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Pax trumpiana? Cosa è successo davvero e cosa succederà

18 Marzo 2025 - di Paolo Musso

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Rimessa brutalmente davanti a una realtà che si sforzava di non guardare dai metodi rozzi ma efficaci di Trump, l’Europa, ancora una volta, si è fatta trovare completamente impreparata. Stavolta, però, dopo una prima fase di totale disorientamento, stanno finalmente emergendo alcuni segnali di un approccio più realista e responsabile, che potrebbe davvero rilanciare il progetto europeo, in crisi da oltre vent’anni. Grazie anzitutto a Zelensky, l’unico vero leader che abbia oggi l’Europa. Quanto alla guerra in Ucraina, invece, il vero rischio non è che Trump abbia un piano per imporre una pace ingiusta, ma piuttosto che non abbia nessun piano, eppure continui a comportarsi come se ce l’avesse.

 La diplomazia è sempre stata brutta, sporca e cattiva

Spero che mi perdonerete se, essendo sempre stato contrario a ogni trattativa con Putin (https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-7-il-fallimento-degli-esperti-di-guerra-parte-prima-ucraina/), di fronte a quello che sta succedendo in questi giorni la mia prima reazione è una certa maligna soddisfazione, del tipo: «Volevate le trattative di pace? Beh, ora le avete. Godetevele!»

Questa, però, è molto più di una battuta. L’invasione dell’Ucraina ha dimostrato quanto la lunghissima pace di cui l’Europa ha goduto dopo la Seconda Guerra Mondiale, pur in sé invidiabile, ci ha fatto del tutto perdere la capacità di comprendere che cosa sia realmente la guerra. Questo avvio delle trattative di pace sta dimostrando come abbiamo perso del tutto anche la capacità di comprendere che cosa sia realmente la diplomazia.

Per decenni, infatti, le trattative diplomatiche che ci hanno riguardato direttamente sono state per lo più su cose come le quote latte o le concessioni balneari. Perfino quelle più serie riguardavano al massimo il cambio tra le vecchie monete nazionali e l’euro, l’auto elettrica o le misure anti-inflazione. Tutte cose importanti, sia chiaro, ma lontane anni luce da una trattativa in cui sono in gioco la vita e la morte, sia dei singoli che di interi popoli.

Così ci siamo illusi che per risolvere qualsiasi problema basti “sederci tutti intorno a un tavolo”, espressione grondante insopportabile retorica come poche altre, eppure costantemente ripetuta da tutti gli intellettuali e i leader politici occidentali, in maniera perfettamente bipartisan (anzi, multipartisan).

Solo così si spiegano i giudizi che abbiamo ascoltato su ciò che è accaduto in questa prima fase delle trattative sulla guerra in Ucraina, tutti quantomeno stralunati, quando non completamente infondati, soprattutto per l’affermazione, condivisa praticamente da tutti, per cui non si sarebbe mai visto niente di simile.

La realtà, invece, è che noi non avevamo mai visto niente di simile. Ma, a parte questo periodo di pace di durata anomala e senza precedenti di cui abbiamo goduto negli ultimi 77 anni, la diplomazia, dietro la cerimoniosa facciata di lustrini e salamelecchi di cui ama adornarsi, è sempre stata brutta, sporca e cattiva, alternando momenti di discussione razionale a insulti, menzogne, minacce, ricatti, intimidazioni, sceneggiate di ogni genere e perfino atti di vera e propria violenza. L’unica differenza è che prima tutto questo non lo vedevamo in diretta TV.

Del resto, basta guardare a ciò che è successo in Medio Oriente, dove le trattative sono sempre proseguite in parallelo alla guerra, sia con Hamas che con Hezbollah, con appunto tutto il suddetto corredo di sgradevolezze e oscenità assortire, fino addirittura al reciproco tentativo di assassinio dei rispettivi leader (fallito da parte degli Hezbollah, riuscitissimo invece da parte di Israele).

Ora, questa mancanza di familiarità con la vera diplomazia e la sua connaturale brutalità, sommata all’anti-trumpismo ideologico quasi unanimemente condiviso dagli intellettuali europei (e a una incomprensibile quanto diffusa sottovalutazione di Zelensky), ha portato a dare una descrizione gravemente deformata di ciò che è accaduto nelle ultime settimane, soprattutto dell’incontro alla Casa Bianca fra Trump e Zelensky.

Trump va preso sul serio, ma non alla lettera

Anzitutto, cerchiamo di capire una buona volta come ragiona Donald Trump. Perché sì, so che la cosa vi sconvolgerà, ma Trump ragiona. Solo che ragiona come un affarista americano, cioè secondo la logica più aliena che si possa immaginare per i raffinati intellettuali europei, che lo accusano di voler trasformare le relazioni fra gli Stati da una rete di civili rapporti governati dal diritto internazionale in un mercato delle vacche in cui alla fine vince il più forte.

Ma le relazioni fra gli Stati sono sempre state un mercato delle vacche in cui alla fine vince il più forte. Al contrario, il diritto internazionale, mancando un’autorità superiore in grado di imporlo a tutti, è sostanzialmente una finzione (Marx direbbe: una sovrastruttura), che regge finché alle parti in causa conviene, ma crolla come un castello di carte appena non gli conviene più.

Incapaci di comprendere e/o accettare questa sgradevole ma elementare verità, a cui Trump ci ha rimessi brutalmente di fronte, ma che non ha certo inventato lui, i nostri intellettuali, non trovando di meglio, si sono messi ad accusarlo in coro di essere un bullo, dimostrando così di non capire non solo chi è Trump, ma nemmeno chi è un bullo.

I bulli, infatti, sono dei deboli, che, anziché affrontare le proprie frustrazioni, preferiscono cercare compensazioni maltrattando gli altri per dimostrare a tutti (innanzitutto a sé stessi) di essere forti. Per questo è appropriata la definizione di “bullismo etico” coniata da Ricolfi per i fanatici del politically correct, il cui vero fine non è aiutare i veri o presunti discriminati, ma umiliare chi non la pensa come loro, in modo da poter provare la gratificante sensazione di essere sempre “dal lato giusto della storia”, come ha detto di sé stesso a Trump il segretario generale dell’ONU António Guterres (lui sì un frustrato perennemente in cerca di compensazioni: cioè, appunto, un bullo).

Ora, Trump non è affatto così. Lui non è un frustrato, ma un presuntuoso, sinceramente convinto di essere più intelligente e soprattutto più “tosto” di chiunque altro. Non ha, come i bulli, un complesso di inferiorità, ma piuttosto un (abnorme) complesso di superiorità.

È vero che ciò lo rende arrogante e prepotente, il che a prima vista può farlo apparire un bullo. Ma le sue minacce e i suoi insulti non hanno lo scopo di umiliare l’avversario, bensì di indurlo a più miti consigli. Insomma, si tratta, almeno nella sua testa, di una tattica negoziale (d’altronde da lui esplicitamente enunciata), per cui l’America non dovrebbe usare la sua pistola sui campi di battaglia, ma piuttosto sui tavoli delle trattative, gettandola sul piatto della bilancia per farla pendere a proprio favore, come fece Brenno duemila anni fa con la sua spada.

In fondo non è altro che la ben nota tattica del bastone e della carota, che, per quanto trita e ritrita, resta ancora la più efficace nelle trattative (è stato anche dimostrato dal celebre programma informatico Tit for tat, basato sulla teoria dei giochi). Certo, la sua versione “trumpizzata” è particolarmente brutale e volgare, ma questo, come ha dimostrato un recente studio, la rende indigesta soltanto agli ipersensibili europei, mentre nel resto del mondo non ne sono particolarmente impressionati, perché cose simili e anche peggiori fuori dall’Europa avvengono in continuazione.

Quello che invece è davvero caratteristico di Trump – e solo di Trump – è il fatto che lui tende a dare dimensioni abnormi sia alla carota che al bastone (invero soprattutto a quest’ultimo…). In un negoziato è normale chiedere 10 per ottenere 5 (o 4 o 6, a seconda di come va). Ciò che è peculiare di Trump è che spesso non inizia chiedendo 10, ma 20, 30 o perfino 100, sperando così di ottenere non 5 o 6, ma 8 o 9. Per questo, come disse la politologa americana Claudia Brühwiler all’indomani della vittoria di Trump e come ripete sempre Claudio Pagliara, l’inviato del TG2 a Washington, «Trump va preso sul serio, ma non alla lettera».

Ora, questa non è una tattica che tutti possano permettersi di usare. Ma, se messa in atto dal Presidente degli Stati Uniti, ha delle buone probabilità di funzionare, perché pochi sono disposti a prendersi il rischio di andare a “vedere” il bluff della prima superpotenza mondiale.

Per esempio, davanti alla minaccia di riprendersi con la forza il Canale di Panama, che ha suscitato gli unanimi strilli di indignazione e sarcasmo da parte di tutti i benpensanti del mondo “civile”, per quanto improbabile fosse che Trump lo facesse davvero, Panama ha preferito non rischiare. Prima è uscita dalla Nuova Via della Seta (il progetto di rete commerciale globale con cui la Cina sta cercando di colonizzare il mondo, il cui più entusiasta sostenitore in Italia è da sempre Romano Prodi) e poi ha permesso a un consorzio americano (con anche una partecipazione italiana) di comprare le società che controllano i due porti alle estremità del Canale. Così, nel giro di poco più di un mese dal suo insediamento, Trump l’ha strappato alla Cina, riportandolo sotto il controllo degli USA, proprio come aveva promesso (cosa di cui, fra parentesi, dovremmo tutti rallegrarci, perché la Cina, anche se ci ostiniamo a dimenticarcene, è retta da una feroce dittatura che ambisce a dominarci tutti).

Anche con la Groenlandia Trump seguirà una strada simile, che già in parte si intravede. Di sicuro non se la prenderà con la forza, ma cercherà con minacce e promesse di rafforzare la posizione degli indipendentisti, per poi proporre un trattato di alleanza, di cui una Groenlandia indipendente avrebbe bisogno come il pane. Infatti, un paese grande oltre un quinto degli USA ma con poco più di 50.000 abitanti non può certo fare da solo, né per sfruttare le proprie immense risorse naturali, né per difendersi dagli appetiti di altre potenze, che, diversamente dagli USA, le armi potrebbero usarle davvero.

Anche i dazi, almeno fin qui, sono stati usati da Trump essenzialmente come strumento di pressione. Per esempio, li ha minacciati per indurre la riluttante Colombia a riprendersi i clandestini: in due giorni la Colombia ha ceduto e Trump non ha messo i dazi. Ora vedremo cosa succederà con gli altri paesi, tra cui l’Italia, ma anche qui sembra che ci siano ampi margini di trattativa (alcuni sono già stati sospesi, in attesa, appunto, di trattare), anche se gli anti-Trump nostrani già da mesi stanno parlando come se i dazi fossero già in vigore e le nostre economie stessero colando a picco.

Il problema di questa strategia è che, se l’interlocutore non si lascia intimidire, il bluff viene scoperto e la minaccia si rivela inattuabile. E non c’è niente di peggio che minacciare a vuoto.

Ora, questo è esattamente ciò che rischia di accadere con la guerra in Ucraina.

Che cosa è veramente successo finora?

Secondo la narrazione corrente, le trattative di pace si sarebbero fin qui svolte come segue:

  • Trump ha iniziato a trattare direttamente con Putin (in realtà ha incontrato solo alcuni suoi tirapiedi, che, come sappiamo, non contano nulla), fino al punto di avere già deciso, nel giro di pochi giorni, non solo il nuovo assetto dell’Ucraina, ma addirittura quello del mondo intero, escludendo dai negoziati non solo il povero Zelensky, proprio come aveva annunciato (in realtà non l’ha mai fatto), ma tutti gli altri paesi, come se contasse solo quello che dicono lui e Putin (benché, ripeto, nemmeno si siano ancora parlati).
  • Durante le trattative Trump ha affermato che anche l’Ucraina dovrà fare delle concessioni, il che è stato subito bollato come un’inaccettabile prevaricazione, perché incompatibile con una pace giusta. Ora, ciò è senz’altro vero: e proprio per questo io sono contrario a trattare con Putin. Ma se invece uno vuole trattare, allora fargli delle concessioni è inevitabile, se no che trattativa è? Inoltre, Trump qualche settimana prima aveva detto anche a Putin che avrebbe dovuto fare delle concessioni, aggiungendo che, se non avesse accettato, avrebbe «scatenato l’inferno» contro di lui (e questo subito dopo aver lanciato lo stesso ammonimento ad Hamas, il che dava alla frase un tono assai minaccioso, perché contro Hamas Trump intende davvero scatenare l’inferno).
  • Quando Zelensky ha protestato per non essere stato invitato a Riad, Trump l’ha pesantemente insultato, dandogli del «dittatore», accusandolo di «avere iniziato la guerra» e dicendogli che «non serve che partecipi alle trattative di pace». Questo è vero ed è vergognoso, ma è anche vero che Trump si è rimangiato tutto nel giro di una settimana, invitando il “dittatore” Zelensky alla Casa Bianca.
  • Trump avrebbe quindi imposto a Zelensky il famoso accordo sui 500 miliardi di dollari in terre rare, che sarebbe un atto “colonialistico” e una “mercificazione” dei rapporti tra le nazioni (che in realtà sono sempre stati basati essenzialmente su accordi commerciali, anche se i nostri raffinati intellettuali sembrano ignorarlo). È vero che inizialmente l’accordo era inaccettabile, perché Trump voleva i minerali gratis, come “restituzione” dei soldi presuntamente “prestati” dagli USA all’Ucraina sotto forma di aiuti militari e umanitari, che oltretutto erano molti meno. Ma, come ormai dovremmo aver capito, quella era solo la “sparata” iniziale, che in una sola settimana si era già trasformata in un assai più ragionevole accordo di partnership, che oltretutto aiuterebbe a garantire la sicurezza dell’Ucraina molto più di qualsiasi generica dichiarazione di principio. Infatti, nel momento in cui in tutto il paese ci fossero imprese americane impegnate nell’estrazione di minerali di alto valore strategico, gli USA non potrebbero certo tollerare una nuova invasione russa.
  • Quindi Zelensky è andato alla Casa Bianca per firmare l’accordo (incontrando così Trump prima di Putin, anche se nessuno l’ha sottolineato), ma Trump gli avrebbe teso una trappola, in modo da avere il pretesto per cacciarlo via e poi minacciare la sospensione degli aiuti militari (benché non si capisca a che scopo e, soprattutto, perché mai avrebbe dovuto farlo prima di firmare l’accordo sulle terre rare, a cui teneva tanto).
  • A questo punto, il “povero” Zelensky, resosi improvvisamente conto che ciò lo avrebbe condotto “inevitabilmente” alla sconfitta (come se prima non ci avesse mai pensato), non avrebbe ormai altra scelta che “sottomettersi” a Trump e accettare le condizioni che “inevitabilmente” questi gli imporrà e che saranno “inevitabilmente” favorevoli al suo “amico” Putin.

Come si vede, il filo conduttore di questa stralunata narrazione è da una parte la (del tutto immaginaria) onnipotenza di Trump e dall’altra la (altrettanto immaginaria) impotenza di Zelensky, descritto come un poveretto in balia degli eventi, incapace non solo di resistere alle pressioni trumpiane, ma anche solo di capire cosa gli sta succedendo intorno. Mentre, come vado ripetendo da sempre, è invece l’unico vero leader che abbia oggi l’Occidente, non solo molto coraggioso, ma anche molto intelligente e molto furbo (che non è la stessa cosa e non necessariamente va insieme all’intelligenza).

La cosa più paradossale è che questa narrazione è condivisa, benché per opposte ragioni, sia dai filo-Trump che dagli anti-Trump: i primi perché pensano che sia la verità, i secondi perché questa narrazione serve a rendere credibile la tesi della “mostruosità” di Trump (infatti, un super-cattivo senza super-poteri fa ridere). A volte sembra addirittura che, almeno inconsciamente, gli anti-Trump desiderino l’umiliazione di Zelensky e la sconfitta dell’Ucraina, solo per il gusto di dimostrare che Trump è davvero il mostro che dicono. Ma la realtà è ben diversa.

Anche se l’unico che sembra essersene reso conto è il “solito” Federico Rampini (uno degli ormai pochissimi commentatori che non presume di aver capito la realtà ancor prima di guardarla), se nell’incontro alla Casa Bianca qualcuno ha teso una trappola a qualcun’altro, questi è stato Zelensky, che ha sfruttato la straordinaria ribalta che il Presidente americano (piuttosto ingenuamente) gli ha offerto per metterlo all’angolo e lasciarlo con in mano il classico cerino acceso.

Cosa avrebbe dovuto infatti fare Trump, che si presentava come mediatore tra due parti in conflitto, dopo che il leader di una delle due parti suddette, Zelensky, gli aveva detto in faccia, in diretta televisiva mondiale dal cuore del suo impero, che il leader dell’altra parte, Putin, è un killer psicopatico di cui non ci si può assolutamente fidare e che loro due insieme devono fermarlo?

E badate che questo, come ha fatto notare appunto Rampini a Porta a porta del 4 marzo (chi non ci crede si riveda il video), è accaduto prima che iniziassero gli attacchi contro di lui (a meno che, con sovrano sprezzo del ridicolo, non si voglia ritenere un “attacco” anche l’ironia sulla sua tuta mimetica, che, se le cose fossero andate bene, sarebbe stata subito classificata come una simpatica battuta per rompere il ghiaccio). La realtà dei fatti è che è stato Zelensky ad attaccare per primo. Così come è evidente che la sua non è stata una reazione istintiva decisa sul momento, ma un’azione premeditata, altrimenti non si sarebbe portato dietro le foto che documentavano le violenze dei russi in Ucraina. Ed è anche facile capirne il motivo.

Come abbiamo detto, infatti, il modo di trattare di Trump si basa in gran parte sulla convinzione che l’avversario non avrà il coraggio di andare a “vedere” i suoi bluff. Ora, Zelensky, diversamente dai nostri raffinati intellettuali, lo sa perfettamente. Di conseguenza, sapeva anche che prima di mettersi a collaborare doveva dimostrargli di non aver paura di lui e, anzi, di essere anch’egli in grado di metterlo in imbarazzo davanti al mondo intero (di nuovo Tit for tat).

A quel punto, infatti, Trump si è trovato in una classica situazione lose-lose, in cui qualsiasi mossa facesse era perdente. Da una parte, a meno di rinunciare, all’istante e per sempre, al suo ruolo di mediatore, non aveva altra scelta che buttare fuori Zelensky. Facendolo, però, avrebbe fatto la figura del “cattivo” davanti a tutto il mondo (come infatti è puntualmente accaduto). Così Trump ha cercato di minimizzare i danni, comportandosi in modo tutto sommato tollerabile, non solo per i suoi standard, ma perfino per quelli dei normali esseri umani.

Capisco che in un continente in cui siamo abituati a pensare che un’insufficienza a scuola possa causare un grave trauma psichico i commentatori si siano sentiti «inorriditi» e «sconvolti» da ciò che hanno visto, ma non è questo ciò che è realmente accaduto. Dire a uno «non sei in una buona posizione», «non puoi dirci cosa dobbiamo fare», «stai giocando col fuoco», «non vuoi davvero la pace», per poi congedarlo bruscamente, ma aggiungendo «torna quando sarai pronto» è lontano anni luce dagli attacchi pesantissimi che Trump gli aveva rivolto solo una settimana prima. Eppure, stavolta Zelensky gliela aveva combinata ben più grossa!

Anche le successive minacce di sospensione degli aiuti militari finora sono rimaste allo stato di annunci, confusi e perfino contraddittori. L’unica misura concreta è stata la sospensione della collaborazione da parte della CIA, che ha certamente messo in difficoltà gli ucraini, ma, nonostante le vanterie di Elon Musk (peraltro anch’esse subito rimangiate), perfino disattivare la rete satellitare di Starlink non sarebbe certo come premere l’interruttore e vedere la luce che si spegne. Trump stesso ha riconosciuto che «l’Ucraina ha ancora scorte di armi e munizioni sufficienti per sei mesi». E sei mesi possono essere un tempo molto lungo, per uno che ha promesso di mettere fine alla guerra con una telefonata.

Inoltre, grazie al suo show alla Casa Bianca, nel giro di pochi giorni Zelensky ha ricompattato intorno a sé il suo popolo e ha ricevuto dall’Europa un sostegno fortissimo, come non s’era mai più visto dopo i primi mesi di guerra. Addirittura, potrebbe essere riuscito ad innescare quel processo di creazione di una difesa comune europea (di cui si parla da decenni senza farne mai nulla) che costituirebbe il vero atto di nascita dell’Europa come entità politica unitaria.

Non è ancor detto che si andrà davvero in questa direzione, ma, almeno rispetto all’aumento degli investimenti e della coordinazione europea in fatto di difesa, dopo il Consiglio Europeo del 6 marzo è ormai impossibile che si torni indietro. Così come è ormai impossibile che l’Europa non aumenti il suo sostegno all’Ucraina, soprattutto se Trump dovesse toglierglielo in forma definitiva.

Non dimentichiamo che gli “enormi” aiuti militari che finora abbiamo dato all’Ucraina ammontano in realtà ad appena 62 miliardi in 3 anni, di cui la maggior parte sono venuti dai paesi più piccoli, che, confinando con la Russia, si sono sentiti, diciamo così, più “motivati”. L’Italia, per esempio, ha dato appena l’1 per mille del suo PIL (2 miliardi in 3 anni, appena un quarto di quanto ci è costato il reddito di cittadinanza in un anno solo). E lo stesso hanno fatto Francia e Spagna. Invece, i tre paesi baltici, Lituania, Estonia e Lettonia, che messi insieme hanno un PIL che è appena un dodicesimo del nostro, hanno dato oltre il 2%, cioè 20 volte più di noi in percentuale e oltre un miliardo più di noi perfino in valore assoluto.

Ciò significa che si può sicuramente fare meglio da subito, anche se per arrivare a una vera difesa europea autonoma dagli USA ci vorranno anni. Inoltre, c’è un grande aiuto che possiamo dare agli ucraini in qualsiasi momento e senza spendere un centesimo: togliere finalmente le assurde limitazioni all’impiego delle nostre armi, che li costringono a combattere con una mano legata, in nome del demenziale concetto di “armi solo difensive” (copyright dello stralunato ministro Crosetto), che semplicemente non esistono. E ciò significa che, anche senza gli aiuti americani, la guerra andrebbe avanti ancora per molto, molto tempo.

Non arriverò a dire che la minaccia di sospenderli sia soltanto un bluff, ma di sicuro le pallottole della pistola che Trump potrebbe gettare sulla bilancia sono assai spuntate. Certo, possono fare danni, ma difficilmente sarebbero letali e, peggio ancora, rischiano di rimbalzargli addosso. Cosa succederebbe, infatti, se gli ucraini (che sembrano averne tutte le intenzioni) decidessero di mandarlo al diavolo e di continuare a combattere a oltranza, anche senza ulteriori aiuti da parte dell’America? Davvero Trump potrebbe permettersi di stare a guardare? E davvero potrebbe permettersi di rompere irrimediabilmente con l’Europa, che, gira e volta, resta il suo unico possibile alleato nella futura guerra tecnologica e commerciale con la Cina, che è la sua vera ossessione?

E poi c’è la questione delle terre rare, che a Trump servono davvero, perché hanno un ruolo chiave per vincere la suddetta competizione globale con la Cina, ma hanno la brutta abitudine di abbondare soprattutto nei paesi nemici degli Stati Uniti. Se rompe con Zelensky, a chi le chiederà? Certo non alla Cina. Forse, allora, all’Afghanistan degli immaginari “talebani moderati”? O alla Russia dell’immaginario “amico” Putin? O a qualcuno dei disastrati paesi africani su cui proprio la Russia ha da tempo allungato le sue zampacce tramite una serie di colpi di Stato orchestrati dalla Wagner?

Sì, qualcosa c’è anche in alcuni paesi “amici”, soprattutto Svezia e Australia, ma, anche ammesso che continuino ad esser tali (cosa non scontata, se Trump continuerà a trattare tutti con questa arroganza), non è che saranno disposti a regalarglieli solo per “fare grande l’America” facendo piccoli sé stessi. L’Ucraina è di gran lunga la migliore opzione e infatti l’accordo sulle terre rare è l’unica cosa che Trump non ha mai messo in discussione. E per firmarlo, ovviamente, non può rompere con l’Ucraina, né permettere che Putin se la annetta, altrimenti quei giacimenti li vedrà solo con i satelliti di Elon Musk mentre vengono sfruttati dai russi.

Ma, se così è, allora cosa possiamo ragionevolmente aspettarci che accada nel prossimo futuro?

Che cosa succederà adesso?

A questo proposito non posso che ripetere ciò che avevo scritto il 5 novembre scorso, nell’articolo in cui avevo previsto l’elezione di Trump (con un errore di appena 2 millesimi, se mi si perdona l’immodestia: avevo infatti scritto che avrebbe preso tra il 50% e il 51%, ha chiuso con il 49,8%).

«Trump non è affatto amico di Putin, come molti sostengono: Trump è amico soltanto di Trump e inoltre è già stato Presidente per 4 anni e non mi risulta che gli abbia mai fatto particolari favori. Quello che lui pensa davvero è che Putin sia un “duro” con cui solo uno ancora più duro (come lui ritiene di essere) possa trattare con successo. Quindi ci proverà, ma quando si accorgerà che Putin non ha nessuna intenzione di ascoltarlo andrà su tutte le furie e per fargliela pagare potrebbe decidere di dare all’Ucraina un sostegno perfino maggiore di quello (peraltro tentennante e insufficiente) che le ha dato Biden e che verosimilmente le darebbe Kamala.

Il vero problema è quanto ci metterà Trump a rendersi conto che Putin lo sta prendendo in giro, perché nel frattempo potrebbero prodursi danni non più rimediabili. E qui veniamo alla mia seconda e più grave preoccupazione. Perché negli ultimi tempi anche Trump sembra aver cominciato a dare qualche segno di rincoglionimento, certo non al livello di Biden, ma tuttavia tale da non lasciare tranquilli, soprattutto considerando che ha già 78 anni e che, se vincesse, dovrebbe governare fino a 82» (https://www.fondazionehume.it/politica/lodio-al-di-la-del-linguaggio-e-davvero-trump-il-pericolo-maggiore-per-la-democrazia-americana/).

Ditemi voi se finora le cose non sono andate esattamente così.

Trump ha cominciato minacciando sia la Russia che l’Ucraina, anche se di misure concrete finora ne ha prese solo contro quest’ultima. Ma, come abbiamo appena visto, qualsiasi ragionamento logico porta alla stessa conclusione: la sospensione degli aiuti militari può essere usata da Trump solo come mezzo di pressione su Zelensky, per cui potrà anche essere messa in pratica per un po’ di tempo, ma non potrebbe mai diventare una misura permanente (infatti è già stata revocata).

D’altronde, nonostante i deliri sulla inesistente “nuova Yalta” di cui abbiamo detto, la realtà dei fatti è che la prima vera proposta è stata appena concordata fra Trump e Zelensky (che sono gli unici che finora si sono parlati) e da loro proposta a Putin. Che, prevedibilmente, la rigetterà o (che è lo stesso) ne condizionerà l’approvazione a una serie di diktat inaccettabili, come ha sempre fatto finora e come sempre farà anche in futuro, oppure fingerà di accettarla e poi la vilerà ad ogni occasione, cercando di dare la colpa agli ucraini. E proprio qui sta il problema.

Mi sembra infatti evidente, dai discorsi confusi e contraddittori degli ultimi giorni, che Trump non ha la minima idea di come convincere Putin a trattare. Peggio ancora, credo che finora non ci abbia nemmeno pensato, convinto com’era che il vero problema fosse “domare” Zelensky, che è probabilmente l’unica idea che Trump condivida con gli intellettuali europei.

Ricolfi ha scritto che ciò che ha impedito finora di fare la pace con Putin è aver trasformato la guerra in Ucraina in una questione etica (https://www.fondazionehume.it/politica/a-proposito-dellagguato-mediatico-a-zelensky-la-politica-come-spettacolo/). Se avesse ragione, allora l’approccio di Trump, completamente pragmatico e amorale, sarebbe quello ideale e dovrebbe avere successo. Ma, per una volta, temo invece che si sbagli.

Come ripeto fin dall’inizio di questa guerra, ciò che ha impedito, impedisce e sempre impedirà di fare la pace con Putin è una questione psichiatrica: lui è uno psicopatico e con gli psicopatici non si può trattare, perché ciò è contrario alla loro natura. Punto e basta.

Anche Trump, prima o poi, se ne accorgerà, vedendo che Putin continuerà ad approfittare (come già sta facendo) di ogni opportunità offertagli dalle trattative per rafforzare le sue posizioni, continuando nel contempo a respingere tutte le sue proposte (personalmente, non mi stupirei se si rifiutasse addirittura di incontrarlo). Il problema, come ho scritto, è quandose ne accorgerà.

E purtroppo potrebbe davvero accadere troppo tardi, perché anche l’ultima parte della mia previsione temo si sta avverando. Mi sembra infatti che Trump stia cominciando a dare alcuni chiari segni di rincoglionimento senile, il che, unito al suo immenso orgoglio, gli renderà molto difficile ammettere di aver fallito. Anche perché non potrebbe nemmeno scaricare la colpa su Zelensky e/o Putin, avendo sempre sostenuto di essere in grado di costringerli a fare la pace: perciò un eventuale fallimento, in qualsiasi modo si verificasse, agli occhi dei suoi elettori sarebbe comunque soltanto colpa sua.

Insomma, il vero rischio che stiamo correndo non è che Trump abbia qualche diabolico e inarrestabile piano per imporre una pace ingiusta in Ucraina, ma piuttosto che non abbia nessun piano (almeno nessun piano attuabile), eppure continui a comportarsi come se ce l’avesse.

La frattura tra ragione e realtà 11 / Nemica dell’umanità?

4 Marzo 2025 - di Paolo Musso

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«Nemica dell’umanità»: così Netanyahu ha definito la Corte Penale Internazionale dopo il mandato di arresto contro di lui. L’affermazione può sembrare eccessiva, ma in realtà il vero errore di Netanyahu è stato di parlarne solo con riferimento al suo caso. Se invece consideriamo la situazione globalmente, sembra difficile negare che la Corte è davvero pericolosa per gli equilibri internazionali. E non per quello che fa, ma per quello che è. L’unica soluzione è abolirla.

Quando la Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato di arresto nei confronti di Putin mi ero ripromesso di scrivere un articolo sul grave problema che essa rappresenta e di cui ben pochi sembrano essere consapevoli, ma poi, preso da altri impegni, ho lasciato stare. Ci ho pensato di nuovo quando la CPI ha emesso un mandato di arresto contro Netanyahu, ma ho ancora rimandato. Poi, proprio quando avevo finalmente deciso di affrontare la questione, la realtà stessa si è incaricata di farlo al posto mio attraverso il caso Almasri. Eppure, nonostante tutto quel che è successo, ancora una volta ben pochi sembrano aver colto il vero problema.

A scanso di equivoci, chiariamo subito un punto: non c’è nessun dubbio (e sottolineo nessuno) che in questo caso la CPI abbia sbagliato e che quindi sbagli anche l’opposizione ad accusare il governo italiano di aver violato la legge. Se era la CPI che doveva informarlo, infatti, è irrilevante che il governo fosse giunto a conoscenza della cosa per altre vie, proprio come una prova ottenuta in modo non conforme alla legge non può essere usata in un processo anche se tutti la conoscono. Nel diritto la forma è sostanza. E così deve essere, anche se talvolta ciò può causare ingiustizie, perché è l’unico modo di evitare ingiustizie molto peggiori.

Cionondimeno, qualcosa di vero c’è, nelle critiche dell’opposizione (almeno di quella più moderata e responsabile, come Renzi e Calenda): è evidente a tutti, infatti, che la vera motivazione della frettolosa espulsione di Almasri (che non è stato liberato dal governo, ma che il governo poteva trattenere in attesa di chiarire la situazione) è stata di natura politica.

L’errore formale commesso dalla CPI ha permesso al governo di far valere la ragion di Stato senza doverlo ammettere esplicitamente, in un paese come il nostro che non lo accetta mai facilmente, come ha ben spiegato Luca Ricolfi (https://www.fondazionehume.it/politica/a-proposito-del-caso-almasri-ipocrisia/). Ma così si è perso di vista il vero problema, che non è di natura giuridica, ma politica. E che sarebbe ugualmente esistito (anzi, sarebbe stato ancor più serio) se la richiesta di arresto di Almasri fosse stata presentata in modo corretto.

Come si può infatti ritenere ragionevole la pretesa della CPI che l’Italia si intrometta negli affari interni di un paese straniero fino al punto di arrestare il capo della sua polizia, per crimini certo gravissimi, ma che non ci riguardano, essendo stati commessi fuori dall’Italia e a danno di cittadini non italiani?

A rendere la cosa ancor più paradossale c’è il fatto che in genere chi sostiene la legittimità di questo comportamento è contrario all’idea di “esportare la democrazia” con la forza. Ma non mi risulta che la polizia, quando arresta qualcuno, si presenti disarmata. Pertanto, per un paese come la Libia, che non riconosce l’autorità della CPI, questo sarebbe stato un uso illegittimo della forza contro un alto esponente delle sue istituzioni: cioè, un atto di guerra.

Se non ne siete convinti, provate a immaginare che un paese straniero arresti il capo della nostra polizia per crimini magari anche veri, ma comunque non commessi in quel paese né a danno dei suoi cittadini, solo per eseguire l’ordine di un tribunale internazionale che l’Italia non riconosce e che è invece sostenuto da paesi a noi ostili, tipo la Russia, l’Iran, la Cina o la Corea del Nord. Sareste disposti ad accettarlo?

Se la vostra risposta è no, allora dovreste cominciare a chiedervi perché mai siete invece disposti ad accettare, magari anche con entusiasmo, che la stessa identica cosa venga fatta dall’Italia su richiesta della CPI.

Forse qualcuno obietterà che Almasri è “palesemente” un criminale della peggiore specie. Non c’è dubbio. Ma questo è un giudizio politico e morale, non giuridico, perché Almasri non è ancora stato condannato e quindi per la legge al momento è innocente. Inoltre, se accettiamo che ciò sia lecito per Almasri, poi dovremo accettarlo per chiunque, anche per persone che non sono così “palesemente” colpevoli, compresi noi stessi. E ciò, lungi dal favorire la pace nel mondo, rischia invece di comprometterla gravemente.

Cosa succederebbe, per esempio, se la CPI accusasse il nostro governo di crimini contro l’umanità per le sue politiche contro l’immigrazione oppure di complicità nei crimini di guerra commessi da qualche paese con cui l’Italia intrattiene rapporti di collaborazione?

Non si tratta di ipotesi campate in aria. Accuse molto simili sono già state mosse, per esempio, dal procuratore di Roma Francesco Lo Voi, prima nell’incredibile indagine contro Salvini, accusato di sequestro di persona per la vicenda della Open Arms, poi nell’altra, ancor più incredibile (e ai limiti della vera e propria eversione), contro la premier Meloni, i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Mantovano, accusati di favoreggiamento nei confronti di Almasri. Di conseguenza, nulla ci garantisce che un domani la CPI non decida di adottare la stessa “interpretazione creativa” delle leggi, muovendo accuse analoghe alle autorità italiane.

In tal caso, la nostra magistratura sarebbe tenuta ad arrestare i nostri governanti e a mandarli all’Aja, cioè in un paese straniero (ché tale è l’Olanda, giacché la UE non è uno Stato federale, ma solo un federazione di Stati), per essere giudicati da un gruppo di magistrati anch’essi tutti stranieri, che poco o nulla conoscono della situazione italiana e che, diversamente da loro, non sono stati eletti da nessuno, ma solo nominati dai governi di ben 124 paesi, buona parte dei quali in fatto di diritto dall’Italia hanno solo da imparare, quando non sono addirittura retti da feroci dittature (basti dire che il primo in ordine alfabetico è l’Afghanistan, mentre il penultimo è il Venezuela).

E non basta. Tutto ciò, infatti, potrebbe accadere non solo all’Italia, ma a qualsiasi altro paese, compresi i nostri alleati. In parte è già successo con Netanyahu, che, a causa del mandato di arresto contro di lui, non può più entrare in nessun paese della UE. Ma spingiamoci ancora oltre e proviamo a immaginare che la CPI emetta un mandato di arresto contro Trump, per esempio per complicità nei (presunti) crimini di guerra dello stesso Netanyahu.

Se il veto all’ingresso del premier israeliano nei paesi europei può ancora essere tollerato, quello al presidente degli Stati Uniti (che tra l’altro non riconoscono la CPI) provocherebbe invece una gravissima crisi internazionale. E cosa succederebbe se Trump decidesse di recarsi lo stesso in Europa? Davvero qualcuno pensa che dovremmo vietarglielo? O addirittura abbattere l’Air Force One? Oppure farlo atterrare e poi arrestare Trump? C’è qualcuno che si rende conto che fare questo significherebbe di fatto entrare in guerra con gli Stati Uniti? Apparentemente no…

Davvero non capisco come una qualsiasi persona sana di mente possa tollerare che un pugno di magistrati che non rappresentano nessuno se non sé stessi e non rispondono a nessuno se non a sé stessi possa influenzare fino a questo punto le relazioni tra gli Stati. E perché sia chiaro che la mia critica non nasce da una posizione di parte, faccio presente che, come accennavo all’inizio, il primo impulso a scrivere un articolo contro la CPI mi è venuto quando essa ha ordinato l’arresto di Putin.

Ora, chiunque abbia la bontà di leggermi sa benissimo che io Putin più che in galera vorrei vederlo morto e che ho sempre sostenuto che fare la pace con lui sull’Ucraina senza prima averlo chiaramente sconfitto sul campo sarebbe pericolosissimo, perché servirebbe solo a permettergli di riprendere fiato e riorganizzarsi, per poi, fra qualche anno, scatenare una nuova guerra da una posizione di maggiore forza (https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/).

Tuttavia, è ancor più pericoloso permettere che decisioni del genere, che sono di natura strettamente politica, possano essere determinate o anche solo influenzate dalla magistratura.

Se i legittimi rappresentanti dei popoli occidentali, cioè i rispettivi parlamenti e governi, decidono di fare la pace con Putin, allora devono poterla fare, senza che un mandato di arresto a suo carico complichi ulteriormente una situazione già di per sé complicatissima. E chi, come me, considera invece nefasta questa trattativa ha ovviamente tutto il diritto di avversarla, ma agendo attraverso gli strumenti della politica e non per via giudiziaria.

Perché allora la CPI, nonostante la sua evidente pericolosità per gli equilibri internazionali, gode di un consenso così ampio?

In parte si tratta di un atteggiamento ideologico, che per sua natura ignora la realtà, ma per un’altra parte, forse anche più ampia, credo che ciò dipenda dalla convinzione che la Corte non si spingerà mai tanto oltre da produrre questi scenari da incubo. Purtroppo, però, questo modo di pensare è erroneo, sia in teoria che in pratica.

In linea di principio, infatti, è sempre sbagliato creare un’istituzione potenzialmente pericolosa confidando che la saggezza di chi la dovrà gestire le impedirà di fare troppi danni. Al contrario, un principio fondamentale dello Stato di diritto è che le istituzioni dovrebbero essere (per quanto possibile) “a prova di cretino”, cioè costruite pensando non al miglior scenario possibile, ma al peggiore, in modo da minimizzare i danni anche se quest’ultimo si dovesse realizzare. Ora, creare un potere giudiziario internazionale senza prevedere nessun organo di controllo che possa realmente limitarlo (l’Assemblea degli Stati Parte fa ridere i polli) è ben più che pericoloso: è un vero e proprio abominio logico e giuridico.

Inoltre, in linea di fatto, tale ottimistica convinzione sulla CPI poteva forse essere giustificata fino a qualche tempo fa, ma oggi non più. Non solo, infatti, con gli ultimi tre mandati di arresto la “linea rossa” è stata chiaramente superata, ma la cosa più preoccupante è che c’è un’evidente “escalation” di pericolosità.

È vero che il bersaglio più grosso era il primo, Putin, ma con lui i rapporti erano già al minimo storico e quindi non potevano peggiorare più di tanto. Israele, invece, è un paese amico e quindi il mandato contro Netanyahu può causare danni molto più gravi. Quello contro Almasri, infine, i danni li sta già causando, avendo creato nel nostro paese un clima quasi da guerra civile. E danni ancor peggiori potrebbe causarli se dovesse portarci a uno scontro aperto con la CPI, come è purtroppo perfettamente possibile, anche se le voci di un’indagine sul nostro governo, messe in giro da alcuni irresponsabili esponenti del PD, sono state (per ora…) smentite.

D’altronde, ciò non deve stupire. La CPI, infatti, non è piovuta dal cielo, ma rappresenta solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più ampio e preoccupante: la crescente tendenza a giuridicizzare la politica, alterando l’equilibrio dei poteri tipico degli Stati democratici a favore di quello giudiziario, cosa ben più radicale e profonde della pur già deleteria politicizzazione della magistratura (ne riparleremo presto).

A livello internazionale, poi, è ancor peggio, perché qui un potere esecutivo e un potere legislativo semplicemente non esistono (a meno che, con sovrano sprezzo del ridicolo, non si voglia considerare tali il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale dell’ONU). E poiché ogni vuoto tende ad essere riempito, col tempo la CPI, unico vero potere sulla scena, tenderà non soltanto a invadere gli ambiti di competenza degli altri (inesistenti) poteri, ma a occuparli completamente e stabilmente, trasformandosi così in un organo totalizzante e perciò tendenzialmente totalitario.

Quando venne emesso il mandato di arresto contro di lui per crimini di guerra, Netanyahu disse che la CPI doveva essere considerata «nemica dell’umanità» perché si trattava di un atto antisemita. Aveva ragione, ma non per questo motivo, benché indubbiamente ci sia un pizzico di antisemitismo (e forse anche più di un pizzico) negli attuali abnormi attacchi contro lo Stato di Israele e il suo governo, per criticabile che sia il suo operato (anche di ciò riparleremo presto).

Ma la Corte Penale Internazionale non è pericolosa per questo o quell’altro suo provvedimento specifico: è pericolosa per la sua stessa natura e quindi per il fatto stesso di esistere.

Così stando le cose, l’unico modo di evitare che in futuro possa destabilizzare ancor più gravemente i già fragili equilibri internazionali è abolirla.

È soprattutto per questo che è auspicabile che il nostro governo la smetta di nascondersi dietro il dito dei formalismi giuridici e ponga apertamente la vera questione (politica) sul tavolo della UE: con le buone se sarà possibile, con le cattive se sarà necessario.

La frattura tra ragione e realtà 10 / La finanza impazzita 1 – Miss BCE e l’inflazione

21 Febbraio 2025 - di Paolo Musso

In primo pianoPoliticaSocietà

Con questo articolo cominciamo l’annunciato viaggio tra le follie della finanza internazionale. Una delle principali (e di particolare attualità) è la convinzione che alzare i tassi di interesse serva a combattere l’inflazione, come è stato fatto dopo l’esplosione dei prezzi del gas nel 2022 dalla neopresidente dalla BCE (nonché ex direttrice del FMI) Christine Lagarde. In realtà non solo questa misura è inutile, ma penalizza i poveri, già colpiti più degli altri dall’inflazione, arricchendo invece le banche e gli speculatori. Una dura lezione da imparare a memoria, soprattutto ora che la speculazione sul prezzo del gas ha rialzato la testa e tutto rischia di ricominciare da capo.

Una domanda ovvia, ma anche no

Assumereste un manager che non ha mai raggiunto gli obiettivi fissati dalla sua azienda? O un cuoco i cui piatti non piacciono mai a nessuno? O un chirurgo che uccide tutti i suoi pazienti? O un autista che ogni volta che si mette al volante provoca un incidente? O un calciatore che in ogni partita si fa un autogol? O un consulente finanziario che manda in rovina tutti i suoi clienti?

Non solo in un mondo normale, ma perfino nel mondo gravemente anormale in cui viviamo la risposta a queste domande (e alle molte altre analoghe che si potrebbero fare) è ovviamente no. Tranne che in un caso: l’ultimo.

Infatti, nel 2019, come successore di Mario Draghi a capo della Banca Centrale Europea (BCE) è stata nominata Christine Lagarde, che negli otto anni precedenti era stata direttrice del Fondo Monetario Internazionale (FMI), una delle istituzioni più funeste della storia umana, che nei suoi quasi 80 anni di attività non ha mai risolto un solo problema, dimostrando di possedere un’unica, vera, straordinaria abilità: quella di trasformare i problemi in disastri e i disastri in catastrofi.

Il che è precisamente quello che la signora Lagarde aveva sempre fatto durante il suo mandato alla guida del FMI e che ha puntualmente rifatto durante il suo mandato alla guida della BCE, nel colpevole e complice silenzio di tutto l’establishment europeo.

Miss BCE vs Mister BCE

Lasciamo stare la pessima gestione del periodo del Covid, di cui su questo sito abbiamo già parlato a sufficienza e in cui peraltro è stata in ampia (e pessima) compagnia e concentriamoci soltanto sugli ultimi due anni, in cui la signora Lagarde ha dato il peggio di sé.

Per onestà intellettuale, va detto che almeno la trasformazione in disastro del problema iniziale, cioè il vertiginoso quanto ingiustificato aumento del prezzo del gas a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della neo-URSS di Putin, per una volta non è principalmente colpa sua, bensì della UE.

Infatti, a mandare alle stelle il prezzo del gas non è stata la sua reale mancanza, bensì la paura che potesse venire a mancare, che a sua volta ha innescato i soliti fenomeni speculativi, che sono sempre esistiti, ma si sono enormemente amplificati da quando nelle Borse sono entrati i computer, che gestiscono ormai la maggior parte delle transazioni. Tuttavia, ciò che ha davvero fatto schizzare a valori assurdi il prezzo del gas non sono stati i fenomeni speculativi in sé stessi, ma il fatto che l’Europa stabiliva il prezzo del gas in base alle sue quotazioni alla Borsa di Amsterdam.

Non occorre essere esperti di economia per capire che a questo si poteva porre rimedio in molti modi e, soprattutto, in pochi giorni, come dimostra il fatto che, quando finalmente la UE si è mossa, è bastato l’annuncio che sarebbero stati presi dei provvedimenti in tal senso per far crollare quasi istantaneamente i prezzi del gas, riportandoli a valori quasi normali, cioè corrispondenti alla realtà, che era anch’essa quasi normale. Il problema è che per decidersi l’Europa ci ha messo nove mesi.

Non per nulla, perfino Mario Draghi ha detto cose terribili sul suo comportamento irresponsabile e ottuso, anche se i giornali italiani, pur non potendo evitare di dare la notizia, hanno cercato in tutti i modi di minimizzarla e poi dimenticarla il più presto possibile: non sia mai che il campione dell’europeismo, colui che ha salvato l’euro e con esso la UE, porti acqua al mulino dell’euroscetticismo dei “populisti”!

Purtroppo, però, qui non si tratta di europeismo o antieuropeismo, ma, tanto per (non) cambiare, ancora una volta di pura e semplice stupidità. Alla fine, infatti, ci hanno rimesso tutti, perché l’aumento tanto spropositato quanto ingiustificato del costo del gas ha fatto schizzare alle stelle le bollette dell’elettricità. Ciò ha portato a un aumento generale dei costi di produzione di pressoché qualsiasi cosa, risvegliando così, per la prima volta da quando esiste l’euro, il mostro dell’inflazione, «la più iniqua delle tasse», come la chiamava Luigi Einaudi, perché colpisce allo stesso modo ricchi e poveri.

Certo, come aveva giustamente notato Ricolfi (https://www.fondazionehume.it/economia/nel-segno-dellinflazione/), una prima spinta inflattiva c’era già stata all’inizio del 2022 per l’aumento dei prezzi delle materie prime (iniziato nella primavera del 2020 a causa del Covid e delle conseguenti difficoltà di approvvigionamento, ma giunto ai prezzi al consumo solo due anni dopo). «La guerra ha ovviamente peggiorato le cose», concludeva Ricolfi, «ma non è l’origine delle tensioni attuali sui prezzi, che risentono anche della ripresa della domanda, favorita dagli stimoli fiscali dei governi e dall’ingente risparmio accumulato durante la pandemia», il che è sicuramente vero.

Tuttavia, se la guerra – o, più esattamente, la speculazione sulla guerra – non è stata l’origine dell’inflazione, ne è stata però senza dubbio alcuno il moltiplicatore. Il modo in cui essa è letteralmente esplosa quasi da un giorno all’altro e in perfetta concomitanza con l’altrettanto improvvisa esplosione del prezzo del gas dimostra che senza quest’ultima avremmo sì avuto un po’ di inflazione, ma certamente non questa inflazione.

Ora, è chiaro che sulla speculazione la BCE non poteva intervenire direttamente. Però è altrettanto chiaro che se la sua presidente avesse messo in gioco tutto il prestigio della sua carica, accusando pubblicamente i governi della UE di comportarsi in modo irresponsabile, rischiando di impoverire tutta la popolazione europea, qualcosa sarebbe certamente cambiato. Mario Draghi l’avrebbe fatto.

Anzi, l’ha fatto. Solo che, non essendo più il capo della BCE, ma “solo” del governo italiano, chi non voleva dargli ascolto ha avuto gioco facile a bollare le sue parole come dettate dalla difesa degli interessi egoistici del suo paese. Salvo poi accorgersi – ma troppo tardi – che invece erano nell’interesse di tutti e che a difendere i propri interessi egoistici erano proprio quei paesi nordici che ci fanno sempre la morale, anzitutto la Danimarca (che voleva proteggere i profitti abnormi della sua Borsa) e la Norvegia (che è una grande esportatrice di gas naturale).

Con questo suo “peccato di omissione” la Lagarde, in perfetto stile FMI, ha contribuito, insieme ai nostri inetti governanti, a trasformare un problema relativamente facile in un disastro di difficile soluzione. Ma il suo capolavoro, di cui è invece l’unica responsabile, l’ha realizzato dopo, quando l’inflazione era ormai decollata e lei, per fermarla, non ha trovato di meglio che alzare sempre più, fino a livelli assurdi, i tassi di interesse, col consenso entusiasta della FED (la banca centrale USA), che ha fatto lo stesso, nonché della maggior parte degli economisti.

Poi, un bel giorno, lo scorso agosto, sono arrivati i dati negativi sull’occupazione negli Stati Uniti e improvvisamente sui mercati finanziari è esploso il panico e le Borse sono crollate, temendo l’arrivo imminente di una nuova recessione. Allora, di punto in bianco, sono esplose anche le critiche a BCE e FED per non avere ancora abbassato i tassi benché l’inflazione fosse già da tempo tornata a livelli quasi normali. Poi, però, il panico è passato (forse proprio grazie a questo cambio di rotta o forse per altri motivi meno chiari o addirittura senza nessun particolare motivo: con la folle finanza attuale succede spesso) e anche le critiche si sono ridimensionate, sicché l’abbassamento dei tassi sta sì avvenendo, ma in modo irragionevolmente lento, sia in Europa che in USA.

In questo modo, di nuovo in perfetto stile FMI, la Lagarde ha trasformato il disastro, che già aveva contribuito a provocare, in una catastrofe completa, da cui non siamo ancora usciti del tutto e da cui, comunque vada, usciremo tutti più poveri – o meglio, tutti tranne gli speculatori e i banchieri. Proprio come è sempre successo tutte le volte che il FMI ha cercato di “risolvere” a modo suo un qualsiasi problema in un qualsiasi paese del mondo.

L’unica parziale giustificazione che Miss BCE può accampare è che non si è trattato di una sua levata d’ingegno personale: come già detto, infatti, gran parte degli economisti ritengono il rialzo dei tassi di interesse una misura efficace contro l’inflazione, benché sia facile capire che non è vero.

Oggi ce lo siamo scordato, ma quando Mario Draghi pronunciò il  suo ormai proverbiale “Whatever it takes” non ci fu affatto il coro di consensi che oggi, a posteriori, gli viene tributato. Gran parte degli economisti erano infatti convinti che l’acquisto a tasso zero dei titoli del debito pubblico da parte della BCE avrebbe provocato un’enorme inflazione.

Probabilmente lo temeva anche Draghi, che è cresciuto alla loro stessa scuola. La differenza, però, è che, di fronte all’evidenza che altrimenti tutto il sistema sarebbe collassato, lui ha deciso di seguire le indicazioni della realtà anziché quelle della teoria (nel che consiste l’essenza del metodo scientifico e, più in generale, di qualsiasi metodo conoscitivo efficace): e la realtà l’ha premiato. La Lagarde, invece, sempre in perfetto stile FMI, ha deciso di andare contro la realtà pur di seguire la teoria (nel che consiste l’ideologia): e la realtà l’ha punita.

Il problema è che, insieme a lei, ha purtroppo punito anche tutti noi. Infatti, il rialzo dei tassi di interesse non è stato “soltanto” inutile: è stato (appunto) catastrofico.

Inflazione da domanda vs Inflazione da costi

Come aveva già spiegato Ricolfi nell’articolo prima citato, la logica di questa strategia è molto semplice (anche se sarebbe più esatto definirla semplicistica): se il denaro costerà di più, allora ce ne sarà di meno in circolazione, il che farà calare la domanda e, di conseguenza, i prezzi. Ma, notava Ricolfi, questo funziona solo se l’inflazione è causata da un eccesso di domanda rispetto all’offerta. Se invece l’aumento dei prezzi è determinato essenzialmente da un aumento dei costi, come è il caso attuale, «allora le politiche restrittive rischiano di essere poco efficaci, se non addirittura controproducenti». Ed è facile capire perché.

I prezzi, infatti, devono necessariamente essere superiori ai costi, altrimenti chi vende non guadagna nulla e va in rovina. Di conseguenza, se i prezzi sono saliti perché sono saliti i costi, far diminuire la domanda non farà diminuire i prezzi, bensì i guadagni dei venditori, alcuni dei quali falliranno, danneggiando l’economia, mentre altri cercheranno di rifarsi aumentando i prezzi e quindi facendo salire l’inflazione. Si innesca così un circolo vizioso, che non porta al calo dell’inflazione, ma a quello dell’economia, rischiando di provocare una recessione: guarda caso, proprio quello che si è temuto potesse accadere ad agosto.

Ma in realtà è molto peggio di così. Ricolfi, infatti, è stato ancora troppo moderato: le politiche restrittive non funzionano neanche per l’inflazione da domanda e sono sempre controproducenti, oltre che inefficaci.

L’equivoco nasce dall’espressione ingannevole “costo del denaro”. Se salgono i tassi, infatti, non è tutto il denaro che “costa di più” e, di conseguenza, “circola di meno”: gli stipendi, le pensioni, gli incassi dei commercianti e dei liberi professionisti – tutto questo e molto altro ancora “costa” e “circola” esattamente come prima. È solo il denaro preso a prestito che costa di più e che quindi potrebbe circolare di meno. Ma è davvero così?

Nella nostra società i prestiti concessi dalle banche rientrano tutti in poche e ben definite categorie:

  • per i privati cittadini: a) casa; b) automobile; c) elettrodomestici, d) mobili;
  • per gli imprenditori: a) avviamento dell’attività; b) espansione dell’attività in momenti di prosperità; c) salvataggio dell’attività in momenti di crisi.

Ora, un rialzo significativo dei tassi di interesse potrebbe indubbiamente scoraggiare chi vuole comprare casa (a meno che sia così ricco da potersi permettere di pagarla coi propri risparmi), dato che si tratta di un investimento molto impegnativo, che non si fa da un giorno all’altro e per il quale, data la sua entità, anche una differenza di pochi punti percentuali può tradursi in una grossa differenza in valore assoluto. E in effetti un certo calo del mercato immobiliare in questi due anni c’è stato, benché non di grande entità.

Molto più difficile è invece che si abbia un calo significativo nelle vendite di automobili, che non solo i ricchi, ma anche i semplici benestanti possono comprare senza bisogno di prestiti, mentre i poveri lo fanno solo quando è assolutamente necessario (principalmente per recarsi al lavoro) e in tal caso è verosimile che preferiscano tirare un po’ la cinghia piuttosto che rinunciarvi. Ancor più improbabile è che possano esserci effetti significativi sugli acquisti a rate di articoli per la casa, giacché, data la loro piccola entità, l’aumento in valore assoluto è risibile.

Quanto agli imprenditori, a rinunciare a chiedere prestiti a tassi elevati sarebbero principalmente alcuni di quelli che intendono espandersi, causando così un grave danno all’economia, mentre altri lo chiederanno comunque, scaricando il maggior costo sui prezzi e facendo così salire l’inflazione. Quelli con l’acqua alla gola, avendo come unica alternativa il fallimento, perlopiù il prestito lo chiederanno comunque e cercheranno di rifarsi aumentando i prezzi: chi ci riuscirà contribuirà di nuovo a far salire l’inflazione, mentre chi non ce la farà chiuderà bottega, con ulteriore danno per l’economia. Chi chiede il prestito per avviare l’attività, infine, perlopiù lo chiederà comunque, dato che in genere sono previste condizioni speciali che non vengono toccate dal rialzo dei tassi. Chi non si sentirà di farlo, invece, rinuncerà ad avviare un’impresa che avrebbe potuto portare benefici all’economia, danneggiandola quindi ulteriormente.

Inoltre, tutto ciò vale soltanto per chi il prestito deve ancora chiederlo. Chi l’ha già ottenuto, infatti, deve comunque restituirlo. Per quelli che hanno scelto il prestito a interesse fisso (che in questo momento dovrebbero essere la maggioranza, dato che veniamo da un lunghissimo periodo di tassi bassissimi) non cambia nulla, mentre chi ha scelto il tasso variabile dovrà pagare di più, impoverendosi a vantaggio delle banche. Di nuovo, alcune imprese non saranno in grado di pagare e falliranno, con ulteriore danno per l’economia, mentre altre, di nuovo, scaricheranno i maggiori costi sui prezzi, facendo anch’esse salire l’inflazione.

In definitiva, dunque, l’impatto diretto dell’aumento del costo del denaro sulla domanda sarà comunque limitato già di per sé e rischierà di essere ulteriormente ridotto o addirittura annullato dagli effetti perversi che produce.

Maggiore potrebbe essere l’impatto indiretto, nel senso che chi deve pagare maggiori interessi sui prestiti potrebbe sentirsi meno propenso a spendere per altre cose. Ma, anche se ciò dovesse produrre un significativo calo della domanda (il che è tutto da dimostrare), difficilmente potrebbe provocare un altrettanto significativo calo dei prezzi, perché, come abbiamo visto, tale calo della domanda sarebbe stato ottenuto facendo salire i costi a carico delle persone e delle imprese.

In altre parole, il rialzo dei tassi di interesse trasforma una parte dell’inflazione da domanda in inflazione da costi e tale parte diventa sempre maggiore quanto maggiore è il rialzo dei tassi.

Da ciò deriva il seguente paradosso: quanto più alziamo i tassi per scoraggiare la domanda, tanto più riduciamo l’incidenza della domanda sull’andamento dell’inflazione e, di conseguenza, anche l’efficacia del rialzo dei tassi.

Detto ancor più in sintesi: il rialzo dei tassi di interesse distrugge progressivamente l’efficacia del rialzo dei tassi di interesse. E poiché per ottenere un impatto significativo su un’inflazione elevata bisognerebbe alzarli di un bel po’, sembra inevitabile concludere che è molto dubbio che questa strategia serva a far scendere l’inflazione da domanda, mentre è certo che non farà scendere quella da costi e che in entrambi i casi provocherà gravi danni all’economia. E ora ditemi: con simili prospettive, chi, se non un pazzo, sceglierebbe questa strada?

La Lagarde l’ha scelta…

Magia vs Scienza

Ma l’inflazione sta finalmente scendendo, obietterà qualcuno. E questa non è forse la prova che la strategia di Miss BCE, nonostante tutto, ha funzionato?

Beh, no.

Questo ragionamento, infatti, è un tipico esempio della fallacia logica nota come “post hoc ergo propter hoc” (poiché una certa cosa segue ad un’altra, allora la prima è la causa della seconda), che secondo David Hume sarebbe il modo in cui la scienza stabilisce i nessi di causa ed effetto tra i fenomeni, che per questo egli riteneva invalidi.

Mi spiace dover criticare il nume tutelare della Fondazione che così generosamente ospita i miei sproloqui, ma questo è piuttosto il modo in cui funziona la magia: così, infatti, si può dimostrare qualsiasi cosa, il che è lo stesso che non dimostrare nulla. Non a caso, questo è il trucco che invariabilmente usano tutti i ciarlatani per truffare le persone fragili in cerca di facili rassicurazioni. Per farlo basta scegliere una qualsiasi strategia, seguirla fino a quando l’evento desiderato si verifica e a quel punto rivendicare alla nostra strategia il merito di averlo prodotto.

Naturalmente è possibile che le cose stiano davvero così. Ma anche no, perché l’evento in questione potrebbe essere stato prodotto da una qualsiasi altra causa. Per dimostrarlo, quindi, la mera successione temporale non basta, proprio come diceva Hume (che perciò su questo aveva ragione): bisogna inoltre spiegare esattamente perché l’effetto seguirebbe da quella che noi abbiamo identificato come sua causa e poi andare a vedere se questa spiegazione funziona, il che è esattamente ciò che fa la scienza (e perciò su questo Hume aveva invece torto).

Ora, abbiamo appena visto che la spiegazione della supposta efficacia del rialzo dei tassi di interesse non funziona. Sembra quindi inevitabile concludere che si tratta di un falso rimedio e che l’inflazione è scesa per i fatti suoi, essenzialmente perché era frutto di un fenomeno speculativo, per cui, sgonfiatosi quello, si è sgonfiata anche lei, anche se ci ha messo un po’ più di tempo (perché le dinamiche dell’economia reale sono molto più lente di quella della finanza e anche perché dentro ad essa c’era pure, come abbiamo detto, una parte di inflazione reale da effetto Covid).

Ma il meglio, cioè il peggio, deve ancora arrivare.

Ricchi vs Poveri

Anzitutto, infatti, chi ha più necessità di chiedere prestiti sono i poveri o gli imprenditori in difficoltà, che sono già i più colpiti dall’inflazione e ora vengono colpiti pure dal rialzo dei tassi. Al contrario, i ricchi non solo possono comprarsi ciò che vogliono coi propri soldi, senza chiedere prestiti e quindi senza essere toccati dal rialzo dei tassi, ma possono addirittura trarre vantaggio dalla situazione, investendo i propri risparmi in titoli del debito pubblico dal rendimento particolarmente alto o, meglio ancora, speculando sulle sue variazioni.

Ma c’è di più. L’aumento dei tassi, infatti, ha un’altra conseguenza devastante, soprattutto nella situazione attuale: fa aumentare gli interessi del già enorme debito pubblico degli Stati, facendolo ulteriormente crescere e rendendo di conseguenza sempre più difficile mettere in atto interventi a favore dei più poveri, che vengono così colpiti per la terza volta.

Pertanto, se tutto questo è vero, non è poi così importante stabilire se quella attuale è un’inflazione da domanda o un’inflazione da costi. Infatti, perfino se fosse un’inflazione interamente da domanda, il rialzo dei tassi voluto dalla Lagarde potrebbe avere avuto (nel migliore dei casi) solo un influsso molto limitato, ottenuto a prezzo di impoverirci tutti, tranne le banche e gli speculatori: cioè, esattamente quello che ha sempre fatto il FMI.

Se poi, come sembra evidente, questa è invece essenzialmente un’inflazione da costi, allora va ancora peggio, perché anche quella già abbastanza incerta possibilità di un piccolo influsso positivo scompare, mentre restano, ancor più amplificati, gli effetti negativi, che peggiorano la situazione di tutti, ma in particolare dei più poveri.

Che queste idee dissennate siano oggi difese soprattutto dalla sinistra “liberal” è un’ulteriore conferma di quella “mutazione” (per dirla con Ricolfi) che ha condotto la sinistra a diventare il partito della borghesia anziché del popolo.

Conclusioni

Dopotutto, Einaudi si sbagliava.  Esiste una tassa ancor più iniqua dell’inflazione, che colpisce tutti allo stesso modo, indipendentemente dal reddito: è il rialzo dei tassi di interesse, che colpisce tutti in modo inversamente proporzionale al reddito. E di questa scoperta dobbiamo ringraziare Miss BCE-FMI, ovvero la (poco) gentile signora Christine Lagarde.

Chiunque abbia letto i miei precedenti articoli (chi non li ha letti può sempre farlo ora) non può di certo pensare che stia dicendo quello che sto dicendo a causa di un’avversione ideologica per l’economia di mercato, viste tutte le cose terribili che ho scritto (e che confermo) sul comunismo e sul suo persistente e nefasto influsso sulla civiltà occidentale.

Ho perfino difeso (almeno entro certi limiti) le cattivissime multinazionali, cecando di spiegare perché è sbagliato pretendere che siano l’incarnazione stessa del Male.

Ma il FMI lo è davvero.

E il peggio è che non si tratta innanzitutto del FMI come istituzione (che pure ha colpe sue specifiche e gravissime), ma piuttosto delle idee folli su cui si basa, che purtroppo sono condivise da quasi tutti gli economisti – o almeno da quasi tutti quelli “che contano”.

Ne riparleremo.

La lezione di Örebro: non sono le armi che uccidono, ma le persone (disperate)

10 Febbraio 2025 - di Paolo Musso

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Quella avvenuta nella scuola Risbergska della cittadina svedese di Örebro non è solo la peggiore strage mai avvenuta in Svezia: è anche l’ultima di una serie (che sembra purtroppo destinata ad allungarsi) di stragi analoghe che negli ultimi tempi si sono verificate nei paesi scandinavi.

Non intendo qui occuparmi delle miserabili strumentalizzazioni dei soliti servi sciocchi del politically correct, che hanno subito fatto a gara nell’attribuirne la responsabilità al “razzismo”, alimentato (ovviamente) dalla “destra”, per definizione fonte di ogni male. È chiaro, infatti, che quando qualcuno compie un’azione del genere le sue “motivazioni” esplicite contano ben poco, essendo soltanto un pretesto per sfogare un disagio psichico che ha origini ben diverse: se non fosse stato il razzismo, il signor Rickard Andersson ne avrebbe trovato un altro. Perciò anche la lezione da trarre da questa tragica vicenda (e dalle altre che l’hanno preceduta) è un’altra.

Fino ad oggi stragi di questo tipo sono sempre state ritenute una “specialità” degli Stati Uniti e la loro causa è sempre stata identificata con l’estrema facilità con cui chiunque negli USA può procurarsi non solo armi leggere per la difesa personale, ma anche veri e propri arsenali di armi da guerra. Ma ora che stragi simili hanno cominciato a verificarsi con preoccupante frequenza anche nei paesi scandinavi, dove questa libertà di armarsi non esiste, questo giudizio va per forza rivisto.

Anzitutto, infatti, ciò dimostra che per fare una strage avere armi pesanti certamente aiuta, ma non è indispensabile: si possono fare moltissime vittime anche con armi leggere o addirittura senza armi, come è accaduto in alcune stragi in cui sono stati usati camion lanciati contro la folla.

È vero che finora questo sistema è stato usato solo a fini terroristici, ma nulla vieta che possa essere adottato anche da persone che vogliono uccidere per ragioni personali. Anzi, in un certo senso ciò è già accaduto, dato che le motivazioni addotte dall’autore della strage al mercatino di Natale di Magdeburgo dello scorso 19 dicembre sono molto più vicine a quelle del signor Andersson che a quelle di un terrorista tradizionale.

Questo non fa che riportarci a una verità in fondo banale, ma ormai quasi dimenticata: non sono le armi a uccidere, come molti (tra cui, ahimè, anche Papa Francesco) si ostinano a ripetere, ma le persone. Ne segue che limitare l’accesso alle armi è certamente auspicabile, ma non servirà a molto, perché chi vuole davvero fare una strage troverà sempre il modo di farla.

La seconda verità banale ma essenziale che dobbiamo ricuperare è che chi compie queste azioni è sempre mentalmente disturbato, ma raramente le sue sono tare psichiche innate: in genere si tratta di problemi causati da soprusi che la persona ritiene di aver subito. Tuttavia, la reazione è talmente sproporzionata all’offesa che evidentemente la ragione di fondo dev’essere un’altra.

Questa ragione è la disperazione, cioè l’incapacità di trovare un senso per la propria vita, che ingigantisce tutti i problemi, trasformando qualsiasi contrarietà, anche la più piccola, in un macigno da cui la persona si senta schiacciata. Perciò, se vogliamo evitare che fatti come questi si ripetano e, più in generale, limitare la violenza irrazionale, che si sta diffondendo sempre più, soprattutto fra i giovani, quello che ci serve non sono leggi più severe, bensì ridare speranza alla gente.

E questo ci porta alla terza e ultima lezione. I paesi nordici, infatti, appaiono sempre in testa alle classifiche internazionali che tentano di misurare la qualità della vita o, addirittura, la “felicità”. Eppure, da sempre hanno un numero di suicidi molto superiore alla media e negli ultimi tempi hanno anche avuto un numero di omicidi e femminicidi molto più alto del nostro. Ora che cominciano ad avere anche un numero di stragi superiore alla media, forse è il caso di mettere in discussione gli “indicatori” che vengono usati in queste indagini (che in realtà non “indicano” un bel niente) e riscoprire un’ultima banale ma essenziale verità: la felicità non si può misurare.

L’odio al di là del linguaggio. È davvero Trump il pericolo maggiore per la democrazia americana?

5 Novembre 2024 - di Paolo Musso

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Quando dopo il disastroso dibattito televisivo del 26 giugno i Democratici si posero (finalmente) il problema di sostituire Joe Biden, molti analisti dissero giustamente che il rischio non era solo che perdesse, ma anche che vincesse. La cosa non era impossibile, nonostante le sue condizioni, perché la polarizzazione era ormai tale che moltissimi suoi sostenitori avrebbero votato perfino per la sua mummia (così come moltissimi altri avrebbero fatto con Trump), ma il problema era che in tal caso non sarebbe stato in grado di guidare il paese più potente del mondo per altri quattro anni (in realtà non era in grado di farlo neanche nei quattro anni precedenti, ma meglio tardi che mai…).

Tuttavia, a dispetto dell’entusiasmo con cui la sua nomination è stata accolta da tutto l’establishment occidentale, lo stesso problema si pone ora con Kamala Harris. Anzitutto, infatti, anche lei rischia di perdere: i sondaggi danno i due candidati alla pari, ma sappiamo che gli elettori di Trump sono molto più restii a dichiarare la loro preferenza, proprio come succedeva in Italia con Berlusconi, dove i sondaggi lo hanno sempre sottovalutato per i quasi trent’anni della sua carriera politica, rifiutando per ostinazione ideologica di correggersi nonostante l’evidenza.

Negli USA, dove il successo conta ancor oggi più di ogni altra cosa, quindi anche più dell’ideologia, i sondaggisti hanno invece tentato di tenere conto di questa tendenza, ma mi sorprenderebbe molto (nel momento in cui scrivo le votazioni non sono ancora cominciate) se ci fossero riusciti del tutto, anche perché è probabile che la reticenza dei trumpiani a pronunciarsi sia ulteriormente cresciuta, a causa del clima ancor più ostile nei loro confronti. Certo non sbaglieranno più del 4%, come è successo nel 2020, ma è probabile che Trump prenda comunque tra l’1 e il 2% in più di quanto gli viene attribuito, il che basterebbe a garantirgli la vittoria.

Ma c’è di più. Anche con Kamala, infatti, il problema è anche che rischia di vincere, perché neppure lei è in grado di guidare gli Stati Uniti, anche se per ragioni diverse da Biden, perché certo non è rincoglionita come lui. Ma dal punto di vista della salvaguardia della democrazia è almeno altrettanto pericolosa quanto Trump, se non addirittura di più. Come ha giustamente detto Cacciari qualche giorno fa a LA7, la differenza tra i due è soltanto “estetica”, nel senso che Trump è sguaiato e volgare, mentre la Harris rispetta maggiormente il galateo, ma per il resto sono simili.

Cacciari lo diceva soprattutto rispetto alle loro politiche, da cui non si aspetta grandi differenze (né grandi cose), ma ciò vale anche per la loro intolleranza, nonché per quella dei loro sostenitori. Il vero problema, infatti, non è il linguaggio d’odio, come oggi è di moda dire, ma l’odio in sé stesso, che è nato prima del linguaggio d’odio e che ne è la vera causa. E tale odio non solo esiste anche a sinistra, ma è nato prima a sinistra, negli Stati Uniti come in tutto l’Occidente.

Se c’è una cosa su cui la sinistra ha ragione, è quando dice che la destra è reazionaria: infatti, la crescita della destra in tutto l’Occidente (che continua, lenta ma costante, da oltre 25 anni) è principalmente una reazione alla crescita, altrettanto costante, di quella che Ricolfi ha molto esattamente definito «una forma di isteria – individuale e collettiva – che si propaga attraverso meccanismi intimidatori e ricatti morali [..], un mix di narcisismo etico, nella misura in cui rafforza l’autostima, di esibizionismo etico, nella misura in cui viene sbattuto in faccia al prossimo, e di bullismo etico, quando si accanisce su una o più vittime» (https://www.fondazionehume.it/politica/a-forza-di-includere-tutti-ci-siamo-esclusi-noi-intervista-di-maurizio-caverzan-a-luca-ricolfi/).

Non insisterò su questo, visto che, appunto, ne ha già parlato Ricolfi, più volte e in modo (come sempre) tanto preciso quanto documentato. Quel che vorrei fare è solo citare alcuni fatti, ignorati o distorti da tutto il nostro sistema mediatico, che dimostrano che presentare Kamala Harris come la paladina della civiltà contro la barbarie è non solo falso, ma addirittura grottesco.

In realtà la storia era già iniziata con Biden, che, un minuto dopo aver rivendicato la vittoria, affermando di voler essere il Presidente di tutti gli americani e di voler ricucire le lacerazioni che si erano prodotte durante la campagna elettorale, non ha trovato di meglio che chiedere l’impeachment per Trump, che tra l’altro era impossibile da ottenere e quindi l’unico effetto che poteva avere (e che di fatto ha avuto) era inasprire le tensioni. A ciò si è poi aggiunta una forsennata campagna giustizialista anti-Trump, condotta da magistrati (guarda caso sempre di provata fede democratica) che ha ricordato molto quella già vista in Italia contro Berlusconi.

L’apice di tale campagna è stata la denuncia contro Trump per complicità nell’assalto al Campidoglio, classificato come un tentativo di colpo di Stato. E, quando la Corte Suprema ha annullato il processo perché le accuse erano da ritenersi esagerate, è esplosa l’indignazione dei liberal di tutto il mondo, alla cui testa si è messa proprio Kamala Harris. Eppure, la Corte Suprema aveva semplicemente detto le cose come stavano. L’assalto a Capitol Hill, infatti, è stato un atto (grave) di teppismo, che va certamente perseguito con la massima severità, ma parlare di colpo di Stato è semplicemente ridicolo: i colpi di Stato si fanno con l’appoggio dell’esercito e mettendo in strada i carri armati, non qualche migliaio di esaltati guidati da Jake lo Sciamano.

Ma la Harris, con l’appoggio di tutti gli intellettuali liberal dell’Occidente, ha attaccato la Corte Suprema anche in molte altre occasioni, accusandola di essere favorevole a Trump, che ne ha nominato gli ultimi membri. Ora, questo è vero, ma non è una novità: la Corte Suprema è sempre stata politicamente orientata, perché i suoi membri sono sempre stati nominati dal Presidente di turno (che ovviamente gli sceglie tra quelli a lui politicamente vicini), perché così stabilisce la Costituzione. La vera novità è che per la prima volta nella storia ciò è stato preso a pretesto per delegittimarla, che è un comportamento oggettivamente eversivo e assai più grave degli attacchi di Trump a singoli magistrati, essendo diretto contro il più alto organo giudiziario del paese.

Più in generale, la Harris già da Procuratrice in California aveva preso posizione estremistiche, molto vicine a quelle di Black Lives Matter (che non è un movimento per i diritti civili, ma un movimento eversivo che ha come scopo dichiarato la cancellazione della civiltà occidentale), In particolare, ha di fatto legalizzato il furto, depenalizzandolo fino a 1000 dollari, il che ha colpito (come sempre succede ai progressisti da qualche decennio in qua) i commercianti più poveri, che, non potendo assumere dei vigilantes privati come hanno fatto quelli più ricchi e la grande distribuzione, hanno dovuto scegliere tra cambiare lavoro e cambiare Stato.

Da quando si è candidata, la Harris sta facendo di tutto per far dimenticare quel suo vergognoso passato, il che dal suo punto divista è comprensibile. Meno comprensibile è invece che tutti i nostri intellettuali, compresi quelli più moderati, le reggano il gioco.

Faccio solo un esempio, che mi ha particolarmente colpito, perché, appunto, ne sono state protagonisti due intellettuali moderati e solitamente (ma non questa volta) assai ragionevoli. Domenica scorsa, a Mezz’ora in più, Monica Maggioni ha commentato insieme a Vittorio Emanuele Parsi una cartina degli Stati Uniti su cui erano indicati tutti i luoghi dove erano in atto campagne di suprematisti bianchi sostenitori di Trump, insieme a una serie di interviste piuttosto deliranti ad alcuni di essi, che in alcuni casi inneggiavano perfino a Hitler e facevano il saluto nazista.

Ora, è certamente giusto denunciare questi comportamenti, che sono inaccettabili e preoccupanti. Ma perché la Maggioni non si è sentita in dovere di mostrare (e perché Parsi non si è sentito in dovere di chiederglielo) anche una cartina in cui fossero indicati tutti i luoghi degli Stati Uniti dove sono state introdotte le liste dei libri proibiti nelle università o dove ci sono state manifestazioni pro-Hamas o dove si sono verificati episodi di quello che Federico Rampini (che certo uomo di destra non è) ha recentemente definito «l’unico vero razzismo oggi presente negli USA, cioè quello verso i maschi bianchi non laureati»? E perché non sono state fatte analoghe interviste ai rappresentanti più fanatici della ideologia woke, che molti nostri intellettuali negano addirittura che esista?

Temo che, se la Maggioni l’avesse fatto, il risultato sarebbe stato almeno altrettanto inquietante. Con in più una differenza, che non è da poco: mentre è improbabile che i nazisti dell’Illinois (o di altri Stati non citati dai Blues Brothers) possano determinare in modo significativo la politica di Trump, è invece assolutamente certo che quei gruppi radicali da cui la candidata Kamala Harris sta cercando di prendere le distanze determinerebbero in modo sostanziale molte delle scelte politiche della Presidente Kamala Harris.

Così come è certo che, se dovesse vincere lei, ripartirebbe immediatamente la persecuzione giudiziaria contro Trump e i suoi seguaci, col risultato di far montare ancor più l’odio nel paese, al di là del linguaggio. Su cui peraltro anche Kamala non scherza, visto che ha ripetutamente chiamato Trump «fascista» e «criminale», mentre appena eletta l’aveva definito «predatore sessuale», che significa stupratore seriale, mentre lui è stato condannato solo per aver pagato una pornostar perché tenesse nascosta una relazione consensuale (ma questi sono insulti “politically correct” e quindi leciti…).

Al contrario, nonostante le sue roboanti dichiarazioni, Trump, se eletto, ben difficilmente perseguiterebbe i suoi avversari politici, se non altro perché faticherebbe a trovare dei giudici disponibili a farlo, dato che il giustizialismo è una (in)cultura tipica della sinistra.

In definitiva, quindi, se guardiamo ai fatti, al di là del linguaggio, mi sembra che di odio nella Harris che ne sia almeno quanto in Trump. Ma, soprattutto, in caso di sua vittoria sarebbero molto maggiori i rischi che tale odio venga tradotto in comportamenti lesivi della democrazia. Se ho qualche remora ad augurarmi esplicitamente che perda è solo per due ragioni.

La prima è l’incertezza su cosa farebbe Trump in Ucraina, dove l’Occidente si sta giocando la pelle senza esserne minimamente consapevole. Anche se non bisogna esagerare. Se infatti è certo che Trump cercherebbe di trattare con Putin, non credo invece affatto che sia suo amico, come molti sostengono, visto che è già stato Presidente per 4 anni e non mi risulta che gli abbia mai fatto particolari favori. Quello che lui pensa davvero è che Putin sia un “duro” con cui solo uno ancora più duro (come lui ritiene di essere) possa trattare con successo. Quindi ci proverà, ma quando si accorgerà che Putin non ha nessuna intenzione di ascoltarlo andrà su tutte le furie e potrebbe decidere di dare all’Ucraina un sostegno perfino maggiore di quello (peraltro tentennante e insufficiente) che le ha dato Biden e che verosimilmente le darebbe Kamala.

Il vero problema è quanto ci metterà Trump a rendersi conto che Putin lo sta prendendo in giro, perché nel frattempo potrebbero prodursi danni non più rimediabili. E qui veniamo alla mia seconda e più grave preoccupazione. Perché negli ultimi tempi anche Trump sembra aver cominciato a dare qualche segno di rincoglionimento, certo non al livello di Biden, ma tuttavia tale da non lasciare tranquilli, soprattutto considerando che ha già 78 anni e che, se vincesse, dovrebbe governare fino a 82.

Se non fosse per questo, pur turandomi democristianamente il naso, farei sicuramente il tifo per lui. Così stando le cose, posso solo sperare che Dio ce la mandi buona. E, soprattutto, che alle prossime elezioni ci mandi dei candidati più decenti.

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