Trump vs Musk: le due lezioni che (non) impareremo

Che Donald Trump e Elon Musk abbiano posto bruscamente fine alla loro collaborazione non deve sorprendere. E infatti non ha sorpreso quasi nessuno, se non, forse, per la rapidità (personalmente gli avevo dato 12-15 mesi prima che litigassero irreparabilmente: gliene sono bastati la metà). Ma la rottura era scritta fin dall’inizio, perché due personaggi con un ego così smisurato non potevano coesistere a lungo, a maggior ragione in una situazione fortemente asimmetrica: perché Musk avrà anche più soldi, però lì il “capo” era Trump e uno come Musk non è fatto per avere capi.

Poco male: non è che finora la loro collaborazione avesse prodotto un granché. Ma ci sono un paio di lezioni interessanti che possiamo trarre dalla vicenda, anche se dubito molto che le impareremo.

Anzitutto, Trump e Musk avevano tutto l’interesse a collaborare e Musk, in particolare, aveva in ballo interessi economici enormi, che ora sono a rischio. È improbabile che Trump possa rompere i contratti con SpaceX, dato che in tal caso gli USA resterebbero scoperti su molti aspetti strategici della corsa allo spazio. Ma è invece assai verosimile che possa colpire duro sul versante Tesla, tanto più che le auto elettriche le ha sempre cordialmente detestate (anche con buone ragioni). Eppure, l’interesse reciproco non è bastato a tenerli insieme. Anzi, a rompere definitivamente è stato proprio Musk, pur essendo quello che più ha da perderci.

E non si tratta certo di un caso isolato, anche se ha fatto scalpore perché vi erano coinvolti l’uomo più ricco del mondo e l’uomo più potente del mondo. Ma, solo per restare in casa nostra, lo stesso è successo con Renzi e Calenda, che da soli non contano nulla, mentre uniti avevano una possibilità reale di costruire un soggetto politico di qualche peso. Eppure, nonostante avessero tutto l’interesse a stare insieme, non ci sono riusciti, perché dominare il proprio ego è risultato troppo difficile.

La prima lezione che (non) impareremo è pertanto che, come da tempo vado sostenendo (vedi p. es.https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti/), l’idea che le azioni dei potenti del mondo si spieghino tutte in base all’interesse, in particolare all’interesse economico, è una balla cosmica.

Pesano almeno altrettanto l’orgoglio, l’ambizione e le altre passioni umane, che il potere tende ad amplificare a dismisura. E poi, a volte, c’è anche la sincera volontà di fare qualcosa di buono per gli altri, che può benissimo coesistere con i vizi di cui sopra, così come accade a tutti gli altri esseri umani (perché, per quanto incredibile possa sembrare, anche Trump e Musk sono umani).

La seconda lezione che (non) impareremo è l’assoluta inattendibilità del complottismo. Che non è affatto esclusiva degli sciamannati di destra (vedi ancora l’articolo di cui sopra).

Ricorderete, spero, le tortuosissime analisi volte a dimostrare che era bastato un tweet (o uno xeet?) di Musk per determinare il successo del partito (presunto) neonazista AFD alle elezioni politiche tedesche. O le proteste indignate per un altro xeet (o come diavolo si dirà adesso) dello stesso Musk contro i magistrati italiani, gravissima minaccia allo Stato di diritto contro cui si scagliò eroicamente perfino Mattarella. O le terrificanti teorie su come Musk premendo un solo bottone avrebbe potuto far crollare l’intero fronte ucraino, costringendo Zelensky ad accettare una pace capestro che avrebbe dato inizio alla nuova Yalta, con la spartizione del mondo fra Trump e il suo amico Putin.

Bene, dov’è finito ora tutto questo? AFD ha avuto successo (non certo grazie allo xeet di Musk), ma non abbastanza per andare al governo, i magistrati italiani continuano (purtroppo) a fare quello che vogliono, Putin continua (purtroppo) a prendere in giro Trump, che continua (purtroppo) a non accorgersene (o a far finta di non accorgersene) e gli ucraini continuano (per fortuna) a resistere senza bisogno né di Musk né di Trump: e solo pochi giorni fa, il 1° giugno, con l’Operazione Ragnatela, hanno distrutto 40 bombardieri russi con droni fatti in casa su un territorio vasto quanto 5 fusi orari, sotto il naso dei 5000 e passa satelliti Starlink di Musk, che non si è accorto di nulla, se non a cose fatte.

Della diabolica coppia che doveva conquistare il mondo resta solo il grottesco video del Resort Gaza, a imperitura testimonianza della sua imbecillità.

Ma soprattutto della nostra, che l’avevamo presa sul serio.




Criminalità – La paura e il rimpianto

Anche se ogni tanto qualcuno a sinistra ci prova, il tema della sicurezza non riesce proprio a far breccia nella mente dell’establishment progressista. A neutralizzare questa eventualità provvede un racconto standard, terribilmente ripetitivo, che più o meno suona così.

Viviamo nell’epoca più sicura della storia, l’Europa è una delle aree più sicure del pianeta, l’Italia è uno di paesi più sicuri d’Europa. I crimini violenti, e in particolare gli omicidi, sono in calo vertiginoso dall’Ottocento, se qualche tipo di reato (ad esempio stupri ed estorsioni) è in crescita in realtà è un bene, perché vuol dire che la gente denuncia di più. Gli immigrati non sono il problema, non delinquono più degli italiani. La paura non è razionale, perché ad alimentarla provvedono i media e gli “imprenditori della paura”, non certo l’aumento effettivo dei crimini commessi. La buona politica deve impegnarsi a mostrare ai cittadini l’infondatezza delle loro paure.

Questo racconto è basato su un buon numero di errori statistici e logici, e pure su qualche piccola furbizia. Ad esempio usare come termine di paragone il 1991, anno in cui i crimini hanno toccato il picco, o concentrarsi sugli omicidi, ossia su uno dei pochissimi crimini su cui effettivamente l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa. Ma il difetto principale del racconto rassicurante è di fraintendere radicalmente lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Oggi la preoccupazione per il crimine, i vissuti di insicurezza, l’ostilità verso gli immigrati non poggiano, come in passato, sulla sensazione, più o meno fondata, di un recente più o meno improvviso aumento dei reati. La loro base è molto più ampia e profonda, perché affonda le radici in un cambiamento più generale della nostra percezione della realtà in cui viviamo.

Dopo i quattro grandi shock degli ultimi anni – Covid, guerra in Ucraina, guerra Israele-Hamas, attacco all’Iran – la sensazione di vivere in un mondo profondamente insicuro e sempre più a rischio di catastrofi globali (pandemie, disastri climatici, guerra nucleare), è diventata pane quotidiano delle nostre coscienze. Ma questo ha anche modificato il modo di vivere la preoccupazione per il crimine. Se ieri potevamo essere turbati da ondate, vere o presunte, di comportamenti criminali, oggi quello che si fa strada nella mente di molti è un sospetto molto più radicale: che il progresso non sia progresso, che il mondo di ieri fosse ben più sicuro e vivibile di quello di oggi. Detto in altre parole, la gente, specie se ha vissuto parte della sua vita nel Novecento, non si chiede se l’Italia sia più sicura di 5 anni fa, ma semmai se lo sia rispetto a decine di anni fa.

Ma come stanno le cose?

Difficile, con l’informazione statistica disponibile, formulare una risposta rigorosa, ma una approssimativa invece la possiamo dare. Fatto 1 il livello dei vari crimini a metà degli anni ’60, possiamo dire che oggi le lesioni dolose sono salite a livello 3, i furti a livello 5, le violenze sessuali e le estorsioni a livello 6, le frodi e le truffe a livello 7, le rapine a livello 12, la produzione e commercializzazione di stupefacenti oltre livello 100. In breve: la gente ha ragione, oggi la criminalità è più forte, molto più forte di ieri. E sono diversi i reati (ad esempio furti e frodi) per cui l’Italia è meno e non più sicura della maggior parte degli altri paesi europei.

C’è una sola eccezione importante, che non a caso è sistematicamente invocata da chi nega o cerca di sminuire il problema della sicurezza: gli omicidi.

Effettivamente è vero che il tasso di omicidio in Italia è fra i più bassi d’Europa. Ed effettivamente è vero che negli ultimi 30 anni il numero di omicidi è crollato. E infine è vero che, nel lunghissimo periodo, con la modernizzazione e la crescita del benessere, il numero di omicidi volontari tende a diminuire. Negli ultimi decenni dell’Ottocento erano circa 4000 (su una popolazione di 30 milioni di abitanti), mentre oggi sono poco più di 300 (su una popolazione di 58 milioni di abitanti).

Quello che sempre si dimentica, tuttavia, è di specificare che il grosso del tracollo degli omicidi è avvenuto nei primi 100 anni della nostra storia nazionale, fra gli anni ’60 dell’Ottocento e gli anni ’60 del Novecento, e che negli ultimi 60 anni la diminuzione è stata modestissima, dai circa 400 del 1965 ai circa 300 di oggi. L’impressione di un crollo del numero di omicidi è dovuta a un rozzo trucco statistico: per dare l’impressione di un inarrestabile progredire della civiltà si usa come termine di paragone il 1991 (quasi 2000 omicidi), ossia l’anno terminale di una drammatica galoppata degli omicidi, enormemente cresciuti dopo il ’68. Se il paragone, anziché con il 1991, si facesse con il dato del 1965, dovremmo amaramente ammettere che – in quasi 60 anni – gli omicidi sono scesi da circa 400 a circa 300, un ben misero risultato considerata la lunghezza del periodo.

Ecco perché, oggi, parlare semplicemente di paura è riduttivo. Quello che si sta facendo strada nell’opinione pubblica è un sentimento assai più complesso, che ha più a che fare con il rimpianto che non con la paura. Rimpianto di un’epoca forse un po’ idealizzata, ma in cui i crimini erano molti di meno, e l’impunità era meno sistematica e legalizzata di oggi. Un’epoca in cui non era vivo quanto oggi il sentimento generale di ingiustizia che ogni crimine impunito suscita nelle vittime e nei comuni cittadini.

Possiamo deplorare la nostalgia per il passato, e sforzarci di elencare le innumerevoli cose che vanno meglio oggi di ieri. Ma non possiamo non vedere che il futuro non è più costellato di speranze come lo si pensava nel secolo scorso, e la nostalgia ha le sue buone ragioni.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 giugno 2025]




La macedonia avvelenata

C’erano una volta i movimenti collettivi. Ricordate le grandi manifestazioni delle donne negli anni ’70? La battaglia sul divorzio? E quella sull’aborto? La mobilitazione contro il nucleare? Il referendum contro il finanziamento pubblico dei partiti? E quello sulla scala mobile? E le grandi manifestazioni per la pace ai tempi delle guerre del Golfo?

La stagione dei movimenti è durata una quarantina di anni, dalla fine degli anni ’60 ai primi anni 2000. Poi, più o meno lentamente, le grandi ondate dell’azione collettiva hanno perso vigore, e sono state sostituite da sommovimenti più piccoli, più contingenti, più frammentati. I grandi movimenti collettivi, capaci di polarizzare l’opinione pubblica e mobilitare grandi masse di cittadini, oggi non ci sono più, sostituiti da sussulti di breve durata e scarso respiro.

Perché?

Una spiegazione possibile è che la nostra società è diventata molto più individualista. Siamo molto più concentrati su noi stessi, le battaglie collettive ci interessano sempre di meno. Ognuno cerca la sua strada da solo. La “società liquida” di cui parla Zygmunt Bauman non consce né la fatica dell’impegno pubblico né la pazienza dell’attesa.

Un’altra possibile spiegazione è che molte delle rivendicazioni dei movimenti del passato sono state soddisfatte. Se le donne di oggi lottano di meno è anche perché hanno ottenuto molto di ciò per cui le loro madri e nonne si sono battute.

E tuttavia, forse, c’è anche un’altra ragione, stranamente dimenticata, per cui oggi non ci sono più veri movimenti collettivi di massa: non c’è uno straccio di attore politico che sappia resistere alla tentazione della macedonia avvelenata.

Che cos’è la macedonia avvelenata?

È la tendenza a costruire, intorno al tema principale per cui si convoca una manifestazione o si indice un’iniziativa, una macedonia di temi supplementari, tenuti insieme e spesso infiammati dal veleno dell’ideologia, quando non dal carburante dell’odio.

L’esempio più recente è stato fornito giusto sabato scorso dal Gay Pride di Roma, una manifestazione che in teoria era di difesa dei diritti LGBT+, in realtà è diventata tutt’altro. Le bandiere della Palestina l’hanno trasformata anche in una manifestazione pro-Gaza e anti-Netanyahu. E un mostruoso manifesto, con Netanyahu, Trump, Musk  e Joanne Rowling a testa in giù, l’ha trasformata in una macchina dell’odio e dell’incitamento alla violenza.

Ma la stessa cosa era successa, una settimana prima, nella grande manifestazione della sinistra a sostegno dei Palestinesi, che si è rapidamente trasformata in una iniziativa per il sì ai referendum del giorno dopo, in patente violazione del silenzio elettorale. Episodi di questo genere, in cui la piazza viene convocata su un tema, ma gli organizzatori confezionano la “macedonia avvelenata” aggiungendo altri temi, mettendo nel mirino gli avversari politici, indicando bersagli da colpire, non sono certo nuovi. Fra quelli relativamente recenti ricordo l’incredibile insalata di slogan – dai femminicidi al Ponte sullo Stretto – che caratterizzò la piattaforma politica della manifestazione transfemminista del 25 novembre 2023, poco tempo dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin. E, fra quelli remoti, la politicizzazione in chiave anti-Berlusconi (erano i tempi del bunga bunga) della grande manifestazione nazionale del 2011 “in difesa della dignità delle donne”, promossa dalle femministe di “Se non ora quando”.

Ecco, forse è stato proprio in quel momento che è iniziata l’agonia dei movimenti collettivi. Che ha una matrice molto semplice: se chiami la gente in piazza in nome di una parte politica contro la parte avversa, se appiccichi al tema mobilitante una pletora di temi parassitari che c’entrano nulla o poco, se spargi odio contro chi non la pensa come te, allora non stai facendo impegno civile: stai distruggendo le pre-condizioni che lo rendono possibile.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 giugno 2025]




Sul tramonto di Tinder – Crisi o resurrezione delle app di incontri?

Che le ultime due generazioni (Millenials e Zoomers) non disdegnino ricorrere ai siti di incontri per trovare partner più o meno stabili è noto da una dozzina di anni, ossia da quando, nel 2012, venne creato Tinder, il sito più frequentato. Che questo fenomeno crei in molti utenti stress e frustrazione è altrettanto noto, oltreché ovvio. Che negli ultimi anni diversi utenti, giovani e meno giovani, abbiano abbandonato Tinder è pure risaputo. Quello che, invece, è meno chiaro è se il mercato di questi servizi sia in crisi o in espansione.

Alcuni dati generali fanno propendere per il declino. Se, ad esempio, consideriamo le app totali scaricate negli ultimi anni, si può notare che, dopo il boom del 2020 (dovuto al lockdown), si è avuta una contrazione nel 2021, una lenta crescita nei due anni successivi, e un calo nel 2024. Può sembrare una leggera crisi, ma bisogna considerare che, pur essendo le varie app scaricabili in quasi tutti i paesi del mondo, il fenomeno è quasi interamente occidentale. La vera notizia, quindi, è che – a differenza di altri consumi – questo tipo di servizi non si sta espandendo nel resto del mondo. E anche considerando le società avanzate (occidentali o occidentalizzate), il grado di penetrazione è modesto: i pochi dati che circolano parlano di meno di 200 milioni di utenti, su 1 miliardo di persone. Se poi passiamo alle cifre di quanti pagano e al fatturato, il quadro si fa ancora più negativo: gli utenti paganti sono circa 1 su 7, e il fatturato globale del settore (in tutto il mondo) è dell’ordine di 4-5 miliardi di euro, grosso modo un decimo del fatturato di Vodafone in Italia. Insomma: stiamo parlando di una industria piccola, che vale più o meno 1 centesimo di quella del porno. E i cui numeri in borsa sono calanti.

Fin qui, dunque, crisi del settore. Se però per un momento abbandoniamo Tinder (la app principale), che è in crisi da 4-5 anni, e prendiamo in considerazione altre aziende di incontri, il quadro cambia notevolmente. Due app in particolare, Bumble e Hinge, sono in crescita da diversi anni, e considerate insieme hanno ormai quasi raggiunto Tinder, con circa 60 milioni di download nel 2024. Senza l’apporto di queste due app emergenti, il mercato sarebbe in crollo verticale.

Perché?

La ragione pare essere la loro filosofia, che per certi versi è opposta a quella di Tinder. Quest’ultima è strutturata in modo tale da favorire nettamente due minoranze: i maschi belli e fisicamente attraenti (i cosiddetti hot men), che possono ottenere facilmente la donna che vogliono, e le donne che cercano solo sesso. Tutti gli altri (maschi non bellissimi e donne alla ricerca di una relazione stabile), che costituiscono circa l’80% degli utenti di Tinder, hanno scarsissime possibilità di successo e sono destinati ad accumulare frustrazioni, come ha ben spiegato Tomas Pueyo in un recentissimo post (The Problem with Dating Apps). Questo vuol dire che il declino di Tinder era, in certo senso, già inscritto nella sua architettura, che ne fa una macchina delle illusioni (da ultimo supportata dall’intelligenza artificiale).

Del tutto diversa, per non dire opposta, la filosofia di Bumble e Hinge. La prima (Bumble) si caratterizza perché tiene conto dell’asimmetria di potere e di aspettative fra maschi e femmine, che viene neutralizzata concedendo solo alle donne di fare la prima mossa (i maschi non possono interagire con donne che non li hanno selezionati).

La seconda app (Hinge) si indirizza sia a maschi sia a femmine, ma si dà come missione quella di favorire l’instaurazione di relazioni stabili, con conseguente uscita dalla app. In altre parole, il fine ultimo di chi va su Hinge deve essere il distacco dalla app, reso possibile dall’incontro con il partner o la partner giusti: una sorta di rivalutazione laica e tecnologica del matrimonio d’amore.

In una prospettiva simile, ossia di rivolgersi a target ristretti e relativamente ben definiti, sembrano orientarsi anche altre app che stanno ottenendo notevoli adesioni, ad esempio Grindr, che si rivolge al mondo LGBT.

Forse, a dispetto del declino di Tinder, sul mondo dei siti di incontri non è ancora calato il sipario.

[articolo uscito sulla Ragione il 10 giugno 2025]




A proposito dell’epidemia di solitudine – Le conseguenze dell’amore

I sociologi americani se n’erano accorti già a metà degli anni ’80, allorché Robert Bellah ebbe a pubblicare il volume Le abitudini del cuore (sottotitolo: Individualismo e impegno nella società complessa): l’individualismo esasperato della società americana (ma il discorso vale per quasi tutte le società occidentali) erode inesorabilmente il senso di comunità e l’impegno civico. E 15 anni dopo un altro sociologo americano, Robert Putnam, sembrò chiudere definitivamente il discorso con un libro sconsolato, Bowling Alone (giocare a bowling da soli), in cui constatava la distruzione del tessuto comunitario, il declino dell’associazionismo, la contrazione delle relazioni faccia a faccia.

In queste analisi, tuttavia, la preoccupazione principe degli studiosi era l’erosione del “capitale sociale”, fatto di partecipazione e impegno pubblico, più che la condizione dell’individuo. È vero che la condizione umana che traspariva da quelle analisi era quella di individui sempre meno connessi, e quindi sempre più soli, ma è solo recentemente che, grazie soprattutto ad alcuni psicologi sociali americani (Haidt e Twenge su tutti), la solitudine del singolo individuo è diventata l’oggetto e il centro degli studi. Oggi, diversamente da ieri, si parla esplicitamente di “epidemia di solitudine”, e il fenomeno è diventato oggetto di attenzione da parte di psicologi, medici, operatori sociali, schiere di terapeuti di ogni specie. Persino l’Organizzazione mondiale della sanità, un paio di anni fa, ha definito la solitudine “una preoccupazione globale per la salute pubblica”. Per non parlare dei governi che, come quello britannico e quello giapponese, non hanno trovato di meglio che istituire un “ministero della solitudine”.

In effetti i dati, sia quelli comportamentali (come usi il tuo tempo?), sia quelli soggettivi (come ti senti?), supportano pienamente l’idea di una epidemia di solitudine, soprattutto fra le ultime generazioni (Millenials e Zoomers), e in special modo specie nei paesi occidentali.

Ma qual è l’origine di questa ondata di solitudine?

I sociologi tendono a rispondere: è l’individualismo, bellezza! La ricerca ossessiva della felicità e l’imperativo dell’autorealizzazione tolgono spazio alle forme tradizionali della socialità, basate sull’associazionismo e i riti comunitari. Gli psicologi sociali osservano che l’epidemia di solitudine e i sintomi di disagio si sono moltiplicati dopo l’invenzione dell’iPhone4, che ha enormemente facilitato l’accesso a internet e ai social.

Uno sguardo più lungo, tuttavia, suggerisce che, forse, un fattore importante sono state anche le modificazioni della nostra concezione dell’amore, e più in generale dei rapporti con l’altro sesso. Modificazioni che non datano da oggi, ma risalgono ai primi anni ’70, quando è iniziato il lungo processo di disgregazione (o superamento?) della famiglia tradizionale. Secondo il filosofo francese Pascal Bruckner è proprio l’affermazione del matrimonio d’amore, basato sulla passione e la libertà individuale anziché sull’interesse e sul bisogno di sicurezza, che ha reso le relazioni più instabili, più brevi, più a rischio (Il matrimonio d’amore ha fallito?, 2011). E questo ben prima dell’avvento di internet e della vita online: il crollo dei matrimoni e la moltiplicazione di separazioni e divorzi hanno preceduto di diversi decenni la nascita dei social, che hanno dovuto attendere l’invenzione dell’iPhone4 (2010) per decollare veramente.

Ma, anche qui, forse la novità più importante non è che i social hanno confinato un paio di generazioni di giovani nelle loro stanzette, sottraendo tempo ed energie alle interazioni faccia a faccia. La vera novità è che, insieme ai social, sono nate le piattaforme di incontri (come Tinder, Bumble, Hinge), che hanno consentito a tutti, giovani e meno giovani, di inaugurare una nuova stagione nella ricerca del partner. Una stagione in cui la visione romantica, dominante nella seconda metà del secolo scorso, sta progressivamente cedendo il posto a una concezione disincantata, pragmatica, o mercatista, in cui ciascuno opera come mero consumatore, che sfoglia il catalogo dei partner che la piattaforma gli sottopone, alla ricerca più o meno ansiogena di “match”, ossia di potenziali corrispondenze fra domanda e offerta.

Che cosa c’entra questo con la solitudine?

Lo spiega bene un recente report di Tomas Pueyo, brillante analista dei dati attivo negli Stati Uniti: le app di incontri hanno fallito, gli utenti si stanno rendendo sempre più conto che ne beneficiano solo due minoranze (i maschi molto attraenti e le donne che cercano solo sesso) e che la base di tutto è la finzione (profili inventati, ora anche con l’aiuto dell’intelligenza artificiale). La conseguenza è l’aumento del senso di solitudine, aggravato da una circostanza: avendo passato troppo tempo online, e avendo rinunciato a imparare l’arte del corteggiamento durante gli anni giovanili, diventa sempre più difficile rientrare nel mondo reale, un po’ come accade ai reduci di una guerra quando tornano a casa. Se la prima ondata di solitudine, quella iniziata negli anni ’70 del secolo scorso, era il (paradossale) risultato del trionfo dell’amore romantico, la seconda ondata sembra essere, semmai, il frutto dell’abbandono degli ideali romantici, travolti dagli algoritmi di match fra utenti alla ricerca del partner ideale.

Cumulando i loro effetti, le due ondate hanno prodotto uno degli esiti più sconcertanti del nostro tempo: la proliferazione delle “famiglie unipersonali”, ossimoro con cui i demografi indicano le persone che vivono da sole. Il peso di queste “famiglie non-famiglie” era rimasto prossimo al 10% per tutta la storia d’Italia, fino alla fine degli anni ’60. Era balzato al 25% alla fine del millennio, dopo 30 anni di femminismo. Oggi, dopo 20 anni di internet e di social, è arrivato a sfiorare il 40%: niente meglio della demografia ci mostra “le conseguenze dell’amore”, per dirla con il celebre film di Paolo Sorrentino.

[articolo uscito sul Messaggero l’8 giugno 2025]