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Il fantasma del consenso

9 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Gerard Depardieu, Leonardo Apache La Russa, Ciro Grillo. Anche se per reati di diversa gravità (aggressione sessuale, stupro, stupro di gruppo), tutti e tre sono incappati in un processo a seguito delle denunce delle vittime. Il caso di Depardieu si è risolto con una condanna a 18 mesi di carcere (con sospensione della pena), quello del figlio di La Russa ha dato luogo a una richiesta di archiviazione della Procura di Milano (impugnata dalla difesa della vittima), quello di Ciro Grillo, a 6 anni dai fatti, è ancora fermo alle prime battute (l’accusa ha richiesto 9 anni di carcere).

C’è una differenza importante, tuttavia. Nel caso del settantacinquenne Depardieu alcol e sostanze non c’entrano. L’accusa è di molestie, non di stupro, e meno che mai di stupro di donna incapace di esprimere il consenso. Nel caso dei “figli di papà” Grillo e La Russa, invece, la sostanza dell’accusa è precisamente quella: aver approfittato di ragazze in palese stato di alterazione, e perciò – per definizione – non in grado di esprimere un consenso. Di qui una importante domanda: se una ragazza denuncia uno stupro dopo aver avuto rapporti sessuali in stato di alterazione psico-fisica (non importa se a causa di alcol, stupefacenti, o entrambi) il maschio o i maschi accusati sono automaticamente colpevoli?

La dottrina femminista secondo cui senza consenso esplicito l’atto sessuale è stupro risponde: certo che sì.

La macchina della legge, invece, sembra muoversi lungo un sentiero più accidentato. Nel caso di La Russa junior la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione in base alla seguente considerazione: “non vi è in atti la prova che gli indagati, pur consapevoli dell’assunzione di alcuni drink alcolici da parte della ragazza, abbiano percepito, in modalità esplicita o implicita, la mancanza di una valida volontà” della giovane “nel compiere gli atti sessuali”. A sostegno della sua richiesta di archiviazione la Procura sostiene, sulla base di alcuni video, che i comportamenti della ragazza “non denotano in alcun modo quella posizione di asimmetria psicologica o fisica che deve sussistere perché sia configurabile una delle ipotesi di violenza sessuale”. Tesi contestata dalla difesa della denunciante, secondo cui i medesimi video “dimostrano pacificamente che la parte offesa era in uno stato di palese alterazione laddove la stessa, nella seconda parte del video prodotto e oggetto di valutazione, risponde con titubanza e in modo assolutamente slegato e incomprensibile rispetto alla domanda che le viene posta da Leonardo La Russa”.

L’aspetto interessante è che, pur dissentendo sulla interpretazione dei video, accusa e difesa sembrano concordare su un punto: lo stato di alterazione non basta a escludere il consenso, occorre anche che sia rintracciabile una “posizione di asimmetria psicologica o fisica” a scapito della vittima.

Nel caso di Grillo Junior (e dei 3 ragazzi coimputati con lui), a quello che riferiscono le cronache, difesa e accusa paiono muoversi in modo difforme: i video che riprendono i rapporti sessuali sono invocati dalla difesa di uno degli imputati per contestare la presunta “incapacità di reagire” della vittima, mentre l’accusa (la procura di Tempio Pausania) sembra puntare sul mero fatto che, avendo bevuto a più riprese ed essendo stanca per la nottata,  la ragazza non poteva essere in grado di esprimere un valido consenso. La procura, in altre parole, sembra rendersi conto che i video non testimoniano a favore della ragazza, e che dunque – per accusarla – occorre fare propria quella che abbiamo chiamato la dottrina femminista per cui “il sesso senza consenso è stupro”.

In concreto, questo significa che i 6 ragazzi accusati (2 nel caso La Russa, 4 nel caso Grillo) potrebbero essere sia tutti condannati (se prevale la dottrina femminista) sia tutti assolti (se prevale la dottrina della Procura di Milano). Nel primo caso, la lezione sarebbe: caro maschio, non provare ad avere rapporti sessuali con una femmina in stato alterato, perché se lei ti denuncia il carcere è assicurato. Nel secondo caso, la lezione sarebbe: cara femmina, non permettere che i tuoi rapporti sessuali con uno o più maschi vengano filmati, perché il sexting potrebbe diventare una prova contro di te.

In entrambi i casi, l’unica soluzione – almeno in teoria – sarebbe quella a suo tempo (ai tempi del MeToo) paventata da Catherine Deneuve: “di questo passo avremo un’app sullo smartphone che due adulti che vorranno andare a letto insieme useranno per spuntare esattamente quali atti sessuali accettano di fare e quali no”: peccato che i giuristi spieghino che, anche questa, non potrebbe funzionare.

Insomma, soluzioni vere non esistono, in qualsiasi modo si muova la magistratura. O meglio, le uniche soluzioni solo quelle tradizionali, retrograde, romantiche: ripristinare il corteggiamento, scegliere accuratamente il partner, evitare il sexting come la peste. Se non ci piacciono, siamo tutti – maschi e femmine – costretti ad accettare il rischio di finire nei guai.

[articolo uscito sulla Ragione l’8 luglio 2025]

Educazione sessuale e violenza di genere – Il paradosso nordico

26 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Di educazione sessuale a scuola si parla da almeno cinquant’anni, ma la questione è tornata di attualità dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin (autunno 2023), una vicenda che molti hanno visto anche come conseguenza di un deficit di educazione sentimentale.

Per molti osservatori gli episodi di bullismo, violenza fisica e sessuale, aggressione, fino allo stupro e all’uccisione, potrebbero essere contenuti ove l’Italia seguisse la strada percorsa dalla maggior parte dei paesi europei, che da tempo hanno introdotto l’educazione sessuale nei programmi scolastici.

Anche su questo sinistra e destra tendono a dividersi. La sinistra non ha dubbi sull’utilità e l’efficacia dei programmi di educazione sessuale, specie se mettono in discussione gli stereotipi di genere e sono attenti alle problematiche LGBT. La destra, invece, di dubbi ne ha molti: è scettica sull’efficacia dell’educazione sessuale come mezzo di contrasto della violenza di genere, pensa che a occuparsene debba essere la famiglia, paventa rischi di indottrinamento woke.

Curiosamente, però, nessuno sembra porsi una semplice domanda: che cosa dicono i dati?

Eppure, se è vero che più di metà dei paesi europei prevede programmi più o meno avanzati di educazione sessuale, e molti di essi li hanno introdotti molto tempo fa (la Svezia nel 1955), non varrebbe la pena analizzare le loro esperienze? Più esattamente, se è fondata la fede progressista nella capacità dell’educazione sessuale di contrastare la violenza di genere, non dovremmo osservare risultati incoraggianti nei paesi che, a differenza dell’Italia, l’hanno già introdotta da tempo?

A prima vista i dati disponibili (fermi al 2022) deludono completamente le aspettative. I casi di violenza sessuale denunciati in Italia sono circa 9 ogni 100 mila abitanti, ma nella modernissima e civilissima Svezia sono 200, più di venti volte tanti. Se allarghiamo l’orizzonte, e distinguiamo fra i 16 paesi europei segnalati come virtuosi in base ai rapporti Unesco (Svezia inclusa) e i rimanenti paesi UE (Italia inclusa), il contrasto si attenua, ma non sparisce affatto: nei paesi con l’educazione sessuale a scuola le violenze sessuali sono 55 ogni 100 mila abitanti, negli altri paesi sono solo 11, ossia 5 volte di meno.

Dobbiamo concludere che l’educazione sessuale è dannosa?

Ovviamente no, perché i fattori che spiegano la violenza sessuale sono anche altri, e potrebbero agire a sfavore dei paesi avanzati. Inoltre, non si può escludere che, essendo i dati delle violenze sessuali basati sulle denunce, i tassi dei paesi avanzati riflettano tassi di denuncia più alti, e quelli dei paesi arretrati siano sgonfiati da tassi di denuncia più bassi.

Per evitare questa possibile fonte di distorsione, conviene rivolgere l’attenzione al numero di donne uccise per milione di abitanti, uno dei pochi reati sostanzialmente privi di “numero oscuro” (ossia di casi non denunciati). Se procediamo così il quadro si fa più complesso. L’Italia ha uno dei tassi di donne uccise più bassi dell’Unione Europea (solo Irlanda e Lussemburgo hanno valori inferiori ai nostri), la civilissima Svezia ne ha il 31% in più, la Danimarca il 69% in più, la Finlandia il 133% in più. È il cosiddetto “paradosso nordico”, che nessuno studio è finora riuscito a spiegare in modo soddisfacente.

Nello stesso tempo, è vero che se – come per le violenze sessuali – confrontiamo il blocco dei paesi virtuosi (nordici e non) con quello dei paesi restanti (mediterranei e non), i conti tornano più in linea con il senso comune: i paesi più avanzati in termini di educazione sessuale hanno meno donne uccise per abitante (anche se va detto che il risultato è fortemente influenzato dal dato della Lettonia, circa 10 volte più severo di quello dell’Italia).

Conclusioni?

Impossibile fare affermazioni perentorie senza prendere in considerazione molti più paesi e molte più variabili. Quel che possiamo dire è solo che, nell’Unione Europea, l’Italia è uno dei paesi meno pericolosi per le donne, almeno per quel che riguarda il rischio di venire uccise. E che, quanto all’impatto dell’educazione sessuale, l’entità (e il segno) dei suoi effetti sulla violenza di genere sono ancora tutti da verificare, come il “paradosso nordico” si incarica di ricordarci. Destra e sinistra dovrebbero farsene una ragione.

[articolo inviato alla Ragione il 23 febbraio]

Minori e violenza sessuale – Quel che dicono i dati

11 Febbraio 2024 - di Luca Ricolfi

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Dopo lo stupro di gruppo di Catania, in cui una bambina (italiana) di 13 anni è stata stuprata da un gruppo di ragazzi (egiziani), di cui alcuni minorenni, infuriano le polemiche. C’è chi solleva dubbi sulla legge Zampa sui “minori non accompagnati”, che riserva loro speciali diritti; e c’è chi – come alcuni operatori delle comunità che avevano in carico i ragazzi – trae spunto dal caso di Catania per chiedere “più risorse e più mezzi per fare integrare davvero questi ragazzi”. C’è chi ricorda che in un altro caso di stupro di gruppo, quello di Caivano, gli autori erano ragazzi “italianissimi”; e c’è chi nota che è proprio grazie al criticatissimo (da sinistra) decreto Caivano che, nel nuovo caso di Catania, è stato possibile arrestare anche i minorenni.

Poi, fortunatamente, ci sono anche coloro che invitano a non strumentalizzare politicamente queste tragedie, e a non generalizzare. Guai se, sulla base di singoli episodi di cronaca, si dovesse instaurare la credenza che “tutti i ragazzi egiziani sono stupratori”.

Bene, allora. Raccogliamo l’invito a non generalizzare, e proviamo a vedere che cosa possiamo dire in base ai dati.

La prima cosa è che le denunce per violenza sessuale in cui l’autore è un minorenne sono circa 300 all’anno, a fronte di un po’ meno di 1 milione e mezzo di maschi minorenni di almeno 13 anni. Se teniamo conto del fatto che, in base a varie indagini, i casi denunciati sono dell’ordine di 1 su 10, possiamo stimare che le violenze sessuali siano circa 3000 l’anno. Fatti i dovuti calcoli: per 1 ragazzo che compie violenza sessuale, ve ne sono 499 che non lo fanno. Magra consolazione, per chi (come me) pensa che anche 1 solo caso all’anno sia troppo. Ma doverosa precisazione davanti all’impulso a generalizzare a “tutti i ragazzi”, o a “tutti i ragazzi stranieri”.

La seconda cosa che possiamo osservare è che i minorenni stranieri denunciati per violenza sessuale sono più numerosi di quelli italiani (159 contro 132 nel 2022, ultimo anno per cui si hanno dati consolidati). E questo nonostante i minorenni stranieri siano molto meno numerosi, circa 1 ogni 7 minorenni italiani. In concreto, questo vuol dire che – statisticamente – la pericolosità apparente (dirò poi perché “apparente”) di un ragazzo straniero è circa 8 volte quella di un ragazzo italiano.

A questa amara constatazione alcuni ribattono, non senza qualche ragione, che il tasso di denuncia per le violenze sessuali commesse da minori stranieri potrebbe essere più alto di quello per le violenze commesse da minori italiani. Di qui l’apparente maggiore pericolosità dei minori stranieri.

C’è sicuramente del vero in questa osservazione, che tenta di equiparare ragazzi italiani e ragazzi stranieri. E tuttavia, a un’attenta analisi dei dati, essa rivela non poche pecche. Non tutti i reati, infatti, sono esposti all’obiezione del diverso tasso di denuncia, perché esistono anche reati in cui il “numero oscuro” (reati non denunciati) è prossimo a zero, o verosimilmente non molto diverso fra autori italiani e stranieri. Per un reato come l’omicidio, ad esempio, è arduo sostenere che venga denunciato molto di più se commesso da stranieri ; così per reati come le rapine, le lesioni dolose, le risse, i danneggiamenti mediante incendio. Eppure, anche per questi reati, come per le violenze sessuali, i minori stranieri risultano avere degli indici di criminalità molto più alti di quelli degli italiani. Qualche mese fa la Polizia Criminale ha fornito, per il 2022, dati estremamente accurati e disaggregati sulle segnalazioni (denunce e arresti) di minori. Ebbene, su 15 reati considerati, non ve n’è nemmeno uno in cui l’indice di criminalità dei minori stranieri non sia molto più elevato di quello degli italiani. Si va dall’omicidio e tentato omicidio, per cui gli stranieri sono “solo” 3 volte più pericolosi degli italiani, alle risse e ai furti (per cui lo sono 9 volte), passando per le violenze sessuali (8 volte), le rapine (7 volte), le percosse (6 volte), le estorsioni (5 volte), solo per fare alcuni esempi.

Questo però non è l’unico motivo per cui l’alibi dei diversi tassi di denuncia è molto debole. C’è anche l’andamento delle denunce fra il 2019 (era pre-covid) e il 2022, che  mostra una impressionante divaricazione fra italiani e stranieri: mentre il numero di reati dei minori italiani è diminuito del 2.8%, quello dei minor stranieri è aumentato del 41.5%. Una variazione enorme, se si considera la brevità del periodo, e la lentezza con cui si muovono nel tempo gli indici di criminalità.

Conclusione?

Nessuna, perché i dati non dettano le politiche, ma si limitano a descrivere lo sfondo su cui qualsiasi politica è costretta a operare. Lo sfondo è che, allo stato attuale, la pericolosità dei minorenni stranieri è molto maggiore di quella dei minorenni italiani, e il divario sta aumentando. Qualsiasi politica si preferisca adottare – meno sbarchi, o più accoglienza – sarebbe meglio non ignorare il dato di fatto.

Hamas e dintorni, il velo della cecità

27 Novembre 2023 - di Luciana Piddiu

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La morte di una persona cara mette completamente a nudo il nostro essere. Il primo impatto è quello di sentirsi venir meno per l’incredulità: la persona amata -fino a ieri piena di vita -giace afflosciata come una marionetta. E tuttavia, come ha detto il padre di Giulia Cecchettin-‘’Posso capire una malattia, un incidente, ma questo è il modo più inconcepibile. Non te ne fai una ragione’’ Che cosa è dunque ‘inconcepibile’? È il modo della morte, la violenza sanguinaria e la ferocia delle coltellate.

         Questa considerazione evoca in qualche modo le parole di Francesca da Rimini nel suo colloquio con il pellegrino Dante (V canto dell’Inferno)

        Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

        prese costui de la bella persona

        che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

Francesca sembra soffrire ancora per il modo violento della sua morte più che per le pene dell’Inferno a cui è condannata.

         Questo preambolo per confutare una volta per tutte il parallelismo che viene istituito da parte di intellettuali, artisti, politici, opinionisti(?) tra quanto accaduto il 7 Ottobre scorso per mano di Hamas nei kibbutz  confinanti con la striscia di Gaza e le successive azioni militari israeliane.

         Nessuno mette in dubbio l’atrocità della guerra in sé che -per quanti sforzi vengano fatti da parte dell’esercito di Israele- finisce per coinvolgere anche civili, innocenti e non, ma è pura ipocrisia, frutto di una visione ideologica settaria, non vedere la differenza nei modi della morte.

         Essere uccisi da qualcuno che gioisce, esulta, brinda e fa baldoria con occhi sfavillanti per l’ebbrezza dell’adrenalina nell’infierire sui corpi di neonati, giovani donne e bambine, vecchi e disabili non è la stessa cosa che morire sotto una bomba.

         Mente chi dice il contrario citando la sproporzione nel numero delle vittime e finendo per considerare carnefici le vittime di quegli assassini che hanno negli occhi la goduria dell’onnipotenza di infliggere la morte agli inermi.

         Solo ad Israele si chiede moderazione nella risposta militare. I civili palestinesi, che in molti casi hanno festeggiato il massacro con dolci e pasticcini, non devono subire alcuna conseguenza.

Ma quando gli alleati bombardavano senza tregua Berlino o Dresda c’è stato qualcuno che si è preoccupato dei bambini tedeschi colpiti dalle bombe che -certamente data l’età- non erano responsabili delle atrocità commesse dalle SS e dal regime nazista?

         La guerra-duole ammetterlo- è tremenda ma a volte è necessaria. Lo è stata per abbattere il nazismo, lo è stata per distruggere il Califfato in Siria. In quel caso non abbiamo visto mobilitarsi nessuno per salvare donne e bambini di Daech.

         Ma per essere ancora più chiara mi servirò delle parole dello scrittore Tahar Ben Jelloun.

         ‘’Io, arabo e musulmano di nascita, non riesco a trovare le parole per dire quanto sono inorridito da ciò che i militanti di Hamas hanno fatto agli ebrei.La brutalità non ha scuse né giustificazione. Sono inorridito perché le immagini che ho visto mi hanno toccato nel profondo della mia umanità. Credo che possiamo resistere e lottare contro la colonizzazione, ma non con questi atti di grande ferocia. La causa palestinese è morta il 7 Ottobre 2023, assassinata da elementi fanatici impantanati in una ideologia islamista della peggior specie. Hamas è il nemico del popolo palestinese. Non è solo nemico del popolo israeliano. Un nemico crudele, senza alcun senso politico, manipolato da un paese dove le giovani donne che si oppongono vengono impiccate per la mancanza di un velo in testa.

         La presa degli ostaggi e la richiesta di riscatto non fa altro che esacerbare la rabbia di tutti noi. Èdifficile credere che questi uomini abbiano fatto questo per ‘liberare’ un territorio. No, la guerra si combatte fra soldati, non uccidendo civili innocenti. (Questa) è una ferita per tutta l’umanità.

         NO, questa è una lotta che non fa loro onore ..…NO agli applausi in certe capitali arabe (e non solo). Prima o poi sarà la popolazione palestinese a pagare questo pesante conto…….’’ [Le Point, 13 Ottobre 2023]

         Chiaro e forte bisogna dire che un conto è la guerra, un altro è  un pogrom.

Senza considerare che nel caso delle adolescenti e giovani donne, alla violenza sessuale, alla ferocia sanguinaria si è aggiunto il vilipendio dei cadaveri. Sui loro corpi si è urinato e sputato e, dulcis in fundo, son stati mutilati e smembrati ed esibiti come trofeo coram populo.

         Se Hamas, che ha esercitato il suo controllo su Gaza dopo il ritiro degli israeliani nel 2005 e la sconfitta degli avversari politici dell’OLP, avesse avuto a cuore la costruzione dello stato di Palestina,avrebbe usato le ingenti risorse afferite da ogni parte del mondo per costruire l’ossatura di base del futuro stato puntando sull’istruzione e la conoscenza, la produzione di acqua potabile, l’agricoltura avanzata e così via. Viceversa le risorse finanziarie sono state usate, secondo uno schema simil-mafioso di taglieggiamento (vedi analisi di F. Fubini) per accumulare ingenti patrimoni in favore dei capi delle varie fazioni e soprattutto per costruire cunicoli sotterranei sotto Gaza city dove accatastare armi e strumenti di morte con l’obiettivo dichiarato di distruggere gli ebrei e lo stato di Israele.

Il singhiozzo dell’uomo maschio – A proposito di violenza sulle donne

25 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Era il 1983, giusto 40 anni fa, quando Pascal Bruckner pubblicava il suo libro più famoso, Il singhiozzo dell’uomo bianco, in cui descriveva gli impulsi di autoflagellazione della cultura occidentale, già allora in via di autoliquidazione.

Ma oggi siamo ben oltre. Quello cui ci tocca assistere, dopo la orribile, tristissima vicenda di Giulia Cecchettin, è il singhiozzo dell’uomo maschio: il bisogno di tanti maschi di dire che sì, si sentono anche loro responsabili, si vergognano di essere maschi, insomma la responsabilità di quel che è accaduto alla povera Giulia sarebbe anche loro.

La cosa interessante è che questo moto di autodenuncia, che per lo più scopiazza le più ardite (e indimostrate) teorie del movimento woke d’oltre oceano, non tocca minimamente la gente comune, che con difficoltà più o meno grandi, continua a condurre la sua vita ordinaria. Difficile ascoltare un operaio che si sente corresponsabile del femminicidio di Giulia, ma facilissimo leggere le riflessioni di un intellettuale, di uno studioso, di un giornalista, di un politico, che mettono in scena esercizi più o meno sofisticati di autoaccusa e rincrescimento.

Perché questa differenza?

Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente due, del tutto diverse l’una dall’altra. La prima è che chi occupa posizioni di prestigio nella sfera pubblica corre oggi un grandissimo rischio: quello di entrare nel mirino delle attiviste che conducono la crociata conto il maschio, il maschilismo, il cosiddetto patriarcato. Improvvisamente, ci si rende conto che, solo se ci si schiera “dalla parte giusta”, si ha qualche possibilità di salvarsi dalla valanga di accuse dell’attivismo woke, tradizionalmente debole in Italia ma improvvisamente sdoganato dal (sacrosanto) moto di indignazione per la morte di Giulia Cecchettin. Può accadere così che, nella schiera dei maschi pensosi, mi capiti di trovare Ignazio La Russa (quello certo dell’innocenza del figlio, sotto indagine per stupro) che propone una manifestazione bipartisan di soli maschi, ma anche alcuni dei miei giornalisti e intellettuali preferiti. Mattia Feltri, sulla Stampa, per far sentire “tutti noi” corresponsabili di quel che è accaduto a Giulia, scomoda nientemeno che il concetto di “responsabilità collettiva” di Hannah Arendt. Francesco Piccolo, su Repubblica, non esita a stigmatizzare – quasi fossero comportamenti orribili, propedeutici ai peggiori crimini – comunissimi comportamenti della vita quotidiana di maschi e femmine: “urlare sopra, non far parlare, pretendere di parlare per primi, spiegare come bisogna comportarsi, o come fare una cosa, o addirittura come bisogna vivere”. Una mia amica, madre di tre figli, ha commentato divertita: è esattamente quel che faccio io quando sono esasperata con mio figlio adolescente!

Ma c’è anche un’altra ragione per cui il “singhiozzo dell’uomo maschio” ha tanto spazio sui media, ma lascia indifferente la gente comune. Ed è che, nel dibattito pubblico, da tempo hanno trovato un enorme spazio le opinioni astruse, o antiscientifiche, o contrarie al senso comune. Se un’idea strampalata, o semplicemente priva di basi scientifiche, è affermata in nome di una buona causa, i media tendono a presentarla come vera. Nel mondo dell’attivismo woke, ma soprattutto in quello di una parte (solo una parte, per fortuna) dell’attivismo femminista, negli ultimi anni hanno preso piede diverse idee indimostrate. Ad esempio, che la biologia non conti nulla, e tutto dipenda dalla cultura. Che alle radici dell’aggressività maschile vi siano gli stereotipi di genere e la sopravvivenza del patriarcato. Che il linguaggio sia il medium fondamentale della violenza. Che esista una precisa catena causale che dalla battuta sessista conduce alla prevaricazione, alla violenza, allo stupro, quando non al femminicidio. Che sterilizzare il linguaggio sia la via maestra per fermare la violenza. Che l’azione preventiva più efficace sia l’introduzione precoce di corsi di educazione sessuale e sentimentale nelle scuole.

Nessuna di queste credenze è palesemente falsa, ma nessuna è sostenuta da prove scientifiche robuste. Alcune sono, almeno a prima vista, incompatibili con i dati. Quasi tutte sono in contrasto con il senso comune. Il quale senso comune, a differenza degli intellettuali e dei politici, è umile, empirista, e non pretende di imporsi agli altri in nome un’ideologia. Perché di questo si tratta, purtroppo: il modo in cui si parla del dramma di Giulia non ha nulla di scientifico, e tutto della solita pretesa di imporre il proprio punto di vista e di aver ragione dell’avversario politico.

In questo, è paradossale doverlo osservare, molte donne oggi impegnate nella giusta battaglia contro i femminicidi, mostrano un’inquietante somiglianza con i maschi che mettono sotto accusa: forse l’unico segno inequivocabile dell’ubiquità del maschio che è in tutti noi.

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