Matematica e custodia della memoria – Le Lezioni Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci all’Università di Lubumbashi

Dopo il successo dell’evento «Old and New trends in Mathematical Collaboration between Brazil and Italy» (https://sites.google.com/view/indamwrome25/homeAC), celebratosi a Roma dal 23 al 27 Giugno del 2025, durante il quale è stato siglato uno storico Memorandum of Understanding (MoU) tra il prestigioso “Istituto Nazionale di Matematica pura e Applicata” di Rio de Janeiro e l’Istituto Nazionale di Alta Matematica “Francesco Severi” a Roma, ecco servito, quasi su un piatto d’argento, un altro esempio di come la matematica, questa temuta sconosciuta, possa fungere da potente veicolo di diplomazia scientifica.

       Le notizie di rilievo, in tal senso, sono almeno due. La prima è che, dopo una pausa di circa due anni, la London Mathematical Society (LMS) ha rilanciato nel mese di Novembre del 2024 il già ampiamente collaudato programma Mentoring African Research in Mathematics (LMS-MARM).  La seconda è che il 21 Luglio del 2025, presso l’Università di Lubumbashi, in Repubblica Democratica del Congo, è stata inaugurata la prima edizione delle Lezioni “Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci” per la formazione matematica dei giovani ricercatori, affiancate dai laboratori “Mustapha Milambo” per il consolidamento pratico della teoria (https://unilu.lms-marm-africa.org/).

         Il filo che unisce le due notizie è che le predette lezioni, istituite in via permanente alla memoria dell’Ambasciatore d’Italia a Kinshasa Luca Attanasio, caduto il 22 febbraio 2021 in un attentato a Goma insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista del convoglio ONU che li trasportava, Mustapha Milambo, si sono tenute proprio all’interno della prestigiosa cornice del programma LMS-MARM. Che funziona in maniera semplice ed efficace.  Il consiglio direttivo, fino ad oggi guidato dal professor Frank Neumann dell’Università di Pavia, designa, all’inizio di ogni nuovo ciclo, quattro mentor allo scopo di affiancare nell’attività di ricerca matematica giovani studiosi affiliati ad altrettante università africane. L’incarico ha durata annuale ed è rinnovabile, previa valutazione positiva, per un ulteriore periodo di dodici mesi. Si tratta del termine entro il quale ci si attende un consolidamento di stabili collaborazioni scientifiche con le istituzioni africane coinvolte dal programma, quale indicatore misurabile della sostenibilità dell’intervento.

         Attivo da circa vent’anni,  il programma MARM ha già promosso, attraverso l’erogazione di appropriati contributi, collaborazioni con un ampio ventaglio di nazioni africane. Tra queste vale la pena di ricordarne alcune che figurano nella lista dei “paesi pilota”, come tali individuati dal Piano Mattei, quali  il Marocco, l’Etiopia, la Repubblica del Congo, il Kenya, la Costa d’Avorio, la Tanzania, il Ghana e il Senegal. Il settimo ciclo, tutt’ora in corso, ha attuato collaborazioni con i dipartimenti di matematica dell’École Normale Superieur in Gabon, dell’Università di Makurdi in Nigeria,  dell’Università di Dodona, in Tanzania e, per la prima volta, come anticipato, con quello dell’Università di Lubumbashi (UniLu), nella Repubblica Democratica del Congo, teatro del riuscitissimo esperimento di diplomazia scientifica ricordato in apertura, che si è svolto tra il 20 Luglio e il 1° Agosto.  Le attività di addestramento alla ricerca, spalmate lungo l’arco di dieci giorni, hanno visto l’alternarsi di lezioni monografiche a sedute di problem solving. Quest’ultime sono culminate con il workshop «Aujordhui on parle de Matématiques», realizzato nel contesto dei laboratori Mustapha Milambo, diretti dal professor Franck Kalala Mutombo, già autorevole direttore scientifico dell’African Institute for Mathematical Science, con sede in Senegal, e sostenuti dal direttore del dipartimento di Matematica, Professor Kumwimba Seya Didier. La peculiarità del workshop è consistita nell’affidare l’esposizione dei  seminari  esclusivamente ai giovani partecipanti, opportunità che questi ultimi hanno accolto con incontenibile e contagioso entusiasmo. Un ulteriore esempio, in aggiunta di altri che potrebbero farsi, sufficiente a destituire di fondamento ogni banale pregiudizio secondo cui  l’attuazione in Africa di uno qualsiasi di questi progetti di cooperazione matematica, vuoi della London Mathematical Society o vuoi dell’Unione Matematica Internazionale, equivalga all’insegnamento di argomenti elementari ad un capitale umano per lo più  inesperto.

L’Ambasciatore Dino Sorrentino tra il Rettore Gilbert Kishiba Fitula (alla sua sinistra) e il Prorettore, Jean-Marie Dikanga Kazadi (alla sua destra). Alla sinistra del Rettore, Franck Kalala Mutombo.

La locandina dell’evento

 

 

Al contrario, la visita a Lubumbashi è stata, per chi scrive, un’esperienza di grandissimo valore  non solo umano ma soprattutto scientifico. Una gradita sorpresa quella di incontrare studenti di talento e profondamente motivati, animati da una irresistibile sete di conoscenza matematica accompagnata anche da una grande padronanza delle buone maniere. A titolo esemplificativo, in ogni circostanza ufficiale, essi sono abituati a rivolgersi gli uni agli altri usando quelle formule di cortesia ormai così rare in Europa (dove ci si dà tutti del tu), come l’uso del Monsieur, del Madame o del pronome «vous(il “lei”).  Se a tutto ciò si aggiunge una spruzzata di solida preparazione di base, per certi versi inattesa, non c’è da stupirsi che lezioni di durata programmata di novanta minuti si dilatassero fino a tre o quattro ore, mutandosi in discussioni vivaci, condotte con rigore e competenza ma anche con naturalezza e la stessa leggerezza e «amusement» con  cui si sarebbe potuto parlare di calcio al bar dello sport.   E’ vero che è più raro imbattersi, oggidì, in giovani così motivati negli atenei europei dotati di eccellenti infrastrutture, o è solo l’impressione di chi scrive? E se sì, perché?

         Lasciando la risposta dell’interrogativo alla sensibilità e/o all’esperienza delle lettrici e dei lettori, è doveroso segnalare che le intense attività matematiche sviluppate nell’ateneo congolese sotto l’egida dell’LMS-MARM, si sono concluse con una importante cerimonia di chiusura, a cui tutta l’Università (e non solo l’area scientifica) è stata chiamata a partecipare. In una raccolta atmosfera di ufficialità,  il Magnifico Rettore dell’Unilu, Gilbert Kishiba Fitula, alla presenza di Walter Noca, Console Onorario italiano a Lubumbashi, ha solennemente comunicato la decisione delle autorità accademiche di intitolare un’aula dell’UniLu (che nel 2025 ha celebrato il settantesimo anniversario dalla fondazione) alla memoria dell’Ambasciatore Attanasio e del Carabiniere Iacovacci. Eleggendola, nel contempo, quale teatro delle future prossime edizioni delle lezioni ad essi intitolate.

         Tale determinazione costituisce un importante tributo alla cultura diplomatica italiana per l’ottenimento del quale hanno concorso una molteplicità di attori e circostanze. Da una parte l’inesauribile energia del professor Kalala Mutombo, coadiuvato dal direttore del dipartimento, professor Didier, con il sostegno di tutte le componenti accademiche dell’UniLu, non solo del Rettore, ma anche anche del Prorettore Jean-Marie Dikanga Kazadi e del Preside della Facoltà di Scienze Assumani Salimini. Dall’altra l’appoggio convinto del Consolato Onorario a Lubumbashi, che ha permesso il raggiungimento di un risultato che, comunque, non sarebbe stato possibile senza il cruciale e generoso appoggio delll’Ambasciatore d’Italia  a Kinshasa, Dino Sorrentino. Egli ha infatti monitorato e sostenuto l’iniziativa sin dalle fasi iniziali, autorizzandone fin da subito il patrocinio da parte dell’Ambasciata. E non sono i soli importanti attori che hanno concorso alla realizzazione della magica atmosfera umana e scientifica delle lezioni “Attanasio e Iacovacci”:  oltre alla LMS,  non si può non menzionare un ruolo da protagonista da parte dell’International Mathematics Master (IMM), con sede a Trieste, da anni impegnata con programmi di educazione matematica in Africa e il supporto della Casa degli Italiani, presieduta dalla Signora Romy Muhemedi Kasongo.

Questi i fatti del progetto LMS-MARM a Lubumbashi. Una domanda sorge però spontanea. Perché? Più precisamente: la matematica può davvero contribuire allo sviluppo economico e sociale del continente africano? In che modo?

         Cominciamo col dire che sarebbe impreciso riferirsi alle nazioni africane come a paesi in via di sviluppo piuttosto che pensarle, invece, quali veri e propri laboratori di economie emergenti. Il punto è che l’Africa non è un continente povero, bensì una terra con tanti poveri. Il progresso economico o tecnologico delle sue nazioni più progredite, si pensi al Sudafrica, ma anche al Kenya, al Rwanda o al Senegal, convive con una miseria diffusa tra milioni di persone. Lodevoli sono le iniziative di numerose ONG o di ricche fondazioni filantropiche (tra cui spicca la Pupkewitz in Namibia e la AMKA, con sede a Roma, nella Repubblica Democratica del Congo), la  maggior parte delle quali opera a mo’ di pronto soccorso, per far fronte alle prime e più urgenti necessità. Fornendo cibo o acqua, per esempio, a popolazioni residenti in aree in cui il loro approvvigionamento è particolarmente difficile e/o in  porzioni di territorio neppure raggiunte dalla rete elettrica. In cui, insomma, manca davvero tutto. Molte delle azioni messe in campo, tutte lodevoli senza eccezioni, sono spesso di natura una tantum, con poche ragionevoli prospettive di innescare un cambiamento strutturale. Si tratta, insomma, di piccole e poche gocce in un oceano di necessità, che possono persino far fronte a situazioni urgenti di sopravvivenza ma non delineano alcuna visione di futuro sostenibile.

         A questo punto, la risposta alla domanda, perché?, non è difficile. E non può che rievocare l’iconica figura del già menzionato Luca Attanasio che, concedendo un’intervista al termine di una delle sue visite presso la Fondazione Amore e Libertà a Kinshasa, affermò: «La comunità sta accompagnando in una zona poverissima della società, delle persone che chiedono una cosa importante, chiedono di poter avere una formazione». Per Attanasio, insomma, la formazione è la chiave per combattere la povertà in modo strutturale. Unica via, se una ce n’è, per offrire, soprattutto ai giovani, l’opportunità di poter plasmare il proprio futuro. Un processo lento, questo, che può richiedere anche varie decine di anni, ma il cui sentiero va intrapreso subito, senza indugi,  con pazienza e determinazione, poiché i grandi cambiamenti richiedono tempi significativamente lunghi. Proprio come la crescita dell’essere umano che, nei primi anni di vita, senza la protezione dei genitori, è in balia delle forze della natura e diventa adulto solo in prossimità dei vent’anni. L’esperienza della storia e la storia dell’esperienza suggeriscono che la crescita di una società, di una comunità di individui, anche in termini di coscienza e di autodeterminazione collettiva, non può esimersi dall’obbedire a simili principi di lenta gradualità.

         Una volta, però, che si sia stipulato, seguendo Attanasio, di attribuire alla formazione un ruolo decisivo per la lotta alla povertà e alle disuguaglianze, perché la più urgente sarebbe quella matematica? Per quale ragione si dovrebbe investire nella ricerca in una disciplina (la cui natura è ignota ai più)  l’importanza  della quale potrebbe apparire risibile se paragonata alla fisica, all’ingegneria, alla medicina o, per dirla in modo ancora più brutale, alle scienze agrarie? La risposta, purtroppo, non è solo quella, ovvia, che la matematica è alla base di tutti i campi dello scibile, una frase che, per chi scrive, non ha neppure molto senso. Certo, il dubbio che il potenziamento della ricerca matematica possa somigliare ad una preoccupazione da “ricchi”, che non necessitano di cimentarsi con la lotta quotidiana per la sopravvivenza, sorge.  E’ però vero il contrario. La supremazia strategica della matematica, rispetto ad altre pratiche scientifiche, è che essa è facilmente implementabile in economie poco sviluppate, con limitate, se non inesistenti, risorse finanziarie. Detta in modo più brutale,  la matematica costa poco. E’ un kit di primo intervento, che non fornisce spaziose sale operatorie attrezzate a puntino (laboratori di fisica, chimica o ingegneria), bensì una cassetta del pronto soccorso, con rimedi semplici, non costosi ma la cui efficacia può essere risolutiva.

         Tale intuizione di fondo è fatta propria anche dalle Nazioni Unite, soprattutto nell’enunciazione dei 17 Sustainable Development Goals. L’esortazione di base è quella di promuovere la cultura STEM nelle economie emergenti. STEM è l’acronimo di Science, Technology, Engineering e Mathematics. Mathematics è l’utima parola chiave dell’acronimo, quasi come se essa non dovesse essere inclusa nella Science della sua prima lettera. La ragione è, tuttavia, che se occorrono capitali e finanziamenti per attuare programmi tecnologico/ingegneristico di primo livello,  per la matematica basta poco. Una lavagna, dei fogli di carta, voglia di pensare. Una connessione internet, forse, ma è praticamente tutto. In cambio di cosa?

         Diciamola tutta, allora. Il nostro PC, così come lo conosciamo, è il risultato dei primi studi puramente teorici, di natura puramente teorica, di teoria della computabilità ideata dal matematico Turing, il medesimo che scongiurò l’attacco aereo nazista su Londra. Si obietterà che siamo già nell’era dei supercalcolatori quantistici, i quali rivoluzioneranno, come già hanno cominciato a fare, il nostro modo di interfacciarci con la macchina. Scopriremmo, però, che il «quantum computing» è anch’essa una teoria matematica puramente teorica. Cioè.  Alla portata di tutte le menti brillanti, indipendentemente dal censo e, quindi, anche di quelle delle società più povere, purché le si sappia riconoscere ed orientare. Stesso discorso vale per le scienze  dei Big Data, delle reti neurali, persino dell’intelligenza artificiale (ecco un link per il lettore scettico: https://arxiv.org/abs/2501.10465), dell’apprendimento automatico. Invero, tutti gli ultimi ritrovati della tecnologia nascono da ricerche di matematica pura. In altri termini,  il potenziamento della ricerca matematica, nel quand’anche debole tessuto educativo delle economie emergenti, è in grado di allargare drammaticamente la platea dei detentori di know-how tecnologico, rendendosi potenzialmente interessanti per imprese straniere che si disporranno a collaborare alla pari,  fornendo capitali per realizzare infrastrutture progettate e/o gestite con competenza da energie intellettuali locali. La matematica, insomma è,  questa è la tesi,  il software necessario per lo sviluppo dell’hardware tecnologico. Attenzione, non la si vuole spacciare come un magico toccasana, un sostituto delle infrastrutture tecnologiche necessarie a sviluppare tutte le predette pratiche. Si può addestrare, e di fatto ciò è già in essere in varie nazioni, come Kenya e Sudafrica, per esempio,  un capitale umano all’uso di tali strumenti pur senza che questo disponga di una specifica competenza matematica o pur, esagerando, essendo totalmente ignaro di essa. Tuttavia, ciò condannerebbe le società beneficiarie di tali tecnologie ad un ruolo di subalternità poiché, se l’implementazione dell’esistente può prescindere da una consapevolezza matematica, la sua innovazione solo sarebbe possibile attraverso la diffusione di una sostanziosa cultura matematica.  Ed è ciò che costituisce il principio ispiratore dell’importante African Institute of Mathematical Science che possiede centri in Sudafrica, Senegal, Ghana, Rwanda e Camerun, e promuove master e ricerca in matematica applicata nella certezza che sia il primo immediato cammino per l’ammodernamento delle giovani società africane.

         Ultimo, ma non meno importante, aspetto da mettere in evidenza è che, sebbene la Repubblica Democratica del Congo non figuri (ancora) nella lista dei Paesi Pilota del Piano Mattei, la Regione Piemonte ha incoraggiato l’esposizione del proprio brand per le lezioni “Attanasio e Iacovacci”, per tramite dell’Assessore alla Cooperazione Maurizio Marrone, che nelle stesse ha ravvisato una indubitabile aderenza ai principi ispiratori del Piano Mattei, il quale pone l’istruzione e la formazione tra le sue sei direttrici fondamentali di intervento, al fine di favorire uno sviluppo sostenibile e «non predatorio» nel continente africano (si veda per esempio https://www.mur.gov.it/it/piano-mattei-ricerca-e-alta-formazione).

Le Lezioni “Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci” sono dunque un esempio pilota di come rendere operativo il Piano dal basso. Progettando e implementando una proposta formativa concreta in grado di valorizzare capacità locali per mezzo del perfezionamento dei giovani ricercatori. Il supporto morale dell’Ambasciata d’Italia, visibile attraverso il ricordato patrocino e la sua presenza più che simbolica, si allinea pienamente alle linee guida del Piano, che contempla il coinvolgimento di rappresentanze diplomatiche come parte attiva del “Sistema-Paese” italiano. I Laboratori Mustapha Milambo, pensati per addestrare alla pratica delle nozioni apprese, per incoraggiare approfondimenti e per promuovere seminari organizzati e tenuti da giovani potenziali ricercatori, come nel già ricordato “Aujourd’hui on parle de mathématiques”, ha dato voce e visibilità alle riflessioni e il talento dei giovani partecipanti, incarnando il tipo di formazione integrata, interattiva e accademicamente robusta che il Piano Mattei prevede per promuovere uno sviluppo locale concreto, replicabile e sostenibile.

         Per questo le lezioni Attanasio e Iacovacci, coi Laboratori Milambo, sono state non solo un importante esperimento scientifico didattico, ma anche un esempio di come i piani, che possono essere condivisi o meno,  criticati o migliorati, non vedranno mai alcuna attuazione se non si prova ad impegnarsi, al di là delle sfumature di vedute, a farli funzionare così, in prima persona, anche in piccole realtà e con piccoli passi. Come a Lubumbashi, banco di prova e teatro di applicazione sperimentale dei principi del Piano, senza che essa sia città di un Paese Pilota. Sulla carta.

Letterio Gatto

docente di Algebra Lineare e Geometria

Politecnico di Torino




Sulla immaturità dell’opinione pubblica – Due guerre, due misure

In un recente interessante articolo su Repubblica Ezio Mauro osserva con compiacimento il risveglio dell’opinione pubblica occidentale che, colpita dalla tragedia di Gaza, finalmente “agisce con autonomia e spontaneità”, come “soggetto indipendente” di cui partiti e governo “devono tenere conto”.

E tuttavia il suo compiacimento per il formarsi di un blocco di opinione che pone risolutamente la questione di Gaza non gli impedisce di sollevare alcuni interrogativi del tutto logici, ma che in questo momento pochi hanno il coraggio di porre. Primo, come mai la solidarietà con il popolo palestinese elude la questione della “rappresentanza terroristica che Hamas fa dei palestinesi”, ed evita accuratamente il problema degli ostaggi israeliani nelle mani dei terroristi? Secondo, come mai l’opinione pubblica è compattamente schierata con le vittime civili palestinesi, ma è molto più tiepida sulle atrocità subite dai cittadini ucraini?

Mi sembrano due domande importanti, ma le risposte mi convincono solo in parte. Secondo l’ex direttore di Repubblica la differenza starebbe nella gestione delle due crisi, tutta politico-giuridica quella di Zelensky, tutta emotiva (e mediatica, aggiungo io) quella dei Palestinesi. Di conseguenza, l’opinione pubblica si sentirebbe pienamente coinvolta nella tragedia mediorientale, ma assai meno in quella ucraina. Anzi, se ho ben compreso il ragionamento, quella che chiamiamo opinione pubblica non sarebbe esattamente tale, perché la componente emotiva sarebbe prevalente su quella razionale. Insomma, il “blocco di opinione” attuale sarebbe una “forma sociale transitoria”, più simile a una folla che a un soggetto collettivo maturo e stabile.

Temo che le cose stiano molto peggio di così. Quando si nota l’asimmetria di reazioni alle due guerre – Gaza e Ucraina – si dimentica un fattore cruciale: i media. Una ricognizione imparziale di quel che giornali, radio, televisioni, siti internet hanno fatto in questi ultimi due anni non può che mettere in evidenza il doppio standard di attenzione. Le immagini dei bambini di Gaza hanno letteralmente invaso le nostre vite, mentre quelle dei bambini ucraini non solo uccisi, ma rapiti e deportati dai russi, hanno attirato un’attenzione incomparabilmente inferiore (in un rapporto che, a spanne, mi sento di valutare in 1 a 20). Che cosa penserebbe oggi l’opinione pubblica se i media avessero snobbato il conflitto israelo-palestinese, e ci avessero martellati con racconti patetici di bimbi rapiti, madri disperate, famiglie distrutte, quotidiane violenze dei soldati russi? E dire che il teatro di guerra ucraino è molto più accessibile alla stampa del teatro di Gaza, e dunque – sulla carta – avremmo dovuto aspettarci molti più reportage anti-russi che anti-israeliani.

E qui veniamo a una seconda, decisiva, differenza. Le vittime palestinesi hanno dalla loro un formidabile vantaggio mediatico: sono soggetti poveri, e oppressi da una potenza occidentale. Questo ne fa il soggetto ideale per una narrazione altruistico-emotiva, che ha l’opportunità di combinare in un unico copione due formidabili meme della cultura occidentale: l’ideale cristiano-marxista del riscatto degli ultimi, e l’odio per la propria civiltà (“il singhiozzo dell’uomo bianco”, per dirla con Pascal Bruckner).

Né l’uno né l’altro potevano essere attivati nel caso dell’aggressione di Putin all’Ucraina. Gli Ucraini non sono percepiti né come poveri, né come un popolo oppresso. Quanto alla Russia, non è una potenza occidentale, capitalistica, opulenta. Possiamo biasimare la violazione del diritto internazionale, l’aggressione a uno Stato sovrano, ma ci è difficile attivare quei sentimenti di identificazione e ripulsa che sentiamo emergere così forti quando i media ci mostrano i fotogrammi della distruzione di Gaza.

In questo senso si comprende perfettamente il doppio standard dei media. È un fatto di notiziabilità e di share: quel che ha funzionato con i bambini palestinesi, non poteva funzionare altrettanto bene con quelli ucraini. E il discorso si farebbe ancora più mesto se dovessimo ricordare le tragedie e i massacri completamente ignorati dai nostri media e, per riflesso, dalle nostre opinioni pubbliche, come le recentissime guerre civili in Sudan e in Myanmar.

La realtà, tanto evidente quanto difficile da pronunciare, è che le nostre opinioni pubbliche sono fortemente eterodirette, e profondamente immature. Se non lo fossero, spenderebbero la maggior parte delle loro energie per capire i problemi e immaginare soluzioni, e non per coltivare emozioni che fanno sentire buoni, umani, o “dalla parte giusta della storia”.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 settembre 2025]




Invecchiamento e welfare – Anziani, perché è un problema (soprattutto) italiano

I recenti dati Istat sulla spesa per gli anziani, di cui si è ampiamente parlato nei giorni scorsi, pongono certamente un problema di equità territoriale: la spesa è squilibrata non solo fra nord, centro e sud (a danno del sud e a favore del nord), ma anche fra zone urbanizzate e piccoli centri delle zone interne. E tuttavia, se guardiamo le cose in prospettiva, quello degli squilibri territoriali è il problema minore, quanto meno nel senso che è risolvibile: si tratta “solo” (si fa per dire) di ripartire meglio le scarse risorse disponibili.

Il vero problema, che darà filo da torcere alle prossime generazioni, è il rapidissimo processo di invecchiamento della popolazione nei paesi avanzati, europei ed extra-europei. Un fenomeno in atto da decenni, che ha due determinanti fondamentali: il crollo delle nascite, in buona misura dovuto alle scelte esistenziali dei cittadini dei paesi ricchi, e l’allungamento della speranza di vita, in buona misura dovuto ai progressi della medicina.

Le conseguenze del rapido invecchiamento della popolazione sono note. Una quota elevata di anziani mette in crisi il sistema pensionistico, ponendo la politica di fronte al dilemma: pensioni più basse o maggiori prelievi contributivi su chi lavora? Una durata maggiore della vita, infatti, fa lievitare i costi del sistema sanitario, che non dipendono solo da quanti vecchi ha in carico, ma anche da quanto è lunga la loro vita residua.

Quello su cui forse non riflettiamo abbastanza, però, è quanto differenti siano le situazioni dei vari paesi, anche all’interno della comune famiglia europea, e quanto particolare (per non dire drammatica) sia la situazione dell’Italia.

Nel nostro paese, infatti, si cumulano tutti i fattori che rendono esplosivo il problema degli anziani. Tanto per cominciare, il tasso di fecondità (numero di figli per donna in età fertile) è fra i più bassi del mondo: fra le società avanzate, solo Singapore, Malta e Spagna fanno meno figli di noi. Di qui un inevitabile squilibrio fra la popolazione in età da lavoro e la popolazione anziana, le cui pensioni – specie in un sistema a ripartizione come il nostro – dipendono dai contributi versati dagli occupati. Uno squilibrio, questo, aggravato dal fatto che in Italia non hanno mai decollato i sistemi pensionistici complementari (secondo e terzo pilastro della previdenza).

Questo squilibrio è aggravato dal fatto che il nostro tasso di occupazione, a dispetto dei notevoli progressi degli ultimi anni (il milione di nuovi occupati vantato da Giorgia Meloni), resta uno dei più bassi dell’occidente. E meno lavoratori occupati significa meno contributi previdenziali, che a loro volta significano meno risorse per le pensioni degli anziani.

Infine, non si può non menzionare un fattore per tanti versi ultra-positivo, ma che  aggrava il problema: l’aspettativa di vita è una delle più alte al mondo, con conseguente pressione sui costi del sistema sanitario.

In breve, in Italia si concentrano i tre fattori che rendono esplosivo il problema dell’invecchiamento della popolazione: meno nascite, meno occupati, più speranza di vita. Con un unico risvolto positivo: l’esercito dei nonni, finché sono in salute, fornisce un contributo fondamentale all’educazione (e alla felicità) dei ragazzi, e di fatto costituisce un pilastro fondamentale del nostro welfare, in questo diversissimo dal sistema che vige nei paesi scandinavi, dove i vecchi sono tenuti lontani dai familiari e abbandonati a sé stessi.

Si possono contrastare queste derive?

Per certi versi no: il crollo della fecondità è un processo planetario, che in Italia è solo più avanti che altrove, e tutt’al più potrebbe essere rallentato.

Per altri versi sì: portare il tasso di occupazione vicino a quello dei paesi nordici si può fare, e in parte si sta già facendo.

Per altri versi ancora, invece, non è proprio il caso: l’allungamento della speranza di vita è una conquista, e sarebbe stolto invidiare i paesi in cui guerre, malattie e modi di vivere dissennati accorciano la vita. Quello che è certo, però, è che le risorse per rendere vivibili (e dignitosi) gli ultimi anni sono, oltreché mal distribuite, gravemente insufficienti. E per renderle adeguate le vie sono solo due: rendere territorialmente meno squilibrata la spesa pro capite, ovviamente, e aumentare la quota di Pil dedicata alla sanità e all’assistenza, compresi i necessari investimenti in ricerca, infrastrutture, edilizia.

Il problema è che – a parte la consueta, ignorata e non decisiva via della spending review – tale aumento di spesa può essere realizzato solo in due modi: sottraendo risorse ad altri impieghi (ma quali? scuola, trasporti, infrastrutture, armi…), o permettendo all’economia di crescere e creare nuovi posti di lavoro. Che sono l’unica polizza di assicurazione per il futuro del nostro stato sociale.

[articolo uscito sul Messaggero il 27 settembre 2025]




Anime belle accademiche – Un chiarimento sulla democrazia dei contemporanei*

77 colleghi storici del pensiero politico hanno firmato un manifesto per Gaza «in modo analogo a quanto hanno fatto molte altre studiose e studiosi, società scientifiche e Senati accademici».

 Ritengo Netanyahu un irresponsabile farabutto ma, in quanto studioso, non riesco a condividere l’iniziativa. Ben volentieri aderisco alla richiesta di versare contributi in denaro o in aiuti economici  e sanitari alle vittime dell’esercito israeliano, ma  come cittadino/qualunque non  come professore emerito, membro di diritto della congrega degli ‘intellettuali’. Quale autorità morale e politica, infatti, può avere in una democrazia a norma, una ‘corporazione’ di professori? E se fossero i tranvieri a manifestare la loro solidarietà a Gaza perché la loro competenza etico-politica dovrebbe essere considerata minore di quella dei politologi? Abbiamo una strana concezione della democrazia: secondo i suoi virtuisti, ordini professionali, associazioni di categorie non debbono limitarsi (e sarebbe già tanto) a occuparsi dei compiti e dei doveri specifici iscritti nei loro statuti ma avrebbero anche il dovere di riflettere su quanto accade attorno a loro, nella società civile e nel sistema politico interno e internazionale. ’La democrazia’, si dice, non ‘è partecipazione? ’E perché un farmacista o un geometra non dovrebbero prendere posizione dinanzi alle stragi e alla violenza che regna nel mondo? In realtà, tutti i cittadini sono impegnati a rendere meno invivibile il nostro mondo ma perché dovrebbero farlo ‘in divisa’, col camice del medico, con la toga del giudice, con l’uniforme militare? In democrazia si protesta ‘in borghese’ giacché, sul suo piano, effettivamente ‘uno vale uno’ ed esibire la propria qualifica professionale rinvia alla presunzione (inconfessata) di avere una maggiore autorità rispetto ai propri concittadini per il fatto di essere economista, giurista, scienziato politico, insegnante, prelato, artista etc. Il bene comune, l’interesse collettivo non sono oggetto di conoscenza, come lo sono per l’enologo il Barolo e per il medico un farmaco. In politica, non ci sono verità ma opinioni e ciascuna opinione è dettata da un interesse o da un valore non necessariamente condivisi dalla maggioranza. L’”opinione” di un bracciante analfabeta, che dinanzi alla parata delle camicie nere, nutre brutti presentimenti sul futuro che lo aspetta, a giudicarla oggi dopo le catastrofi prodotte dal fascismo, non coglie nel segno più di quella dell’avvocato o del giornalista di grido il cui ‘cor si riconforta’’ guardando la sfilata dei gagliardetti?

  Negli anni della mia adolescenza, la borghesia colta non riusciva a rassegnarsi al fatto che le donne di servizio (analfabete) potessero votare a differenza dei giovani colti e preparati, che non avevano raggiunto la maggiore età. Già da allora trovavo questo modo di pensare ingiusto e sbagliato. La nostra ‘domestica’ votava per un partito ‘clientelare’, la DC, che a lei, ragazza madre e con due figli a carico, prometteva un alloggio popolare. Il classico voto di scambio! Ma non è stato sempre, in gran parte, così?  Quanti votano per i partiti protezionisti, che mettono al riparo industria e agricoltura nazionali dalla concorrenza straniera, e quanti votano per i partiti liberisti, che fanno la fortuna di certi settori e ne rovinano altri, depositano la scheda nell’urna  col pensiero rivolto al ‘bene pubblico’ o al proprio tornaconto (peraltro legittimo)? E quale superiore autorità morale o intellettuale potrebbero rivendicare giuristi ed economisti difensori dell’una o dell’altra linea politica? Non pochi ceti, cosiddetti ’parassitari’, non votano per i partiti che garantiscono lo status quo e il ‘quieta non movere’ ovvero assicurano rendite di posizione che, per quanto modeste, consentono di contare, il 27 del mese, sui “pochi, maledetti e subito”? Li cancelleremo per questo dalle liste elettorali?  In realtà, il bene pubblico è la risultante complessa del confronto e del conteggio di interessi, valori e voti diversi. Sempre, ovviamente, in un quadro costituzionale, rispettoso delle libertà e dei diritti di tutti e all’interno di una comunità politica capace di tenere a freno le spinte centrifughe in nome dell’”interesse superiore della nazione”, come si diceva un tempo. Il partito—o i partiti—che ottiene più voti va al governo e cerca di realizzare i suoi programmi, che non sono i migliori possibili (concetto ideologico come pochi altri) ma sono sostenuti dal concorrente più forte, legittimato da una vittoria elettorale ottenuta osservando le ‘regole del gioco’. «Il metodo democratico – scriveva Joseph A. Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia (1942) – è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare». Una democrazia ‘sana’ è’ quella che affida le redini del governo a classi dirigenti illuminate e responsabili (che poi era l’auspicio di Alexis de Tocqueville), una democrazia ‘malata’ è quella che esprime élite che portano lo Stato alla bancarotta. Allievo di Max Weber, Schumpeter non si faceva illusioni «I politici sono come cattivi cavalieri che si impegnano così tanto nell’impresa di mantenersi in sella da non curarsi più di quale sia la direzione verso cui stanno cavalcando». In ogni caso, per chi creda ai valori della ‘società aperta’, dalla democrazia non si esce. Il contributo che possono dare gli intellettuali—storici, filosofi etc.—è un contributo di conoscenze relative allo stretto campo di ricerca in cui sono immersi. Dare direttive, prendere posizione politica in quanto ‘corpo di esperti’ che diffidano delle masse sa di ancien régime ed è semplicemente ridicolo. Quando si parla di masse ignoranti e analfabete—oggi arricchite dal popolo dei social—mi viene in mente il lamento dell’automobilista intrappolato nelle code autostradali: “ma dove va tutta questa gente?”, “queste interminabili file di macchine  non sono un segno di un consumismo di massa che ci porterà tutti alla rovina?”. Già potrebbe essere così ma al traffico non contribuisce anche lui? Quando si parla delle ‘masse ignoranti e gregarie’ non viene mai il sospetto che chi si lagna, come quell’automobilista, potrebbe farne parte?

 L’aristocratico Josè Ortega y Gasset, ne La ribellione delle masse (1930), osservava che «le masse esplicano oggi un contenuto vitale che coincide, in gran parte, con quello che prima sembrava riservato esclusivamente alle minoranze;  |…|  le masse si sono fatte indocili dinanzi alle minoranze; non le ubbidiscono, non le seguono, non le rispettano, anzi, al contrario, le mettono di lato e le soppiantano |…| l’uomo volgare, che per il passato si faceva dirigere, ora ha deciso di governare il mondo». Il limite della ‘letteratura della crisi’ – di cui il grande filosofo madrileno poteva dirsi un esponente di primo piano – sta nel brancolare nel buio, una volta fatta la diagnosi.

 Nel pieno di una epoca di transizione, come quella che stiamo vivendo, lo studioso, impotente ad arrestarla, ha soltanto un duplice dovere: la libertà e l’autocritica. Le cose vanno male, i politici che ci governano non ci piacciono? Il rimedio è la libertà, che, come la lancia di Longino, trafisse il costato di Gesù ma guarì il centurione romano col sangue che ne scaturì. Libertà sempre, per tutti, anche (e soprattutto) per coloro che, su questioni cruciali di politica interna ed estera, hanno idee diverse dalle nostre. Libertà per chi stigmatizza la politica di Netanyahu o di Putin e libertà per chi, pur non condividendola, crede di comprenderne le giustificazioni. Libertà per chi   in una Università privata prescrive il politicamente corretto e libertà per chi si rifiuta poi di sostenere l’istituzione con i denari del contribuente. Solo la libertà più assoluta consente di cogliere la verità di quanto scriveva il più grande storico medievista del 900, Marc Bloch, nelle Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra (Ed. Donzelli): « Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; questa solo apparentemente è fortuita ,o, più precisamente, tutto ciò che in essa vi è di fortuito è l’incidente iniziale, assolutamente insignificante che fa scattare il lavoro dell’immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento».(E’ proibito farsi venire in mente i reportages dei grandi giornali sulle guerre in corso, ucraina e israeliana?)

 Ma accanto al fondamentalismo della libertà, occorre la capacità di autocritica ovvero la convinzione – non retorica – che le nostre opinioni possano essere sbagliate, che, in qualche modo, siamo tutti eterodiretti e che gli eterodiretti non sono soltanto gli altri, quelli di cui non condividiamo le posizioni, giacché eterodiretti, appunto, possiamo essere anche noi in virtù della famiglia in cui siamo nati, dell’ambiente in cui siamo vissuti, degli amici che il destino ci ha fatto incontrare. Questo comporta un abito di umiltà che ci impedisce di indossare la corazza di una formazione ideologica: alla causa ritenuta giusta dobbiamo portare il nostro granello di sabbia confusi nel demos: ‘mettiamoci la faccia!’ ma con il nostro nome e cognome non con le insegne accademiche che ci distinguono dalla ‘gente meccanica e di piccolo affare’.

 In fondo, la ‘cultura impegnata’—in cui idealmente e de facto si colloca l’appello in questione—a ben riflettere, ha sempre nella mente e nel cuore Platone col suo governo dei filosofi e, pertanto, si  pensa come una grande scuola quadri incaricata di formare gli apostoli della nuova civiltà. Non è casuale che i leader comunisti—dai maggiori come Lenin, ai minori come Nicolae Ceausescu—si siano cimentati con la filosofia politica, con l’economia con la storia. Come i cattolici d’antan, gli eredi di Rousseau vedono nella cultura una risorsa politica, uno strumento di conversione e nelle istituzioni scolastiche il terreno fertile su cui far crescere le piante degli homines novi. La pedagogia di Stato resta la sua intramontabile stella polare e non meraviglia, quindi, che recluti i suoi più sicuri supporter nelle scuole di ogni ordine e grado: non mi è mai capitato di incontrare un professore di scuola media, inferiore e superiore, con un giornale moderato sottobraccio.

 Questa ‘responsabilità di fronte alla storia’ induce il fronte progressista ad assumersi il ruolo di supplente quando i governi sembrano insensibili (se non ostili) alle sue ‘sacrosante’ richieste. Non a caso i 77 docenti chiudono il loro documento con un «appello al governo italiano affinché ascolti le voci sempre più numerose provenienti dai cittadini e dalle cittadine, dalle istituzioni accademiche e dalle organizzazioni non governative, e attui ogni iniziativa che vada nella direzione di porre fine allo sterminio della popolazione gazawa e di aprire la strada a una pace giusta». Ma che cosa Palazzo Chigi dovrebbe fare se non agire di concerto con gli altri partner europei? Naturalmente non lo si dice giacché i ‘manifesti delle anime belle accademiche’ sono ‘espressione di sentimento’ non contributi alla soluzione di problemi reali, soluzione per la quale i loro estensori non sono intellettualmente attrezzati, giacché politica e scienza, come insegnava, ne La scienza come professione,  il più grande pensatore politico del Novecento, Max Weber, stanno su piani diversi.

*Una versione più ridotta dell’articolo è stata pubblicata su ‘Paradoxa-Forum’ del 23 settembre 2025




Dopo l’assassinio di Kirk – Violenza e sicurezza, rebus insolubile

L’uccisione di Charlie Kirk, attivista conservatore schierato con Trump, ha riacceso le polemiche fra destra e sinistra sull’uso della violenza. Ma soprattutto sul nesso fra libertà di pensiero e istigazione all’odio dell’avversario politico. Che resta una questione irresolubile: la demonizzazione dell’avversario politico andrebbe repressa perché aumenta le probabilità che qualcuno prenda un’arma da fuoco e abbatta il demonio, ma la repressione per via legale delle manifestazioni di odio pone un grave limite alla libertà di espressione.

Forse anche per questo stallo politico-ideologico, ciclicamente a sinistra ci si ritorna a rifugiare in una vecchia idea dei democratici americani: limitare per legge il possesso di armi da fuoco. Se è vero – così si argomenta – che buona parte degli omicidi (circa 3 su 4) avvengono mediante un’arma da fuoco, perché non proibiamo l’uso di tali armi, o quantomeno restringiamo fortemente i casi in cui è ammesso possederne?

Apparentemente una soluzione di buon senso, per quanto contraria al 2° emendamento della Costituzione americana, che protegge il diritto dei cittadini di possedere e portare armi. L’idea è che, se gli Stati Uniti hanno un tasso di omicidio così alto (uno dei più elevati delle società avanzate), è perché le armi da fuoco circolano troppo liberamente. Dunque, proibiamo le armi da fuoco e quel paese, come per miracolo, diventerà una società normale, con un tasso di omicidio – se non accettabile – quantomeno comparabile a quello delle altre società occidentali.

Purtroppo questo ragionamento contiene due gravi fallacie. La prima è l’ingenua credenza che, se le armi da fuoco fossero molto più difficili da detenere legalmente, i potenziali assassini rinuncerebbero a colpire le loro vittime. Ben più verosimili sono due altre eventualità: procurarsi un’arma da fuoco illegalmente, usare strumenti offensivi di altro tipo. Certo, è ragionevole ipotizzare che alcuni desisterebbero, o non riuscirebbero a portare a termine fino in fondo il loro proposito. E tuttavia è difficile pensare che 3 omicidi su 4 non avrebbero luogo solo perché è diventato più difficile procurarsi armi da fuoco.

Ma supponiamo, per un momento, che per miracolo proprio questo accada: tutti gli assassini intenzionati a uccidere con un’arma da fuoco desistono, e non uccidono più nessuno. Qui però incontriamo la seconda fallacia. Il tasso di omicidio degli Stati Uniti subirebbe una drastica potatura, ma resterebbe comunque anomalo. Giusto per dare un ordine di grandezza, il tasso di omicidio americano, che attualmente è di circa 6 uccisi ogni 100 mila abitanti (il valore più alto da 25 anni), scenderebbe a 1.5, che tuttavia è ben il triplo del tasso italiano (circa 0.5). Detto in altre parole, la società americana resterebbe comunque una società violenta, o per lo meno molto più violenta della nostra.

Hanno dunque ragione i conservatori, che invocano più repressione? Nemmeno questa conclusione è convincente. Chi invoca il giro di vite sul crimine dimentica che la società americana è già, almeno fra le società democratiche, una delle meno indulgenti. Non solo prevede ancora la pena di morte, ma ha il tasso di incarcerazione più alto delle società avanzate: 5 volte quello italiano, e 3 volte quello del paese europeo più repressivo (la Polonia).

Quello della sicurezza e della lotta alla violenza resta, da qualsiasi angolatura lo si guardi, un problema per cui non si conoscono soluzioni. Le limitazioni nell’uso delle armi potrebbero comportare una limatura dei tassi di omicidio, ma non cambierebbero drasticamente la situazione. I conservatori hanno ragione a denunciare l’aumento della violenza (negli ultimi anni il tasso di omicidio è cresciuto in 3 società avanzate su 4), ma i progressisti hanno a loro volta ragione nell’obiettare che l’aumento della repressione non garantisce la sicurezza.

È doloroso riconoscerlo, ma ci sono anche rebus che non ammettono soluzioni.

[articolo uscito sulla Ragione il 23 settembre 2025]