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Democrazie e autocrazie

4 Settembre 2024 - di Dino Cofrancesco

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Uno stato non è solo un regime politico—forma di governo, costituzione etc.—: è anche un leviatano che, nell’arena internazionale, persegue propri obiettivi di carattere economico e politico-strategico. Sono due dimensioni che non coincidono, come mostra la storia dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, del Belgio. Quest’ultimo, un modello di democrazia liberale, nell’Ottocento diede il peggior esempio di colonialismo genocida. Le autocrazie oggi diffuse nel pianeta non odiano noi occidentali perché ci siamo dati istituzioni liberali—diritti civili e politici, libertà di ricerca—ma perché le grandi potenze egemoni nell’area euroatlantica hanno cercato di imporre non solo il loro stile di vita ma, altresì, ragioni di scambio economico e sudditanze militari non certo iscritte nei trattati sul governo civile di John Locke.

I retori dell’occidentalismo che vorrebbero farci credere che il mondo non europeo ci detesta per le libertà di cui godiamo, dovrebbero meditare sul fatto che è la politica nordamericana in Medio Oriente—che ha tragicamente destabilizzato l’area causando morti, distruzioni, guerre civili- una delle origini del disordine mondiale. Altro che guerra (santa?) delle democrazie liberali alle autocrazie! In realtà, la politica estera non è l’arena in cui si affrontano i buoni contro i cattivi ma una scacchiera variegata e complessa dove i rapporti tra gli Stati sono regolati dalla pura convenienza. La Francia erede dell’89, nell’Ottocento, intratteneva buoni rapporti con l’autocrate di San Pietroburgo, l’America del secolo scorso aveva ottime relazioni con la Spagna di Francisco Franco. Sono tante le autocrazie nel mondo: gli stati demoliberali, saggiamente, dovrebbero cercare di attrarne quante più è possibile nella loro orbita economica e culturale, rinunciando a considerarle una massa di dannati, da combattere in nome dell’antifascismo—che oggi, come il patriottismo stigmatizzato dal Dr. Johnson, sta diventando sempre più l’ultimo rifugio delle
canaglie. Vogliamo che demo-autocrati come Cyril Ramaphosa, Narendra Modi, Lula da Silva facciano fronte comune contro gli Stati Uniti e i suoi alleati europei o cercheremo–mettendo da parte l’approccio ideologico alle questioni internazionali—di renderceli amici?

Rubrica A4 – Presidenzialismo e premierato

2 Settembre 2024 - di Dino Cofrancesco

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Sul premierato sono stati scritti migliaia di articoli, alcuni pro, altri contro, altri ancora critici ma possibilisti. Condivido sul tema le perplessità di Marcello Pera, inascoltato consigliere di Giorgia Meloni, che ha spiegato assai bene le contraddizioni del progetto di legge del centro-destra. E tuttavia, nel dibattito ancora in corso, c’è qualcosa che non ho compreso: perché dal
presidenzialismo si sia passati al premierato. In passato politici e studiosi di grande levatura morale e intellettuale, come Randolfo Pacciardi e Giuseppe Maranini, si erano espressi a favore dell’elezione diretta del Capo dello Stato e con argomenti non poco convincenti. Oggi, chissà perché, non se ne è parlato più e ci si è infognati nel pozzo senza fondo della discussione sui poteri
nuovi attribuiti al premier e sull’eventuale ridimensionamento di quelli assegnati dalla Costituzione italiana all’inquilino del Quirinale. Il confronto tra presidenzialismo e premierato è stato, così, ben presto liquidato e portato su un piano tecnico, di convenienza, riguardandolo, cioè, come qualcosa che avesse a che fare col solo diritto costituzionale e su cui gli esperti (accademici e magistrati) e i professionisti della politica sarebbero stati tenuti a confrontarsi.—come è avvenuto con montagne
di pronunciamenti e di pareri.
A mio parere, invece, non è in gioco solo una questione di diritto pubblico ma una visione della democrazia, una filosofia etico-politica, che ai due presidenti–del Consiglio e della Repubblica– assegna compiti istituzionali ben distinti. In una democrazia liberale—che non voglia scimmiottare i regimi presidenzialisti nordamericano o francese– far votare i cittadini per il capo del governo significa farli votare per il capitano di una squadra; farli votare per il capo dello Stato significa farli votare per l’arbitro: si tratta di funzioni del tutto diverse. Il Presidente della Repubblica è un monarca costituzionale elettivo a tempo: deve vegliare sulla correttezza del gioco delle squadre in campo e sul rispetto della Costituzione; il premier deve realizzare il programma presentato agli elettori, un programma alternativo a quello del concorrente da lui sconfitto.
Per il Quirinale, la scelta dovrebbe avvenire tra candidati di grande prestigio ritenuti super partes– sicché potrebbe capitare a un socialista di votare per un redivivo Luigi Einaudi, pur non condividendone le idee politiche. Per Palazzo Chigi, invece, “si vota per i nostri” ovvero per una destra o per una sinistra, in un’arena che resta divisa tra vinti e vincitori. Nel primo caso, si sceglie,
almeno in teoria, una figura imparziale che, nel rispetto delle sue attribuzioni, potrebbe anche darci qualche dispiacere,–nel caso, ad es., che non firmi, legittimamente, una legge alla quale tenevamo molto. Nel secondo caso, si sceglie un politico di professione da cui si esige una ferma determinazione nel mantenere le promesse elettorali e nel contenere drasticamente i tentativi dell’opposizione di boicottare il programma governativo. Si capisce come in un paese come il nostro, in cui l’elezione del Presidente della Repubblica obbedisce a una (tristissima) logica di schieramenti politici, presidenzialismo e premierato ‘per me pari sono’. Rimettendo al popolo la scelta del primo, si conferisce ad esso un prestigio e una forza indipendente dai partiti e si istituisce quel ‘potere neutro’ che, per il liberale Benjamin Constant, come per il nostro Benedetto Croce, giustificava la conservazione della monarchia. Ma forse è proprio questo che i padroni dello sconquassato vapore politico vogliono evitare. Abbiamo avuto presidenti che hanno lavorato dietro le quinte per liquidare, con i ribaltoni, leader votati dal popolo; altri che, per favorire il partito cui dovevano l’elezione, hanno nominato senatori a vita, allo scopo di rimpinguare esilissime maggioranza governative. E’ questo l’andazzo al quale siamo abituati e al quale non si intende rinunciare.

Rubrica A4 – C’è anche un totalitarismo pseudoliberale

19 Agosto 2024 - di Dino Cofrancesco

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Una democrazia sempre meno democratica e sempre più liberale, nel senso di una proliferazione dei diritti che tende a restringere il campo della politica (non si possono mettere ai voti diritti costituzionalmente blindati) Una democrazia sempre più democratica (in senso plebiscitario) e sempre meno liberale. Sono questi i fondamentalismi che minano la civiltà occidentale e quel superiore equilibrio tra passato e presente, tradizione e innovazione, che ne ha fatto storicamente la grandezza. Un esempio del primo è rappresentato dal saggio di Alessandro Mulieri, Contro la democrazia illiberale. Storia e critica di un’idea populista (Ed.Donzelli), una serrata requisitoria contro la filosofia della destra populista, che troverebbe in Viktor Orban, Alain de Benoist, Alexandr Dugin, Steve Bannon, Vladimir Putin i suoi esponenti più significativi. Come si possa accomunare agli altri un raffinato intellettuale come Alain de Benoit—interlocutore di Pierre-André Taguieff e stretto collaboratore di uno scienziato politico come Marco Tarchi—non è dato intendere. Del resto, è lo stesso bersaglio polemico di Mulieri che resta del tutto imprecisato. Alla democrazia illiberale non è riconosciuto alcuna idealità: è una rivolta contro la modernità, lo spirito delle rivoluzioni atlantiche,
l’illuminismo, il sapere aude kantiano, il riconoscimento della sacralità dell’individuo e dell’intangibilità dei suoi diritti ovvero un rigurgito autoritario e tribale il cui obiettivo è quello di riportare indietro le lancette dell’orologio della storia, combattendo contro la libertà di stampa, l’autonomia dei tribunali, la (nefasta) influenza degli intellettuali. Si tratta di una crociata identitaria, in nome di ‘Dio/Patria/Famiglia, intesa ad abolire i diritti faticosamente acquisiti dalle minoranze—ad es. il matrimonio gay—e a impedire un’immigrazione disordinata rea di stravolgere paesaggi dello spirito che si pretendono eterni. Che il discorso sulla modernità sia molto più complesso di quello svolo dalla destra illiberale è sospetto che non sembra sfiorare Mulieri sicché non meraviglia che un grande filosofo come Augusto Del Noce—v. il magistrale saggio che gli ha dedicato Francesco Perfetti, Dove va la storia contemporanea. Augusto Del Noce l’interpretazione transpolitica, Ed. Aragno—non venga neppure preso in considerazione; a differenza di Jacob L. Talmon e di Isaiah Berlin, le cui tesi sui rapporti tra democrazia e liberalismo vengono
ripetutamente sottoposte al rasoio liberal.

Una riprova del fondamentalismo di Mulieri è la pagina in cui ricorda il referendum elvetico del 2018. Possono esistere, scrive “forme di politiche indubbiamente democratiche che però portano a esiti chiaramente antiliberali o illiberali”. Una maggioranza del 58%per cento decise che “ le moschee che sorgeranno sul suolo svizzero non potranno erigere minareti”. Mulieri sembra dedurne che, in questi casi, bisogna non affidarsi alla democrazia in quanto lesiva di diritti “Coloro che si pronunciavano a favore o contro l’idea che un luogo di culto musulmano possa essere affiancato da un minareto hanno potuto spiegare al grande pubblico le proprie idee e confrontarsi sui pro e i contro di ciascuna posizione”. Tutto questo non è bastato, però, a tutelare la libertà di culto” che nessuno può togliere ai musulmani. La lezione è che non si deve ”ridurre la democrazia semplicemente al metodo elettivo” considerando “ il voto il solo e unico rappresentante della legittimità di questo regime”. Mulieri alle vittime (che poi non sono davvero tali, dal momento che la libertà di erigere moschee in Svizzera è fuori questione) riconosce valori e diritti mentre
agli svizzeri imputa il disegno di calpestare gli uni e gli altri. Ma non sono ideali rispettabili anche quelli di chi non tollera che lo skyline della sua città venga alterato da un minareto? Siamo alle solite: il fatto che la vittoria potrebbe toccare ai conservatori induce i progressisti a mettere un limite al potere del demos..
Sennonchè i diritti naturali non sono soltanto quelli iscritti nella filosofia dei lumi , se ne trovano (ahimé) anche nel pensiero tradizionale ed è ben per questo che il ricorso al voto, in una società laica e pluralista, risulta imprescindibile. In base alla logica di Mulieri, se la separazione delle carriere è un attentato al diritto all’indipendenza dei giudici, nessun governo e nessun Parlamento possono metterci mano. In tal modo, il dittatore totalitario non è più chi decide lo stato di eccezione ma chi fissa l’ordine del giorno del dibattito pubblico, stabilendo ad es.,che limitazione e controllo dell’immigrazione non possono venir decisi a colpi di
maggioranza.

Rubrica A4 – Crisi della democrazia e retoriche moraliste

22 Luglio 2024 - di Dino Cofrancesco

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Si sprecano le analisi—o meglio sarebbe dire le lamentationes—sulla crisi della democrazia ma raramente ne vengono individuate le cause reali. La mentalità illuministica, ormai divenuta per gli europei e gli occidentali, una seconda natura–specie dopo la sconfitta del totalitarismo nazifascista che si richiamava al culto irrazionale delle radici–non riesce a darsi pace dinanzi allo spettacolo di antichi paesi civili e democratici lacerati da incompatibili visioni del mondo, della politica e dell’etica. L’intolleranza, la violenza non solo verbale, la trasformazione sistematica dell’avversario in nemico, la gogna, non solo mediatica ,per chi non la pensa come noi, vengono ascritte a una malattia morale che non si sa bene cosa sia ma che si pensa di curare recuperando il rispetto dell’altro, la buona vocazione, la disponibilità al dialogo. Tutto ciò fa pensare a certi vecchi articoli del Reader’s Digest in cui si consigliava ai depressi di pensare che la vita è bella e il mondo pieno di attrattive.

In realtà, l’Occidente ha contratto la quartana in seguito allo svuotamento simbolico e ideale della comunità politica—di cui lo stato nazionale è stato l’ultima incarnazione istituzionale. Se non ci si sente più parte di una ‘grande famiglia’, gli interessi e i valori che contrappongono individui e classi sociali inducono a chiedersi: ma perché debbo convivere con chi sente, pensa diversamente da noi e si batte per cause che non condividiamo? E’ solo all’interno della dimensione Gemeinschaft (famiglia, patria) che il ‘legame di parentela’ può diventare più forte delle differenti (e spesso non condivise) scelte di vita.
Beninteso, nell’idea di nazione non sono iscritte né la libertà, né la democrazia, né il rispetto dei diritti umani—il nazionalismo sarà pure la pecora nera ma appartiene allo stesso genus della nazione. I suoi critici implacabili hanno ragione nel farlo rilevare anche se poi , come gli apologeti, restano sul piano dei giudizi di valore (per loro è un male ciò che per gli altri è un bene). La verità è che la nazione è una risorsa oggettiva come l’ambiente, l’economia, l’alfabetizzazione, l’apparato militare etc.:è una sorta di conto in banca al quale possono attingere i governi quando dalla società civile debbono estrarre troppe risorse.

Sentirsi parte di un tutto ed essere pronti a sacrificargli tempo, denaro e persino la vita significa mettere a disposizione dei governi—per quelli democratici e liberali come per gli autoritari e dittatoriali— una risorsa incalcolabile. È un’arma spirituale che, allo stesso modo delle armi materiali in dotazione agli eserciti, può impiegarsi a qualsiasi scopo. I soldati giapponesi ,che continuarono a combattere senza sapere che la guerra era finita, appartengono a un’altra species rispetto all’esercito di Franceschiello, pronto a squagliarsi davanti a un migliaio di camice rosse. Gli abiti di obbedienza e di fedeltà che ci ha mostrato il grande film di Clint Eastwood, Lettere da Iwo Jima, resero implacabile la macchina da guerra del Mikado ma, nel dopoguerra,
(proprio come in Germania) servirono a ricostruire un paese devastato e a farne una delle potenze industriali del pianeta. Come tutte le armi, la risorsa nazione può essere impiegata nel bene come nel male ma pensare che il suo tramonto renda il mondo migliore è una pia illusione. Il suo tramonto renderà solo meno governabili gli Stati dai quali dipendono i destini del pianeta.

Forse sarebbe il caso di meditare sulla lezione del più grande scienziato politico del suo tempo, Samuel P. Huntington, sulla perdita del ‘credo americano’.

Rubrica A4 – Crisi della nazione e wokismo

10 Luglio 2024 - di Dino Cofrancesco

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La cancel culture, il wokismo (l’<ideologia che esorta a stare all’erta verso tutti quei comportamenti discriminatori nei confronti delle minoranze, di qualsiasi genere esse siano>), i cortei a sostegno di Hamas, le Università dei ricchi americani che gettano fango sull’Occidente e sui suoi valori hanno ispirato miriadi di commenti non soltanto ai soliti columnists e Catoni in s.p.e. ma, altresì, a studiosi della più varia estrazione—archeologi, scienziati, teologi—che, sconvolti dalle guerre che si combattono oggi in Medio Oriente e in Ucraina, non hanno mancato di far sentire la loro voce accorata e sgomenta. Qualcuno, Federico Rampini sul ‘Corriere della Sera’, ha ricordato ai giovani contestatori, per i quali essere ricchi è una colpa, che “senza la nostra Rivoluzione industriale, quella cosa orribile che ha insozzato il pianeta, oggi non sarebbero vivi tre miliardi di cinesi e indiani, o un miliardo e mezzo di africani: è la nostra agricoltura moderna a base di fertilizzanti e macchinari a consentire la loro alimentazione; è la nostra medicina ad avere ridotto la mortalità e allungato la longevità”. Sono rilievi giusti ma scontati e che, a ben riflettere, non
spiegano per quale motivo l’universalismo illuminista—di questo invero si tratta, del sentimento della radicale unità del genere umano che porta a condannare ogni tipo di violenza nei confronti di quanti sono titolari di inalienabili ‘diritti umani’—si stia rovesciando, come una valanga, sulla nostra civiltà, che delle sue radici, l’eredità greco-romana, il cristianesimo, i Lumi, sembra fedele solo alla terza.

A mio avviso, sfugge il nesso tra il declino dell’idea di nazione e la messa sotto accusa dell’Occidente e ciò in virtù della demonizzazione che si continua a fare dell’appartenenza a una comunità politica, riguardata come privilegio, esclusione, discriminazione. In realtà, la nazione, come la famiglia, è una ‘comunità di destino’: può essere buona o cattiva ma è l’unico tramite che, quando è buona, ci lega per empatia agli altri. Ripudiarla per le pagine nere della sua storia comporta il pericolo di smarrire il senso delle pagine luminose che pure ha scritto.

La cultura woke è quella di individui cosmopoliti che non sono persone, segnate da appartenenze e tradizioni, ma fondamentalisti del mondialismo, incapaci di riconoscere le luci e le ombre che caratterizzano ogni istituzione, dalla Famiglia allo Stato. Non è casuale che nei paesi in cui è ancora sentito il legame patriottico la storia non venga messa sotto accusa, a meno che non sia quella degli altri segnata da violenza e da ipocrisia—consistente, quest’ultima, nel richiamarsi a idealità che poi vengono calpestate. Le conquiste civili sono sempre conquiste di uno stato, di un popolo, di una nazione particolare. L’Uomo, che l’immortale de Maistre diceva di non aver incontrato da nessuna parte, non crea nulla, anche se viene ogni volta arricchito da ciò che gli uomini in carne e ossa hanno di volta in volta prodotto.

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