Il volto inquietante dei servizi sociali – Bimbi nel bosco

Credo siano pochi a non aver avuto notizia della vicenda dei “bambini nel bosco”: tre ragazzini (da 6 a 8 anni) separati dai genitori e accompagnati con la forza (da assistenti sociali e carabinieri) in una casa-famiglia. E credo pure che siano pochi, fra quanti hanno avuto notizia della vicenda, che non si siano fatti un’opinione, magari poco informata sui fatti, riguardo all’opportunità o meno di questa separazione.

Per mettere subito le carte in tavola, ammetto che la mia simpatia va alla famiglia nel bosco, non ai servizi sociali, ma sono pronto a ricredermi se emergessero fatti nuovi, finora sconosciuti o ignorati. Qui quello di cui vorrei parlare sono alcune questioni di principio che si pongono comunque, a prescindere dalla vicenda particolare.

L’ordinanza cautelare non è fondata sul pericolo di lesione del diritto dei minori all’istruzione, ma sul “pericolo di lesione del diritto alla vita di relazione”, lesione potenzialmente portatrice di “gravi conseguenze psichiche ed educative a carico del minore”. Tale diritto “alla vita di relazione” si fonderebbe nientemeno che sull’articolo 2 della Costituzione. E allora leggiamolo, questo articolo 2:

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Come si vede non c’è alcun riferimento alla vita di relazione, ma si fa genericamente riferimento al fatto che i diritti inviolabili dell’uomo vanno garantiti anche “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.

Prima questione. Può un giudice, da questa formulazione ultra-generica, dedurre che la vita di relazione dei tre bambini, che si svolge in famiglia e presso le famiglie limitrofe (purché non avvezze a dare un cellulare ai loro figli), è gravemente limitata? Se un giudice può permettersi una simile interpretazione ultra-estensiva e decisamente soggettiva, allora dovremmo dedurne che un altro giudice, sempre sulla base del medesimo articolo 2 della Costituzione, potrebbe imporre a chiunque di prestare attività di volontariato o servizio sociale, in ossequio ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Insomma: non è un po’ eccessiva la libertà che i giudici si sono presi?

Seconda questione. Ammettiamo per un momento che un’educazione dei figli fondata sul rapporto con la natura e sull’evitamento dei pericoli della vita scolastica e sociale (bullismo, dipendenza, droghe, violenza) possa effettivamente produrre in futuro “gravi conseguenze psichiche ed educative”. Resterebbe da rispondere a due domande:

  • i pericoli (generici) ventilati dagli assistenti sociali sono più gravi dei pericoli da eccesso di socializzazione, da cui l’educazione naturale li protegge?
  • siamo sicuri che il trauma certo che la separazione forzata dai genitori e l’allontanamento dalla casa nel bosco producono sia meno grave dei traumi (ipotetici) evocati dagli assistenti sociali?

Non è finita. Nell’ordinanza si afferma pure che “l’assenza di agibilità e pertanto di sicurezza statica, anche sotto il profilo del rischio sismico e della prevenzione di incendi, degli impianti elettrico, idrico e termico e delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità dell’abitazione, comporta la presunzione ex lege dell’esistenza del pericolo di pregiudizio per l’integrità e l’incolumità fisica dei minori”. Non occorre andare nei campi Rom (come suggerisce Salvini), ma basta fare un giro per gli alloggi popolari delle maggiori città italiane per constatare che esattamente i medesimi rilevi, e talora pure qualche rilievo in più, si applicano a decine di migliaia di famiglie, delle cui condizioni abitative né i Comuni né i servizi sociali sembrano preoccuparsi più di tanto. E dire che molte situazioni di grave degrado e di pericolo per i minori sono arcinote e si vedono a occhio nudo.

Di qui una terza questione. In un paese in cui i magistrati amano trincerarsi dietro l’obbligatorietà dell’azione penale, e i media forniscono quotidianamente innumerevoli notizie di reato sul degrado delle periferie, come mai tanta solerzia verso i diritti di tre  “bambini nel bosco”, desocializzati ma felici, e completo disinteresse per i bambini delle periferie urbane, ultra-socializzati ma non di rado costretti a vivere in abitazioni fatiscenti?

Infine, forse la questione più importante: da dove viene tanta arroganza dei servizi sociali, da dove viene la presunzione che lo Stato abbia non solo il diritto ma il dovere di intromettersi nelle scelte educative dei genitori?

Anziché forzare il senso dell’articolo 2 della Costituzione, forse i magistrati avrebbero dovuto rispettare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948), che all’articolo 26, comma 3, recita: “I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”.

[articolo uscito sulla la Ragione il 25 novembre 2025]




Franchismo senza pregiudizi

Vistodagenova

 

Obiettivo e illuminante l’articolo di Marcello Veneziani, Francisco Franco male necessario (‘La Verità’ 20 novembre u.s.), in cui si contesta, tra l’altro, che il franchismo sia una species del genus fascismo e se ne ricordano i tratti dittatoriali e repressivi, sì, ma incompatibili con un regime totalitario.” La Falange di José Antonio, simbolo del fascismo spagnolo, scrive Veneziani, nacque per realizzare una rivoluzione ulteriore al socialismo stesso, che partendo dal socialismo e dal sindacalismo si volgesse poi in chiave nazionale e spirituale”. Il suo nemico era “l’ordine conservatore, affamatore di masse enormi e tollerante verso le dorate oziosità di pochi”. Non a caso il Caudillo liquidò la Falange pur onorando la memoria del fondatore. Ritengo sbagliato, però il titolo dell’articolo di Veneziani: Franco non fu un ‘male necessario’ ma il ‘minor male’ e, a differenza di quanto scriveva il compianto Piero Ostellino–in polemica con Sergio Romano—non condivido affatto l’idea che ”quando si comincia a distinguere fra dittature cattive e meno cattive non si sa dove si va a finire”. Nella storia, infatti, si affrontano assai spesso il male maggiore col male minore e il prevalere del secondo sul primo può salvare i popoli dalle catastrofi, anche se pagando, per anni, un prezzo altissimo, sul piano dei valori alla base della ‘società aperta’ Franco fu uno dei fattori determinanti della sconfitta dell’Asse: negando a Hitler il passaggio della Wehrmacht in Spagna per cogliere alle spalle la Rocca di Gibilterra, consentì al poderoso esercito statunitense di dilagare in tutto il Mediterraneo. Un liberalismo che non faccia i conti con la realtà diventa pura ideologia e definire le posizioni di Romano, allergico alla retorica antifranchista, ”una brutta pagina nella storia culturale dell’Italia” non fa onore al suo critico. Certo a nessun liberale piace vivere sotto una dittatura. Un irriducibile oppositore di Allende, Arturo Valenzuela, quando Pinochet fece il suo golpe in Cile, riparò in California dove scrisse Il crollo della democrazia in Cile, un classico della scienza politica contemporanea, (Ed. Biblioteca della Libertà,1977) ma pressoché ignorato in un paese come il nostro, che ancora oggi venera la memoria di Salvador Allende, un emulo sfortunato di Fidel Castro.

 

Professore emerito di Storia delle dottrine politiche Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

 

[Articolo pubblicato su Il giornale del Piemonte e della Liguria il 25 novembre 2025]




Quel che non funziona a sinistra

  1. Professore, la sinistra italiana si è innamorata del nuovo sindaco di New York, Mamdani. Si cercano nuovi campioni da cui « ripartire » ?

Può darsi, l’ha già fatto Prodi con Clinton (ricordate l’Ulivo mondiale?), Veltroni con Obama (“Yes, we can”), Renzi con Tony Blair e la Terza via (ispirata dal sociologo Anthony Giddens). C’è una differenza cruciale, però, fra ieri e oggi: nessuno degli aspiranti leader del campo largo ha un prestigio comparabile a quello che – ciascuno nella sua epoca – avevano Prodi-Veltroni­-Renzi.

  1. Al fondo, c’è la mancanza di una identità definita ? Il Pd sembra non aver ancora deciso che cosa diventare… Che cosa è andato storto, in quel progetto ?

 

Su questo le diagnosi si sprecano, mi sembra superfluo farne un elenco. Io però ne aggiungerei una di cui non si parla mai: il Pd è nato all’insegna dell’inclusione, ma la sua pratica politica è sempre stata altamente escludente, e quindi incapace di attirare nella propria orbita nuovi strati sociali, come sarebbe stato imprescindibile per una forza che proclama di avere una “vocazione maggioritaria”.

  1. In che senso la pratica del Pd è stata escludente?

Nonostante i buoni propositi di Veltroni, il Pd non si è mai liberato del complesso di superiorità morale che da sempre affligge la sinistra. Ma come puoi pensare che gli altri si decidano a votarti se li tratti come eticamente inferiori, rozzi, barbari, disumani?

Io denunciai questa deriva esattamente 20 anni fa nel mio libro Perché siamo antipatici? (sottotitolo: La sinistra e il complesso dei migliori), ma devo constatare che – a dispetto degli sforzi di Veltroni – le cose da allora sono ulteriormente peggiorate, specie dopo il 2019 e la crisi degli sbarchi. Da quel momento in poi, anche per responsabilità della “sinistra culturale” di Saviano-Scurati-Murgia eccetera, il conflitto politico è stato via via eticizzato – noi i buoni, loro i cattivi – con il risultato di allontanare dalla sinistra gran parte degli elettori incerti, moderati o contendibili.

  1. Romano Prodi non sa più come dirlo. Lo ha scritto due volte in dieci giorni: Schlein è inadeguata, non può sfidare Giorgia Meloni per la premiership. Ha ragione ?

Ma certo che ha ragione, anche perché l’economia esiste: l’idea che a gestirla sia una persona che mostra di non conoscerla e non capirla è terrificante.

  1. E i riformisti ? La minoranza dem avrebbe, sulla carta, praterie elettorali. Poi però non riesce ad esprimersi, non esprime leadership.

Il riformismo non è un ideale politico forte, un ideale che ti fa sognare. Per il gruppo dirigente attuale del Pd è addirittura una colpa, un marchio di infamia. E il Jobs Act è il peccato originale, la colpa da lavare nel sangue. La Schlein ha vinto le primarie presentandosi come Cristo Redentore, sceso nel Pd per purificare la sinistra dalla macchia con cui Renzi, novello Adamo (o Eva ?), ne aveva sporcato l’immacolato candore.

  1. Se si facessero le primarie per il leader della coalizione su cui puntare come premier, vincerebbe Schlein, Conte o un terzo incomodo, per esempio Landini?

Landini verrebbe immediatamente liquidato dall’establishment politico-economico-mediatico non tanto per il suo estremismo, bensì per la sua evidente impreparazione.

Fra Schlein e Conte penso vincerebbe Conte, perché ha due assi nella manica importanti.

  1. Quali?

Primo: è già stato presidente del Consiglio e ha dimostrato di saper fare quel mestiere (personalmente non ne ho apprezzato le scelte, ma riconosco il physique du rôle, che non intravedo nella movimentista Elly Schlein).

Secondo: ha capito che, se continua a ignorare i temi della sicurezza e dell’immigrazione, la sinistra non può vincere le elezioni.

Detto per inciso, a sospingere Conte e i Cinque Stelle in questa direzione sono due donne: Sahra Wagenknect, ospite d’onore “rossobruna” alla costituente Nova di un anno fa, e Chiara Appendino, che ha appena rilasciato un’intervista-bomba su “sinistra e sicurezza”.

  1. C’è chi punta, un po’ alla cieca, sulla giovane sindaca di Genova, Ilaria Salis. La sua forza sta nell’essere ancora poco conosciuta?

Sì, se sei nuova, giovane, di bell’aspetto, non zavorrata dagli (inevitabili) errori di una carriera politica precedente, hai un indubbio vantaggio. Ma il fattore fondamentale a me pare un altro: il grigiore di tutti i suoi rivali riformisti.

  1. Al centro intanto qualche novità c’è. Il movimento Più Uno di Ruffini, i Liberaldemocratici di Marattin sono velleitari o possono trovare uno spazio, nelle more delle necessarie riforme elettorali?

Sono velleitari. Se non altro perché a occupare quello spazio c’è già Azione di Carlo Calenda.

10. Su Gaza c’è stata una campagna violenta, sfociata nell’antisemitismo, che in troppi hanno cavalcato a sinistra. Sembra che la tregua sia andata di traverso a molti che scommettevano sulla guerra…

Sì, però era una scommessa utile solo agli imprenditori del rancore anti-sistema e anti-occidentale. Per la sinistra ufficiale, che aspira a tornare al governo, il perdurare di quelle manifestazioni violente e anti-semite sarebbe stato un disastro.

11. La sinistra ha bisogno di un nemico, per vincere? Non riuscendo a dare soluzioni costruttive, indica la sua posizione tramite antinomie. Prima c’era Berlusconi. Ora con Meloni si è fatta più dura. Servono nemici internazionali, icone, totem diversi?

Sì, la sinistra ha sempre bisogno di un nemico. Ma non per vincere, bensì per consolidare la propria identità. Una identità che, ormai, non si fonda su un progetto economico-sociale per l’Italia, bensì sulla proterva convinzione di rappresentare « la parte migliore del paese », quella che sta « dalla parte giusta della storia ».

12. Alle prossime elezioni secondo lei vedremo candidati a sinistra, Sigfrido Ranucci, Francesca Albanese o Maurizio Landini ? Il prerequisito delle star a sinistra sembra quello di non aver mai fatto alcuna politica nei partiti.

Certo, le star devono essere pure e immacolate, non compromesse con le brutture della politica. Solo che poi, a un certo punto vicino ai 60 anni, arriva l’età della pensione, e la politica – che regala pensioni d’oro – diventa improvvisamente e miracolosamente utile. E addio purezza.

13. Quanti anni ancora, secondo lei, governerà Giorgia Meloni in questo contesto?

Sei e mezzo (se non si stufa prima).

(Intervista rilasciata al Riformista, pubblicata il 18-11-2025)




A destra e a sinistra mezze verità sul fascismo

 Ha fatto bene Antonio Polito ,nell’editoriale del ‘Corriere della Sera’ dell’11 novembre u.s.,–Quei giudizi da respingere ,a criticare il generale Roberto Vannacci, che, nei suoi giudizi storici sul fascismo, ”presenta come buone, legali, ammissibili anche le peggiori malefatte del fascismo|…| Il tentativo di renderlo accettabile, di rivalutarlo agli occhi non solo dei nostalgici ma, quel che è peggio, dei giovani d’oggi è una colpa grave che il governo della Repubblica italiana non può consentire”. Non so cosa comporti per la Repubblica  il dovere di non consentire—che fa venire in mente la pedagogia giacobina di Stato—ma, certo, Polito ha ragione nel far rilevare l’insopportabile ipocrisia del generale quando non chiama le cose con il loro nome e afferma “che tutte le principali leggi, dalla riforma elettorale del 1923 alle norme del partito unico, fino alle stesse leggi del 1938, furono promulgate dal Re secondo le procedure”. La monarchia, infatti, perse il referendum proprio perché aveva assecondato l’instaurazione della dittatura, le infami leggi razziali, l’alleanza con il peggior regime totalitario del XX secolo, quello nazista.

 E, tuttavia ,nell’articolo di Polito c’è qualcosa che non torna. Quando rivendica al ‘Corriere’ il merito, sulla scia di Renzo De Felice, di “una rilettura del Ventennio finalmente libera dagli stereotipi dell’antifascismo di maniera”, forse dimentica che è stato proprio un corrierista doc, come Aldo Cazzullo, a riproporre quegli stereotipi nel 2022 con il libro Mussolini il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo. Inoltre, lo stesso Polito definisce i fascisti che marciarono su Roma: ”uomini in armi, che nei due anni precedenti avevano dato vita a un’ondata di violenze senza precedenti, saccheggi e incendi, pestaggi e omicidi, e che proseguirono una volta preso il potere, con il culmine dell’assassinio di Giacomo Matteotti”. Se il fascismo fu solo questo e si ignorano la guerra civile che devastò per un biennio il paese, il vasto consenso che tanta parte della società civile diede alle camicie nere e si liquidano le realizzazioni del regime con frasi come “Mussolini ha fatto anche cose buone, E ci mancherebbe in vent’anni di potere assoluto!”(ma in quarant’anni di’ potere assoluto’ cosa ha fatto il comunista albanese Enver Hoxha?),è difficile liberarsi di ’revisionisti’ come Vannacci che dicono l’altra “mezza verità e non tutta la verità”.

 

[articolo uscito su  Il giornale del Piemonte e della Liguria il 18 novembre 2025]

 

Dino Cofrancesco

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche Università degli Studi di Genova

dino@dinocofrancesco.it




Prodi superstar?

In tempo di vacche magre per la sinistra italiana, torna di moda il fattore-Prodi, l’unico leader (leggendario) che è stato in grado di vincere le elezioni contro il centro-destra e, in particolare, “il solo capace di sconfiggere Berlusconi per ben due volte”. Così è passato alla storia, come racconta buon ultimo anche Pierferdinando Casini nel suo libro recentemente pubblicato, il ricordo di quanto è avvenuto nel ventennio berlusconiano.

Che continua: “ci è riuscito per via di un suo carisma personale che gli ha permesso di intercettare e convincere una parte dell’elettorato moderato a considerarlo un’alternativa credibile”.

La leggenda rimane tale, ovviamente, perché il risultato è di fatto quello che viene citato. Nessun dubbio su questo. Ma ciò che viene sottaciuto è forse ancora più importante per comprendere fino in fondo le ragioni che hanno permesso questa duplice vittoria. Ragioni che non vanno certo a detrimento della persona di Romano Prodi, ma ci permettono di far luce sulle condizioni che hanno consentito di vincere e che, probabilmente, avrebbero funzionato anche con qualsiasi altro personaggio “credibile” al suo posto.

Detto in altre parole: l’elemento-chiave della vittoria non è stato tanto la presenza di Prodi, quanto piuttosto la particolare configurazione della competizione elettorale. È importante ribadirlo, in un momento di evidente problematicità per le opposizioni e per la sinistra in particolare, perché sottolinea la cronica difficoltà di quest’area politica di diventare maggioranza nel nostro paese.

Ma poi, furono davvero reali vittorie?

Nella prima occasione, quella del 1996, il centro-destra si era presentato privo di quell’alleato che sarebbe divenuto storico nel corso degli anni, cioè la Lega (allora solo Nord) che in quella sola occasione aveva optato per la corsa solitaria, dopo gli screzi tra Bossi e Berlusconi (definito da Bossi stesso in quegli anni “il mafioso di Arcore”). Prodi – investito della leadership della coalizione progressista – si presentò a quelle elezioni come capofila di un maxi-partito in cui erano presenti i popolari, i repubblicani, Unione Democratica e perfino i sudtirolesi; il suo risultato non fu certo eclatante: ottenne infatti soltanto un misero 6% di voti, una quota piuttosto minoritaria di quel 35% dell’intera coalizione dell’Ulivo.

D’altra parte, occorre evidenziare il fatto che nel voto per i partiti, nella parte proporzionale, furono quelli di centro-destra ad ottenere il maggior consenso – senza la Lega, come ho sottolineato – battendo quelli dell’Ulivo di circa otto punti percentuali. Soltanto sommando anche Rifondazione Comunista, che si era presentata separatamente peraltro, si arrivava ad un sostanziale pareggio.

Insomma, il primo esecutivo dell’Ulivo sarebbe restato in piedi soltanto con l’appoggio esterno di Bertinotti, il quale però, dopo molte ripetute minacce quasi giornaliere, quell’appoggio lo tolse, provocando le dimissioni dello stesso Prodi, dopo solo due anni di governo.

 

 

La seconda “vittoria” di Prodi avvenne nel 2006, dopo cinque anni di governo Berlusconi che avevano provocato il costante deterioramento della fiducia in lui da parte degli italiani: a gennaio 2006 l’apprezzamento nei confronti del leader di Forza Italia era dell’ordine del 20% circa, il più basso indice di gradimento nei suoi confronti nella sua intera storia elettorale e il più basso tra tutti i Presidenti del Consiglio uscenti in tutta la Seconda Repubblica.

E fu in questa condizione, di enorme vantaggio competitivo, che Prodi si presentò all’elezione come leader dell’Unione, in cui erano confluiti praticamente tutti i partiti che non stavano con Berlusconi, dal centro fino all’estrema sinistra, da Mastella a Bertinotti, dai pensionati fino alla lista dei consumatori.

Nonostante questa lunga lista di partiti e un livello di consenso per Berlusconi ai minimi termini, al Senato la coalizione guidata da Prodi perse in valore assoluto di circa 400mila voti, mentre alla Camera riuscì a strappare la vittoria (e quindi il premio di maggioranza) con uno scarto di appena 25mila voti, pari allo 0,07% dei voti validi.

L’esecutivo successivo fu ovviamente quasi catastrofico dal punto di vista della possibilità concreta di governare il paese, considerata l’estrema varietà dei partiti presenti e la scarsa omogeneità delle proposte e delle direzioni politiche. Dopo costanti tribolazioni, distinguo e minacce di abbandono, Prodi si vide costretto a rassegnare le proprie dimissioni dopo nemmeno due anni dal suo insediamento, verso nuove elezioni politiche.

Alla luce di questa breve disamina, si comprende meno il motivo per cui Romano Prodi viene ricordato come l’unico vero antagonista del centro-destra, l’unico capace di portare l’alleanza progressista al successo elettorale. Molti commentatori hanno addirittura sottolineato come l’Ulivo prima e l’Unione poi abbiano vinto “nonostante” Prodi, e come altri candidati avrebbero potuto far sicuramente meglio di lui nella performance elettorale, portando alla coalizione un valore aggiunto sicuramente superiore.

 

 

Come dire: Prodi è riuscito a vincere di misura in due occasioni “facili” dove altri leader, come Rutelli o Veltroni, avrebbero portato ad un successo più significativo e ad un successivo governo con una maggioranza più schiacciante, con maggiori possibilità di manovra e riforme politiche meno frutto di compromessi con gli alleati.

Ma le (comunque indubitabili) vittorie di Prodi vengono utilizzate oggi con il chiaro e specifico obiettivo di dimostrare come il fronte progressista possa battere il suo avversario solo con un occhio privilegiato al riformismo liberal-democratico più centrista rappresentato dallo stesso Prodi. Forse, la cosa più corretta da fare sarebbe quella di proporre una propria linea politica, senza addentrarsi troppo in analisi o costrutti teorici che, come ho cercato di mostrare, sono in parte privi di fondamento storico.