L’Università di Zurigo si ribella alla dittatura degli “indicatori”

Il 13 marzo scorso l’Università di Zurigo ha annunciato ufficialmente la sua decisione di abbandonare il sistema internazionale di valutazione delle università, usualmente chiamato THE perché pubblicato dalla rivista inglese Times Higher Education.

Ne parlo solo adesso perché solo adesso l’ho saputo, grazie alla segnalazione di un collega, che a sua volta ha ripreso un post pubblicato sulla pagina Facebook di un amico, che a sua volta riprendeva un trafiletto apparso sul sito svizzero swissinfo.ch, che a sua volta riprendeva il breve comunicato apparso sul sito dell’Università (https://www.news.uzh.ch/en/articles/news/2024/rankings.html). Un percorso quasi clandestino per una notizia che è stata quasi totalmente ignorata dai media (l’unica notizia in italiano che ho trovato su Internet è apparsa su Ticinonline ed era una semplice traduzione del trafiletto suddetto).

A prima vista tale disinteresse potrebbe apparire giustificato: perché infatti questa notizia dovrebbe importarci, in un momento in cui ben altri e ben più gravi sembrano essere i problemi?

La risposta è: esattamente perché così sembra, ma così non è. La decisione presa dall’Ateneo svizzero è potenzialmente rivoluzionaria, non solo rispetto al problema (comunque gravissimo) che affronta, ma soprattutto per la visione del mondo che vi sta dietro, che è diametralmente opposta a quella che sta alla radice di molti dei suddetti problemi apparentemente più gravi e più importanti.

Anzitutto, a scanso di equivoci, va detto che l’Università di Zurigo non ha preso questa decisione perché oggetto di una valutazione negativa: nell’ultima classifica si trovava infatti all’80° posto, che è un’ottima posizione, considerando che nel mondo esistono oltre 7000 università.

La ragione è che, come dice seccamente il comunicato, «la classifica non è in grado di riflettere l’ampio spettro di attività di insegnamento e ricerca intraprese dalle università». E questo perché «le classifiche generalmente si focalizzano su risultati misurabili, che possono avere conseguenze indesiderate, ad esempio portando le università a concentrarsi sull’aumento del numero di pubblicazioni invece che sul miglioramento della qualità dei loro contenuti».

Confesso che la cosa mi ha stupito, perché non credevo che in Europa ci fosse ancora qualcuno capace di prendere una posizione così forte e di dire parole così chiare e così controcorrente. Eppure, la cosa davvero sorprendente non dovrebbe essere la decisione degli svizzeri, ma piuttosto che ci sia voluto così tanto per arrivarci: da molti anni, infatti, tutti gli addetti ai lavori sanno perfettamente che le cose stanno così, ma ciononostante accettano supinamente questo sistema demenziale.

Giusto per dare l’idea a quelli che addetti ai lavori non sono, farò solo un esempio tra i tanti possibili: quello delle citazioni, che è particolarmente significativo perché a prima vista può sembrare sensato.

Nell’attuale sistema di valutazione si ritiene infatti che un buon indicatore del valore di un articolo, almeno nel campo delle scienze sperimentali, che hanno un metodo estremamente efficace per verificare la bontà delle teorie proposte, sia il numero delle volte che tale articolo è stato citato in altre pubblicazioni. Come ho detto, ciò può sembrare sensato, ma in pratica non lo è affatto e porta ad effetti gravemente distorsivi.

Anzitutto, c’è il problema delle autocitazioni. Un autore, infatti, può citare in ciascuna sua pubblicazione anche le proprie pubblicazioni precedenti e non solo quelle dei colleghi. Tuttavia, siccome il sistema funziona in automatico, gestito da computer che non sono in grado di distinguere, anche le autocitazioni vengono considerate valide.

Si potrebbe pensare che per rimediare basterebbe creare programmi più sofisticati che possano riconoscere e non considerare le autocitazioni, ma non è così: l’autocitazione individuale sta infatti cedendo il passo a quella di gruppo, che è praticamente impossibile da contrastare.

La scienza moderna, infatti, soprattutto in certi campi, come emblematicamente la fisica, può ormai avanzare solo grazie a esperimenti di estrema complessità, che coinvolgono decine o perfino centinaia di persone. Di conseguenza, quando alla fine si pubblica l’articolo che rende conto di tale esperimento vengono (giustamente) considerati coautori tutti quelli che vi hanno preso parte e non solo chi materialmente l’ha scritto, perché costui non ha fatto altro che presentare il risultato che tutti hanno concorso a produrre.

Tuttavia, è chiaro che ciò dà ai ricercatori che partecipano a tali esperimenti un enorme e ingiustificato vantaggio rispetto ai loro colleghi che lavorano da soli o in gruppi più piccoli. Infatti, ogni volta che uno dei coautori citerà l’articolo in un lavoro successivo, tutti gli altri “guadagneranno” una citazione. Di conseguenza, quanto più grande è il gruppo, tanto maggiore sarà (in media) il numero di citazioni che l’articolo otterrà, senza che ciò abbia la minima relazione con il suo valore.

Di nuovo, si potrebbe pensare che il problema si possa risolvere non ritenendo valide neppure le citazioni dei propri coautori, ma in realtà ciò non è possibile, perché si scontra con un’altra difficoltà, stavolta insormontabile.

Perlopiù, infatti, i coautori del primo articolo non lo citeranno in una pubblicazione individuale, ma in un’altra pubblicazione di gruppo, insieme ad altri coautori che non facevano parte del gruppo che ha scritto il primo articolo, il che impedisce di considerarla un’autocitazione, benché molto spesso lo sia. È chiaro, infatti, che, se uno dei coautori insiste per citare un articolo precedente di cui era coautore, anche se non è molto pertinente, ben difficilmente gli altri si opporranno, perché a loro volta avranno qualche altro articolo poco pertinente di cui sono coautori da citare.

Ma dovrebbe essere ormai altrettanto chiaro che tale perversa dinamica non dipende di per sé dall’esistenza (peraltro inevitabile) degli articoli di gruppo, ma dall’usare il numero di citazioni come metodo di valutazione.

Ciò, infatti, in primo luogo dà una rilevanza ingiustificata agli articoli scritti da molte persone e favorisce ingiustamente chi ha l’unico “merito” di far parte di grandi gruppi di ricerca. Inoltre, spinge inevitabilmente i ricercatori a usare il trucco delle autocitazioni di gruppo sopra descritto, il che è sì scorretto, ma spesso indispensabile per “sopravvivere” accademicamente.

Ma c’è di più. Ciò spinge anche i ricercatori ad aumentare il più possibile il numero di coautori, a volte inserendo anche colleghi che non hanno realmente contribuito (i quali, ovviamente, ricambieranno il favore alla prima occasione), perché questo, come abbiamo appena visto, aumenta le possibilità di essere citati (inoltre, la presenza di coautori, specie se internazionali, vale per un altro degli indicatori del valore di un articolo, ancora una volta a prescindere dal suo contenuto).

Infine, il sistema induce a pubblicare il maggior numero possibile di articoli, spesso parlando di cose insignificanti o “spezzettando” in varie parti un articolo interessante ma lungo, perché, di nuovo, così aumenta sia la possibilità di autocitarsi che la probabilità di essere citati da altri (senza contare che anche il numero di articoli pubblicati, indipendentemente dal loro valore, vale per un altro indicatore e quindi spinge nella stessa direzione).

Non ci vuole un genio per capire che tutto ciò alla lunga non può che causare una progressiva diminuzione della qualità della ricerca, cioè l’esatto opposto di quel che si voleva ottenere. Eppure, il numero delle citazioni è uno degli indicatori più sensati: se dunque anch’esso produce effetti perversi di questa portata, figuriamoci gli altri! E in effetti è proprio così. Ma, anziché insistere sugli effetti (su cui potrei andare avanti per ore, senza però aggiungere nulla di concettualmente nuovo), vorrei ora mettere in luce le cause.

O meglio, “la” causa, giacché alla base di tutto ciò sta un’unica idea: la pretesa di ridurre il giudizio qualitativo a un giudizio quantitativo, nella sciocca convinzione che solo quest’ultimo possa essere “oggettivo”, fraintendendo così completamente il vero senso del metodo scientifico. Pretendere di misurare ciò che per sua natura non è misurabile non è infatti segno di rigore, ma di stupidità.

Come ciononostante (e nonostante i suoi palesi effetti perversi) questa idea abbia potuto diffondersi così tanto è una domanda a cui si può rispondere o con un discorso molto lungo o con uno molto breve. Riservandomi quello lungo per un’altra occasione, qui risponderò nella forma breve.

In estrema sintesi, si può dire che da molti anni è in corso in Occidente una pericolosissima svalutazione del giudizio personale, che sempre più persone considerano irrimediabilmente “soggettivo”, non solo nel senso di “fallibile”, ma anche e soprattutto nel senso di “fonte inevitabile di corruzione e di discriminazione”, le due parole che più ossessionano gli uomini (e le donne) del nostro tempo, facendogli progressivamente perdere ogni capacità di ragionare.

Ma, ancor più in profondità, dietro a tutto questo si ritrova ancora e sempre la malattia mortale della modernità, ovvero il rifiuto radicale del rischio, di cui ho parlato molte volte sia in questo sito che nelle mie pubblicazioni. Perché è chiaro che il giudizio personale è un rischio. Ma è un rischio che non si può eliminare. O meglio, si può, ma a prezzo di eliminare con esso anche la libertà e quindi la creatività umana. Come infatti sta accadendo.

Per questo, come accennavo all’inizio, la presa di posizione dell’Università di Zurigo ha una portata potenzialmente rivoluzionaria, che va ben al di là del pur grave problema che l’ha provocata. Basti dire che la pretesa di sostituire il qualitativo con il quantitativo sta, fra l’altro, alla base di sistemi inaffidabili e potenzialmente deleteri come ChatGPT e i suoi “fratelli” (cfr. Luca Ricolfi, https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-limpostore-autorevole/ e Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-io-e-chat-lo-studente-zuccone/), che sarebbe bene cominciare a chiamare col loro giusto nome, che non è Intelligenza, bensì Stupidità Artificiale (cfr. Paolo Musso, A.S. – Artificial Stupidity, in “Bioethics Update” n. 2/2023, pp. 90-102, https://www.bioethicsupdate.com/frame_eng.php?id=57).

In particolare, mi ha colpito il fatto che gli svizzeri nel loro comunicato affermino che, «sebbene le classifiche pretendano di misurare in modo completo» le attività umane come l’insegnamento e la ricerca, in realtà «non possono farlo» («they cannot do so») e non semplicemente che “non devono farlo”, secondo l’atteggiamento oggi imperante che io chiamo “riduzionismo etico”. Nel nostro tempo scettico e stanco, infatti, qualsiasi affermazione che avanzi una pur minima pretesa di essere oggettivamente vera è di solito molto male accolta, mentre l’etica, anche se non è molto simpatica, è almeno tollerata, perché qualche regola di convivenza dobbiamo pur darcela.

Non che l’etica non sia importante, beninteso, ma il problema è che affrontare le sfide che abbiamo davanti solo dal punto di vista etico finisce inevitabilmente per ridurne (appunto) la portata, anche dallo stesso punto di vista etico (“bad science, bad ethics”, come dicono gli americani – anzi, come dicevano, prima di essere travolti dallo tsunami del rincoglionimento woke). Per questo quel «they cannot do so» è come una ventata d’aria fresca di straordinaria importanza.

Ma ancor più importante è che il comunicato affermi esplicitamente che il fallimento delle classifiche si verifica «perchéesse si incentrano su criteri quantitativi» («as they focus on quantitative criteria»), il che, in un momento storico in cui tutti cercano di convincerci che invece proprio questa è la strada da seguire, è davvero una rivoluzione

Una rivoluzione in cui «si privilegia la qualità piuttosto che la quantità» («the emphasis is on quality over quantity») e che perciò rimette al centro l’essere umano, con la sua rischiosa ma insostituibile libertà.

Una rivoluzione di cui il nostro mondo ha un disperato bisogno e in cui tutti devono decidersi a fare la loro parte, piccola o grande che sia.

Un primo, importantissimo passo sarebbe che altre Università, soprattutto le meglio posizionate nel ranking, lo abbandonassero, come ha fatto Zurigo.

Mai come in questo caso si può dire che il complimento più sincero è l’imitazione.




Dal latte materno veniamo?

Le statue sono in perenne pericolo. In nome del politicamente corretto ne sono state abbattute parecchie centinaia. In Italia il fenomeno è meno diffuso che negli Stati Uniti, ma c’è un’eccezione importante: Milano. Qui la statua di Indro Montanelli, collocata nel giardino dove il giornalista venne gambizzato dalla Brigate Rosse, è costantemente oggetto di imbrattamenti, vandalizzazioni, scritte offensive, richieste di rimozione.

Però Milano non si accontenta. Abbattere statue già presenti nello spazio pubblico non basta. Ora è tempo di occuparsi anche delle statue future, che potrebbero essere collocate in qualche parte della città. Occorre prevenire, non solo sopprimere.

È successo nei giorni dopo Pasqua con una statua di bronzo della scultrice Vera Omodeo, scomparsa recentemente all’età di quasi 100 anni. L’opera, intitolata Dal latte materno veniamo, rappresenta una madre che allatta un neonato. I figli avevano deciso di donarla al Comune di Milano, proponendo di collocarla in Piazza Eleonora Duse. Ma la Commissione preposta a valutare la domanda, composta da esperti del Comune e della Soprintendenza, ha detto no. Motivazione?

La statua possiederebbe “sfumature squisitamente religiose” e rappresenterebbe “valori certamente rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutti i cittadini”.

La storia è paradossale, e infatti, contro la bocciatura della commissione, si sono levati un po’ tutti: esponenti della destra, politici di sinistra, associazioni femminili, e – sia pure con qualche cautela – anche il sindaco di Milano Beppe Sala. Qualcuno ha anche osservato che, stante la clamorosa sottorappresentazione di figure femminili fra le statue di Milano, la scelta era del tutto ragionevole. E avrebbe reso omaggio a una scultrice con una storia di vita e di impegno commovente, per tanti aspetti esemplare. Malata in giovinezza di nefrite, i medici le avevano detto che non avrebbe potuto avere figli: ne partorì sei. All’età di cinquant’anni riprese gli studi giovanili all’Accademia di Brera, passando dalla pittura, alla scultura con la creta, e infine a quella con il bronzo, occupandosi di tutte le fasi della produzione, comprese le limature e le patine finali, tradizionalmente affidate agli uomini. I figli e le figlie ne ricordano la determinazione, la generosità, e l’indifferenza a qualsiasi riconoscimento pubblico. Fu lei a realizzare il portale di Santa Maria della Vittoria, vicino alle Colonne di San Lorenzo, il primo portale mai realizzato da un’artista donna.

Insomma, difficile immaginare un personaggio e un’opera con le carte più in regola per un riconoscimento pubblico.

Eppure no, la Commissione ha bocciato la proposta di porre la statua Dal latte materno veniamo in una piazza di Milano.

Perché? Chi mai potrebbe offendersi alla vista della figura più universale che si possa immaginare, quella di una madre che allatta il suo bambino? Possibile che, dopo mille lotte delle donne e a sostegno delle donne, la statua che rappresenta una madre nel suo gesto più naturale possa scandalizzare qualcuno? Chi è questo qualcuno? Come siamo arrivati a tanto?

Una possibile risposta è che i funzionari della Commissione del comune di Milano abbiano voluto tutelare la sensibilità delle donne che non possono o non vogliono avere figli. Un’altra è che abbiano pensato che la figura della madre che allatta rimandi a quelle della Madonna con il bambino, e che ciò possa turbare le comunità di altra religione.

Ma la spiegazione più plausibile è forse un’altra. I funzionari del comune di Milano, in realtà, potrebbero – in un rigurgito di vissuti patriarcali – aver inteso proteggere i maschi. Associare il gesto dell’allattamento a una figura femminile, infatti, esclude automaticamente i maschi e, fra i maschi, la più aggressiva delle minoranze protette di questi tempi, ovvero i maschi che si vivono come femmine, o che sono impegnati in una transizione da maschi a femmine (i cosiddetti trans MtF).

Non tutti lo sanno, ma da tempo esiste una componente della cultura woke che teorizza che anche i maschi possono allattare (grazie a farmaci che inducono la lattazione, non senza rischi per il neonato), anzi che hanno il pieno diritto di farlo; che si può essere donne pur essendo nati maschi; che la maternità non ha nulla a che fare con il parto; che mamma è chi alleva il bambino, non chi lo partorisce. E, naturalmente, la logica conclusione di tutto: non c’è nulla di male se i maschi commissionano la gravidanza alle donne, e – grazie a farmaci come il Peridon – si provano ad allattare essi stessi i bambini che vere donne hanno messo al mondo.

In questo senso, la vicenda di Milano è illuminante. Essa mostra nel modo più vivido che il femminismo storico – se non è morto, come alcune femministe sostengono – è quantomeno sotto scacco. Sopraffatto dalla prepotenza dei maschi, dei trans MtF, delle transfemministe, del cosiddetto femminismo “intersezionale”, non ha più nemmeno la forza di portare a casa il minimo sindacale: far mettere in piazza Duse Dal latte materno noi veniamo, una delle statue più belle di Vera Omodeo.

(uscito su Ragione l’8 aprile 2024)




La vera lezione di Pioltello

La vicenda della scuola di Pioltello, che il 10 aprile resterà chiusa per venire incontro agli studenti stranieri di fede islamica, ha avuto almeno un merito: quello di sollevare il problema delle classi con un numero eccessivo di stranieri (in quella scuola sono il 43%). C’è chi ha voluto sostenere che questo non è un problema, perché la maggior parte dei bambini con cittadinanza straniera iscritti nella scuola dell’obbligo sono nati in Italia e parlano la nostra lingua. E c’è chi invece ritiene che porre un limite (del 20%, o del 30%) alla percentuale di bambini stranieri sia una misura ragionevole.

Ma quanto pesano gli studenti stranieri nella scuola dell’obbligo? E quante sono le classi con un numero elevato di stranieri?

In terza media, nell’ultimo anno scolastico concluso (2022-2023), gli alunni stranieri erano circa l’11%. Quanto alla composizione delle classi, nel 31% dei casi il problema non sussiste, perché sono interamente composte da italiani; nel 30% dei casi il peso degli studenti stranieri è molto contenuto, in quanto inferiore al 10%; nel 21% dei casi il numero di stranieri è compreso fra il 10 e il 20%, dunque al di sotto della soglia-Salvini (20% di ragazzi stranieri). Resta un 18% di situazioni problematiche (più del 20% di stranieri), ma solo nell’8% viene superata la soglia-Valditara (30%). Infine, le classi in cui gli alunni stranieri sono più numerosi di quelli italiani ospitano circa l’1% del totale della popolazione studentesca.

Dunque, anche accettando la linea severa di Salvini, si tratterebbe di intervenire in meno di 1 una situazione su 5. Ma è possibile? E, soprattutto, sarebbe utile?

A mio parere intervenire in modo incisivo è quasi impossibile, perché è la distribuzione geografica delle famiglie che rende difficile creare ovunque classi bilanciate. Non si può chiedere ai ragazzi (italiani e stranieri) di iscriversi a scuole più lontane da casa solo per rispettare quote decise a tavolino.

Sull’utilità, invece, il discorso è molto più complesso. A mio parere sbaglia chi, in nome dell’inclusione o dell’accoglienza, minimizza il problema. Ma sbaglia anche chi pensa che il problema siano gli stranieri in quanto tali. Il vero problema delle classi con tanti stranieri è analogo al problema delle classi con troppi maschi, o con troppi ragazzi di umili origini. E consiste nel fatto che i risultati della classe, e la determinazione dell’ insegnante di completare fino in fondo il programma, dipendono in modo cruciale dalla composizione della classe. Se la maggior parte degli allievi hanno difficoltà, l’insegnante-tipo rallenta, e così finisce per penalizzare anche i ragazzi che avrebbero la possibilità di raggiungere livelli elevati di apprendimento. Il contrario succede nelle situazioni in cui la maggior parte degli allievi non ha problemi familiari o lacune pregresse: lì l’insegnante è in condizione di completare il programma, e qualche volta persino di andare un po’ oltre.

Ed eccoci al punto cruciale. Se si vuole evitare che la massiccia presenza di determinate categorie di studenti penalizzi quel che succede entro una classe, non è solo alla quota di stranieri che dobbiamo fare attenzione, ma anche alla quota di maschi e alla quota di studenti provenienti dai ceti bassi. Una classe ben bilanciata è una classe in cui i tre fattori di rischio fondamentali – essere straniero, essere maschio, essere di condizione sociale modesta – non si cumulano in modo eccessivo. L’analisi dei risultati scolastici rivela che tutti e tre i fattori esercitano effetti negativi sui risultati finali della classe.

Ben venga, dunque, una rinnovata attenzione alla composizione delle classi. Ma non fissiamoci sull’idea, empiricamente errata, che a rallentare il ritmo di apprendimento di una classe sia solo l’eccesso di studenti stranieri. Concentriamoci, piuttosto, sul problema dei maschi e del loro scarso impegno scolastico: forse il più trascurato fra i guai della scuola.

(articolo uscito sul Messaggero il 5 aprile 2024)




Più poveri ma più eguali?

Nel mese di marzo appena trascorso l’Istat ci ha inondato di dati statistici sul mercato del lavoro, sulla povertà, sulla disuguaglianza. Apparentemente il quadro è univoco: secondo il report (provvisorio) sulla povertà, nel 2023 il numero di famiglie in povertà assoluta (ossia non in grado di acquistare il paniere di sopravvivenza) è aumentato rispetto al 2022, e ha toccato il massimo storico dal 2014, ossia da quando esiste questo tipo di statistica. L’aumento, dichiara l’Istat, è molto modesto – dall’8.3% all’8.5% in termini di famiglie, dal 9.7 al 9.8% in termini di individui – ma il fatto resta: nel primo anno di governo Meloni il numero di poveri è aumentato. Comprensibilmente tutti i media, salvo qualche quotidiano di destra, hanno dato enorme rilievo a questo risultato. Altrettanto comprensibilmente, questo aumento è stato attribuito al depotenziamento del reddito di cittadinanza, e all’aumento della precarietà e dei cosiddetti working poor, ovvero lavoratori che hanno sì un lavoro, ma non riescono ad assicurare un tenore di vita accettabile ai loro familiari.

E tuttavia, se anziché leggere solo uno dei report pubblicati dall’Istat li leggiamo tutti, il quadro si fa meno limpido.

La tesi che la causa sarebbe la riduzione del reddito di cittadinanza, ad esempio, cozza con il fatto che nel Mezzogiorno, ossia nella zona del paese che più ha beneficiato del reddito di cittadinanza, il numero di famiglie povere non solo non è aumentato, ma è addirittura diminuito del 4.4%: da 906 mila famiglie nel 2022 a 866 mila nel 2023. Ma anche la tesi dell’aumento del precariato non funziona: i posti di lavoro dipendente stabili sono aumentati di 418 mila unità, mentre quelli a temine sono addirittura diminuiti, sia pure di poche migliaia.

In realtà, quel che i dati Istat mostrano è che l’aumento dei poveri è concentrato nel centro-nord, e tocca essenzialmente le famiglie di stranieri, probabilmente perché la maggior parte degli stranieri risiede nel Centro-Nord. Se consideriamo solo le famiglie di italiani, non vi è – nell’Italia nel suo insieme – alcun aumento del tasso di povertà assoluta.

Perché ciò sia accaduto (cosa di cui saremo certi solo a ottobre, quando l’Istat pubblicherà le stime definitive) non è chiarissimo. Una possibile lettura del fenomeno è che le nuove regole e i maggiori controlli associati ai nuovi sussidi, pur lasciando relativamente indenni le famiglie povere del Sud, abbiano invece avuto effetti significativi sulle famiglie di immigrati, concentrate nel centro-nord e decisamente più esposte al lavoro irregolare. Resta il fatto che, complessivamente, la povertà assoluta è leggermente aumentata fra il 2022 e il 2023.

Ma continuiamo a leggere i report dell’Istat, in particolare l’indagine sulle forze di lavoro (che arriva fino a dicembre del 2023) e le simulazioni sugli effetti che i provvedimenti del governo potrebbero avere avuto sulla distribuzione del reddito nel 2023. Ebbene, queste analisi segnalano che fra il dicembre del 2022 e il dicembre del 2023 gli occupati sono aumentati di 456 mila unità; i disoccupati sono diminuiti di 171 mila unità; gli inattivi nella fascia 15-64 anni sono diminuiti di 310 mila unità; il tasso di occupazione (sempre nella fascia 15-64 anni) è aumentato dal 60.8% al 61.9%, toccando il massimo storico.

Difficile pensare che queste cifre non impattino sulla diseguaglianza, visto che – in Italia – il principale fattore di diseguaglianza è l’insufficiente (e mal ripartito) accesso al lavoro. In breve, è possibile che al lieve aumento della povertà non si accompagni un parallelo aumento della diseguaglianza – come da più parti si è detto e scritto – ma esattamente il contrario: un sia pur lieve miglioramento degli indicatori di eguaglianza/diseguaglianza.

I dati confermano pienamente questa congettura: secondo le simulazioni dell’Istat, nel  2023 la povertà relativa (un classico indicatore di diseguaglianza) avrebbe dovuto scendere dal 20% al 18.8% e l’indice di Gini (la misura più usata per valutare la concentrazione del reddito) dal 31.9% al 31.7%.

Se tutti questi numeri dovessero rivelarsi sostanzialmente veritieri, avremmo l’ennesima conferma di un fatto ben noto agli economisti: povertà e diseguaglianza sono due fenomeni distinti, che possono anche muoversi in direzioni opposte. Ma avremmo anche una sorpresa: quella di un governo di destra che, anziché aumentare il grado complessivo di diseguaglianza, sta timidamente iniziando a ridurlo.

(uscito su La Ragione il 2 aprile 2024)




Dissenso e libertà di parola

La libertà di parola è sacra, sentiamo dire spesso. Guai impedire a qualcuno di parlare. Ma quando a qualcuno viene impedito di parlare, altrettanto spesso sentiamo replicare: anche il diritto al dissenso è sacro.

Questo schema, nelle ultime settimane, si è ripetuto molte volte. A Firenze, la giornalista e scrittrice Elisabetta Fiorito è stata contestata al grido Free Palestine, perché colpevole di presentare un libro su Golda Meir (socialista sì, ma ebrea israeliana). All’università di Napoli il direttore di Repubblica Maurizio Molinari non ha potuto parlare, in quanto colpevole di essere ebreo. Stesso trattamento all’università di Roma, e per il medesimo motivo (la colpa di essere ebreo), è toccato a David Parenzo. Sempre a Roma, alcuni giovani di Forza Italia, muniti di fotografie delle vittime delle Br, hanno interrotto una lezione della prof.ssa Donatella Di Cesare per protesta contro un suo post, non abbastanza critico sulla stagione del terrorismo.

Non è la prima volta che succede, nelle università, nelle librerie, al Salone del libro. E non è la prima volta che gli “interrotti” parlano di squadrismo, attacco alla libertà di espressione, violenza, intolleranza, e gli “interrompenti” replicano: è la democrazia, bellezza! non potete sopprimere il dissenso e la contestazione.

Di qui un problema importante: qual è il confine? Fino a che punto contestare un oratore, o più in generale qualcuno che espone le sue idee, è un diritto, e da quando in poi diventa una prevaricazione?

Molti, a queste domande, rispondono: il confine è la violenza, in una società democratica la violenza non è mai accettabile.

Io non sono tanto sicuro che sia una risposta soddisfacente, almeno finché per violenza si intenda solo la violenza in senso stretto, ossia l’aggressione fisica nei confronti di chi parla (o di chi lo sta ascoltando). In realtà, molto spesso a chi parla viene impedito di parlare semplicemente fischiando, tamburellando, urlando, producendo suoni in modo più o meno tecnologico. È questo il modo in cui, negli ultimi anni, sono state interrotte e impedite innumerevoli lezioni, conferenze, dibattiti. Talora fino al punto di costringere i relatori invisi ad andarsene, o ad autolicenziarsi (è il caso, solo per fare un esempio, della prof.ssa Cathleene Stock, dell’università del Sussex).

Dunque qual è il confine?

Io rispondo con un esempio laterale, ma secondo me illuminante, quello del teatro. Qual è, a teatro, il confine?

A teatro ci sono due diritti speculari, quello di applaudire e quello di fischiare. Ma di norma, dentro lo spettacolo, entrambi vengono esercitati per intervalli di tempo brevi, che consentono la prosecuzione: non si applaude così a lungo da impedire allo spettacolo di andare avanti e, per il medesimo identico motivo, non si fischia così a lungo da annullare la performance in corso. È anche una questione di rispetto degli spettatori, che hanno tutto il diritto di fruire interamente dello spettacolo per cui hanno pagato un biglietto.

In breve: il dissenso non diventa inaccettabile solo nel momento in cui ricorre alla violenza, ma già quando impedisce l’espressione. È la cancellazione della parola, non l’impiego brutale della forza, a segnare il confine invalicabile.

Che cosa cambia?

Apparentemente poco, in realtà moltissimo. Se adottiamo il criterio della cancellazione della parola, risultano inammissibili le contestazioni a Elisabetta Fiorito, a Maurizio Molinari, a David Parenzo, ma anche le passate contestazioni a Capezzone (alla Sapienza), alla ministra Roccella (al Salone del libro), tutti casi in cui il dissenso ha impedito a uno o più oratori di prendere la parola. Al tempo stesso, diventa ammissibile una contestazione come quella dei giovani di Forza Italia alla prof.ssa Di Cesare, perché l’interruzione – per la sua brevità e compostezza – non ha impedito di portare a termine la lezione.

Ma c’è anche un’altra cosa che cambia, se adottiamo il criterio della cancellazione della parola: fra i nemici della libertà di parola dobbiamo annoverare anche la maggior parte dei conduttori di talk show, che permettono sistematicamente che gli ospiti si parlino uno sull’altro, impedendo a chi (in teoria) avrebbe la parola di completare il suo pensiero. Questa pratica, con cui ci si ripromette di alzare gli ascolti, è palesemente intenzionale, come si deduce dal fatto che viene abbandonata solo nel momento in cui la gazzarra dei politici e giornalisti presenti raggiunge livelli di rumore tali da rendere inascoltabile il programma.

A quanto pare, i nemici della libertà di parola non sono solo i collettivi studenteschi con le loro bandiere e i loro slogan.

(uscito sul Messaggero il 29 marzo 2024)