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Hamas e dintorni, il velo della cecità

27 Novembre 2023 - di Luciana Piddiu

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La morte di una persona cara mette completamente a nudo il nostro essere. Il primo impatto è quello di sentirsi venir meno per l’incredulità: la persona amata -fino a ieri piena di vita -giace afflosciata come una marionetta. E tuttavia, come ha detto il padre di Giulia Cecchettin-‘’Posso capire una malattia, un incidente, ma questo è il modo più inconcepibile. Non te ne fai una ragione’’ Che cosa è dunque ‘inconcepibile’? È il modo della morte, la violenza sanguinaria e la ferocia delle coltellate.

         Questa considerazione evoca in qualche modo le parole di Francesca da Rimini nel suo colloquio con il pellegrino Dante (V canto dell’Inferno)

        Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

        prese costui de la bella persona

        che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

Francesca sembra soffrire ancora per il modo violento della sua morte più che per le pene dell’Inferno a cui è condannata.

         Questo preambolo per confutare una volta per tutte il parallelismo che viene istituito da parte di intellettuali, artisti, politici, opinionisti(?) tra quanto accaduto il 7 Ottobre scorso per mano di Hamas nei kibbutz  confinanti con la striscia di Gaza e le successive azioni militari israeliane.

         Nessuno mette in dubbio l’atrocità della guerra in sé che -per quanti sforzi vengano fatti da parte dell’esercito di Israele- finisce per coinvolgere anche civili, innocenti e non, ma è pura ipocrisia, frutto di una visione ideologica settaria, non vedere la differenza nei modi della morte.

         Essere uccisi da qualcuno che gioisce, esulta, brinda e fa baldoria con occhi sfavillanti per l’ebbrezza dell’adrenalina nell’infierire sui corpi di neonati, giovani donne e bambine, vecchi e disabili non è la stessa cosa che morire sotto una bomba.

         Mente chi dice il contrario citando la sproporzione nel numero delle vittime e finendo per considerare carnefici le vittime di quegli assassini che hanno negli occhi la goduria dell’onnipotenza di infliggere la morte agli inermi.

         Solo ad Israele si chiede moderazione nella risposta militare. I civili palestinesi, che in molti casi hanno festeggiato il massacro con dolci e pasticcini, non devono subire alcuna conseguenza.

Ma quando gli alleati bombardavano senza tregua Berlino o Dresda c’è stato qualcuno che si è preoccupato dei bambini tedeschi colpiti dalle bombe che -certamente data l’età- non erano responsabili delle atrocità commesse dalle SS e dal regime nazista?

         La guerra-duole ammetterlo- è tremenda ma a volte è necessaria. Lo è stata per abbattere il nazismo, lo è stata per distruggere il Califfato in Siria. In quel caso non abbiamo visto mobilitarsi nessuno per salvare donne e bambini di Daech.

         Ma per essere ancora più chiara mi servirò delle parole dello scrittore Tahar Ben Jelloun.

         ‘’Io, arabo e musulmano di nascita, non riesco a trovare le parole per dire quanto sono inorridito da ciò che i militanti di Hamas hanno fatto agli ebrei.La brutalità non ha scuse né giustificazione. Sono inorridito perché le immagini che ho visto mi hanno toccato nel profondo della mia umanità. Credo che possiamo resistere e lottare contro la colonizzazione, ma non con questi atti di grande ferocia. La causa palestinese è morta il 7 Ottobre 2023, assassinata da elementi fanatici impantanati in una ideologia islamista della peggior specie. Hamas è il nemico del popolo palestinese. Non è solo nemico del popolo israeliano. Un nemico crudele, senza alcun senso politico, manipolato da un paese dove le giovani donne che si oppongono vengono impiccate per la mancanza di un velo in testa.

         La presa degli ostaggi e la richiesta di riscatto non fa altro che esacerbare la rabbia di tutti noi. Èdifficile credere che questi uomini abbiano fatto questo per ‘liberare’ un territorio. No, la guerra si combatte fra soldati, non uccidendo civili innocenti. (Questa) è una ferita per tutta l’umanità.

         NO, questa è una lotta che non fa loro onore ..…NO agli applausi in certe capitali arabe (e non solo). Prima o poi sarà la popolazione palestinese a pagare questo pesante conto…….’’ [Le Point, 13 Ottobre 2023]

         Chiaro e forte bisogna dire che un conto è la guerra, un altro è  un pogrom.

Senza considerare che nel caso delle adolescenti e giovani donne, alla violenza sessuale, alla ferocia sanguinaria si è aggiunto il vilipendio dei cadaveri. Sui loro corpi si è urinato e sputato e, dulcis in fundo, son stati mutilati e smembrati ed esibiti come trofeo coram populo.

         Se Hamas, che ha esercitato il suo controllo su Gaza dopo il ritiro degli israeliani nel 2005 e la sconfitta degli avversari politici dell’OLP, avesse avuto a cuore la costruzione dello stato di Palestina,avrebbe usato le ingenti risorse afferite da ogni parte del mondo per costruire l’ossatura di base del futuro stato puntando sull’istruzione e la conoscenza, la produzione di acqua potabile, l’agricoltura avanzata e così via. Viceversa le risorse finanziarie sono state usate, secondo uno schema simil-mafioso di taglieggiamento (vedi analisi di F. Fubini) per accumulare ingenti patrimoni in favore dei capi delle varie fazioni e soprattutto per costruire cunicoli sotterranei sotto Gaza city dove accatastare armi e strumenti di morte con l’obiettivo dichiarato di distruggere gli ebrei e lo stato di Israele.

Il diritto alla paura – In margine al caso Bruck

13 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Hanno suscitato un certo scalpore le recenti parole di Edith Bruck, scrittrice ebrea progressista, sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Dachau. In due distinte interviste, una rilasciata all’agenzia “LaPresse” (3 novembre), l’altra al Corriere della Sera (5 novembre), la scrittrice e poetessa confessa che, dopo il massacro dei bambini israeliani perpetrato da Hamas, ha cambiato idea sull’immigrazione, le politiche si accoglienza, l’antisemitismo arabo e palestinese.

E lo spiega con frasi molto chiare ed esplicite, sia sulla situazione in Francia, sia su quel che accade in Italia. Sulla Francia dice: “stiamo accogliendo i nostri stessi nemici in casa. Ma vediamo che cosa è accaduto in Francia? Quasi otto milioni di immigrati e sono loro i più antisemiti di tutti”. Quanto all’Italia: “Per anni abbiamo accolto tutti coloro che arrivavano dal mare. Io stesso dicevo: poveretti, dobbiamo aiutarli. Ma adesso è molto diverso”. E poi: “Io non avevo alcun pregiudizio, ho sempre difeso i più deboli (…). Però ora tutto è cambiato. Io stessa sono cambiata. Sì, sono cambiata. Quelle atroci immagini delle teste di bambini decapitati usate per giocare a calcio sono le stesse di Auschwitz. E ora, in mezzo a chi arriva, è facile immaginare che ci siano terroristi, militanti antisemiti. Davvero non so come si possa fare, difficile selezionare chi arriva. Ma far entrare tutti, ora, è assurdo”.

Le interviste contengono anche altri passaggi assai duri, contro “certa sinistra” cieca di fronte al terrorismo di Hamas, o contro la scelta di boicottare Lucca Comics a causa del patrocinio di Israele. E prospettano pure una sorta di rivalutazione di Salvini e Meloni. Cito testualmente: “Noi prima ce l’avevamo con loro due per come la pensavano sull’immigrazione. Oggi per me non è più così”.

Le parole di Edith Bruck sono importanti. Anzi, direi che sono cruciali, perché ci costringono a riflettere a fondo su concetti come razzismo, xenofobia, islamofobia. Il pensiero dominante sui media (e fra le élite) è che si tratti di atteggiamenti di ostilità, talora di odio, verso determinati gruppi o etnie, e che tali atteggiamenti siano basati su ignoranza, pregiudizi, false credenze. Di qui la necessità, anzi l’imperativo categorico, di correggere, istruire, rieducare a una corretta percezione della realtà.

Ma qualcuno può pensare di dover rieducare Edith Bruck? Qualcuno può pensare che le sue riserve sulle politiche di accoglienza, o sul potenziale antisemita degli immigrati musulmani, siano frutto di pregiudizi razziali?

No, credo che Edith Bruck sia stata semplicemente sincera. E che sia venuto il momento di riconoscere qual è il meccanismo che, spesso, fa scattare la diffidenza verso determinati gruppi e, simmetricamente, qual è il meccanismo che la disattiva. Ebbene il meccanismo-base è l’esposizione differenziale al rischio. Ci sono gruppi sociali più esposti al rischio di interazioni sociali pericolose, e gruppi sociali meno esposti. È questo che differenzia i “ceti medi riflessivi” dai ceti popolari. È questo che, nelle grandi città, distingue chi vive nella Ztl da chi abita nelle periferie. Non è perché sono rozzi e incolti che i ceti popolari sono più inclini dei ceti alti a diffidare degli immigrati, ma semplicemente perché – per i luoghi in cui vivono, e per gli strumenti di autodifesa di cui (non) dispongono – sono più soggetti a vari tipi di rischio: aggressioni, furti, rapine, ma anche concorrenza sul mercato del lavoro e nell’accesso al welfare. Simmetricamente, non è perché sono dotati di una superiore moralità che i ceti privilegiati sono aperti e tolleranti, ma perché corrono obiettivamente meno rischi, e talora riescono pure a usare le loro doti civiche come simboli di status (un meccanismo che ha condotto lo psicologo Rob Henderson a coniare l’espressione luxury beliefs, convinzioni di lusso).

Il caso della Bruck illustra in modo perfetto il meccanismo: per l’élite culturale l’apertura è un comodo segno di distinzione e di superiorità morale fino a quando non si corre il rischio di diventare bersagli, ma diventa improvvisamente una postura irrazionale allorché ci si rende conto di essere personalmente vulnerabili, in questo caso in quanto ebrei.

Di qui una semplice lezione. Quel che viene sbrigativamente etichettato come razzismo, xenofobia, islamofobia, talora è effettivamente odio e disprezzo immotivato per determinati gruppi o minoranze, ma non di rado è semplicemente paura, timore, preoccupazione, avversione al rischio. Fra i tanti diritti che ci piace esaltare e tutelare, forse dovremmo includere anche il diritto a provare paura. Un sentimento che troppo spesso rimproveriamo agli altri, salvo riscoprirne la legittimità quando, improvvisamente, irrompe nella nostra vita.

P.S. Nei giorni scorsi Edith Bruck ha sentito il bisogno di ritrattare le affermazioni rilasciate nelle due interviste, accusando il “Corriere della Sera” di aver omesso un punto interrogativo, e la stampa in generale di “estrapolare e fraintendere”. Forse avrebbe fatto meglio a rivendicare la propria sincerità, magari rievocando quella famosa, indimenticabile, vignetta di Altan, in cui il vecchio operaio rivela: “alle volte mi vengono in testa idee che non condivido”.

Il non detto – Sulla soluzione dei due stati

8 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Non esiste giustificazione alcuna per quel che Hamas ha fatto il 7 ottobre. Lo stato di Israele ha il diritto di esistere. I palestinesi hanno diritto a un loro stato.

Questi sono, per me, gli unici punti fermi di una posizione ragionevole sulla questione palestinese. Su tutto il resto è lecito discutere. Ma discutere come?

Possibilmente, non come si è fatto fin qui, da entrambe le parti. C’è un tratto, infatti, che accomuna la maggior parte delle prese di posizione pro-Israele e pro-Palestina: l’accurata omissione di elementi cruciali (e scomodi per una delle due parti) della questione palestinese. Vediamone alcuni.

Chi parteggia per i palestinesi quasi sempre dimentica almeno quattro fatti. Primo, che la soluzione salomonica dell’ONU nel 1947, con la creazione di uno stato ebraico e uno stato arabo, fu accettata (a larghissima maggioranza) dalla comunità ebraica e respinta dai palestinesi e dagli altri stati arabi circostanti. Secondo, che la guerra del 1948 che ne seguì fu il primo tentativo di cancellare lo stato di Israele dalla Palestina. Terzo, che lo statuto di Hamas del 1988, di fatto, prevede tale cancellazione. Quarto, che i palestinesi non hanno una rappresentanza politica unitaria, perché – dopo le elezioni del 2006 a Gaza (vinte da Hamas) e la guerra civile che ne è seguita – le due principali organizzazioni (Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen) sono in feroce competizione fra loro, e rifiutano di sottoporsi a libere elezioni.

Ma anche i difensori di Israele hanno le loro dimenticanze. Il primo “non detto” è che, di guerra in guerra, i territori occupati da Israele si sono enormemente ampliati: nella partizione dell’Onu del 1947 la quota di Israele era del 56%, oggi sfiora il 90% del territorio complessivo che ospita israeliani e palestinesi. Il secondo non detto è che, di fatto, la striscia di Gaza (governata da Hamas) non è affatto un territorio autonomo, perché tutte le uscite e gli ingressi (tranne quella verso l’Egitto) sono rigidamente controllate da Israele. Il terzo non detto è che gli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania sono così diffusi e capillari da rendere praticamente impossibile la costruzione di uno stato palestinese di dimensioni accettabili.

Allo stato attuale l’unico embrione di stato palestinese è l’area A della Cisgiordania, che è sotto il controllo dell’autorità palestinese (Abu Mazen) ma copre appena il 3.6% dell’intera Palestina (Israele + Gaza + Cisgiordania), e inoltre è priva di continuità territoriale, in quanto sistematicamente punteggiata da insediamenti israeliani.

Conclusione. È vero che, in astratto, la soluzione “due popoli, due stati” è l’unica ragionevole. Ma è ipocrita parlarne come se bastasse un atto di buona volontà politica per realizzarla. Anche se Hamas sparisse dalla faccia della terra, il mondo arabo riconoscesse il diritto di Israele di esistere, e l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen prendesse il controllo della striscia di Gaza (come da qualche giorno si favoleggia), resterebbe il problema della Cisgiordania, dove ci sono 500 mila coloni israeliani, che sarà quasi impossibile convincere a ritirarsi. Per non parlare dello status di Gerusalemme, dal 1980 annessa a Israele, in cui risiedono circa 200 mila ebrei e altrettanti arabi. Anche se Israele dovesse cedere ai palestinesi, oltre a Gaza, Geruslemme Est, l’intera area A e l’intera area B della Cisgiordania, e tutti i coloni dovessero ritirarsi da questi territori, allo stato palestinese spetterebbe poco più del 10% della Palestina.  Come dire: a Israele la Lombardia, ai palestinesi la Valle d’Aosta.

In queste condizioni, il massimo che è realisticamente concepibile è una soluzione a due stati asimmetrica: uno stato a Israele, uno staterello ai Palestinesi. Basterà a portare la pace?

Modellare il mondo? – Riflessioni sulla questione palestinese

1 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Come racconteranno la questione palestinese gli storici del futuro? Una possibilità è che non la raccontino affatto, perché, ove la miccia accesa da Hamas (e amplificata dalla reazione Israele) dovesse sfociare nella terza guerra mondiale, difficilmente ci saranno ancora degli storici.

Ma supponiamo che la terza guerra mondiale non scoppi, che a un certo punto l’incendio si spenga, e che – magari fra 50 o 100 anni – israeliani e palestinesi abbiano trovato un modus vivendi. Come verrebbe raccontata quella storia?

Una possibilità è che accada quel che, a sentire gli psicoterapeuti di orientamento sistemico, accade nella terapia di coppia. I coniugi in conflitto ricostruiscono la propria vicenda in modo diverso, ma la diversità sta essenzialmente nella punteggiatura: per l’uno il fatto decisivo è x, e quel che è seguito a x è solo la (giustificata) reazione a x, per l’altro il fatto decisivo è y, e quel che è seguito a y è solo la (giustificata) reazione a y. Così lui e lei si incolpano a vicenda della rottura della relazione, e il problema del terapeuta diventa rompere il circolo senza fine delle accuse reciproche. È possibile che lo facciano anche gli storici del futuro se, come oggi spesso accade, la preoccupazione principale non sarà di ricostruire i nessi causali fra eventi ma di dare ragione a un contendente e torto all’altro. La storia del conflitto arabo-israeliano si presta perfettamente a questa deriva narrativa, perché in effetti è facilissimo raccontarla come una serie di azioni e reazioni: proclamazione dello Stato di Israele, guerra degli Stati circostanti per distruggere il nuovo Stato, risposta vittoriosa di Israele e annessione di nuovi territori, nuova guerra contro Israele (guerra dei 6 giorni, 1967), nuova espansione di Israele che si annette la penisola del Sinai, nuova aggressione degli Stati arabi (guerra dello Yom Kippur, 1973), nuove annessioni e occupazioni di terra da parte di Israele, proliferazione dei gruppi terroristici, rappresaglie israeliane, prima e seconda Intifada, eccetera eccetera…. Il tutto intervallato da innumerevoli tentativi di arrivare alla pace, per lo più basati sullo scambio fra riconoscimento di Israele e ritiri parziali dell’esercito israeliano dai territori occupati.

C’è anche una seconda possibilità, però. Ed è che gli storici non si dividano fra filo-palestinesi e filo-israeliani, ma provino a guardare alla tragedia israelo-palestinese in un’ottica più ampia. Un’ottica che includa non solo gli Stati coinvolti nei conflitti, ma anche le organizzazioni sovra-nazionali – a partire dall’Onu – che hanno interferito con essi o provato a regolarli. Non si può escludere che, in tal caso, emerga una lettura dei fatti radicalmente diversa da quelle convenzionali. Una lettura al cui centro sta la domanda: non sarà che il peccato originale, la scintilla che ha fatto deragliare il treno della storia, sia proprio la pretesa delle Nazioni Unite – con il piano di suddivisione della Palestina del 1947 – di regolare i conflitti senza avere il monopolio della forza? Non sarà che la incessante proclamazione di diritti in assenza di qualsiasi capacità di farli rispettare sia una fonte perpetua di disordine, risentimento, violenza? Non sarà il “costruttivismo”, ossia l’idea che esista un ordine giusto e razionale calabile dall’altro, il male che ha devastato gli equilibri euro-asiatici nei decenni a cavallo dei due millenni? Che cosa sono gli interventi militari in Kossovo, in Libia, in Afghanistan, in Iraq se non tentativi maldestri di pilotare il corso della storia secondo principi che ci paiono giusti?

Forse dimentichiamo che una pace deve, prima ancora che giusta, essere stabile, ossia non foriera di nuovi e più sanguinosi conflitti. O forse, più semplicemente, dimentichiamo il monito di Guido Ceronetti che, pochi anni prima di morire, proprio a proposito dei conflitti mediorientali, ricordava un detto del libro di Lao Tzu: “Il mondo non è modellabile. Chi lo modella, lo distrugge”.

La necessità di capire – Come ragionano israeliani e palestinesi

30 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

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Dopo l’orrore, per molti di noi è il tempo dello sconcerto. Il 7 ottobre abbiamo assistito, sia pure da lontano, al più barbaro episodio di violenza antisemita dai tempi delle camere a gas, eppure una parte dell’opinione pubblica tentenna. Non solo c’è chi inneggia ad Hamas (pochi, per fortuna), ma c’è un vasto movimento di opinione che, pur senza esaltare esplicitamente l’eccidio, non trova le parole per condannarlo. Si scende in piazza a sostegno della causa palestinese, si denuncia il bombardamento dell’ospedale di Gaza city (come se fosse opera di Israele), si nega il diritto di Israele a decidere come difendersi. Più fondamentalmente, e semplicisticamente, si pensa la vicenda israelo-palestinese come una tragedia in cui i buoni sono tutti da una parte (palestinesi) e i cattivi tutti dall’altra (Israele).

Di qui lo sconcerto. Come è possibile che, dopo 78 anni di retorica anti-fascista e anti-nazista, dopo aver spedito centinaia di migliaia di scolaresche ad Auschwitz, dopo aver istituito, celebrato e ricelebrato innumerevoli volte il “giorno della memoria”, dopo il diluvio di discorsi sul “dovere di non dimenticare”, siamo ancora qui a fare i conti con l’antisemitismo? Come è possibile che l’antisemitismo riemerga in occidente? E come è possibile che, quando lo fa, sia quasi sempre a sinistra?

La risposta facile è: noi ce l’abbiamo solo con Israele, non con gli ebrei. Ma è una risposta fasulla, oltreché vecchia (la ascolto dagli anni ’60). Se fosse così, non assisteremmo a migliaia di episodi – aggressioni, profanazione delle tombe, discorsi d’odio sui social media – che hanno come bersaglio singole persone di fede ebraica in Europa, negli Stati Uniti, in Canada. Soprattutto, ascolteremmo le più severe condanne nei confronti di Hamas, i cui uomini non hanno attaccato lo Stato di Israele, i suoi militari, i suoi politici, ma hanno rivolto la loro cieca violenza contro singoli e inermi cittadini, colpevoli soltanto di essere ebrei.

Ma allora qual è la risposta? Perché una parte dell’opinione pubblica è così severa con Israele e così indulgente verso Hamas?

Una ragione, senza dubbio, è l’infantilismo della mentalità woke: oggi, molto più di 30 o 40 anni fa, il mondo progressista ragiona secondo lo schema manicheo forti-deboli, con l’occidente, i paesi ricchi, e quindi innanzitutto Israele, nel ruolo di forti & cattivi. Siamo sempre lì, al “singhiozzo dell’uomo bianco” (come lo chiamava Pascal Bruckner) che vede automaticamente dalla parte del torto la civiltà occidentale, e nel ruolo di vittime tutte le altre, specie se sono ancora povere.

Ma c’è anche un’altra ragione, ed è che ci ostiniamo a leggere le vicende del medio-oriente con le nostre categorie e i nostri fantasmi, senza fare il minimo sforzo per entrare nella testa di israeliani e palestinesi. Eppure, se lo facessimo, potremmo renderci conto di tante cose. Ad esempio, che sia la società israeliana sia la società palestinese sono (ancora) società “durkheimiane”, in cui l’individuo è meno importante dell’entità collettiva cui appartiene (comunità, stato, nazione). A noi fa orrore il solo pensiero che la gioventù di Israele possa essere mandata a combattere, come non ci capacitiamo del fatto che gli ucraini sparsi per il mondo volessero tornare in patria per respingere l’invasore russo. La nostra avversione al rischio è incomparabilmente maggiore di quella dei membri delle società durkheimiane (e di quella della nostra stessa società un secolo fa), e ci rende inconcepibile il ricorso alle armi. Non per nulla al tempo degli euromissili (1977) e dell’Unione sovietica c’era chi diceva “meglio rossi che morti”, e al giorno d’oggi si possono sentire ascoltati giornalisti proclamare che gli ucraini avrebbero dovuto arrendersi ai carri armati russi. L’idea che per la libertà si possa mettere a repentaglio la propria vita ci è divenuta del tutto estranea. Come ci è divenuta estranea l’idea che in ogni guerra vi siano vittime civili, come se non avessimo memoria dei bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale.

Ma altrettanto incomprensibile, per molti di noi, è diventato quel che succede sul versante palestinese. Da un lato, si esita a riconoscere che quel che distingue il terrorismo dalle varie forme di resistenza e di lotta armata è la deliberata uccisione di civili, compresi anziani, donne e bambini. Dall’altro si dimentica che, nel conflitto israelo-palestinese, almeno dagli anni ’80, la componente religiosa è fondamentale. Si uccide in nome di Allah, convinti che sia doveroso farlo e – spesso – che si otterrà una ricompensa nell’aldilà. Una ventina di anni fa mi è capitato, come sociologo, di studiare le missioni suicide in Palestina, di leggere i resoconti dei “martiri” e delle loro famiglie, di studiare i passi del Corano che legittimano l’uccisione degli infedeli e di coloro che “portano la corruzione sulla terra” (in particolare: Sura V, versetto 32). Difficile, se non si hanno pregiudizi, non vedere la potenza motivazionale della religione, specie se ci si attiene alla lettera del Corano, e la guida politica di un popolo passa dalle organizzazioni laiche (l’Olp di Arafat e Abu Mazen) a quelle a matrice religiosa (come Hamas, organizzazione caritatevole involuta in terrorista).

Certo, tutto questo non deve farci recedere dai nostri sforzi di cercare una via di uscita ragionevole dalla crisi. Ma dovrebbe insegnarci che, se le vie semplici non esistono, è anche perché loro non pensano come noi, e noi non pensiamo come loro. Capire come pensa un israeliano e come pensa un palestinese, forse, è la prima cosa che dovremmo fare per aiutarli a trovare una strada meno sanguinosa di quella percorsa fin qui.

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