A proposito di un video di Trump – Follemente scorretto

Non ha attirato la dovuta attenzione, in Italia, il video (costruito con l’intelligenza artificiale) nel quale Trump, con una corona da re in testa e un respiratore in bocca, pilota un jet da combattimento e scarica tonnellate di liquami sui manifestanti. Il video è una provocatoria risposta al “no kings day”, ossia alle migliaia di manifestazioni contro la deriva autoritaria (espressione abusata, ma in questo caso ineccepibile) del presidente Usa. È come dire: voi dite che non volete essere governati da un re, e io non solo vi dico che sono il vostro re, ma vi mostro tutto il mio disprezzo ricoprendovi di escrementi.

Perché merita tutta la nostra attenzione quel video?

Fondamentalmente perché segna un salto di qualità nella degenerazione della lotta politica in America (e speriamo solo in America). Dopo circa un dodicennio (2012-2024) di follemente corretto, gli Stati Uniti si sono improvvisamente trovati di fronte al suo perfetto rovescio, il follemente scorretto di Trump. Due fenomeni collegati, per certi versi speculari, ma sottilmente distinti come possono esserlo l’esterno e l’interno di un guanto. La forma tipica del follemente corretto era il bullismo etico, ovvero il disprezzo per chi la pensava diversamente esercitato in virtù di una presunta superiorità morale delle proprie convinzioni. La forma tipica del follemente scorretto nella versione trumpiana è l’umiliazione dell’avversario in virtù di un effettivo (non presunto) eccesso di potere. Il follemente corretto proclamava: io sono migliore di te, perciò devi adeguarti. Il follemente scorretto proclama: tu non sei nessuno, io posso schiacciarti.

È possibile che il follemente scorretto sia anche una reazione estrema, al limite della paranoia, alla lunga scia di aberrazioni e prevaricazioni che, specie nei paesi di lingua inglese, la cultura woke ha inflitto a chiunque la pensasse diversamente. Ma temo che ci sia ben più di questo. Questo di più è la nostra incapacità, a sinistra come a destra, di prendere veramente congedo dal politicamente corretto e dalle sue degenerazioni.  La sinistra si tiene ben stretta al politicamente corretto perché questo le permette di mantenere in vita il “complesso dei migliori”, la destra – specie nelle sue frange estremiste – è perennemente tentata dal politicamente scorretto, quasi che l’alternativa al politicamente corretto potesse essere il suo rovescio.

Ma è un grave errore logico. Politicamente corretto e politicamente scorretto non sono opposti, ma due facce della medesima moneta. Il politicamente scorretto è il rovescio del politicamente corretto, non il suo contrario. Il contrario del politicamente corretto è il pluralismo, ovvero il riconoscimento che – fatti salvi il ripudio della violenza e il rispetto della legge – possono esservi valori al tempo stesso rispettabili e difficilmente compatibili, e che quindi nessuno può pretendere che i propri valori siano eticamente superiori a quelli dell’avversario politico. Una postura, questa, che la sinistra è strutturalmente incapace di assumere, convinta com’è di essere portatrice di valori universali e incontestabili, e che la destra – pur immune al complesso dei migliori – rischia di tradire ogniqualvolta l’istinto del politicamente scorretto secerne disprezzo, offesa, intimidazione.

Ecco perché la vicenda del video di Trump è inquietante. Fino a ieri si poteva sperare che il nuovo clima instaurato dall’avanzata delle destre nella maggior parte dei paesi occidentali si sarebbe limitato a raffreddare l’arroganza etica dei progressisti, ponendo un freno alle follie woke. L’improvvido video del volo di Trump sopra i manifestanti democratici fa temere anche un risveglio dei peggiori istinti nel mondo dei conservatori.

Una recente indagine di Mannheimer ha documentato una vera esplosione, nell’elettorato italiano, del consenso nei confronti del presidente degli Stati Uniti. C’è solo da sperare che tanto entusiasmo riguardi la sua determinazione nel porre fine agli eccidi di Gaza, piuttosto che la tentazione di inaugurare una stagione di disprezzo per gli avversari politici.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 ottobre 2025]




Pax trumpiana bis – Verso la pace… o la guerra?

Anche se gli spiragli sono minimi, è comprensibile che oggi tutti si sforzino di essere ottimisti. Meno comprensibile è che nessuno sembri rendersi conto che dietro l’angolo molto probabilmente non c’è la pace, ma un’intensificazione del conflitto, che potrebbe metterci davanti a scelte difficili già nel giro di poche settimane. Ma la colpa non è di Trump, bensì dell’atteggiamento a dir poco ambiguo dei leader europei (e di Biden), che hanno sempre detto di non voler fare concessioni alla Russia, ma non sono mai stati disposti a fare l’unica cosa che permetterebbe di raggiungere questo obiettivo: aiutare l’Ucraina a vincere la guerra. Se però, come tutto lascia credere, le trattative falliranno, il problema non potrà più essere evitato. Cosa farà allora Trump? Ma, soprattutto, cosa farà l’Europa?

Un accordo che non c’è

Ci sono articoli che scrivo sperando di aver ragione e altri che scrivo sperando di aver torto. Questo appartiene alla seconda categoria (ultimamente mi sta succedendo un po’ troppo spesso e non è un buon segno).

Lo scorso 18 marzo, a conclusione di un articolo sugli inizi a dir poco problematici delle trattative di pace sull’Ucraina condotte da Donald Trump, avevo scritto quanto segue: «Putin continuerà ad approfittare (come già sta facendo) di ogni opportunità offertagli dalle trattative per rafforzare le sue posizioni, continuando nel contempo a respingere tutte le sue proposte […]. Insomma, il vero rischio che stiamo correndo non è che Trump abbia qualche diabolico e inarrestabile piano per imporre una pace ingiusta in Ucraina, ma piuttosto che non abbia nessun piano (almeno nessun piano attuabile), eppure continui a comportarsi come se ce l’avesse» (https://www.fondazionehume.it/politica/pax-trumpiana-cosa-e-successo-davvero-e-cosa-succedera/).

Purtroppo, temo che questa sia ancora la migliore descrizione di ciò che sta accadendo. Siccome però cerco sempre di guardare la realtà prima di parlarne, non posso negare che ci siano alcuni segni che autorizzano a sperare in un miracolo. Su tutti, il fatto che Zelensky si sia dichiarato «molto soddisfatto» dell’incontro con Trump.

Ciò detto, le probabilità che la sua iniziativa possa avere successo restano bassissime. E anche la ragione è sempre la stessa: «Come ripeto fin dall’inizio di questa guerra, ciò che ha impedito, impedisce e sempre impedirà di fare la pace con Putin è una questione psichiatrica: lui è uno psicopatico e con gli psicopatici non si può trattare, perché ciò è contrario alla loro natura. Punto e basta» (vedi ancora l’articolo di cui sopra). E l’incontro di Anchorage l’ha confermato.

Trump, infatti, gli aveva dato esattamente ciò che voleva davvero quando aveva iniziato la guerra: non l’Ucraina, ma il rispetto. Quel rispetto che l’Occidente gli aveva tolto da un pezzo e che aveva trovato espressione emblematica il 25 marzo 2014 nella infelicissima uscita di Barack Obama (almeno in politica estera il peggior Presidente USA della storia, tant’è vero che tutte le crisi internazionali che oggi ci affliggono sono iniziate durante il suo mandato) secondo cui la Russia era ormai soltanto «una potenza regionale» e non più una delle due massime superpotenze del pianeta, che decideva i destini del mondo insieme agli USA.

È per avere di nuovo questo ruolo che Putin ha deciso di passare dalla nostalgia (mai sopita) per la gloriosa Unione Sovietica al tentativo di ricostruirla, come ha pure fatto scrivere esplicitamente nei libri di storia che ha imposto in tutte le scuole russe (e come la sua propaganda è riuscita a far riportare, in tono favorevole, anche in molti libri usati nelle scuole italiane, il che è molto inquietante: https://www.istitutogermani.org/wp-content/uploads/2025/05/Di-Pasquale-Kashchey-Narrazioni-strategiche-russe-nei-libri-di-testo-delle-scuole-secondarie-di-primo-grado-italiane-Paper-Maggio-2025-Istituto-Germani.pdf).

E di certo non è né un caso né un dettaglio che il suo tirapiedi Lavrov sia arrivato ad Anchorage indossando una maglietta con la scritta CCCP, cioè URSS in cirillico (a proposito, adesso come la mettiamo con l’immaginario Putin “fascista” inventato dal PD per non dover ammettere con i suoi membri e il suo elettorato, entrambi in gran parte ancora comunisti, che stava sostenendo la guerra contro un comunista, quale Putin sempre è stato e sempre sarà?).

Ora, proprio questo rispetto Trump gli aveva offerto, accogliendolo con tutti gli onori: una cosa di per sé disgustosa, ma che obiettivamente era l’unica strategia che poteva funzionare. Ma Putin, purtroppo, ha dimostrato ancora una volta di essere uno psicopatico incapace di dominare le proprie ossessioni. Infatti, nella conferenza stampa finale, dopo avere descritto per alcuni minuti l’antica amicizia (in realtà mai esistita) tra USA e URSS e il mondo meraviglioso che la sua nuova URSS avrebbe costruito insieme ai nuovi USA trumpiani, gli restava solo una cosa da fare per rendere quel sogno realtà: presentare al mondo una proposta di pace decente.

Invece, come un bambino capriccioso (o, appunto, uno psicopatico) che non sa rinunciare a nulla, neanche in cambio di qualcosa di meglio, di colpo, cambiando faccia e tono, come se fosse scattato in lui un interruttore, il dittatore russo ha cominciato a ripetere per l’ennesima volta la lezioncina sulla necessità di «rimuovere le cause profonde della guerra» e «ascoltare le ragioni della Russia» (cioè, tradotto dal putinese, ridurre l’Ucraina a Stato vassallo di Mosca). Dopodiché ha minacciato l’Europa, ha rifiutato il cessate il fuoco e ha continuato a bombardare l’Ucraina.

Che non ci fosse nessun accordo era così evidente che l’hanno riconosciuto perfino i nostri giornali (tranne i soliti mentitori seriali e filoputiniani del Fatto Quotidiano). Ma allora perché entrambi continuano a comportarsi come se ci fosse?

Una rischiosa partita a poker

Per quel che riguarda Putin la risposta è semplice: come ho già detto, finge di trattare per guadagnare tempo e per cercare di dare la colpa all’Ucraina e all’Europa quando farà fallire le trattative.

Quanto a Trump, stavolta credo che un piano ce l’abbia, ma resta da vedere se è attuabile e temo di no. La mia convinzione, infatti, è che “The Donald” abbia deciso di giocare una difficilissima e rischiosa partita a poker, in cui non ha realmente in mano tutte le carte che dice di avere. In particolare, non credo che Putin gli abbia mai detto che avrebbe accettato uno scambio di territori e ancor meno un contingente di pace europeo e/o americano, come lui invece sostiene.

Credo quindi che Trump stia bluffando, dicendo a Zelensky che Putin è disposto ad accettare queste condizioni, in modo da ottenere da lui la disponibilità a fare un certo numero di concessioni, con la speranza che, a fronte di esse, Putin si convinca ad accettare davvero le condizioni di cui sopra. È un gioco molto azzardato, ma con una sua logica e d’altronde dopo il pessimo risultato dell’incontro in Alaska non c’erano alternative. Tuttavia, le possibilità che abbia successo sono pochissime.

 

Lo scambio secondo Putin

Contrariamente a quanto continuano a dire esperti e mass media (Wikipedia inclusa, che su questo è piena di errori e omissioni), dopo la vittoriosa controffensiva ucraina del settembre 2022 non c’è mai stata un’avanzata russa altrettanto significativa.

Nel 2023 le posizioni sono rimaste sostanzialmente immutate e nel 2024 i russi hanno conquistato, allo spaventoso prezzo di oltre 100.000 uomini tra morti e feriti, appena 4000 chilometri quadrati (https://www.ilpost.it/2025/05/30/dati-soldati-russi-uccisi-ucraina/), equivalenti allo 0,6% del territorio ucraino: un po’ meno della provincia di Grosseto e molto meno di quello che gli ucraini avevano riconquistato nel 2022. Dato che il fronte è lungo quasi 1000 chilometri, ciò significa che i russi sono avanzati di 4 km in un anno, cioè di appena 10 metri al giorno. Di questo passo, per occupare tutto il Donbass ci metterebbero 5 anni, perdendo almeno mezzo milione di soldati.

È falsa anche l’altra affermazione, che tutti ripetono senza verificare (tanto ormai è un’abitudine generale…), che i russi controllino oltre il 20% del territorio ucraino. Questa percentuale corrisponde effettivamente alla somma degli Oblast di Crimea, Kherson, Zaporizia, Donetsk e Lugansk (gli ultimi due formano il famoso Donbass). Ma i russi non controllano completamente nessuno di essi, a parte la Crimea, che peraltro è il più piccolo di tutti. La percentuale vera, pertanto, è intorno al 17%, di cui quasi la metà (tutta la Crimea e una parte del Donbass) era stata occupata già nel 2014. Perciò i territori conquistati dai russi dall’inizio della guerra non superano il 10% del territorio ucraino e sono complessivamente inferiori a quelle in loro possesso prima della controffensiva del 2022.

La situazione sarebbe insoddisfacente per chiunque e a maggior ragione per uno come Putin, che è incapace di riconoscere i propri limiti. Per questo è altamente improbabile che sia disposto a cedere anche solo un centimetro quadrato dei territori che controlla: per lui “scambio” vuol dire che gli ucraini devono cedergli la parte del Donbass ancora in loro possesso senza avere in cambio niente.

Ma altrettanto improbabile è che un simile “scambio” possa essere accettato dagli ucraini. Anche perché, come ha ben spiegato al TG3 (purtroppo a notte fonda) Nona Mikhelidze, una delle poche voci sensate ascoltate in questi giorni, la parte del Donetsk rivendicata da Putin non è una zona qualsiasi, poiché lì ci sono le fortificazioni che proteggono tutto il nord dell’Ucraina. Accontentarlo, quindi, sarebbe un po’ come dare a un ladro le chiavi di casa nostra in cambio della promessa che non le userà per derubarci.

L’ipotesi di gran lunga più probabile, pertanto, è che Zelensky (che non è affatto il sempliciotto che credono i nostri spocchiosi intellettuali, ma è molto intelligente, oltre che molto coraggioso) si sia messo anche lui a bluffare, fingendo di essere disposto a discuterne perché è sicuro che Putin non accetterà mai l’altra condizione e così sarà lui a fare la parte del “cattivo” che ha rovesciato il tavolo.

Articolo Quinto: chi ha i soldati in campo ha vinto

Quando andavo a scuola c’era un modo di dire molto popolare tra gli studenti: “Articolo Quinto: chi ha i soldi in mano ha vinto”. Visto che si sta considerando di garantire la futura sicurezza dell’Ucraina con l’estensione ad essa della stessa tutela dell’Articolo Quinto della NATO, proposta da Giorgia Meloni, potremmo parafrasarlo così: “Articolo Quinto: chi ha i soldati in campo ha vinto”.

Infatti, il “tabù” di uno scontro diretto fra superpotenze nucleari fa sì che la prima che schiera i suoi uomini in un determinato territorio se lo aggiudica, perché l’altra non oserà mai attaccarli. Per questo, se si dovesse davvero fare un accordo del genere, oltre al trattato sulla carta sarebbe necessario avere anche gli uomini sul terreno, come del resto succede in tutti i paesi della NATO, dove ci sono sempre basi militari in cui sono presenti soldati dei paesi alleati, a cominciare dagli americani. Altrimenti, se Putin invadesse di nuovo l’Ucraina non credo proprio che avremmo il coraggio di sparare per primi contro i russi.

Ma, allo stesso modo, se lì ci fossero soldati europei (e, a maggior ragione, americani) ben difficilmente Putin avrebbe il coraggio di sparargli contro per primo. Proprio per questo, però, non ne vuol sapere, il che svuota di significato la sua (supposta) accettazione dell’estensione dell’Articolo Quinto. E sarà difficile fargli cambiare idea.

La peggior pace possibile

Non basta. Anche se, per miracolo, Trump dovesse avere successo, l’unico aspetto positivo sarebbe la fine del massacro. Da qualsiasi altro punto di vista, questa sarebbe la peggior pace possibile.

Infatti, come avevo scritto 3 anni fa, subito dopo la vittoriosa controffensiva ucraina di settembre, «anche nell’improbabile eventualità che Putin accettasse di negoziare […] non si avrebbe una vera pace, ma solo una tregua, che sarebbe ancor più pericolosa della guerra, perché gli darebbe modo di riorganizzarsi per poi ricominciare tutto come prima, anzi, peggio di prima. E che questa non sia solo una mia opinione lo dimostra il fatto che Putin ha già annunziato un enorme aumento delle spese militari, fino al 40% del bilancio dello Stato russo» (https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/).

E ciò vale a maggior ragione oggi, visto che nel frattempo Putin dagli annunci è passato ai fatti, trasformando l’economia russa in un’economia di guerra, dedicata quasi esclusivamente alla produzione di armi, anche a costo di affamare il suo popolo, di cui non gli è mai importato nulla.

La balla cosmica della guerra-che-non-si-può-vincere

Chiarito ciò, bisogna però aggiungere che se ci troviamo in questa pessima situazione la colpa non è di Trump, che è al potere da pochi mesi e che comunque almeno un tentativo di sistemare le cose lo sta facendo. La colpa è dell’atteggiamento a dir poco ambiguo dei leader europei (e di Biden), che hanno sempre detto che non si devono fare concessioni alla Russia, ma non sono mai stati disposti a fare l’unica cosa che permetterebbe di raggiungere questo obiettivo: aiutare l’Ucraina a vincere la guerra. In una trattativa, infatti, per definizione si devono fare delle concessioni e se hai un esercito nemico che occupa parte del tuo territorio è inevitabile che gliene dovrai concedere almeno una parte. Se non vuoi farlo, non devi trattare, ma buttarlo fuori a calci.

La contraddizione è così clamorosa che, se i nostri leader politici e intellettuali sono in buona fede, allora significa che sono una massa di stupidi. Temo però che siano invece una massa di ipocriti.

La giustificazione standard che di tale ingiustificabile comportamento viene in genere data è infatti l’insopportabile ritornello della “guerra-che-non-si-può-vincere”. Va perciò detto chiaro e tondo che questa è UNA BALLA COSMICA e che chi continua a ripeterla o non sa quello che dice o mente sapendo di mentire. E su questo le responsabilità di esperti e intellettuali vari, compresi molti miei colleghi docenti universitari, sono perfino più gravi di quelle dei politici.

A questi sapientoni bisognerebbe regalare un bel cartello, da appendere davanti alla propria scrivania, con su scritto “73Easting”. È il nome, poco affascinante ma non per questo meno importante, della più grande battaglia di carri armati della storia, combattuta il 26 e 27 febbraio 1991 durante la Guerra del Golfo, in cui gli Abrams americani affrontarono i vecchi T-72 iracheni di fabbricazione sovietica, gli stessi che stanno usando i russi in Ucraina. Numericamente le forze in campo erano all’incirca pari, ma gli iracheni persero 1350 carri armati, mentre gli americani appena 4.

La morale è semplice: nella guerra moderna la superiorità numerica non conta nulla, di fronte alla superiorità tecnologica. E questo si è visto chiaramente anche in Ucraina nell’unica occasione in cui le abbiamo fornito delle armi davvero avanzate: i micidiali missili Himars, che hanno permesso la spettacolare controffensiva dell’autunno 2022, in cui i russi furono ricacciati indietro di centinaia di chilometri in appena 4 giorni (https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/). Eppure, l’unico che ha avuto il coraggio di dirlo è stato l’ex-sindaco di Milano Gabriele Albertini (a 4 di sera news del 18 agosto; naturalmente, nessuno gli ha fatto caso).

Non volete credere a me? Ascoltate allora cosa ha scritto Federico Rampini nel suo ultimo libro Grazie, Occidente! (che parla anche di molte altre cose e che consiglio vivamente a tutti di leggere):

«L’Unione Europea aveva promesso un milione di munizioni di artiglieria. Prima che mantenesse l’impegno, con grave ritardo, la Corea del Nord aveva già fornito altrettante munizioni alla Russia. Che un piccolo paese sull’orlo della carestia come la Corea del Nord riesca a produrre più munizioni e più velocemente di un gigante ricco come l’Unione Europea dà l’idea dello stato di disarmo in cui il Vecchio Continente si trova. Perfino gli Stati Uniti hanno un’industria bellica sottodimensionata e un altro dato lo conferma: nella Russia di Putin le industrie fabbricano munizioni in quantità sette volte superiore alla produzione dell’intero Occidente. […] Noi occidentali non abbiamo cambiato quasi nulla delle nostre abitudini e priorità: stiamo facendo finta di appoggiare l’Ucraina, purché questo significhi zero sacrifici. […] Di fronte all’aggressione di Putin in Ucraina, il presidente americano [Biden] non ha mai “aizzato” gli ucraini, non li ha affatto usati in una “guerra per procura”. Prima ha proposto a Zelensky di fuggire in esilio. Poi ha proclamato urbi et orbi i due principi fondamentali che avrebbero guidato l’azione di Washington: “Mai scarponi americani sul terreno, mai un confronto diretto con la Russia”. Le armi all’Ucraina, quando arrivavano, erano sempre in ritardo, sempre in quantità e qualità inferiori rispetto alle necessità, a lungo vincolate da restrizioni pesanti» (pp. 145 e 185, corsivi miei).

Tuttavia, se all’inizio ciò poteva dipendere dal sottodimensionamento della nostra industria bellica giustamente denunciato da Rampini, dopo tre anni e mezzo questa motivazione non vale più. È certo molto più difficile creare da zero un nuovo vaccino che aumentare la produzione di armi già esistenti, eppure, la prima cosa l’abbiamo fatta (in poco più di un anno), mentre la seconda no (dopo oltre tre anni), il che evidentemente significa che non abbiamo voluto farla. E lo confermano le idiozie continuamente ripetute dai nostri leader sulle armi “solo difensive” (che semplicemente non esistono), poco nobile sport in cui si sono particolarmente distinti i nostri ministri Tajani e Crosetto.

Ma la prova più chiara che la guerra si poteva (e quindi si doveva) vincere già due anni fa è il fatto stesso che non sia ancora finita e che, dopo tre anni e mezzo, sia ancora in sostanziale equilibrio. È evidente che questo significa che sarebbe bastato un piccolo sforzo in più per far pendere la bilancia dalla parte dell’Ucraina. Perciò, di nuovo, se non l’abbiamo fatto, è perché non abbiamo voluto farlo.

Del resto, già due anni fa, in occasione del famoso scherzo dei due comici russi che si erano fatti passare per un politico africano, Giorgia Meloni aveva praticamente ammesso che i governi europei non puntavano alla vittoria, ma allo stallo e alla conseguente “pace per stanchezza”: una strategia tanto cinica quanto stupida, perché è da stupidi pensare che uno come Putin, che nella violenza ci sguazza da sempre come un pesce nell’acqua, possa stancarsi della guerra.

Morale della favola: contrariamente a quanto si continua a ripetere, non è il tempo che gioca a favore dei russi, ma il tempo perso dall’Occidente nell’armare adeguatamente gli ucraini. Eppure, tutti continuano a parlare della “situazione sul campo” come se fosse un fenomeno naturale che sfugge al loro controllo e non invece l’esito delle loro scelte miopi, che pertanto poteva (e potrebbe ancor oggi, benché con più difficoltà) essere ribaltata da scelte più lungimiranti.

La doppia ipocrisia della sinistra

Ciò però non giustifica affatto gli attacchi della sinistra, in particolare di quella italiana, che accusa l’odiato Trump di voler imporre una pace iniqua al “povero” Zelensky (questa falsa compassione è quasi peggiore degli attacchi aperti) e anzi quasi spera, cinicamente, che lo faccia davvero, pur di poter continuare ad attaccarlo. E ciò benché sia evidente già da un po’ che il suo atteggiamento è molto cambiato, anche grazie alla lezione che il “povero” Zelensky gli aveva dato nel precedente incontro del 28 febbraio alla Casa Bianca (https://www.fondazionehume.it/politica/pax-trumpiana-cosa-e-successo-davvero-e-cosa-succedera/). Al contrario: l’ipocrisia della sinistra è addirittura doppia.

In primo luogo, infatti, anch’essa, quando è stata al governo, ha condiviso l’atteggiamento ambiguo degli altri leader italiani ed europei verso l’Ucraina. Inoltre, da quando non sono più al governo, 5 Stelle e PD (in particolare da quando è guidato da Elly Schlein) ripetono ossessivamente ad ogni occasione che l’attuale governo è disposto a spendere solo “per le armi”, affermazione volutamente generica e che non viene mai precisata, perché altrimenti dovrebbero ammettere che le armi che contestano sono proprio quelle destinate all’Ucraina o comunque alla difesa in funzione anti-russa.

Se si dovesse decidere oggi sulle armi all’Ucraina, sia i 5 Stelle che il PD voterebbero certamente contro e a maggior ragione se si trattasse di armi più potenti, con funzione chiaramente offensiva. Eppure, ipocritamente (appunto), continuano a presentarsi come i suoi unici veri difensori.

Che farai, Europa?

Anche se gli spiragli sono minimi, è comprensibile che oggi tutti si sforzino di essere ottimisti. Meno comprensibile è che nessuno sembri rendersi conto che dietro l’angolo molto probabilmente non c’è la pace, ma il suo esatto opposto, cioè l’intensificazione del conflitto. E ciò potrebbe costringerci a prendere delle difficili decisioni al riguardo, non fra mesi o anni, ma già entro poche settimane.

Se infatti, come è assai probabile, alla fine Putin manderà tutto a monte, questa sarà la pietra tombale su ogni tentativo di soluzione diplomatica, cosicché tutti i comodi sotterfugi dietro i quali ci siamo fin qui nascosti non saranno più praticabili e resteranno soltanto due alternative: la vittoria o la resa.

Cosa farà Trump in tal caso? Con ogni probabilità andrà su tutte le furie e cercherà di punire severamente l’ex-amico, ma solo con sanzioni economiche, che non sono inutili come molti affermano, ma non sono decisive e comunque di certo non sul breve periodo. Difficilmente invece manderà armi all’Ucraina, perché il suo elettorato è fortemente contrario. Forse potrebbe farlo usando l’escamotage (già ventilato) di venderle anziché regalarle, ma anche così l’Ucraina non ce la farà mai a comprarne in quantità sufficiente senza un sostanziale aiuto dell’Europa.

Così in ogni caso ci troveremo di fronte a una drammatica decisione: o abbandonare l’Ucraina al suo destino o prenderci finalmente le nostre responsabilità e aiutarla a vincere.

L’ultima volta che l’Europa ha dovuto fare una scelta simile fu nel 1938, quando Adolf Hitler pretese il riconoscimento dell’annessione dell’Austria e di gran parte della Cecoslovacchia da parte della Germania nazista. I leader politici di allora lo accontentarono, sperando che si sarebbe fermato lì, nonostante il profetico avvertimento di Winston Churchill: «Dovevate scegliere fra il disonore e la guerra. Avete scelto il disonore e avrete anche la guerra».

Aveva ragione. Hitler non si fermò, invase la Polonia e scatenò la Seconda Guerra Mondiale.

Neanche Putin si fermerà, se gli daremo ciò che vuole. E potrebbe scatenare la Terza, per esempio attaccando i Paesi Baltici, che fanno parte della NATO. Perché gli psicopatici non si fermano mai da soli: devono essere fermati.

Avremo il coraggio di essere più saggi, se ci toccherà la stessa scelta?

Cominciamo a pensarci, perché è probabile che ci resti molto meno tempo di quel che ci piace credere.




A proposito delle ingerenze di Trump – Harvard e la libertà accademica

Antefatto. L’università di Harvard, una delle più prestigiose del mondo, è un ente privato che, per il proprio funzionamento, usufruisce di cospicui finanziamenti pubblici. Una settimana fa l’amministrazione Trump ha inviato ai vertici dell’università una lettera in cui ricorda che ricevere il finanziamento pubblico non è un diritto, e che d’ora in poi i fondi federali continueranno ad essere erogati solo a determinate condizioni. Alcune di tali condizioni sono sicuramente discutibili, ad esempio la richiesta di non ammettere studenti “ostili ai valori e alle istituzioni americane” (che cosa sono i valori americani?). Altre sono ragionevoli ma difficili da applicare, come la richiesta di combattere le discriminazioni contro gli studenti ebrei o israeliani, o evitare vessazioni anti-semite e programmi ideologizzati.

Ma le condizioni più interessanti sono quelle che appaiono decisamente ovvie o scontate. Due su tutte. Primo, Harvard dovrà abbandonare politiche di reclutamento che discriminano in base a “razza, colore della pelle, religione, sesso, origine nazionale”. Secondo, Harvard dovrà rinunciare alle politiche di ammissione (degli studenti) e di assunzione (dei docenti) che discriminano sulla base dell’orientamento politico-ideologico, e dovrà cercare di promuovere il pluralismo delle idee (viewpoint diversity).

E’ curioso che, anziché apprezzare gli intenti egualitari e anti-discriminazione delle raccomandazioni di Trump, la maggior parte dei media italiani abbia interpretato tali raccomandazioni come un attacco “senza precedenti” alla libertà accademica, un’intromissione indebita della politica nel mondo della cultura, una prepotenza rispetto a cui Harvard e le altre università minacciate da Trump avevano non solo il diritto ma il dovere di opporre “resistenza” (termine evocativo della lotta al nazi-fascismo).

Come mai questa reazione della maggior parte dei nostri media?

Credo che la risposta sia che pochi conoscono la vera storia delle università americane, e in particolare di quel che è capitato dal 2013 in poi, ossia da quando la cultura woke e l’ossessione per il politicamente corretto si sono saldamente installate nei campus e nelle redazioni dei giornali.

Difficile riassumere, nello spazio di un articolo, quel che è successo nel corso di un decennio, ma ci provo lo stesso elencando alcuni dei cambiamenti (o delle radicalizzazioni) che più hanno messo a soqquadro la vita universitaria.

Uno. I criteri di reclutamento di studenti e professori sono diventati sempre più politici e meno meritocratici, con l’adozione di politiche esplicitamente discriminatorie verso bianchi, maschi, eterosessuali, studenti conservatori o non impegnati.

Due. Sono stati aperti appositi sportelli (BRT, o Bias Response Teams) per permettere non solo la denuncia (sacrosanta) di abusi, violenze, intimidazioni, ma anche quella di qualsiasi violazione dei codici woke in materia di linguaggio o espressione delle proprie idee e sentimenti. Qualsiasi situazione fonte di disagio per qualcuno è stata ricodificata come micro-aggressione, con conseguente instaurazione di un clima di paura e di autocensura (chilling effect). Il numero delle prescrizioni e dei divieti del galateo woke è enormemente cresciuto, non solo nelle università ma più in generale nei media, nella vita sociale e nel mondo del lavoro.

Tre. Si sono diffuse e ampliate le pratiche volte a togliere la parola agli studiosi considerati politicamente scorretti o portatori di idee non gradite all’establishment progressista, con campagne di delegittimazione o boicottaggio, con pressioni a non concedere la parola a determinati relatori (deplatforming), con cancellazioni di inviti  (disinvitation), con azioni collettive volte a impedire materialmente di parlare a ospiti sgraditi per le loro opinioni.

Quattro. Si sono moltiplicati i tentativi (per lo più riusciti) di ottenere licenziamenti e sanzioni nei confronti di professori per le idee che avevano espresso. Greg Lukianoff, presidente della Fondazione FIRE, che si occupa di difendere i diritti individuali e la libertà di espressione, ne ha contati centinaia in pochi anni, e ha osservato – a partire dal 2015 – un ritmo di crescita superiore al 30% all’anno.

Tutto questo fin dai primi anni ’10, ben prima dell’inasprirsi della situazione con le proteste studentesche seguite all’intervento israeliano a Gaza.

Morale. Può darsi che l’intervento di Trump, alla fine, non riesca a ristabilire la libertà accademica, che per definizione richiede l’astensione della politica. Ma quel che è certo è che nel decennio precedente la libertà accademica era stata distrutta dall’attivismo woke, che aveva reso irrespirabile la vita nei campus. L’intervento di Trump, sicuramente ruvido e sgradevole nei modi, è stato dettato dalla necessità di ristabilire la libertà accademica, non certo di sopprimerla. La domanda quindi non è “riuscirà Harvard a resistere alle ingerenze di Trump?”, bensì: riuscirà Harvard a tornare un’università normale, in cui chiunque possa sentirsi libero di esprimere il suo pensiero, anche se contrasta con l’ortodossia woke?

[articolo uscito sul Messaggero il 20 aprile 2025]




A proposito di Trump – Follemente scorretto

Stupore. Sconcerto. Incredulità. Angoscia. Disperazione. Sono i sentimenti che, non senza buone ragioni, trasudano in questi giorni dalla maggior parte dei media di fronte ai gesti di prepotenza di Trump. Non mi riferisco tanto alla intenzione di annettere agli Stati Uniti la Groenlandia o il Canada. Né alla più volte reiterata minaccia di scatenare l’inferno a Gaza o sull’Iran. E neppure al non troppo celato avvertimento verso le Repubbliche Baltiche, cui si fa intendere che potrebbero essere abbandonate dalla Nato in caso di aggressione da parte della Russia.

No, quello cui mi riferisco è lo sconcerto per l’attacco alle politiche DEI (Diversity, Equity, Inclusion) in Europa, a ancor più per il drastico cambiamento di clima negli Stati Uniti, e in particolare nelle Università, dove sono in atto misure repressive nei confronti degli attivisti che, nei mesi scorsi, hanno partecipato alle manifestazioni pro-Palestina. In un articolo uscito su La Stampa, ad esempio, si riporta questo resoconto di Linda Laura Sabbadini, da sempre impegnata nelle battaglie femministe.

“Il clima che si vive è quello di un attacco globale ai diritti, a cominciare da quelli delle donne (…). Mi sembra che nel paese si stia sviluppando una forma di autocensura. Le persone hanno paura di dire quello che pensano. Tutti si sentono potenziali bersagli, a partire da chi si occupa di gender studies”. Di qui la considerazione finale: “Il clima dell’autocensura è tipico delle dittature. E io l’ho percepito tra i professori e nelle Ong. Sono spaventati per i loro finanziamenti. Tutto è in discussione”.

Questo resoconto mi ha molto colpito. E non perché parla di una evidente e ingiustificata limitazione della libertà di espressione, ma perché dice esattamente le stesse cose che, per almeno un decennio, hanno ripetuto quanti non erano allineati con la cultura woke. Professori sanzionati o licenziati per le loro opinioni conservatrici o tradizionaliste. Scrittori e intellettuali contestati, disinvitati, bersagliati per le loro opinioni sgradite alla cultura woke. Studenti restii a esprimersi in pubblico per timore di essere accusati di scorrettezza politica, micro-aggressioni, molestie. Femministe ostili all’utero in affitto o al self-id (autodeterminazione del genere) denigrate o messe a tacere per il loro mancato allineamento alla cultura dominante, o meglio alla cultura dell’élite progressista.

Insomma, la domanda è: ma dov’eravate, voi che denunciate la prepotenza di Trump, quando il clima di intimidazione, il chilling effect (l’auto-zittimento), si respirava ovunque, nei giornali, nei campus universitari, nelle istituzioni culturali, nel cinema, nell’arte, nelle Ong, nelle imprese più impegnate con le politiche DEI?

Quello che voglio dire, però, non è quello che forse qualcuno potrebbe pensare, e cioè che il trumpismo è il meritato contrappasso a un decennio di follie woke. No, quello che voglio dire è che cultura woke e restaurazione trumpiana sono le due facce della medesima moneta, e che quella moneta altro non è che l’incapacità delle istituzioni occidentali di assicurare una vera libertà di espressione.

Il contrario del follemente corretto che ci ha oppressi negli anni passati non è il follemente scorretto con cui Trump prova ad opprimerci ora. Le intimidazioni di cui si è macchiata la protesta progressista nei campus (ma anche nelle nostre università) non si neutralizzano con le intimidazioni di segno opposto cui assistiamo oggi. Il vero contrario del follemente corretto è la capacità di ascoltare l’altro anche quando – anzi soprattutto quando – la pensa in modo completamente diverso da noi. Il trumpismo è la negazione della tolleranza e della libertà di pensiero. Proprio come ciò che l’ha preceduto.

[articolo inviato uscito sulla Ragione il 1° aprile 2025]




La caduta degli DEI

Ci sono parecchi equivoci nelle polemiche degli ultimi giorni sulle misure adottate da Trump conto le politiche DEI, acronimo che sta per Diversity, Equity, Inclusion. In estrema sintesi, per politiche DEI si intendono un vasto insieme di misure di sensibilizzazione, controllo e reclutamento con cui, da parecchi decenni (ma con particolare veemenza dal 2012), aziende e organizzazioni hanno cercato di tutelare, proteggere o privilegiare varie minoranze definite per lo più su base sessuale, razziale, etnica, nonché altre varie caratteristiche (disabilità, orientamento sessuale, ruoli di genere). L’effetto più tangibile della politiche DEI è stata la modificazione dei criteri di reclutamento e assunzione nelle imprese, nella pubblica amministrazione e nelle università, con la parziale sostituzione del criterio del merito (capacità di svolgere bene il compito per cui si viene reclutati) con criteri estrinseci, come il colore della pelle e il sesso biologico. Di qui la frustrazione, talora il risentimento, delle categorie penalizzate, cui non sempre era chiaro perché – ad esempio – una ragazza bianca di oggi dovesse essere penalizzata per le colpe, vere o presunte, dei suoi antenati colonialisti e/o padroni di schiavi. È il caso di aggiungere che, nella storia americana, la pressione a praticare politiche DEI ha rappresentato un completo capovolgimento del sogno di Martin Luther King, che aspirava a una società color blind (cieca al colore, o “daltonica”) in cui finalmente i suoi figli potessero essere giudicati non per il colore della pelle ma per il tipo di persone che erano. Viste con gli occhi dei loro critici, le politiche DEI – recentemente messe in discussione – altro non erano che forme di “discriminazione alla rovescia”, oltreché violazioni del principio della responsabilità individuale, che vieta di far cadere sul singolo colpe del suo gruppo, o peggio dei suoi antenati.

Ed eccoci al primo equivoco: quello che a noi europei spesso appare come un attacco ai valori occidentali di inclusione, per l’amministrazione Trump è semmai una affermazione del principio occidentalissimo di equità, che vieta di valutare le persone per le loro caratteristiche ascritte (di nascita) o non pertinenti (orientamento sessuale ecc.). Insomma: il confronto non è fra difesa (europea) dei valori occidentali e attacco (americano) ai medesimi valori, ma semmai è fra due diverse – e incompatibili – interpretazioni dei valori occidentali, dove Trump sta con Luther King, mentre Macron – indignato per l’attacco USA alle politiche DEI – sta con la cultura woke.

Ma c’è anche un secondo equivoco. Dalle cronache di questi giorni sembrerebbe che lo smantellamento delle politiche woke sia il nefasto effetto dell’autoritarismo trumpiano. In parte è vero, ma non dobbiamo dimenticare che sia negli Stati Uniti sia nel Regno Unito il processo era iniziato ben prima della vittoria di Trump. Sono centinaia le grandi imprese e organizzazioni che, specie negli ultimi 4-5 anni, hanno fatto retromarcia rispetto alle politiche DEI, anche se per ragioni non sempre simili. Nel Regno Unito la retromarcia è stata favorita dagli eccessi delle lobby LGBT+ e da scandali come quello che ha coinvolto la clinica Tavistock, un tantino leggera nelle autorizzazioni alle transizioni di genere di ragazzi e ragazze. Negli Stati Uniti, invece, decisive sono state le prosaiche leggi dell’economia. Dopo anni di infatuazione per le politiche DEI, grandissime aziende come Jack Daniels, Harley-Davidson, Tesla, Microsoft, Google si sono rese conto degli inconvenienti a esse associati: i costi elevati degli staff DEI, l’inefficienza delle politiche del personale (non poter scegliere i migliori per una data mansione ha un ovvio costo economico), la ribellione di una parte degli utenti e dei dipendenti. Anche qui Trump non c’entra molto: se nel primo mandato non aveva fatto quasi nulla, e ora pare scatenato, è perché allora l’onda woke era fortissima e invincibile (anche grazie agli scandali sessuali che, fra il 2016 e il 2017, innescarono il MeToo), mentre oggi al neo-presidente è bastato fare surf sull’onda di una ribellione anti-woke in corso da alcuni anni.

E non è tutto, a proposito di equivoci. Noi europei troviamo scandaloso che l’amministrazione americana discrimini le aziende europee che ancora adottano politiche woke. Anche a me non piace, ma per ragioni diverse da quelle invocate da Macron (la presunta ingerenza negli affari interni di un paese). Quel che trovo pericoloso (e alla lunga controproducente) è, in generale, il fatto che gli acquirenti di un bene o servizio anziché scegliere in base alle sue qualità intrinseche, lo valutino in base a fattori esterni, di tipo morale, etico, politico o ideologico. All’amministrazione americana non dovrebbe interessare nulla il fatto che l’azienda che fornisce i pasti al personale dell’ambasciata a Parigi sia più o meno impegnata nelle politiche DEI. Un tramezzino è un tramezzino è un tramezzino, direbbe Gertude Stein. E invece no: ora pare diventato importante se l’azienda ha o non ha una determinata politica del personale. E, orrore degli orrori, per l’amministrazione Trump conta che l’azienda non abbia una politica inclusiva, basata sui principi DEI.

E qui incontriamo l’ultimo equivoco. Che sta in questo: non ci rendiamo conto che quel che fa Trump è solo una variante di quel che, da molti decenni, fanno le imprese e i consumatori occidentali, ossia includere la virtù nel calcolo economico. Le imprese hanno capito, già molti decenni fa, che la reputazione di un marchio è fondamentale, e può essere migliorata con politiche di pura immagine, molto meno costose di quanto lo sarebbero modificazioni effettive del prodotto o miglioramenti delle condizioni di lavoro dei dipendenti. Ma i consumatori non sono stati da meno: quanta gente compra un prodotto anche perché è pubblicizzato come green, eco- sostenibile, agganciato a qualche pandoro benefico? Quanti consumatori smettono di comprare determinati beni o servizi perché detestano chi li produce? Oggi tocca a Fratoianni e consorte dismettere la loro Tesla in odio a Trump, ma quante volte abbiamo assistito a campagne di boicottaggio contro i prodotti israeliani, o contro le aziende di Berlusconi, a partire dalla campagna Bo.Bi (Boicotta il Biscione, 1993)?

La realtà è che, ormai da tempo, viviamo in un mondo in cui anche il mercato è drogato dall’ideologia. Un mercato che noi stessi abbiamo contributo a drogare. E in cui Trump sguazza benissimo.

[articolo uscito sul Messaggero il 31 marzo 2025]