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Pax trumpiana? Cosa è successo davvero e cosa succederà

18 Marzo 2025 - di Paolo Musso

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Rimessa brutalmente davanti a una realtà che si sforzava di non guardare dai metodi rozzi ma efficaci di Trump, l’Europa, ancora una volta, si è fatta trovare completamente impreparata. Stavolta, però, dopo una prima fase di totale disorientamento, stanno finalmente emergendo alcuni segnali di un approccio più realista e responsabile, che potrebbe davvero rilanciare il progetto europeo, in crisi da oltre vent’anni. Grazie anzitutto a Zelensky, l’unico vero leader che abbia oggi l’Europa. Quanto alla guerra in Ucraina, invece, il vero rischio non è che Trump abbia un piano per imporre una pace ingiusta, ma piuttosto che non abbia nessun piano, eppure continui a comportarsi come se ce l’avesse.

 La diplomazia è sempre stata brutta, sporca e cattiva

Spero che mi perdonerete se, essendo sempre stato contrario a ogni trattativa con Putin (https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-7-il-fallimento-degli-esperti-di-guerra-parte-prima-ucraina/), di fronte a quello che sta succedendo in questi giorni la mia prima reazione è una certa maligna soddisfazione, del tipo: «Volevate le trattative di pace? Beh, ora le avete. Godetevele!»

Questa, però, è molto più di una battuta. L’invasione dell’Ucraina ha dimostrato quanto la lunghissima pace di cui l’Europa ha goduto dopo la Seconda Guerra Mondiale, pur in sé invidiabile, ci ha fatto del tutto perdere la capacità di comprendere che cosa sia realmente la guerra. Questo avvio delle trattative di pace sta dimostrando come abbiamo perso del tutto anche la capacità di comprendere che cosa sia realmente la diplomazia.

Per decenni, infatti, le trattative diplomatiche che ci hanno riguardato direttamente sono state per lo più su cose come le quote latte o le concessioni balneari. Perfino quelle più serie riguardavano al massimo il cambio tra le vecchie monete nazionali e l’euro, l’auto elettrica o le misure anti-inflazione. Tutte cose importanti, sia chiaro, ma lontane anni luce da una trattativa in cui sono in gioco la vita e la morte, sia dei singoli che di interi popoli.

Così ci siamo illusi che per risolvere qualsiasi problema basti “sederci tutti intorno a un tavolo”, espressione grondante insopportabile retorica come poche altre, eppure costantemente ripetuta da tutti gli intellettuali e i leader politici occidentali, in maniera perfettamente bipartisan (anzi, multipartisan).

Solo così si spiegano i giudizi che abbiamo ascoltato su ciò che è accaduto in questa prima fase delle trattative sulla guerra in Ucraina, tutti quantomeno stralunati, quando non completamente infondati, soprattutto per l’affermazione, condivisa praticamente da tutti, per cui non si sarebbe mai visto niente di simile.

La realtà, invece, è che noi non avevamo mai visto niente di simile. Ma, a parte questo periodo di pace di durata anomala e senza precedenti di cui abbiamo goduto negli ultimi 77 anni, la diplomazia, dietro la cerimoniosa facciata di lustrini e salamelecchi di cui ama adornarsi, è sempre stata brutta, sporca e cattiva, alternando momenti di discussione razionale a insulti, menzogne, minacce, ricatti, intimidazioni, sceneggiate di ogni genere e perfino atti di vera e propria violenza. L’unica differenza è che prima tutto questo non lo vedevamo in diretta TV.

Del resto, basta guardare a ciò che è successo in Medio Oriente, dove le trattative sono sempre proseguite in parallelo alla guerra, sia con Hamas che con Hezbollah, con appunto tutto il suddetto corredo di sgradevolezze e oscenità assortire, fino addirittura al reciproco tentativo di assassinio dei rispettivi leader (fallito da parte degli Hezbollah, riuscitissimo invece da parte di Israele).

Ora, questa mancanza di familiarità con la vera diplomazia e la sua connaturale brutalità, sommata all’anti-trumpismo ideologico quasi unanimemente condiviso dagli intellettuali europei (e a una incomprensibile quanto diffusa sottovalutazione di Zelensky), ha portato a dare una descrizione gravemente deformata di ciò che è accaduto nelle ultime settimane, soprattutto dell’incontro alla Casa Bianca fra Trump e Zelensky.

Trump va preso sul serio, ma non alla lettera

Anzitutto, cerchiamo di capire una buona volta come ragiona Donald Trump. Perché sì, so che la cosa vi sconvolgerà, ma Trump ragiona. Solo che ragiona come un affarista americano, cioè secondo la logica più aliena che si possa immaginare per i raffinati intellettuali europei, che lo accusano di voler trasformare le relazioni fra gli Stati da una rete di civili rapporti governati dal diritto internazionale in un mercato delle vacche in cui alla fine vince il più forte.

Ma le relazioni fra gli Stati sono sempre state un mercato delle vacche in cui alla fine vince il più forte. Al contrario, il diritto internazionale, mancando un’autorità superiore in grado di imporlo a tutti, è sostanzialmente una finzione (Marx direbbe: una sovrastruttura), che regge finché alle parti in causa conviene, ma crolla come un castello di carte appena non gli conviene più.

Incapaci di comprendere e/o accettare questa sgradevole ma elementare verità, a cui Trump ci ha rimessi brutalmente di fronte, ma che non ha certo inventato lui, i nostri intellettuali, non trovando di meglio, si sono messi ad accusarlo in coro di essere un bullo, dimostrando così di non capire non solo chi è Trump, ma nemmeno chi è un bullo.

I bulli, infatti, sono dei deboli, che, anziché affrontare le proprie frustrazioni, preferiscono cercare compensazioni maltrattando gli altri per dimostrare a tutti (innanzitutto a sé stessi) di essere forti. Per questo è appropriata la definizione di “bullismo etico” coniata da Ricolfi per i fanatici del politically correct, il cui vero fine non è aiutare i veri o presunti discriminati, ma umiliare chi non la pensa come loro, in modo da poter provare la gratificante sensazione di essere sempre “dal lato giusto della storia”, come ha detto di sé stesso a Trump il segretario generale dell’ONU António Guterres (lui sì un frustrato perennemente in cerca di compensazioni: cioè, appunto, un bullo).

Ora, Trump non è affatto così. Lui non è un frustrato, ma un presuntuoso, sinceramente convinto di essere più intelligente e soprattutto più “tosto” di chiunque altro. Non ha, come i bulli, un complesso di inferiorità, ma piuttosto un (abnorme) complesso di superiorità.

È vero che ciò lo rende arrogante e prepotente, il che a prima vista può farlo apparire un bullo. Ma le sue minacce e i suoi insulti non hanno lo scopo di umiliare l’avversario, bensì di indurlo a più miti consigli. Insomma, si tratta, almeno nella sua testa, di una tattica negoziale (d’altronde da lui esplicitamente enunciata), per cui l’America non dovrebbe usare la sua pistola sui campi di battaglia, ma piuttosto sui tavoli delle trattative, gettandola sul piatto della bilancia per farla pendere a proprio favore, come fece Brenno duemila anni fa con la sua spada.

In fondo non è altro che la ben nota tattica del bastone e della carota, che, per quanto trita e ritrita, resta ancora la più efficace nelle trattative (è stato anche dimostrato dal celebre programma informatico Tit for tat, basato sulla teoria dei giochi). Certo, la sua versione “trumpizzata” è particolarmente brutale e volgare, ma questo, come ha dimostrato un recente studio, la rende indigesta soltanto agli ipersensibili europei, mentre nel resto del mondo non ne sono particolarmente impressionati, perché cose simili e anche peggiori fuori dall’Europa avvengono in continuazione.

Quello che invece è davvero caratteristico di Trump – e solo di Trump – è il fatto che lui tende a dare dimensioni abnormi sia alla carota che al bastone (invero soprattutto a quest’ultimo…). In un negoziato è normale chiedere 10 per ottenere 5 (o 4 o 6, a seconda di come va). Ciò che è peculiare di Trump è che spesso non inizia chiedendo 10, ma 20, 30 o perfino 100, sperando così di ottenere non 5 o 6, ma 8 o 9. Per questo, come disse la politologa americana Claudia Brühwiler all’indomani della vittoria di Trump e come ripete sempre Claudio Pagliara, l’inviato del TG2 a Washington, «Trump va preso sul serio, ma non alla lettera».

Ora, questa non è una tattica che tutti possano permettersi di usare. Ma, se messa in atto dal Presidente degli Stati Uniti, ha delle buone probabilità di funzionare, perché pochi sono disposti a prendersi il rischio di andare a “vedere” il bluff della prima superpotenza mondiale.

Per esempio, davanti alla minaccia di riprendersi con la forza il Canale di Panama, che ha suscitato gli unanimi strilli di indignazione e sarcasmo da parte di tutti i benpensanti del mondo “civile”, per quanto improbabile fosse che Trump lo facesse davvero, Panama ha preferito non rischiare. Prima è uscita dalla Nuova Via della Seta (il progetto di rete commerciale globale con cui la Cina sta cercando di colonizzare il mondo, il cui più entusiasta sostenitore in Italia è da sempre Romano Prodi) e poi ha permesso a un consorzio americano (con anche una partecipazione italiana) di comprare le società che controllano i due porti alle estremità del Canale. Così, nel giro di poco più di un mese dal suo insediamento, Trump l’ha strappato alla Cina, riportandolo sotto il controllo degli USA, proprio come aveva promesso (cosa di cui, fra parentesi, dovremmo tutti rallegrarci, perché la Cina, anche se ci ostiniamo a dimenticarcene, è retta da una feroce dittatura che ambisce a dominarci tutti).

Anche con la Groenlandia Trump seguirà una strada simile, che già in parte si intravede. Di sicuro non se la prenderà con la forza, ma cercherà con minacce e promesse di rafforzare la posizione degli indipendentisti, per poi proporre un trattato di alleanza, di cui una Groenlandia indipendente avrebbe bisogno come il pane. Infatti, un paese grande oltre un quinto degli USA ma con poco più di 50.000 abitanti non può certo fare da solo, né per sfruttare le proprie immense risorse naturali, né per difendersi dagli appetiti di altre potenze, che, diversamente dagli USA, le armi potrebbero usarle davvero.

Anche i dazi, almeno fin qui, sono stati usati da Trump essenzialmente come strumento di pressione. Per esempio, li ha minacciati per indurre la riluttante Colombia a riprendersi i clandestini: in due giorni la Colombia ha ceduto e Trump non ha messo i dazi. Ora vedremo cosa succederà con gli altri paesi, tra cui l’Italia, ma anche qui sembra che ci siano ampi margini di trattativa (alcuni sono già stati sospesi, in attesa, appunto, di trattare), anche se gli anti-Trump nostrani già da mesi stanno parlando come se i dazi fossero già in vigore e le nostre economie stessero colando a picco.

Il problema di questa strategia è che, se l’interlocutore non si lascia intimidire, il bluff viene scoperto e la minaccia si rivela inattuabile. E non c’è niente di peggio che minacciare a vuoto.

Ora, questo è esattamente ciò che rischia di accadere con la guerra in Ucraina.

Che cosa è veramente successo finora?

Secondo la narrazione corrente, le trattative di pace si sarebbero fin qui svolte come segue:

  • Trump ha iniziato a trattare direttamente con Putin (in realtà ha incontrato solo alcuni suoi tirapiedi, che, come sappiamo, non contano nulla), fino al punto di avere già deciso, nel giro di pochi giorni, non solo il nuovo assetto dell’Ucraina, ma addirittura quello del mondo intero, escludendo dai negoziati non solo il povero Zelensky, proprio come aveva annunciato (in realtà non l’ha mai fatto), ma tutti gli altri paesi, come se contasse solo quello che dicono lui e Putin (benché, ripeto, nemmeno si siano ancora parlati).
  • Durante le trattative Trump ha affermato che anche l’Ucraina dovrà fare delle concessioni, il che è stato subito bollato come un’inaccettabile prevaricazione, perché incompatibile con una pace giusta. Ora, ciò è senz’altro vero: e proprio per questo io sono contrario a trattare con Putin. Ma se invece uno vuole trattare, allora fargli delle concessioni è inevitabile, se no che trattativa è? Inoltre, Trump qualche settimana prima aveva detto anche a Putin che avrebbe dovuto fare delle concessioni, aggiungendo che, se non avesse accettato, avrebbe «scatenato l’inferno» contro di lui (e questo subito dopo aver lanciato lo stesso ammonimento ad Hamas, il che dava alla frase un tono assai minaccioso, perché contro Hamas Trump intende davvero scatenare l’inferno).
  • Quando Zelensky ha protestato per non essere stato invitato a Riad, Trump l’ha pesantemente insultato, dandogli del «dittatore», accusandolo di «avere iniziato la guerra» e dicendogli che «non serve che partecipi alle trattative di pace». Questo è vero ed è vergognoso, ma è anche vero che Trump si è rimangiato tutto nel giro di una settimana, invitando il “dittatore” Zelensky alla Casa Bianca.
  • Trump avrebbe quindi imposto a Zelensky il famoso accordo sui 500 miliardi di dollari in terre rare, che sarebbe un atto “colonialistico” e una “mercificazione” dei rapporti tra le nazioni (che in realtà sono sempre stati basati essenzialmente su accordi commerciali, anche se i nostri raffinati intellettuali sembrano ignorarlo). È vero che inizialmente l’accordo era inaccettabile, perché Trump voleva i minerali gratis, come “restituzione” dei soldi presuntamente “prestati” dagli USA all’Ucraina sotto forma di aiuti militari e umanitari, che oltretutto erano molti meno. Ma, come ormai dovremmo aver capito, quella era solo la “sparata” iniziale, che in una sola settimana si era già trasformata in un assai più ragionevole accordo di partnership, che oltretutto aiuterebbe a garantire la sicurezza dell’Ucraina molto più di qualsiasi generica dichiarazione di principio. Infatti, nel momento in cui in tutto il paese ci fossero imprese americane impegnate nell’estrazione di minerali di alto valore strategico, gli USA non potrebbero certo tollerare una nuova invasione russa.
  • Quindi Zelensky è andato alla Casa Bianca per firmare l’accordo (incontrando così Trump prima di Putin, anche se nessuno l’ha sottolineato), ma Trump gli avrebbe teso una trappola, in modo da avere il pretesto per cacciarlo via e poi minacciare la sospensione degli aiuti militari (benché non si capisca a che scopo e, soprattutto, perché mai avrebbe dovuto farlo prima di firmare l’accordo sulle terre rare, a cui teneva tanto).
  • A questo punto, il “povero” Zelensky, resosi improvvisamente conto che ciò lo avrebbe condotto “inevitabilmente” alla sconfitta (come se prima non ci avesse mai pensato), non avrebbe ormai altra scelta che “sottomettersi” a Trump e accettare le condizioni che “inevitabilmente” questi gli imporrà e che saranno “inevitabilmente” favorevoli al suo “amico” Putin.

Come si vede, il filo conduttore di questa stralunata narrazione è da una parte la (del tutto immaginaria) onnipotenza di Trump e dall’altra la (altrettanto immaginaria) impotenza di Zelensky, descritto come un poveretto in balia degli eventi, incapace non solo di resistere alle pressioni trumpiane, ma anche solo di capire cosa gli sta succedendo intorno. Mentre, come vado ripetendo da sempre, è invece l’unico vero leader che abbia oggi l’Occidente, non solo molto coraggioso, ma anche molto intelligente e molto furbo (che non è la stessa cosa e non necessariamente va insieme all’intelligenza).

La cosa più paradossale è che questa narrazione è condivisa, benché per opposte ragioni, sia dai filo-Trump che dagli anti-Trump: i primi perché pensano che sia la verità, i secondi perché questa narrazione serve a rendere credibile la tesi della “mostruosità” di Trump (infatti, un super-cattivo senza super-poteri fa ridere). A volte sembra addirittura che, almeno inconsciamente, gli anti-Trump desiderino l’umiliazione di Zelensky e la sconfitta dell’Ucraina, solo per il gusto di dimostrare che Trump è davvero il mostro che dicono. Ma la realtà è ben diversa.

Anche se l’unico che sembra essersene reso conto è il “solito” Federico Rampini (uno degli ormai pochissimi commentatori che non presume di aver capito la realtà ancor prima di guardarla), se nell’incontro alla Casa Bianca qualcuno ha teso una trappola a qualcun’altro, questi è stato Zelensky, che ha sfruttato la straordinaria ribalta che il Presidente americano (piuttosto ingenuamente) gli ha offerto per metterlo all’angolo e lasciarlo con in mano il classico cerino acceso.

Cosa avrebbe dovuto infatti fare Trump, che si presentava come mediatore tra due parti in conflitto, dopo che il leader di una delle due parti suddette, Zelensky, gli aveva detto in faccia, in diretta televisiva mondiale dal cuore del suo impero, che il leader dell’altra parte, Putin, è un killer psicopatico di cui non ci si può assolutamente fidare e che loro due insieme devono fermarlo?

E badate che questo, come ha fatto notare appunto Rampini a Porta a porta del 4 marzo (chi non ci crede si riveda il video), è accaduto prima che iniziassero gli attacchi contro di lui (a meno che, con sovrano sprezzo del ridicolo, non si voglia ritenere un “attacco” anche l’ironia sulla sua tuta mimetica, che, se le cose fossero andate bene, sarebbe stata subito classificata come una simpatica battuta per rompere il ghiaccio). La realtà dei fatti è che è stato Zelensky ad attaccare per primo. Così come è evidente che la sua non è stata una reazione istintiva decisa sul momento, ma un’azione premeditata, altrimenti non si sarebbe portato dietro le foto che documentavano le violenze dei russi in Ucraina. Ed è anche facile capirne il motivo.

Come abbiamo detto, infatti, il modo di trattare di Trump si basa in gran parte sulla convinzione che l’avversario non avrà il coraggio di andare a “vedere” i suoi bluff. Ora, Zelensky, diversamente dai nostri raffinati intellettuali, lo sa perfettamente. Di conseguenza, sapeva anche che prima di mettersi a collaborare doveva dimostrargli di non aver paura di lui e, anzi, di essere anch’egli in grado di metterlo in imbarazzo davanti al mondo intero (di nuovo Tit for tat).

A quel punto, infatti, Trump si è trovato in una classica situazione lose-lose, in cui qualsiasi mossa facesse era perdente. Da una parte, a meno di rinunciare, all’istante e per sempre, al suo ruolo di mediatore, non aveva altra scelta che buttare fuori Zelensky. Facendolo, però, avrebbe fatto la figura del “cattivo” davanti a tutto il mondo (come infatti è puntualmente accaduto). Così Trump ha cercato di minimizzare i danni, comportandosi in modo tutto sommato tollerabile, non solo per i suoi standard, ma perfino per quelli dei normali esseri umani.

Capisco che in un continente in cui siamo abituati a pensare che un’insufficienza a scuola possa causare un grave trauma psichico i commentatori si siano sentiti «inorriditi» e «sconvolti» da ciò che hanno visto, ma non è questo ciò che è realmente accaduto. Dire a uno «non sei in una buona posizione», «non puoi dirci cosa dobbiamo fare», «stai giocando col fuoco», «non vuoi davvero la pace», per poi congedarlo bruscamente, ma aggiungendo «torna quando sarai pronto» è lontano anni luce dagli attacchi pesantissimi che Trump gli aveva rivolto solo una settimana prima. Eppure, stavolta Zelensky gliela aveva combinata ben più grossa!

Anche le successive minacce di sospensione degli aiuti militari finora sono rimaste allo stato di annunci, confusi e perfino contraddittori. L’unica misura concreta è stata la sospensione della collaborazione da parte della CIA, che ha certamente messo in difficoltà gli ucraini, ma, nonostante le vanterie di Elon Musk (peraltro anch’esse subito rimangiate), perfino disattivare la rete satellitare di Starlink non sarebbe certo come premere l’interruttore e vedere la luce che si spegne. Trump stesso ha riconosciuto che «l’Ucraina ha ancora scorte di armi e munizioni sufficienti per sei mesi». E sei mesi possono essere un tempo molto lungo, per uno che ha promesso di mettere fine alla guerra con una telefonata.

Inoltre, grazie al suo show alla Casa Bianca, nel giro di pochi giorni Zelensky ha ricompattato intorno a sé il suo popolo e ha ricevuto dall’Europa un sostegno fortissimo, come non s’era mai più visto dopo i primi mesi di guerra. Addirittura, potrebbe essere riuscito ad innescare quel processo di creazione di una difesa comune europea (di cui si parla da decenni senza farne mai nulla) che costituirebbe il vero atto di nascita dell’Europa come entità politica unitaria.

Non è ancor detto che si andrà davvero in questa direzione, ma, almeno rispetto all’aumento degli investimenti e della coordinazione europea in fatto di difesa, dopo il Consiglio Europeo del 6 marzo è ormai impossibile che si torni indietro. Così come è ormai impossibile che l’Europa non aumenti il suo sostegno all’Ucraina, soprattutto se Trump dovesse toglierglielo in forma definitiva.

Non dimentichiamo che gli “enormi” aiuti militari che finora abbiamo dato all’Ucraina ammontano in realtà ad appena 62 miliardi in 3 anni, di cui la maggior parte sono venuti dai paesi più piccoli, che, confinando con la Russia, si sono sentiti, diciamo così, più “motivati”. L’Italia, per esempio, ha dato appena l’1 per mille del suo PIL (2 miliardi in 3 anni, appena un quarto di quanto ci è costato il reddito di cittadinanza in un anno solo). E lo stesso hanno fatto Francia e Spagna. Invece, i tre paesi baltici, Lituania, Estonia e Lettonia, che messi insieme hanno un PIL che è appena un dodicesimo del nostro, hanno dato oltre il 2%, cioè 20 volte più di noi in percentuale e oltre un miliardo più di noi perfino in valore assoluto.

Ciò significa che si può sicuramente fare meglio da subito, anche se per arrivare a una vera difesa europea autonoma dagli USA ci vorranno anni. Inoltre, c’è un grande aiuto che possiamo dare agli ucraini in qualsiasi momento e senza spendere un centesimo: togliere finalmente le assurde limitazioni all’impiego delle nostre armi, che li costringono a combattere con una mano legata, in nome del demenziale concetto di “armi solo difensive” (copyright dello stralunato ministro Crosetto), che semplicemente non esistono. E ciò significa che, anche senza gli aiuti americani, la guerra andrebbe avanti ancora per molto, molto tempo.

Non arriverò a dire che la minaccia di sospenderli sia soltanto un bluff, ma di sicuro le pallottole della pistola che Trump potrebbe gettare sulla bilancia sono assai spuntate. Certo, possono fare danni, ma difficilmente sarebbero letali e, peggio ancora, rischiano di rimbalzargli addosso. Cosa succederebbe, infatti, se gli ucraini (che sembrano averne tutte le intenzioni) decidessero di mandarlo al diavolo e di continuare a combattere a oltranza, anche senza ulteriori aiuti da parte dell’America? Davvero Trump potrebbe permettersi di stare a guardare? E davvero potrebbe permettersi di rompere irrimediabilmente con l’Europa, che, gira e volta, resta il suo unico possibile alleato nella futura guerra tecnologica e commerciale con la Cina, che è la sua vera ossessione?

E poi c’è la questione delle terre rare, che a Trump servono davvero, perché hanno un ruolo chiave per vincere la suddetta competizione globale con la Cina, ma hanno la brutta abitudine di abbondare soprattutto nei paesi nemici degli Stati Uniti. Se rompe con Zelensky, a chi le chiederà? Certo non alla Cina. Forse, allora, all’Afghanistan degli immaginari “talebani moderati”? O alla Russia dell’immaginario “amico” Putin? O a qualcuno dei disastrati paesi africani su cui proprio la Russia ha da tempo allungato le sue zampacce tramite una serie di colpi di Stato orchestrati dalla Wagner?

Sì, qualcosa c’è anche in alcuni paesi “amici”, soprattutto Svezia e Australia, ma, anche ammesso che continuino ad esser tali (cosa non scontata, se Trump continuerà a trattare tutti con questa arroganza), non è che saranno disposti a regalarglieli solo per “fare grande l’America” facendo piccoli sé stessi. L’Ucraina è di gran lunga la migliore opzione e infatti l’accordo sulle terre rare è l’unica cosa che Trump non ha mai messo in discussione. E per firmarlo, ovviamente, non può rompere con l’Ucraina, né permettere che Putin se la annetta, altrimenti quei giacimenti li vedrà solo con i satelliti di Elon Musk mentre vengono sfruttati dai russi.

Ma, se così è, allora cosa possiamo ragionevolmente aspettarci che accada nel prossimo futuro?

Che cosa succederà adesso?

A questo proposito non posso che ripetere ciò che avevo scritto il 5 novembre scorso, nell’articolo in cui avevo previsto l’elezione di Trump (con un errore di appena 2 millesimi, se mi si perdona l’immodestia: avevo infatti scritto che avrebbe preso tra il 50% e il 51%, ha chiuso con il 49,8%).

«Trump non è affatto amico di Putin, come molti sostengono: Trump è amico soltanto di Trump e inoltre è già stato Presidente per 4 anni e non mi risulta che gli abbia mai fatto particolari favori. Quello che lui pensa davvero è che Putin sia un “duro” con cui solo uno ancora più duro (come lui ritiene di essere) possa trattare con successo. Quindi ci proverà, ma quando si accorgerà che Putin non ha nessuna intenzione di ascoltarlo andrà su tutte le furie e per fargliela pagare potrebbe decidere di dare all’Ucraina un sostegno perfino maggiore di quello (peraltro tentennante e insufficiente) che le ha dato Biden e che verosimilmente le darebbe Kamala.

Il vero problema è quanto ci metterà Trump a rendersi conto che Putin lo sta prendendo in giro, perché nel frattempo potrebbero prodursi danni non più rimediabili. E qui veniamo alla mia seconda e più grave preoccupazione. Perché negli ultimi tempi anche Trump sembra aver cominciato a dare qualche segno di rincoglionimento, certo non al livello di Biden, ma tuttavia tale da non lasciare tranquilli, soprattutto considerando che ha già 78 anni e che, se vincesse, dovrebbe governare fino a 82» (https://www.fondazionehume.it/politica/lodio-al-di-la-del-linguaggio-e-davvero-trump-il-pericolo-maggiore-per-la-democrazia-americana/).

Ditemi voi se finora le cose non sono andate esattamente così.

Trump ha cominciato minacciando sia la Russia che l’Ucraina, anche se di misure concrete finora ne ha prese solo contro quest’ultima. Ma, come abbiamo appena visto, qualsiasi ragionamento logico porta alla stessa conclusione: la sospensione degli aiuti militari può essere usata da Trump solo come mezzo di pressione su Zelensky, per cui potrà anche essere messa in pratica per un po’ di tempo, ma non potrebbe mai diventare una misura permanente (infatti è già stata revocata).

D’altronde, nonostante i deliri sulla inesistente “nuova Yalta” di cui abbiamo detto, la realtà dei fatti è che la prima vera proposta è stata appena concordata fra Trump e Zelensky (che sono gli unici che finora si sono parlati) e da loro proposta a Putin. Che, prevedibilmente, la rigetterà o (che è lo stesso) ne condizionerà l’approvazione a una serie di diktat inaccettabili, come ha sempre fatto finora e come sempre farà anche in futuro, oppure fingerà di accettarla e poi la vilerà ad ogni occasione, cercando di dare la colpa agli ucraini. E proprio qui sta il problema.

Mi sembra infatti evidente, dai discorsi confusi e contraddittori degli ultimi giorni, che Trump non ha la minima idea di come convincere Putin a trattare. Peggio ancora, credo che finora non ci abbia nemmeno pensato, convinto com’era che il vero problema fosse “domare” Zelensky, che è probabilmente l’unica idea che Trump condivida con gli intellettuali europei.

Ricolfi ha scritto che ciò che ha impedito finora di fare la pace con Putin è aver trasformato la guerra in Ucraina in una questione etica (https://www.fondazionehume.it/politica/a-proposito-dellagguato-mediatico-a-zelensky-la-politica-come-spettacolo/). Se avesse ragione, allora l’approccio di Trump, completamente pragmatico e amorale, sarebbe quello ideale e dovrebbe avere successo. Ma, per una volta, temo invece che si sbagli.

Come ripeto fin dall’inizio di questa guerra, ciò che ha impedito, impedisce e sempre impedirà di fare la pace con Putin è una questione psichiatrica: lui è uno psicopatico e con gli psicopatici non si può trattare, perché ciò è contrario alla loro natura. Punto e basta.

Anche Trump, prima o poi, se ne accorgerà, vedendo che Putin continuerà ad approfittare (come già sta facendo) di ogni opportunità offertagli dalle trattative per rafforzare le sue posizioni, continuando nel contempo a respingere tutte le sue proposte (personalmente, non mi stupirei se si rifiutasse addirittura di incontrarlo). Il problema, come ho scritto, è quandose ne accorgerà.

E purtroppo potrebbe davvero accadere troppo tardi, perché anche l’ultima parte della mia previsione temo si sta avverando. Mi sembra infatti che Trump stia cominciando a dare alcuni chiari segni di rincoglionimento senile, il che, unito al suo immenso orgoglio, gli renderà molto difficile ammettere di aver fallito. Anche perché non potrebbe nemmeno scaricare la colpa su Zelensky e/o Putin, avendo sempre sostenuto di essere in grado di costringerli a fare la pace: perciò un eventuale fallimento, in qualsiasi modo si verificasse, agli occhi dei suoi elettori sarebbe comunque soltanto colpa sua.

Insomma, il vero rischio che stiamo correndo non è che Trump abbia qualche diabolico e inarrestabile piano per imporre una pace ingiusta in Ucraina, ma piuttosto che non abbia nessun piano (almeno nessun piano attuabile), eppure continui a comportarsi come se ce l’avesse.

A proposito dell’agguato mediatico a Zelensky – La politica come spettacolo

5 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Fra le accuse che più frequentemente, e più impietosamente, vengono rivolte ai leader europei, vi è quella di non aver mai preso un’iniziativa diplomatica per fare cessare la guerra fra Ucraina e Federazione Russa. Dal primo giorno della guerra, l’unica preoccupazione dell’Europa è stata di respingere l’invasione russa, ristabilendo la legalità internazionale (ossia i confini precedenti allo scoppio della guerra). Di qui l’assoluta latitanza della diplomazia: l’obiettivo di punire Putin ha sempre sovrastato quello di fermarlo.

Ora l’agguato teso da Trump a Zelensky, con il plateale litigio davanti alla stampa e alle tv, ha fatto ulteriormente precipitare le cose, mettendo fuori gioco ogni possibile diplomazia e ricerca di un ragionevole compromesso.

Ok, questo è successo, e si capisce perfettamente che tutti i maggiori editorialisti esternino il loro sgomento per questa rottura, per il cattivo gusto di Trump e Vance, per la violazione plateale delle regole minime dell’ospitalità, dell’educazione, del rispetto reciproco. Insomma, quella che è andata in onda nello Studio Ovale sarebbe una inaccettabile, orribile, disgustosa spettacolarizzazione della politica, che rompe – per la prima volta nella storia – convenzioni e preziose ipocrisie da tempo vigenti nei rapporti internazionali, tanto più quando coinvolgono questioni militari e strategiche. Non a caso le espressioni più usate per descrivere quel che è successo sono “senza precedenti” e “storico”. Come a dire: è inaudito, non era mai successo, è un punto di non ritorno.

In un certo senso è proprio così. Mentre leggevo questi commenti, però, in me è riaffiorato un ricordo. Il ricordo di quel che pensavo e provavo nei primi mesi della guerra. Ebbene, io ricordo che ero semplicemente sbalordito. E, non intendendomi di questioni di guerra, ho sempre pensato che fossi io a non capire.

Che cosa mi sbalordiva?

Mi sbalordiva, innanzitutto, che nel giro di pochi giorni un normale capo di stato fosse stato trasformato dalle autorità europee in una autentica star mediatica. Collegamenti in diretta con i parlamenti, ovazioni delle assemblee collegate, partecipazioni ad incontri che normalmente si svolgono a parte chiuse fra pochi potenti, persino un surreale dibattitto sulla necessità che Zelensky leggesse un messaggio al Festival di Sanremo. Tutto ciò mi sembrava folle, e incompatibile con l’eventuale aspirazione dell’Europa a svolgere un ruolo di mediazione e moderazione. Come era possibile, mi chiedevo, che la politica europea sulla guerra si formasse non nelle segrete stanze della diplomazia, ma attraverso eventi mediatici e spettacolari? Come avrebbero mai potuto, i parlamenti e i governi europei, dibattere serenamente e prendere decisioni ponderate, se tutto veniva discusso enfaticamente, in presenza di una parte in causa, e con toni da comizio?

Insomma, la prima cosa che voglio dire è che la spettacolarizzazione delle questioni internazionali l’abbiamo iniziata noi europei, non certo gli Stati Uniti di Trump.

Ma c’è anche una seconda cosa che mi ha sempre lasciato interdetto, anche qui non capendo se ci fosse qualcosa che mi sfuggiva. Come mai il tema della guerra è sempre stato affrontato, in Europa ma anche negli Stati Uniti di Biden, come un tema etico? Ovvero come un episodio dell’eterna lotta del Bene contro il Male? Come mai questa ossessiva, martellante e acritica retorica dell’aggressore e dell’aggredito? È vero che la eticizzazione del conflitto era il presupposto logico che rendeva possibile inscenare lo spettacolo della santificazione dell’eroe Zelensky, ma come non vedere che nel conflitto ucraino, come in innumerevoli altri conflitti condotti in nome del Bene, nessuna delle parti in conflitto era esente da responsabilità e colpe (nel caso di Zelensky,  per fare un solo esempio, il mancato rispetto degli accordi di Minsk)?

Sul conflitto ucraino, come su quello israeliano, si possono avere, ovviamente, le opinioni più diverse. Nessuno, fra noi comuni cittadini, è adeguatamente informato, e alla fine a guidarci sono l’istinto politico e le nostre passioni. Ma, tornando all’Europa, quel che mi resta incomprensibile è come l’Europa possa dolersi di non avere un ruolo al tavolo della pace, avendo sempre e senza esitazioni parteggiato per una delle parti in campo, e avendolo fatto nel modo più plateale e spettacolare possibile. Se vuoi fare l’arbitro, non puoi giocare tutta la partita con una delle due squadre in campo. Quello che a noi europei appare solo come un tradimento (il brusco voltafaccia di Trump) è anche un modo di indossare la maglietta dell’arbitro. Una maglietta che, se tre anni fa non avessimo sconsideratamente inaugurato la politica-spettacolo con la star Zelensky, oggi potremmo provare a indossare noi stessi.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 marzo]

Chi ha paura di Kennedy Ministro della Salute?

21 Febbraio 2025 - di Alberto Contri

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Per capire cosa sta succedendo in Italia e nel mondo, occorre occuparsi di tecnica della comunicazione, il che non sarebbe affare dei cittadini, che della comunicazione sono destinatari. Solo impegnandosi nel dare un’occhiata dietro le quinte si vengono finalmente a scoprire trame troppo frettolosamente archiviate come argomenti da complottisti. Quando oramai si dimostra sempre più vero l’aforisma secondo il quale il complottista è uno che spesso ci ha visto giusto prima degli altri. Lo aveva detto persino Andreotti: “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”.

Per non stare alle illazioni, conviene partire da un dato reale, e poi impegnarsi nell’esercizio di unire i puntini, come si fa nel famoso giochino della Settimana Enigmistica.

Dopo la vittoria elettorale di Donald Trump e il suo insediamento, nel Parlamento americano ha cominciato a scatenarsi un terremoto creato da nomine che fino a poco tempo fa erano considerate solo una minaccia.

Dopo Tulsi Gabbard insediata al vertice della CIA, giovedì il Senato Americano ha approvato definitivamente la nomina di Robert Kennedy Jr. come Segretario Generale della Salute. Ebbene, nei TG e nei cosiddetti grandi quotidiani italiani, nemmeno una virgola né un secondo sono stati impiegati sul tema.

Perché questa macroscopica omertà? È più che probabile che si tratti di paura per un vento americano che si è messo a soffiare in senso totalmente inverso a quello in cui aveva soffiato per anni.

Ovviamente anche e soprattutto il vento della scienza.

Solo pochi giorni fa il Corriere della Sera aveva pubblicato a pagina 17 un trafiletto nel quale si accennava al fatto che persino la CIA considerava probabile l’origine artificiale del virus Covid19. Di fatto nascondendo la notizia, dopo che per almeno due anni erano state spese paginate nel convincerci che si trattava di normale zoonosi, e che il Premio Nobel Montaigner era un pericoloso rimbecillito, nonostante avesse subito capito che la zoonosi non era possibile a causa dell’inserimento di quattro sequenze di DNA non presenti in natura in quel modo.

Così, noti virologi e grandi firme nostrane si sono egualmente affannati nel descrivere Bob Kennedy come un altrettanto pericoloso no-vax (anche se i figli li ha vaccinati…).

Adesso la paura di essere sbugiardati si sta facendo palpabile, e comincia a incombere il terrore di perdere la reputazione.

I motivi sono molti: si sanno già i nomi di chi andrà ai vertici delle istituzioni regolatorie americane, come NIH, CDC, FDA: si tratta di autorevoli accademici stigmatizzati e perseguitati dalla cerchia di Fauci per i loro dubbi critici sula gestione della pandemia e sulle gravi scorrettezze scientifiche commesse nella frettolosa approvazione di terapie sperimentali vendute come vaccini.

L’intenzione di Bob Kennedy è di ricostruire un corretto rapporto tra l’industria farmaceutica e i cittadini/pazienti, motivo per cui ha subito cominciato istituendo una Commissione che dovrà far luce sui rapporti tra riviste scientifiche, case farmaceutiche e media in generale. Su questo tema, un caso di scuola è costituito dalla demonizzazione dell’Ivermectina, un farmaco antiparassitario, molto usato anche in veterinaria. Appena alcuni medici sostennero di averne scoperto interessanti doti antivirali, fu pubblicato su Lancet un lavoro che stroncava tale ipotesi, ripreso a man bassa e a lungo da tutti i mass media. Qualche mese dopo l’articolo fu ritirato – ma in gran silenzio – in quanto si era scoperto che il lavoro era basato su dati scorretti. Ma i mass media continuarono come se nulla fosse con l’opera di demonizzazione, nonostante sempre nuove doti del farmaco venissero scoperte. Qual era il problema? che il farmaco potesse rivelarsi molto utile…ma costando pochissimo.

A questo proposito, grazie all’opera di Elon Musk , che non ha perso un secondo nel suo lavoro di scovare sprechi e abusi della pubblica amministrazione, è venuto a galla lo scandalo dell’Agenzia USAID. Si è scoperto che oltre a finanziare ovunque centinaia di ONG e di progetti Diversity&Inclusion molto cari ai democratici, si finanziavano nel mondo mass media, social media e fact-checkers perché si sostenesse la narrazione di chi stava al comando, scienza medica e climatica incluse. Qualche mese fa, chi era tenuto all’oscuro di cosa stava per succedere (grazie a sondaggi rivelatisi fasulli ma largamente diffusi) rimase molto stupito della lettera aperta in cui Marc Zuckerberg si scusava per aver fatto seguire a Meta gli ordini impartiti dal Governo Biden su cosa pubblicare e su cosa censurare.

Si scopre così che molti milioni di dollari dei contribuenti americani sono stati spesi per sostenere lo story-telling filo-woke e LGBTQ+ dei democratici, finanziando e condizionando anche l’industria dell’informazione e dell’intrattenimento.

Circola su X (Musk viene quotidianamente attaccato proprio per questa attività di trasparenza) la fotocopia di un contratto tra la DARPA e l’agenzia di informazioni Reuters per il finanziamento di un progetto dal titolo “Inganno sociale su larga scala 2018-2022”. E l’utente Massimo Montanari si domanda: “Avrà avuto a che fare con il Covid? Quindi l’avevano già programmato?”. Non può non colpire il fatto che, sicuri di agire nella totale impunità, intitolassero i documenti con il loro vero nome.

Domanda complottista quella di Montanari, figuriamoci, ma con più di una ragione.

Anche perché, dopo nemmeno due giorni si viene a sapere che Ursula von der Leyen ha fatto spendere 132 milioni di Euro della EU per ottenere buona stampa in vista delle elezioni 2024.

Davvero curioso che Elon Musk venga accusato di ingerenza nelle elezioni tedesche per aver intervistato su X e a spese sue la leader di AFD, mentre di fronte al rifiuto della Presidente della Commissione di rivelare i destinatari dei finanziamenti da lei pilotati, nessuna grande o piccola firma abbia scritto nulla.

Grazie a chi si è incaricato di chiedere la pubblicazione obbligatoria di questi atti, prima o poi avremo la misura di quanto sono effettivamente liberi i media sedicenti democratici. Che per ora si rifugiano nell’omertà, sicuramente perché il vento in arrivo dagli Stati Uniti diventerà ben presto una tempesta sulla testa di virostar, ministri, uomini di governo, membri delle istituzioni, che o sono stati ingannati o hanno accettato di farsi ingannare. Tertium non datur.

Sul discorso di Vance – Tradimento dei valori occidentali?

19 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Sulla condotta della guerra in Ucraina da parte dell’Europa e degli Stati Uniti si possono avere le idee più disparate. Non è palesemente irragionevole la posizione di quanti paventano il pericolo che la Russia voglia annettersi altre porzioni dell’Europa, e dunque pensano che abbia fatto bene la Nato a fornire aiuto alla “resistenza” ucraina. Ma non è neppure palesemente irragionevole la posizione diquanti fanno notare che la precedente espansione a est della Nato, con l’obiettivo di includere l’Ucraina nel blocco occidentale. sia stata una mossa quantomeno azzardata.

Quello che invece, personalmente, ritengo sia stato irragionevole (e anti-democratico) è la chiusura a riccio che l’informazione main stream ha adottato dallo scoppio della guerra, silenziando quasi tutte le voci esplicitamente critiche. Sulla guerra, come pochi anni prima sul Covid, i grandi media hanno scelto di tappare la bocca alle voci dissenzienti con la linea ufficiale (vaccini + armi), costrette a rifugiarsi su testate minori o siti eterodossi, con conseguente perdita di ogni possibilità di incidere sul discorso pubblico articolando punti di vista alternativi o sollevando utilissimi dubbi.

È anche a causa di questa lunga stagione di conformismo e autocensura collettiva che l’Europa si trova oggi completamente spiazzata, quasi incredula di fronte al fatto che le cose non sono andate come aveva sperato, e come fino all’ultimo si è ostinata a credere che stessero andando. Eppure non ci voleva molto ad accorgersi che la guerra di Putin era solo il secondo tempo della guerra del Donbass, o che l’espansione della Nato ai confini della Russia poteva essere percepita come una minaccia, o che le sanzioni facevano più male a noi che alla Russia, o che la controffensiva ucraina era fallita da tempo. E non occorreva essere raffinati strateghi per capire che, trattando Zelensky come una star mediatica e un eroe (ricordate i parlamenti europei collegati e
plaudenti nei primi mesi di guerra?) e Putin come nient’altro che un criminale di guerra, diventava automaticamente impossibile ritagliarsi quel ruolo di mediatori e facilitatori di un compromesso da cui ora si viene brutalmente estromessi dall’attivismo del neo-eletto presidente degli Stati Uniti.

Alla luce di queste riflessioni, non vedo nulla di strano, o di sorprendente, nei toni e nella sostanza dei discorsi di Donald Trump e di James David Vance (suo vice) quando tendono a escludere l’Europa dalla trattativa con la Russia, stante il fatto che l’Europa stessa è rigidamente schierata dalla parte di uno dei due contendenti, non ha fatto tentativi credibili di fermare la guerra, e per di più è militarmente debolissima, se non irrilevante. Dove invece il discorso tenuto nei giorni scorsi da Vance mi appare paradossale, anzi spudorato, è quando accusa l’Europa di avere tradito i valori occidentali, e in particolare la difesa della libertà di parola, il principio del free speech. Ora, è vero che Vance ammette le responsabilità del suo Paese, ma il punto è che le scarica tutte sull’amministrazione Biden (2021-2024) e sul suo ricorso alla censura con il pretesto della lotta alla disinformazione e ai discorsi d’odio. Non si può sorvolare sul fatto che proprio negli Stati Uniti è nato il politicamente corretto, è negli Stati Uniti che, intorno al 2012-2013 (ben prima dell’era Biden), è avvenuta la sua mutazione in “follemente corretto”, è dagli Stati Uniti che l’Europa ha importato quel morbo. E l’aspetto più grave del fenomeno, i licenziamenti dei professori e l’intimidazione degli studenti non allineati al credo woke, non è certo venuto meno durante il primo mandato di Trump (2017-2020), che ne ha anzi visto una recrudescenza, sotto i colpi del MeToo e del movimento Black Lives Matter, esploso dopo l’uccisione di George Floyd.

Resta il fatto, comunque, che il discorso di Vance – al di là della grande questione del modo di terminare la guerra in Ucraina – ha posto sul tappeto un tema vero: quali siano, oggi, i “valori condivisi” dell’occidente, ammesso che ne esistano. Non solo il free speech, su cui è difficile dargli torto, ma anche la democrazia stessa, messa in forse – secondo Vance – dall’annullamento delle elezioni in Romania, ma anche dal mancato rispetto della volontà popolare in materia di politiche migratorie. E, aggiungerei io, dal mancato rispetto della medesima volontà popolare in America, ai tempi dell’assalto dei trumpiani a Capitol Hill.

Ma questo, evidentemente, Vance non poteva dirlo.

[articolo uscito sulla Ragione il 18 febbraio]

A proposito del caso Almasri – Ipocrisia?

3 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Credo siano in pochissimi a sapere quel che davvero è successo nelle convulse giornate che hanno portato prima all’arresto, poi alla scarcerazione, infine al rimpatrio su un aereo di Stato italiano, del capo della polizia giudiziaria libica. In compenso siamo in tantissimi ad esserci fatte alcune domande fondamentali: perché il governo ha scelto di rimpatriare Almasri anziché arrestarlo? Perché Giorgia Meloni non ha detto a chiare lettere quello che quasi tutti credono di sapere, e cioè che la vera ragione del frettoloso rimpatrio di Almasri è stato il timore di ritorsioni del governo libico, pronto a scagliare verso il nostro paese orde di richiedenti asilo? E infine: perché Giorgia Meloni non ha fatto come Trump, che non ha esitato a sbandierare ai quattro venti la durezza delle proprie misure contro i migranti illegali? Perché tanta ipocrisia nella vicenda del torturatore libico?

Come cittadino, sono sconcertato come tutti. Ma, come sociologo, non lo sono per niente. Viste con la lente della mia disciplina, le vicende del caso Almasri sono perfettamente comprensibili. Uno dei cardini della sociologia, posto da Max Weber fin dal 1919 nel saggio La politica come professione, è la distinzione fra etica della convinzione, o dei principi (tipica di missionari e predicatori), e etica della responsabilità (che secondo Weber dovrebbe guidare i politici). Agisce secondo l’etica della convinzione chi opera secondo principi ritenuti giusti, senza curarsi delle conseguenze pratiche che ne possono derivare. Agisce secondo l’etica della responsabilità chi valuta le proprie azioni non solo in base a principi etici o morali, ma anche in base alle loro conseguenze. Ad esempio: un cultore dell’etica della convinzione in nessun caso potrebbe sottoporre a sevizie e torture un altro essere umano, ma che fare se torturare un terrorista è l’unico modo per evitare la morte di migliaia di innocenti minacciati da un ordigno a orologeria che solo lui può disinnescare?

Ebbene, alla luce della distinzione weberiana, è chiaro che Giorgia Meloni si è mossa secondo l’etica della responsabilità, mettendo sui due piatti della bilancia sia la palese ingiustizia di lasciare libero un criminale, sia la (meno palese) ingiustizia di esporre i cittadini italiani alle conseguenze di vari tipi di possibili ritorsioni (ripresa degli sbarchi, sequestri di cittadini italiani in Libia, per non parlare degli interessi dell’ENI in quel paese). Nell’ottica di Weber, stupefacente e discutibile sarebbe stato che il governo avesse agito secondo l’etica della convinzione, anziché secondo quella della responsabilità. Se le cose stanno così, a maggior ragione sembrerebbero porsi gli altri interrogativi: perché non proclamare le proprie ragioni davanti ai cittadini? Perché non adottare una postura trumpiana? Perché tanta reticenza e ipocrisia?

Anche qui la sociologia ha molto da dire, benché non sia stata certo la prima a farlo. Secondo Jon Elster, uno dei più grandi scienziati sociali del Novecento, l’ipocrisia praticata nella scena pubblica ha una fondamentale funzione di coesione sociale, di irrobustimento delle istituzioni, di rafforzamento di valori positivi condivisi. A suo modo, e paradossalmente, funziona come una “forza civilizzatrice”. Il cattivo che ipocritamente si finge buono, proprio attraverso quella finzione proclama il valore della bontà. È esattamente quello che, quattro secoli fa, aveva intuito François de La Rochefoucauld con il suo fulminante aforisma: “l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio tributa alla virtù”. Il vizioso che si finge virtuoso riconosce con ciò stesso il valore della virtù.

Ed eccoci al tema della mancata postura trumpiana. Perché adottare un profilo basso? Perché non maramaldeggiare assumendo atteggiamenti ostili nei confronti dei migranti detenuti in Libia?

L’interpretazione malevola è che il governo, come i governi precedenti, si vergogni degli accordi con la Libia ma in cuor suo (ammesso che un governo abbia un cuore) ne è ben felice, purché gli accordi funzionino. L’interpretazione del sociologo che ha recepito la lezione di Elster è che siamo in Europa, non in America. Il nostro orizzonte valoriale certo include la necessità di trovare una soluzione al problema della sicurezza e dei confini, ma include anche l’imperativo etico di rispettare i diritti dei richiedenti asilo. È per questo che, in Italia, nessuno – nemmeno la destra – si permette di fare la faccia feroce, come succede in America con Trump e in Germania con l’Afd di Alice Weidel. L’imbarazzo di Meloni è l’ammissione che, nell’affare Almasri, più che fare la cosa giusta il governo ha scelto il male minore, nonché l’implicito riconoscimento che i campi di detenzione in Libia sono un problema, e non da oggi (già nel 2018 ne diedero un resoconto illuminante Franco Viviano e Alessandra Ziniti in Non lasciamoli soli, Chiare Lettere).

Forse è questo il motivo per cui, nonostante la maggioranza degli italiani non approvi il comportamento del governo in questa vicenda, il consenso alla premier e al suo partito restano alti, se non in ulteriore ascesa. Segno che, almeno nei paesi mediterranei, tanto per l’opinione pubblica quanto per la classe di governo quello del rapporto con l’immigrazione resta un tragico dilemma, più che una crociata politica da intraprendere con la baldanza di chi si sente dalla parte della ragione.

[articolo uscito sul Messaggero il 2 febbraio 2025]

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