti di diverso credo politico. Manifestazioni di piazza per impedire altre manifestazioni. Presentazioni di libri soppresse per l’argomento del libro (l’ebrea Golda Meir). Sempre ogni volta in nome del sacrosanto diritto al dissenso e alla manifestazione del pensiero, tutelati dagli articoli 17 e 21 della Costituzione. È il caso di notare che quel che questi esempi hanno in comune non è l’uso della violenza, perché in diversi casi si tratta di manifestazioni pacifiche, che ottengono il risultato voluto (il silenzio altrui) senza ricorrere all’uso della forza, talora anzi adoperando mezzi creativi: liberare decine di migliaia di grilli in una sala per impedire un evento culturale sgradito (è successo anche questo) può essere più efficace di un picchettaggio o di un’irruzione di massa.

Ebbene, anche in questi casi le parole sono usate a sproposito. Impedire a qualcuno di parlare non è né dissenso, né contestazione, né critica. Semmai è privare qualcuno di un suo diritto, quello di manifestare il proprio pensiero in pubblico. Ma come si chiama questa cosa?

Ed ecco il problema: per questa cosa, in particolare quando non è violenta, non solo non abbiamo un reato, ma nemmeno una parola. Anzi, forse non abbiamo il reato precisamente perché ci manca la parola per dire la cosa. Usiamo la parola dissenso, ma il dissenso è il motivo dell’azione, non l’azione stessa. Per quest’ultima abbiamo solo concetti approssimativi: silenziare, zittire, oscurare, sopraffare (grillare?).

Peccato, perché “le parole sono importanti”.

[articolo uscito sul Messaggero il 22 dicembre 2024]

Feste civili e giornate della memoria che dividono

23 Dicembre 2024 - di Dino Cofrancesco

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I lettori non me ne vogliano se dico di comprendere i magistrati, i giustizialisti e la sacra corona delle sinistre unite che si oppongono ferocemente al giorno della memoria delle vittime delle sentenze giudiziarie. Nel nostro paese, infatti, le feste nazionali e le giornate della memoria non sono momenti di rinnovata concordia nazionale ma sceneggiate di guerre civili che si vogliono far rivivere, carnevalate di cui nessuno sembra vergognarsi. Nelle marce, nei moniti minacciosi—‘non passeranno!’—nella demonizzazione dei vinti (‘Vae victis!’), non si gode insieme la riconquistata libertà, la ritrovata indipendenza, la fine di una tragedia nazionale, ma ci si compiace quasi per la violenza erogata contro i nemici interni ed esterni, fino ad esaltare le macellerie messicane (per citare Ferruccio Parri) di Piazzale Loreto e dei triangoli della morte. Un comunista d’antan, Gian Carlo Pajetta, in una trasmissione televisiva, disse a Giorgio Almirante: “abbiamo riconquistato la democrazia anche per voi”. E il leader missino, qualche tempo dopo, dichiarò pubblicamente, non senza una certa ironia, “se antifascismo vuol dire libertà per tutti, elezioni democratiche, rispetto di tutte le opinioni sono antifascista anch’io”. E’ superfluo rilevare che non è questo lo spirito del 25 aprile in cui, alle sfilate partigiane stricto sensu, non sono tollerati, non dico gli ex fascisti (pentiti o dissociati), ma neppure i liberali non di sinistra. I più vecchi ricorderanno che al padre di Letizia Moratti, in carrozzella, si vietò di prendere parte al corteo che, nella sua Milano, rievocava la Resistenza e la Liberazione. Una delle figure più nobili della Resistenza e della Prima Repubblica, Randolfo Pacciardi, fu demonizzato per aver collaborato con Giano Accame – un politico intellettuale di elevata cifra morale – in un movimento inteso al superamento del fascismo e dell’antifascismo e a una riconciliazione nazionale. Nel 1974, come ricorda Luca Polese Remaggi nel ‘Dizionario Biografico degli Italiani’ (2014) venne persino “raggiunto da una comunicazione giudiziaria, inviata dal giudice istruttore di Torino Luciano Violante. Era accusato insieme a Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, a diversi funzionari dello Stato e a neofascisti di Ordine Nuovo e del Fronte Nazionale di Valerio Borghese di aver cospirato per un colpo di Stato”. Cose e’ pazze!, si direbbe a Napoli.

Nel 1945, nella grande manifestazione svoltasi nella Parigi liberata, Charles De Gaulle intonò ‘La Marsigliese’ “Contre nous de la tyrannie/ L’étendard sanglant est enlevé” . (‘Contro di noi si è levato lo stendardo insanguinato della tirannia’). Lo stendardo (cattivo) era quello dei suoi antenati giacché il generale veniva da una famiglia cattolica e nazionalista di origine aristocratica (fondata da Thébault de Gaulle nel XVI secolo) e, da giovane, era stato vicino ai monarchici dell’’Action Française’ ma anche per lui la Festa della Bastiglia (il 14 luglio) e la ‘Marsigliese’ erano simboli di unione, oltre i partiti e le classi sociali, come nel bellissimo film di Michael Curtiz Casablanca (1942). Lo stesso dicasi del 4 luglio in America dove non si sfila contro nessuno ma ci si unisce in un embrassons-nous universale a testimoniare un patriottismo naturale, spontaneo e non prescritto dal potere. Sulle grandi avenue di New York e delle altre metropoli americane, nelle cittadine del Middle West e in quelli che un tempo erano i villaggi della frontiera, tutti gli americani si ritrovano a cantare in coro “O say, does that star-spangled banner yet wave/ Over the land of the free and the home of the brave” (Oh dimmi, sventola ancora quello stendardo stellato/ Sulla terra dei liberi e sulla casa dei coraggiosi).

‘The Star-Spangled Banner’ – a differenza di Bella ciao – è un simbolo di identità e di unione che va oltre le classi sociali, le razze, le etnie culturali. Non è un inno di battaglia ma un Te Deum laudamus come sono le note che esprimono lo ‘spirito comunitario’.
In Italia tutto ciò sarebbe impensabile. Da noi le feste civili o sono roba di guelfi o sono roba di ghibellini: a caratterizzarle sono i simboli belligeni non i ramoscelli d’ulivo dell’albero della pace. E lo stesso dicasi delle giornate della memoria: se si ricordano le foibe, le sinistre si mettono a lutto. Nessun gesto simbolico di riparazione da parte di quanti erano dalla parte di Tito. Indifferenti alla perdita delle nostre province orientali – del resto, nell’immediato secondo dopoguerra, l’unico film dedicato alla tragedia degli Italiani d’Istria è La città dolente di Mario Bonnard del 1949 – sindacalisti, militanti socialcomunisti e portuali, a Genova, non volevano far sbarcare i ‘fascisti’ istriani in fuga dal Paradiso comunista. Analogamente è impensabile che la magistratura chieda perdono agli italiani per le tante vittime innocenti finite nelle carceri statali. Si comprende bene l’indignazione di Gaia Tortora: non solo nessuno ha pagato per la morte del padre ma i magistrati responsabili della pazzesca sentenza che distrusse la vita di Enzo Tortora hanno fatto carriera come se non avessero commesso alcuna manchevolezza.

Se il giorno della memoria delle vittime dei tribunali si facesse davvero e vedesse la partecipazione di magistrati seri e responsabili (ce ne sono) pronti a salire sul palco ad abbracciare i parenti degli innocenti ingiustamente condannati, se dessero prova di civismo i più alti gradi del potere giudiziario facendo il classico ‘esame di coscienza’ e impegnandosi solennemente a una maggiore vigilanza sulle indagini e sulla raccolta delle prove a carico degli imputati, l’Italia potrebbe dimostrare al mondo di non essere inferiore alla Francia o agli Stati Uniti nel creare occasioni di incontro e di riconciliazione tra parti politiche e sociali un tempo in conflitto. Temo, però, che nel caso il progetto andasse in porto, e per di più se si scegliesse proprio la giornata dell’arresto di Enzo Tortora per ricordare le vittime dei tribunali, i giustizialisti rimarrebbero chiusi in casa, a guardare dalla finestra i cortei con risentimento ed astio. Gli ipergarantisti (ovvero gli anti-giustizialisti ideologici per i quali ogni sentenza di condanna è sospetta ed ogni prova portata dai PM è artefatta), dal canto loro, ne trarrebbero motivo per una nuova cruenta (almeno simbolicamente) prova di forza: sarebbero loro a sfilare sotto le finestre dei giudici e davanti alle corti di giustizia al grido Vergogna! Col risultato che il paese, ancora una volta, mostrerebbe che solo le guerre civili lo tengono in vita, gli procurano emozioni, procurano ai cittadini forti identità etico-sociali. Da noi la guerra civile non è una parentesi ma una pianta che va innaffiata ogni giorno: e guai ai tiepidi o ai ‘renitenti alla leva’!

A ben riflettere è, questa, una delle eredità più negative del fascismo: l’abito della mente e del cuore che porta a riguardare i “panciafichisti”, i pacifisti che non amano battersi e cercano l’accordo con quanti hanno interessi e valori diversi dai loro, come vigliacchi “che mai non fur vivi”. E’ non poco emblematico, d’altronde, che il termine inglese bargaining, che designa la quintessenza della democrazia liberale ovvero la disposizione a venire a patti con l’altro nel disarmo degli animi, in Italia venga tradotto come ‘compromesso’, parola che non ha nessuna valenza positiva e che, quando non è completamente negativa, rimane sempre associata a qualcosa di spiacevole – ad es., una ‘pace di compromesso’ non è una pace giusta e soddisfacente, ma una triste necessità alla quale è difficile sottrarsi, intervenendo cause di forza maggiore.

Sui nuovi dati del Ministero dell’Interno – Criminalità e immigrazione irregolare

18 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Stanno suscitando un discreto sconcerto i dati sulla criminalità che, da alcuni giorni, filtrano dal Ministero dell’Interno. Da essi, infatti, si deduce che la percentuale di reati presumibilmente commessi (persone denunciate o arrestate) da stranieri irregolari (circa il 28%), è enormemente superiore al peso degli irregolari stessi (meno dell’1% della popolazione presente in Italia). Ancora più sconcerto suscitano i dati su uno dei reati più odiosi, ossia le violenze sessuali: nei primi 9 mesi del 2024 quasi la metà (il 44%) sono state perpetrate da stranieri (regolari e non), che costituiscono appena il 10% della popolazione. E ancora più preoccupanti appaiono i dati delle violenze sessuali commesse da giovani, che vedono un’incidenza degli stranieri che sfiora il 60%, circa 6 volte il loro peso sulla popolazione.

Ci vorrà tempo e pazienza per ponderare bene questi dati, confrontandoli con quelli rilasciati in passato, anche per capire se la pericolosità relativa degli stranieri irregolari è aumentata o diminuita nel tempo (a una prima analisi pare aumentata).

Quello che per ora i dati ministeriali sembrano suggerire sono almeno due cose. Primo, la pericolosità relativa degli stranieri irregolari è circa 50 volte superiore a quella dei cittadini comunitari (italiani e stranieri). Secondo, quasi un terzo dei posti occupati in carcere è imputabile a cittadini stranieri, in buona parte irregolari (con i
dati disponibili, la percentuale esatta può solo essere stimata). Si può tranquillamente affermare che senza questi detenuti non vi sarebbe alcun sovraffollamento carcerario, anche se – ovviamente – resterebbero i gravissimi problemi di degrado, trattamenti
disumani, carenza di servizi giustamente (e inutilmente) denunciati da alcune associazioni (a partire da Antigone) e da alcune forze politiche (a partire dai Radicali).

Che fare, dunque?

Molte cose si potrebbero fare, sia di sinistra sia di destra, ma ve ne è una preliminare a qualsiasi soluzione: non negare l’esistenza del problema. Perché già lo so che, a partire dai prossimi giorni, vedremo rispolverare le due obiezioni – entrambe fallaci – che vengono sollevate ogniqualvolta il Ministero o l’Istat forniscono dati disaggregati per nazionalità degli autori di reati.

La prima è: ma la maggior parte dei reati li commettono gli italiani, non gli stranieri. Questa obiezione è ingenua, perché è ovvio che – essendo gli italiani 10 volte più numerosi degli stranieri e 100 volte più numerosi degli stranieri irregolari – il loro apporto alla criminalità complessiva non può essere trascurabile. Il punto è che, da soli, gli stranieri (regolari e non) commettono circa 1/3 dei reati, e gli stranieri irregolari, spesso concentrati in spazi circoscritti, costituiscono una minaccia intollerabile per la gente comune. E questo non perché quest’ultima sia preda di paure irrazionali, ma semplicemente perché – in certi quartieri o isolati – il rischio di aggressione per km quadrato è di 10, 100, anche 1000 volte superiore a quello di un quartiere normale. Né si trascuri il fatto, già accennato, che cancellare anche solo 1/4 o 1/3 dei reati allevierebbe in modo significativo le condizioni di vita dei detenuti.

La seconda obiezione fallace è: gli stranieri sembrano più pericolosi degli italiani perché la propensione a denunciare è maggiore, molto maggiore, quando l’autore è straniero. Detto in altre parole, il “numero oscuro” (ossia il numero di reati non denunciati) sarebbe diverso a seconda che l’autore sia italiano o straniero.

Questa obiezione è debole per due motivi distinti. Innanzitutto, ci sono reati – in particolare gli omicidi e i femminicidi – per cui il numero oscuro è vicino a zero, e ciononostante la propensione degli stranieri risulta 2 o 3 volte superiore a quella degli italiani. Tutto fa supporre che, ove disponessimo della distinzione fra stranieri regolari e irregolari, la forbice fra le propensioni degli stranieri irregolari e quella degli italiani (o degli stranieri regolari), sarebbe ancora più pronunciata.

La seconda debolezza sta nel fatto che, anche ammettendo che la propensione alla denuncia possa essere più alta quando l’autore è straniero (ipotesi più che ragionevole), non vi è alcuna prova che la differenza fra le due propensioni possa essere così ampia da spiegare l’enorme gap che separa i tassi di criminalità degli stranieri irregolari da quelli di tutti gli altri (italiani e stranieri regolari). L’unica stima fornita a sostegno dell’ipotesi di tassi di denuncia differenziati si basa su una ricerca vecchia, che riguarda solo le violenze sessuali, e ignora il fatto che i tassi di denuncia delle giovani generazioni sono presumibilmente assai più alti e allineati (ossia indipendenti dalla nazionalità dell’autore) di quelli delle generazioni precedenti.

In conclusione. I nuovi dati del Ministero dell’Interno gettano luce su un problema drammatico. Ci sarà modo di analizzarli, discuterli, forse anche criticarli o richiedere chiarimenti. Ma la cosa peggiore che potremmo fare è rispolverare l’armamentario
negazionista con cui, ogni volta che vengono fuori numeri e statistiche, più o meno improvvisati fact-checker cercano di occultare l’amara realtà dell’immigrazione irregolare.

[articolo uscito sul Messaggero il 17 dicembre 2024]

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