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Società

In margine all’8 marzo – Sexting, trionfo del maschilismo

10 Marzo 2024 - di Luca Ricolfi

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Se ripercorriamo i quasi 80 anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, il cammino delle donne ci appare lastricato di conquiste legislative e di vittorie, alcune eclatanti e ben note, altre meno vistose ma non prive di importanza. Fra le prime: diritto di voto (1946), legge sul divorzio (1970, e referendum 1974), legge sull’aborto (1978, e referendum 1981). Fra le seconde: accesso ai pubblici uffici e alle professioni (1963), riforma del diritto di famiglia (1975), abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (1981), parità salariale (2010), contrasto alla violenza di genere (2013), codice rosso (2019).

Se però abbandoniamo il piano normativo, e ci interroghiamo sui cambiamenti effettivi della condizione della donna, il quadro si fa più complesso. Intanto, è difficile non vedere che, con l’importante eccezione del diritto di voto, la maggiore libertà di cui godono oggi le donne dipende assai più da processi sociali che da cambiamenti legislativi. Alla libertà sessuale, ad esempio, hanno dato un contributo decisivo la larga disponibilità di contraccettivi (e, con molti ostacoli, l’accesso alla “pillola del giorno dopo”). Quanto alla libertà economica, moltissimo ha fatto l’autonoma scelta delle ragazze di studiare, impegnarsi, ed entrare nel mercato del lavoro: se oggi per una donna è più facile separarsi o divorziare non è solo perché c’è una legge che lo consente, ma perché in tante, fin dagli anni ’70 e ’80, hanno preferito investire sullo studio e sul lavoro, piuttosto che sulla ricerca di un partner benestante. E i risultati si vedono: dal 1990, le ragazze superano sempre più ampiamente i ragazzi nella corsa alla laurea e, quanto alla scuola dell’obbligo, oggi non c’è una sola materia (nemmeno la matematica) in cui le ragazze non siano più preparate dei ragazzi.

Questi processi di emancipazione e di empowerment (come li chiamano gli psicologi), tuttavia, raccontano solo una parte della storia. Intrecciati ad essi, coesistono meccanismi e tendenze che investono in modo negativo la condizione della donna, e impattano in modo diverso sulle varie generazioni. Anche questi meccanismi  hanno a che fare con la libertà, ma in modo per così dire imprevisto: non come conquiste, ma – semmai – come effetti collaterali delle conquiste.

Una prima tendenza è la moltiplicazione del numero di donne che crescono i loro figli da sole, o comunque senza il padre. In una società in cui il numero di separazioni e di divorzi ha superato quello dei matrimoni, e in cui i giudici quasi sempre assegnano il figlio alla madre, si tratta di una conseguenza inevitabile. Una conseguenza che tocca soprattutto le madri della cosiddetta generazione X (1965-80), intermedia fra quella dei baby boomers (1946-1964) e quella dei millennials (1981-1996).

Una seconda tendenza, invece, ha a che fare soprattutto con le ultime generazioni (zeta e alpha), e più esattamente con quanti hanno attraversato l’adolescenza dopo il 2010. Queste due generazioni, da 10-15 anni stanno sperimentando – in tutto l’occidente – una drammatica esplosione di sintomi di sofferenza psicologica o esistenziale: depressione, stress, ritiro sociale, atti di autolesionismo, suicidi tentati e riusciti. Una crisi che investe con violenza la gioventù in tutte le fasce, ma colpisce in modo speciale le adolescenti.

Le cause sono ormai chiarissime, anche se enormi interessi economici e potenti forze psicologiche (e politiche) ostacolano un discorso di verità. Una impressionante mole di ricerche ha dimostrato che a mettere a repentaglio la salute mentale e la felicità di tanti ragazzi (e soprattutto ragazze) sono i vissuti di inadeguatezza che la pubblicità e i social alimentano in continuazione mediante i modelli di perfezione – soprattutto fisica ed estetica – che vengono fatti circolare in rete: un meccanismo infernale, al cui centro si trovano il materiale pornografico, che viaggia senza restrizioni, e la pratica del sexting (invio di testi, immagini e video – privati e non – sessualmente espliciti), che coinvolge un numero sempre più alto di adolescenti (ma anche di giovani e adulti).

Con milioni di persone che praticano il sexting (di cui 1/3 vittime di diffusione non consensuale di materiale intimo), con milioni di ragazze e ragazze che passano una frazione sempre più alta della loro giornata sui social, e incautamente affidano ai like la costruzione della propria identità e auto-stima, non stupisce che psichiatri, psicanalisti e psicologi sociali denuncino l’esplosione – dopo il 2010 (anno di uscita dell’iPhone 4) – di un’epidemia di disturbi mentali e sofferenza psicologica. Un’epidemia che, non a caso, colpisce innanzitutto le ragazze, che della pratica del sexting e del revenge porn(diffusione di immagini osé per vendetta) sono le principali vittime, come tristemente insegnò a suo tempo il suicidio di Tiziana Cantone.

In queste circostanze, non si può non provare ammirazione per il lavoro di chi, come la giovane giurista Francesca Florio, mette in guardia e insegna come denunciare (suo lo splendido libro Non chiamatelo revenge porn), ma forse si dovrebbe pure sollevare un interrogativo: perché i maschi progressisti – anziché autoflagellarsi per ogni femminicidio compiuto da altri, e difendere il sexting di immagini private come pratica normale, se non come suprema manifestazione della libertà sessuale della donna – non si decidono a dire la verità?

Che è tanto amara quanto semplice: la produzione, condivisione, diffusione di immagini sessualmente esplicite è la forma più aggiornata e ubiqua di sopraffazione del maschio sulla donna.

Intervista di Mirella Serri a Luca Ricolfi

1 Marzo 2024 - di fondazioneHume

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Nel suo libro “La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra” (Rizzoli) lei ha elaborato un insolito modello interpretativo per decodificare gli ultimi inaspettati cambiamenti politici: ovvero come mai destra e sinistra si sono scambiate da qualche tempo la base sociale e, mentre i più poveri e gli operai votano a destra, i più abbienti si volgono a sinistra. Adesso ripropone questo excursus tra vecchie e nuove povertà con una nuova introduzione (Un’altra sinistra è possibile?) in cui si rivolge direttamente alla sinistra riformista italiana.

La sinistra italiana è impegnata soprattutto nelle cosiddette “battaglie di civiltà”: unioni civili, eutanasia, liberalizzazione delle droghe, diritti lgbtq+. La parola d’ordine è “inclusione”. Basta per convincere gli strati popolari a votarla?

Ne dubito, se non altro perché fra le categorie di cui – in nome dell’accoglienza – si auspica l’inclusione vi sono anche gli immigrati irregolari, che ai ceti popolari creano almeno tre problemi: pressione al ribasso sui salari (il cosiddetto dumping), insicurezza nei quartieri popolari e nelle periferie, competizione nell’accesso al welfare, specie sanitario. È il caso di ricordare che il tasso di criminalità degli irregolari è dell’ordine di 20-30 volte quello degli italiani, e che l’immigrazione irregolare – a differenza di quella regolare – è essenzialmente un costo, perché non paga né le tasse né i contributi. La sinistra ha tutto il diritto, anzi il dovere, di proporre soluzioni diverse da quelle della destra, ma non può continuare a ignorare o minimizzare il problema, almeno se vuole recuperare una parte del voto popolare.

Lei ha sempre considerato un suo punto di riferimento “L’età dei diritti” di Norberto Bobbio. Lo è ancora oggi?

Sì, perché Bobbio istituisce una distinzione cruciale – oggi perlopiù ignorata – fra legittime aspirazioni e diritti in senso proprio. Oggi si tende a chiamare diritti, e a trattare come diritti naturali e universali, aspirazioni (ma talora Bobbio le chiama pretese) che non hanno ancora un riconoscimento giuridico che ne garantisce il godimento effettivo. È il caso, per fare due esempi di attualità, del matrimonio egualitario e dell’eutanasia.  

È un punto molto importante, perché spiega due cose. Primo, come mai nel nostro sistema sociale sono così diffusi vittimismo, frustrazione, aggressività, rabbia. Secondo, come mai da decenni non si osservano più grandi movimenti sociali e grandi lotte, come quelle del ciclo 1967-1980.

Perché mai la rivendicazione di diritti dovrebbe ostacolare le lotte?

È semplice: perché se pensi che hai diritto a qualcosa il tuo atteggiamento è di esigerla dallo Stato, questa cosa cui hai diritto; se invece pensi che la tua sia solo un’aspirazione, magari anche un po’ controversa, ti poni il problema di portare dalla tua parte chi non è d’accordo, e di lottare per ottenere ciò cui aspiri, come mezzo secolo fa è successo per divorzio e aborto. Le aspirazioni producono impegno, i diritti presunti risentimento.

In questo, pur riconoscendo l’importanza del contributo di Bobbio, mi sento più in sintonia con Simone Weil, che tendeva a ragionare in termini di doveri e di conquiste, più che di diritti.

Esiste una sindrome vittimistica che prevale a sinistra?

Eccome, ci sono studi di psicologia sociale che lo hanno documentato in modo molto preciso, usando la “scala di Rotter”, una geniale invenzione degli anni ’50. La tendenza a chiamare sempre in causa la società, il sistema, la situazione, i condizionamenti, sottovalutando tutto ciò che dipende dall’individuo, è tipico della mentalità progressista. È un problema, perché questo atteggiamento disincentiva l’assunzione di responsabilità, che è un ingrediente essenziale di qualsiasi sistema sociale.

Secondo lei l’accettazione acritica della modernizzazione è un problema?

Lo è perché i progressi tecnologici in campo bio-medico, militare, elettronico, informatico, hanno ricadute pesantissime sulla vita quotidiana e sulla salute. Di recente, statistici e psicologi hanno documentato i danni mentali (fino all’autolesionismo e al suicidio) che i social stanno provocando sui ragazzi, e ancor più sulle ragazze. Altre ricadute della tecnologia, invece, le vedremo solo fra un po’, quando l’intelligenza artificiale e l’automazione verranno sfruttate estensivamente da organizzazioni criminali e stati-canaglia (naturalmente, so benissimo che anche solo accennarne suscita l’accusa di luddismo).

In cosa sbaglia la sinistra in crisi? Trascura tematiche fondamentali come occupazione, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e protezione sociale? Sottostima le diseguaglianze?

Ho scritto La mutazione anche per dire lo sconcerto che in tanti, a sinistra, proviamo di fronte all’involuzione dell’establishment progressista. Di fatto, negli ultimi decenni la sinistra ha abbandonato tre bandiere fondamentali: la difesa dei ceti popolari “nativi”, in omaggio all’accoglienza; la difesa della libertà di pensiero, in nome del politicamente corretto e delle minoranze Lgbt; l’idea gramsciana dell’emancipazione attraverso la cultura, con la distruzione della scuola e il rifiuto del merito. Il guaio è che le prime due idee sono migrate a destra, e la terza lo sta facendo, con la decisione di Giorgia Meloni di attuare gradualmente l’articolo 34 della Costituzione, che prevede borse di studio per i “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” (“l’articolo più importante”, secondo Piero Calamandrei). Tutto questo ha fortemente depauperato il patrimonio ideale della sinistra, e ha finito per arricchire quello della destra: il valore sottratto al campo progressista si è tramutato in valore aggiunto per il campo conservatore.

È una situazione irrimediabile?

Spero proprio di no, non dobbiamo rassegnarci. E a giudicare da quel che sta accadendo in Europa qualche speranza di cambiamento possiamo nutrirla. In Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca, Svezia sono in corso diversi esperimenti politici per costruire una “sinistra blu” (da blue collar), meno sorda alle istanze popolari. Questo tipo di sinistra contende efficacemente il sostegno popolare alla destra perché incorpora sacrosante istanze securitarie, diffida del politicamente corretto, privilegia i diritti sociali rispetto a quelli civili, non ignora gli effetti anti-popolari della transizione green.

L’ascensore sociale si è bloccato? La cultura alta è ancora strumento di emancipazione dei ceti popolari attraverso l’istruzione?

L’ascensore è bloccato perché – con l’illusione di includere – si è drasticamente abbassato il livello degli studi nella scuola e nell’università, e nulla si è fatto per premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi”. È uno dei tanti paradossi italiani che tocchi a Giorgia Meloni attuare il sogno di Piero Calamandrei.

(intervista uscita su “La Stampa” il 26 febbraio 2024)

Schiaffi, Sexting e libertà

28 Febbraio 2024 - di Paola Mastrocola

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Notizia. Il Tribunale assolve la madre che, nel 2016, aveva schiaffeggiato la figlia dodicenne che su Instagram aveva mandato foto osé a un diciannovenne.

Mi stupisce che una madre, otto anni fa, tirasse ancora schiaffi ai figli. Mi stupisce che si finisca in tribunale per aver tirato uno schiaffo ai figli. E mi stupisce che il giudice abbia oggi dato ragione alla madre.

  Non si fa più da anni di educare a suon di schiaffi. La sberla è stata abolita nell’uso comune familiare, rimpiazzata dalla lezioncina morale e dalla contrattazione eterna. La parola, il dialogo hanno vinto. Ti spiego perché hai sbagliato, voglio che tu capisca, non farlo più e chiudiamola qui. Oppure: tu figlio vuoi uscire, io ti dico di no, ti spiego perché, e poi accetto che tu esca a patto che mangi la minestra, studi storia, o altro.

Non so se sia un bene o un male. Dico solo che mi è capitato spesso di assistere a queste negoziazioni, e le ho trovate ogni volta estenuanti, e molto imbarazzanti per il genitore, il quale 99 volte su 100 finisce per capitolare acconsentendo all’iniziale richiesta del figlio: eh, mi prende sempre per sfinimento, dice il genitore. Lo schiaffo era più breve, certamente. Diretto, non ambiguo, e decisamente spiccio. Ma abbiamo deciso che appartiene all’era troglodita di quando c’era l’autorità, e pronunciare quella parola non era un delitto.

E ora invece che succede? I giudici danno ragione alla madre schiaffeggiante e non alla figlia schiaffeggiata. Dicono che esiste un “potere/dovere di educazione e correzione dei figli”. Certo, forse “ha ecceduto nell’impiego della forza per redarguire la figlia”, ma trattasi in ogni caso di episodio penalmente irrilevante. Insomma, i giudici ammettono lo “schiaffo educativo”, per così dire. Bene. Pendiamo atto. Lo schiaffo, così assolto, potrebbe tornare utile a quei genitori che, di fronte alla bocciatura del figlio, fanno ricorso al Tar o accoltellano l’insegnante: da oggi in poi potranno decidere di dare uno scappellotto al figlio che non ha studiato. Naturalmente non saranno esenti dalla giudicante e severissima comunità dei social.

Il punto però è che una ragazzina di dodici anni mandi in giro messaggi e foto osé a un diciannovenne. Non so se si possa, oggi, fermare una ragazzina e impedirle di usare i social per mandare foto osé. E non so se lo schiaffo sia il modo migliore, ma penso che la ragazzina andasse comunque fermata. Per due motivi. Uno riguarda la libertà e l’altro la questione femminile. Entrambe mi stanno parecchio a cuore.

Ricordo il suicidio di Tiziana Cantone, che fece molto scalpore. S’impiccò il 13 settembre 2016, a 33 anni. Aveva inviato dei filmati sui suoi rapporti sessuali a conoscenti che poi li avevano divulgati, e tentò invano di far rimuovere i video hard, invocando il diritto all’oblio. Ricordo che molti, dolendosi dell’accaduto, difesero comunque la pratica del sexting come gesto di libertà sessuale, dissero che filmarsi o fotografarsi in intimità e poi mandarsi video era assolutamente normale, e che solo una mentalità bigotta e bacchettona poteva condannare comportamenti come quello di Tiziana. Ricordo che pensai allora quel che penso adesso: una cosa è la libertà, un’altra è la prudenza. Prudenza come perfezionamento (e non riduzione!) della libertà. Vorrebbe dire non essere così arroganti e prepotenti da esigere una libertà assoluta e illimitata. Riconoscere che esiste il male ed esiste il caso, e che il mondo ideale purtroppo è solo un’utopia. Abbiamo tutto il diritto di passare sulle strisce pedonali senza guardare l’auto che arriva (va rieducato l’automobilista, non il pedone?), ma poiché esiste l’automobilista distratto e l’imprevisto, potrei ritenermi libero di passare sulle strisce ma al contempo essere prudente. Allo stesso modo, i social non sono il mondo ideale. Esiste il revenge porn, per esempio…

Questione femminile. Facciamo tanto oggi (e tanto abbiamo fatto ieri!) per combattere il potere maschile maschilista che ci riduce a meri oggetti sessuali, e poi noi donne, noi ragazzine, non troviamo di meglio che usare i social per gareggiare a chi si mostra più bella e più sexy, riproponendo noi stesse l’immagine della femmina preda del maschio? È questa la libertà che vogliamo?

Infine ci sarebbe la questione del pudore. Ma inutile parlarne. Parola sparita. Sentimento archiviato. Il pudore è démodé, e molto reazionario.

Perchè le ragazze sono sempre più infelici? – Lettera da una adolescente 1

25 Febbraio 2024 - di Lettera firmata

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Pubblichiamo integralmente la lettera firmata da una quindicenne di Roma che chiameremo convenzionalmente Alessandra (useremo nomi convenzionali anche per le lettere successive che potete inviare a Hume.fondazione@gmail.com).

 

L’infelicità continua provata dai giovani è stata ultimamente un argomento del quale si è discusso molto. Dopo un’attenta lettura dell’articolo di Luca Ricolfi, seguita da una riflessione sia sui dati oggettivi, che quelli più soggettivi, mi sento di poter esprimere, in quanto ragazza completamente immersa nel contesto,  il mio pensiero.
Condivido il punto di vista su ciò che al giorno d’oggi la maggior parte delle ragazze si aspetta di avere, soprattutto in base ad alcuni canoni radicati nella società: bellezza, followers, like e tutta la gloria e apparente felicità che tutto questo può comportare. Dall’altro lato mi piacerebbe aggiungere a questa tesi sul disagio giovanile anche il ruolo fondamentale del gruppo, più o meno ristretto che sia, che nella vita delle adolescenti ha un’importanza e un peso da non sottovalutare. Molte di noi hanno il costante bisogno di sentirsi parte di una rete di amiche protetta, dove si è certe di avere approvazione e appoggio soprattutto in casi considerati critici (es. discussioni con altre ragazze al di fuori della propria cerchia); tutto questo però induce le ragazze che hanno più difficoltà per timidezza, introversione, insicurezze (che maggiormente riguardano l’aspetto fisico) ad essere completamente isolate e ritrovarsi spesso anche derise ed escluse da ogni evento che coinvolga gli altri elementi del loro ambiente. Davanti ad una situazione come questa i comportamenti spesso scelti dalle “vittime” sono due: da un lato si può scegliere la noncuranza, vivendo tranquillamente anche senza un appoggio continuo da parte di un gruppo, dall’altro lato però c’è tutta una fetta di persone che pur di non rimanere tagliate fuori cambiano sé stesse, fino ad apparire agli occhi degli altri perfettamente idonee per poter entrare a far parte della loro rete di amicizie. Durante questi processi, che un pò tutte abbiamo passato, si tende a mutare notevolmente quei tratti più personali e distintivi di ognuno di noi: io stessa mi sono dovuta adattare, modificando alcuni modi e atteggiamenti, ma alla fine bisogna fare la scelta decisiva tra l’indossare continuamente delle maschere per mostrare solamente un certo lato di sé, rivelandosi solo in piccola parte, oppure omologarsi completamente alla massa (diventando un cosiddetto NPC, non-player character, ovvero letteralmente un “personaggio non giocante”).
Dall’altro lato ci sono i ragazzi, i maschi, il cui ruolo all’interno della società è notevolmente cambiato negli ultimi anni. Sono certa che  anche loro abbiano interesse nel loro aspetto fisico, nella cura personale e nell’abbigliamento, ma secondo me nelle ragazze questi interessi rimangono sempre maggiori. Molti maschi nella fascia di età di cui stiamo parlando (10-19) non si curano più dello stretto necessario, per esempio non fanno skincare, non usano scrub, e spesso e volentieri quando fanno la doccia usano il primo shampoo che trovano senza sapere cosa sia. Al contrario la differenza si nota meno sulla questione dei gruppi perché anche i maschi tendono a formarne, ma mentre la selezione delle ragazze riguarda spesso aspetto fisico, followers e like, quella dei ragazzi è tendenzialmente ben diversa: a contare sono quasi sempre la squadra che si tifa, lo sport che si pratica e quello che si segue, oppure ci sono gruppi creati casualmente attraverso le scuole frequentate oppure le feste. Un altro punto di grande differenza tra maschi e femmine è che sempre più spesso e con sempre più cattiveria le ragazze tendono ad insultarsi a vicenda, soprattutto attraverso i social, sia con commenti pubblici che con giudizi notevolmente pesanti in privato, oppure attraverso diffamazioni in gruppi ristretti di amiche, il cui difetto è che già dopo poche ore saranno a conoscenza di tutte le persone vicine all’interessata; la probabilità che un ragazzo faccia una cosa del genere è molto bassa e nei rari casi i commenti tendono ad essere più contenuti e privati e, di conseguenza, forse meno influenti per chi li riceve.  
Per sottrarsi ad ognuno di questi cambiamenti sociali forse il modo migliore sarebbe quello di saper accettare e gestire le critiche, riconoscere i “veri” amici distinguendogli tra gli altri, ma soprattutto tenere a mente che ognuno di noi è un essere a parte, con emozioni e caratteristiche proprie che tutti noi dovremmo poter e voler difendere.

Perché le ragazze sono sempre più infelici? – Capitale erotico e social media

24 Febbraio 2024 - di Luca Ricolfi

SocietàSpeciale

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Di disagio giovanile si sta tornando a parlare da qualche tempo, perché i segnali sono tantissimi, sia prima, che durante, che dopo il covid: ansia, depressione, autolesionismo, disturbi alimentari, suicidi tentati e portati a termine. C’è un aspetto, però, che finora è rimasto un po’ in ombra: l’età e il genere delle vittime.

Se guardiamo ai dati internazionali, per lo più molto più ricchi, analitici e aggiornati di quelli italiani, quel che emerge con estrema nitidezza è che il disagio, pur colpendo la gioventù nel suo insieme, raggiunge il massimo di intensità nelle fasce di età più basse (dai 10 ai 19 anni), e in special modo fra le ragazze.

Sulle ragioni del disagio, da alcuni anni è in corso un dibattito molto acceso, specie negli Stati Uniti e nel Regno Unito. È un dibattito molto acceso, perché tocca questioni spinosissime, e ha il potenziale di colpire interessi enormi.

Nell’occhio del ciclone ci sono due scienziati sociali, Jonathan Haidt e Zach Rausch, che hanno fatto una scoperta strabiliante: tutti i principali indicatori di disagio svoltano all’inizio del decennio 2010-2020 e, qui sta il lato strabiliante della loro scoperta, lo fanno – simultaneamente – in tutti i paesi di lingua inglese e in tutti i paesi del Nord-Europa.

Come è possibile che i segni del disagio, e in particolare i suicidi, decollino tutti insieme, fra il 2010 e il 2012?

La risposta degli studiosi è che il 2010 è l’anno di nascita dell’i-phone4, e il 2012 è l’anno in cui Zuckeberg, inventore di Facebook, spende 1 miliardo di dollari per acquisire Instagram, che già allora aveva raggiunto un’enorme diffusione.

Che cosa c’entra?

Lo spiega Jonathan Haidt. L’i-phone 4 è il primo smartphone che permette un comodo accesso a internet e quindi ai social, e nello stesso tempo monta una camera frontale, che permette i selfie, e più in generale la diffusione di foto e immagini. L’acquisizione di Instagram completa l’opera. D’ora in poi diventerà facilissimo costruire immagini di sé stessi, abbellirle con photoshop, includerle nel proprio profilo, farle circolare. E inondare il mondo di tweet, di like, di post, nonché far rimbalzare quelli altrui. Inizia l’età dell’oro dei social media. Ognuno può tentare di pubblicizzare il suo ego, ma nel fare questo si espone alle critiche altrui, ma soprattutto alla (naturale) frustrazione di sentirsi surclassato da innumerevoli altri ego, più attraenti, più popolari, più capaci di attirare like.

Secondo Jonathan Haidt è precisamente questo che fa decollare il disagio giovanile. Quella sui social è una competizione cui nessuno, una volta che vi approda, è in grado di sottrarsi, che lo voglia oppure no. Di qui insoddisfazione, malessere, disagio, invidia, frustrazione, che sarebbero alla radice dell’epidemia di cattiva salute mentale in corso in moltissimi paesi da quando l’i-phone ha sostituto i vecchi flip-phone, telefoni cellulari privi di accesso a internet. E soprattutto ha sostituito le uscite con il gruppo di amici, il gioco all’aperto, le esperienze nel mondo reale, tutte cose cruciali nella formazione di un adolescente.

Supponiamo che Haidt abbia sostanzialmente ragione (visti gli argomenti dei suoi critici, propendo a pensare che la sua spiegazione sia valida), resta il problema: come mai, in questo disastro, a rimetterci sono soprattutto le ragazze, specie se adolescenti? A prima vista sembra strano, visto che le ragazze – almeno sul piano cognitivo –  da almeno 30 anni hanno sorpassato i ragazzi.

Qui ci soccorre un’altra studiosa, la sociologia britannica Catherine Hakim, che giusto negli anni della svolta (2010-2012) ebbe a dare alle stampe un saggio e un libro fondamentali: Erotic Capital (2010), e Honey Money (sottotitolo: Perché essere attraenti è la chiave del successo). Lì si può trovare facilmente la chiave per capire il disagio esistenziale delle adolescenti dopo l’i-phone.

In estrema sintesi. Prima dell’i-phone 4, una adolescente poteva cercare di costruire la propria identità e il proprio successo valorizzando le qualità più diverse: la bellezza, certamente, ma anche l’intelligenza, la simpatia, la socievolezza, l’eccellenza in qualche materia, le doti sportive, l’abilità in qualche campo specifico. E, soprattutto, lo poteva fare in una cerchia ristretta, e almeno in parte selezionata. Dopo l’i-phone4 non è più così: giusto o sbagliato che sia, la competizione è soprattutto sulla bellezza e l’avvenenza, e avviene in mare aperto, perché tutti vedono il tuo profilo e tu puoi vedere il profilo di tutti.

Ma la bellezza (o “capitale erotico”, per stare alla terminologia della Hakim) è una delle risorse più iniquamente distribuite, e – ahimé – è difficilmente modificabile, se non con la costosa e pericolosa chirurgia estetica (forse non a caso esplosa nell’ultimo decennio). Di qui il dramma delle adolescenti, che sono costrette a correre una gara da cui solo una minoranza può ragionevolmente attendersi di uscire vincitrice.

Che fare? si potrebbe domandare un padre o una madre di una quindicenne. Niente, mi verrebbe da dire, la forza del “così fan tutte” è soverchiante e invincibile. Però una piccola cosa, forse, si potrebbe anche tentare: far balenare il pensiero che, accanto alla paura di essere tagliati fuori, esiste anche la felicità di mettersi al riparo dalla macchina infernale dei social, una scelta audace che da tempo si usa chiamare JOMO, Joy of missing out, la gioia di restarne fuori (ne ha indirettamente parlato la giovane scrittrice Francesca Manfredi nel suo romanzo Il periodo del silenzio, appena uscito). Una scelta controcorrente, che però si può compiere anche in modo equilibrato e saggio, riscoprendo i telefonini tradizionali, che costano pochissimo, ci risparmiano la competizione sui social e, forse non casualmente, stanno tornando di moda.

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