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Gaza, fake numbers?

13 Marzo 2024 - di Luca Ricolfi

Fact and figuresIn primo piano

C’è una cosa che, con il passare dei mesi, sempre più mi stupisce riguardo alla guerra di Gaza (ma anche alla guerra in Ucraina): il disinteresse della maggior parte della stampa, e ancor più delle tv, per i numeri della guerra. Sembra che le uniche cose importanti siano le dichiarazioni dei protagonisti (cioè la propaganda), le indiscrezioni (per lo più inattendibili), e i reportage su quel che accade a una delle due parti in conflitto (i Palestinesi). Come se lo scopo fosse solo di eccitare gli animi di chi parteggia per una delle due parti, e muovere a pietà la maggioranza dei cittadini-telespettatori.

Ma siamo sicuri che informare significhi solo questo? Siamo sicuri che non significhi anche raccontare che cosa veramente succede sul campo, e a che punto è la guerra rispetto agli obiettivi delle due parti in conflitto?

Faccio due esempi.

Primo esempio. Le cifre riportate dai media sono quasi sempre, e quasi esclusivamente, quelle fornite dai terroristi, rivestite di autorevolezza attribuendone l’origine al “ministero della Sanità” di Hamas. Su queste cifre (30 mila morti dall’inizio della guerra), e sulla loro disaggregazione in donne, bambini, anziani eccetera, non vi è il minimo controllo critico.

Naturalmente, di fronte alla richiesta di cifre vere sul numero di civili palestinesi uccisi, si può obiettare che 10, 20 o 30 mila sono sempre tantissimi, troppi, e quindi è inutile cercare di verificare (ma che cosa penseremmo se, dopo un grave incidente di lavoro in un cantiere, ci dicessero che sono morti 10-30 operai, e che è inutile sottilizzare sul numero esatto?).

Secondo esempio. Israele afferma di voler smantellare Hamas. Ma, se è così, non sarebbe essenziale avere qualche informazione sulle forze in campo, e sui risultati militari della guerra in corso? Quanti sono i miliziani di Hamas, e quanti ne sono stati uccisi finora? Quanti soldati ha Israele dentro Gaza, e quanti ne ha già persi?

A leggere i giornali e ad ascoltare radio e tv, sembra che i morti – oltre ad essere tantissimi – siano tutti civili, quasi che l’obiettivo dell’esercito israeliano sia lo sterminio della popolazione di Gaza e non l’eliminazione della rete terroristica di Hamas. Nessuno stupore che, con un’informazione così, attivisti e cantanti si sentano autorizzati a chiedere di “fermare il genocidio”, e un sondaggio di Renato Mannheimer riveli che oltre il 60% dell’opinione pubblica chiede a Israele di ritirarsi senza porre condizioni sul rilascio degli ostaggi.

In realtà, la vera domanda è un’altra: il compito dell’informazione è solo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’entità e la gravità della tragedia in atto (nel qual caso basterebbe dire: decine di migliaia di morti), o è anche quello di fornire un quadro preciso dei fatti, come succede quando c’è un disastro in un cantiere, o un naufragio in mare, e si cerca di capire non solo quanti hanno perso la vita ma anche come sono andate le cose?

È proprio perché queste perplessità mi inseguono da un bel po’, che ho appreso con sollievo che, almeno nel mondo anglosassone, c’è anche chi le domande-base se le fa. Un rapporto dello statistico Abraham Wyner, della Università della Pennsylvania, ha sottoposto a una analisi statistica i dati giornalieri dei morti di Hamas, disaggregati fra bambini, donne e maschi. Ho letto il suo report, e concordo sulle conclusioni, anche se non su tutti i dettagli: ci sono troppe anomalie matematico-statistiche nell’andamento giornaliero per non pensare che le cifre siano altamente inquinate.

Ma la conclusione più importante non è la stima del numero di civili morti (compresa fra 10 e 20 mila), ma la risposta alla domanda che facevo all’inizio, ossia quanti sono i miliziani di Hamas già eliminati sul totale dei miliziani. Mettendo insieme notizie di Hamas e di Israele sul numero di miliziani uccisi, si può azzardare che tale numero sia vicino a 10 mila, su un totale di 30 mila combattenti. Questo significa che, dopo soli 4 mesi, Israele – cha finora ha perso circa 600 soldati – è grosso modo a 1/3 della missione che si è prefissa, ossia molto avanti. Il che, forse, ci permette di capire meglio perché il suo esercito non si vuole fermare: un cessate il fuoco comprometterebbe un obiettivo che, ormai, appare a portata di mano. Ma anche di capire che, verosimilmente, la guerra potrebbe durare ancora qualche mese, non anni come quella in Ucraina.

Forse, più che illuderci su un imminente cessate il fuoco, varrebbe la pena cominciare a pensare anche al dopo. La popolazione civile di Gaza non ha solo bisogno di aiuti umanitari e sostegno morale, ma di piani realistici e generosi per quando – finalmente – tornerà la pace, e la vita riprenderà a scorrere sulla “Striscia”.

 

[uscito sul quotidiano La Ragione il 12 marzo 2024]

Palestina, due popoli in ostaggio

31 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Quando si discute di Israele, degli attacchi del 7 ottobre e della conseguente invasione di Gaza, ci troviamo – quasi automaticamente – di fronte a due racconti standard. Secondo il racconto israeliano, l’origine del dramma è il rifiuto da parte palestinese della soluzione dei due Stati, patrocinata dall’ONU fin dal 1947; un rifiuto protratto e iterato per almeno mezzo secolo, man mano che le varie offerte israeliane venivano bruciate l’una dopo l’altra dai più o meno legittimi rappresentanti del popolo palestinese.

Secondo il racconto palestinese, l’origine del dramma è la nakba (la catastrofe) del 1948, ovvero l’espulsione violenta, per opera di forze israeliane, di 700 mila palestinesi dai loro villaggi e dalle loro terre; una espulsione che, sotto forme diverse, si è ripetuta innumerevoli volte nei decenni successivi.

Questi due racconti non sono falsi, o uno vero e l’altro falso. A modo loro, sono sostanzialmente veri entrambi, sia pure da angolature diverse. Il problema è che sono omissivi, gravemente omissivi. E lo sono sul medesimo punto e per la medesima ragione, e cioè perché rimuovono il ruolo realmente svolto dalle rispettive classi dirigenti.

Sul versante palestinese, e più in generale nel mondo arabo, manca qualsiasi riflessione sia sulla catastrofica e strumentale gestione della questione palestinese da parte degli stati arabi “amici” (a partire da Giordania e Egitto), sia sulla qualità delle leadership che – lungo 75 anni – hanno condotto le guerre e le trattative con Israele. Promuovere o tollerare la via del terrorismo, convogliare la maggior parte degli aiuti internazionali in armamenti, usare sistematicamente i civili come scudi umani, hanno inflitto al popolo palestinese sofferenze indicibili, di cui nessun leader è mai stato chiamato a rispondere. In questo senso, hanno perfettamente ragione quanti sostengono che il primo nemico del popolo palestinese sono i suoi capi e dirigenti, cui si deve l’impressionante sequenza di scelte autolesionistiche attuate dal 1948 a oggi.

Ma sul versante israeliano le cose non sono andate molto meglio, soprattutto negli ultimi decenni. Quel che i difensori di Israele sistematicamente dimenticano è che la costante di (quasi) tutte le politiche che si sono avvicendate dal 1948 in poi è stata la progressiva annessione, con l’occupazione militare e con gli insediamenti dei coloni, di terre originariamente assegnate dalle Nazioni Unite ai palestinesi. Certo, ci sono anche stati dei momenti in cui i governi israeliani hanno fatto passi indietro – come la restituzione del Sinai all’Egitto, o la cessione di porzioni della Cisgiordania, o la rinuncia alla striscia di Gaza – ma basta un’occhiata alla successione delle cartine che rappresentano i confini di Israele e la mappa degli insediamenti dei coloni per rendersi conto di due circostanze.

Primo, la tendenza di fondo è al restringimento della porzione di Palestina controllata dai palestinesi, che già era inferiore al 50% nelle intenzioni dell’ONU, ed è ridotta al 10% oggi (e a circa il 5% se escludiamo l’area B della Cisgiordania, a controllo misto israelo-palestinese).

Secondo, gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono così numerosi, diffusi e puntiformi da rendere praticamente inconcepibile la formazione di un vero Stato palestinese, dotato di continuità territoriale, a meno di espellere centinaia di migliaia di coloni israeliani: la politica degli insediamenti, poco per volta, ha determinato una sorta di fatto compiuto irreversibile, che ipoteca il futuro di entrambi i popoli. Da questo punto di vista non saprei dire se fa più ribrezzo il cinismo con cui Netanyahu rifiuta la soluzione dei due Stati che lui stesso ha reso impraticabile, o l’ipocrisia di Biden, che finge che quella alternativa sia ancora sul tavolo.

Possiamo sentirci più vicini al popolo palestinese o a quello israeliano, ma è difficile non prendere atto che, entrambi, sono anche ostaggi e vittime (quanto innocenti?) di classi dirigenti che non sono state all’altezza.

Perché non possiamo stupirci – Il ritorno dell’antisemitismo

6 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Le piazze occidentali, prima ancora che scattasse la reazione israeliana all’eccidio del 7 ottobre, si sono riempite di manifestanti solidali con la causa palestinese, ferocemente ostili ad Israele, per niente critici con Hamas. Contemporaneamente, nei quartieri delle grandi città, intorno alle sinagoghe, nei cimiteri si sono moltiplicati i gesti esplicitamente antisemiti. Mai, dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla chiusura dei campi di sterminio hitleriani, si era sentito tanto odio verso gli ebrei, i loro simboli, le loro istituzioni.

Di fronte a tutto questo, la reazione di tanti liberali, più che di indignazione, è stata di incredulità. A molti è parso semplicemente inconcepibile che, dopo tanti anni passati a denunciare gli orrori della Shoah, le nostre avanzatissime società democratiche dovessero scoprire, improvvisamente, di non avere gli anticorpi per arginare l’antisemitismo. Ed è parso sconvolgente che i primi a non avere quegli anticorpi fossero proprio i più giovani e istruiti, a partire dagli studenti delle grandi università americane.

Ma è davvero stupefacente la marea antisemita che è montata in queste settimane? È davvero sconvolgente che, a tanti settori della sinistra, risulti impossibile denunciare la natura terroristica di Hamas? È davvero strano che, dopo decenni di politicamente corretto e di antirazzismo, il mondo progressista non senta il bisogno di scendere in piazza contro il moltiplicarsi degli episodi di antisemitismo?

Ebbene no. Non è affatto strano. Una ragione c’è, anzi ce ne sono parecchie. La più importante è che, in questi quasi 80 anni che ci separano dalla liberazione dal nazi-fascismo, la persecuzione degli ebrei è stata raccontata in modo storicamente fuorviante e ideologicamente strumentale.

Storicamente fuorviante perché è stata completamente omessa la storia delle innumerevoli persecuzioni degli ebrei nell’antichità, nel medioevo, nell’era moderna, prima e soprattutto dopo le leggi razziali e i campi di concentramento. Che cosa sanno i ragazzi, per stare solo agli ultimi due secoli, dei pogrom (stermini di massa) contro gli ebrei in Ucraina, in Bielorussia, in Unione sovietica, con e senza Stalin? Che cosa è stato loro raccontato dell’antisemitismo dei giorni nostri, in Europa come in Nordamerica?

Fondamentalmente, nulla. L’antisemitismo è stato raccontato come una follia del regime nazista, cui malauguratamente e colpevolmente aderì anche il fascismo. Dunque come un unicum, un colpo di testa della storia universale, per scongiurare il cui ripetersi era doveroso (e sufficiente) l’impegno antifascista e antinazista, la vigilanza permanente dei sinceri democratici contro i rigurgiti del regime. Come se l’antisemitismo fosse un’esclusiva del nazi-fascismo, e non un atteggiamento ad ampio spettro, che ha profondamente coinvolto anche altri paesi e altre ideologie, a partire dal comunismo, dal fanatismo islamico, dallo stesso cristianesimo. Il “dovere della memoria” rispetto alla tragedia di Auschwitz è stato ridotto e sminuito, strumentalmente, ad arma di lotta politica, senza preoccuparsi di trasmettere conoscenza e costruire consapevolezza sul dramma degli ebrei. Possiamo stupirci che, con queste premesse, l’occidente oggi si trovi senza anticorpi?

Si potrebbe obiettare che, almeno un aspetto delle vicende di questi giorni sia stupefacente, e cioè lo scambio di ruoli fra destra e sinistra, con la destra (presunta erede del fascismo) che difende Israele e si indigna per gli episodi di antisemitismo, e la sinistra che non ce la fa a condannare Hamas senza tentennamenti, precisazioni, distinguo. Ma anche questo non è strano, a pensarci bene. Non solo perché c’è, in una parte della sinistra, una lunga tradizione di ambiguità sulla legittimità della violenza, della lotta armata, del terrorismo, allorquando sono al servizio di una causa percepita come giusta; ma anche perché c’è – nella mentalità progressista – una fondamentale incapacità di vedere gli attori delle vicende umane come responsabili delle loro azioni.

L’uccisione di civili inermi, gli stupri, le decapitazioni, non vengono giudicate per quello che sono, ossia scelte di chi le compie, ma giustificate come reazioni –  inevitabili, quasi meccaniche – dei più deboli di fronte a una condizione insostenibile dovuta alla prepotenza dei più forti. I terroristi non sono visti come esseri umani, cui chiedere conto delle proprie azioni, ma come macchine irresponsabili del loro operato,

deterministicamente mosse dalla situazione oggettiva in cui si trovano.

Ma non funziona così. Ce lo ha ricordato qualche giorno fa dalle colonne della Stampa il teologo Vito Mancuso, riprendendo la testimonianza dello psicologo viennese Victor Frankl (un sopravvissuto ad Auschwitz) sulle condizioni nel campo di sterminio: “per fortuna o sfortuna che sia, la libertà esiste davvero”; e “tutto ciò che accade all’anima dell’uomo è frutto di una decisione interna. In linea di principio ogni uomo, anche se condizionato da gravissime condizioni esterne, può in qualche modo decidere che cosa sarà di sé”.

I terroristi di Hamas, che cosa essere, lo hanno deciso: non esiste alcuna “situazione oggettiva” che può averli costretti a fare quel che hanno fatto.

La necessità di capire – Come ragionano israeliani e palestinesi

30 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Dopo l’orrore, per molti di noi è il tempo dello sconcerto. Il 7 ottobre abbiamo assistito, sia pure da lontano, al più barbaro episodio di violenza antisemita dai tempi delle camere a gas, eppure una parte dell’opinione pubblica tentenna. Non solo c’è chi inneggia ad Hamas (pochi, per fortuna), ma c’è un vasto movimento di opinione che, pur senza esaltare esplicitamente l’eccidio, non trova le parole per condannarlo. Si scende in piazza a sostegno della causa palestinese, si denuncia il bombardamento dell’ospedale di Gaza city (come se fosse opera di Israele), si nega il diritto di Israele a decidere come difendersi. Più fondamentalmente, e semplicisticamente, si pensa la vicenda israelo-palestinese come una tragedia in cui i buoni sono tutti da una parte (palestinesi) e i cattivi tutti dall’altra (Israele).

Di qui lo sconcerto. Come è possibile che, dopo 78 anni di retorica anti-fascista e anti-nazista, dopo aver spedito centinaia di migliaia di scolaresche ad Auschwitz, dopo aver istituito, celebrato e ricelebrato innumerevoli volte il “giorno della memoria”, dopo il diluvio di discorsi sul “dovere di non dimenticare”, siamo ancora qui a fare i conti con l’antisemitismo? Come è possibile che l’antisemitismo riemerga in occidente? E come è possibile che, quando lo fa, sia quasi sempre a sinistra?

La risposta facile è: noi ce l’abbiamo solo con Israele, non con gli ebrei. Ma è una risposta fasulla, oltreché vecchia (la ascolto dagli anni ’60). Se fosse così, non assisteremmo a migliaia di episodi – aggressioni, profanazione delle tombe, discorsi d’odio sui social media – che hanno come bersaglio singole persone di fede ebraica in Europa, negli Stati Uniti, in Canada. Soprattutto, ascolteremmo le più severe condanne nei confronti di Hamas, i cui uomini non hanno attaccato lo Stato di Israele, i suoi militari, i suoi politici, ma hanno rivolto la loro cieca violenza contro singoli e inermi cittadini, colpevoli soltanto di essere ebrei.

Ma allora qual è la risposta? Perché una parte dell’opinione pubblica è così severa con Israele e così indulgente verso Hamas?

Una ragione, senza dubbio, è l’infantilismo della mentalità woke: oggi, molto più di 30 o 40 anni fa, il mondo progressista ragiona secondo lo schema manicheo forti-deboli, con l’occidente, i paesi ricchi, e quindi innanzitutto Israele, nel ruolo di forti & cattivi. Siamo sempre lì, al “singhiozzo dell’uomo bianco” (come lo chiamava Pascal Bruckner) che vede automaticamente dalla parte del torto la civiltà occidentale, e nel ruolo di vittime tutte le altre, specie se sono ancora povere.

Ma c’è anche un’altra ragione, ed è che ci ostiniamo a leggere le vicende del medio-oriente con le nostre categorie e i nostri fantasmi, senza fare il minimo sforzo per entrare nella testa di israeliani e palestinesi. Eppure, se lo facessimo, potremmo renderci conto di tante cose. Ad esempio, che sia la società israeliana sia la società palestinese sono (ancora) società “durkheimiane”, in cui l’individuo è meno importante dell’entità collettiva cui appartiene (comunità, stato, nazione). A noi fa orrore il solo pensiero che la gioventù di Israele possa essere mandata a combattere, come non ci capacitiamo del fatto che gli ucraini sparsi per il mondo volessero tornare in patria per respingere l’invasore russo. La nostra avversione al rischio è incomparabilmente maggiore di quella dei membri delle società durkheimiane (e di quella della nostra stessa società un secolo fa), e ci rende inconcepibile il ricorso alle armi. Non per nulla al tempo degli euromissili (1977) e dell’Unione sovietica c’era chi diceva “meglio rossi che morti”, e al giorno d’oggi si possono sentire ascoltati giornalisti proclamare che gli ucraini avrebbero dovuto arrendersi ai carri armati russi. L’idea che per la libertà si possa mettere a repentaglio la propria vita ci è divenuta del tutto estranea. Come ci è divenuta estranea l’idea che in ogni guerra vi siano vittime civili, come se non avessimo memoria dei bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale.

Ma altrettanto incomprensibile, per molti di noi, è diventato quel che succede sul versante palestinese. Da un lato, si esita a riconoscere che quel che distingue il terrorismo dalle varie forme di resistenza e di lotta armata è la deliberata uccisione di civili, compresi anziani, donne e bambini. Dall’altro si dimentica che, nel conflitto israelo-palestinese, almeno dagli anni ’80, la componente religiosa è fondamentale. Si uccide in nome di Allah, convinti che sia doveroso farlo e – spesso – che si otterrà una ricompensa nell’aldilà. Una ventina di anni fa mi è capitato, come sociologo, di studiare le missioni suicide in Palestina, di leggere i resoconti dei “martiri” e delle loro famiglie, di studiare i passi del Corano che legittimano l’uccisione degli infedeli e di coloro che “portano la corruzione sulla terra” (in particolare: Sura V, versetto 32). Difficile, se non si hanno pregiudizi, non vedere la potenza motivazionale della religione, specie se ci si attiene alla lettera del Corano, e la guida politica di un popolo passa dalle organizzazioni laiche (l’Olp di Arafat e Abu Mazen) a quelle a matrice religiosa (come Hamas, organizzazione caritatevole involuta in terrorista).

Certo, tutto questo non deve farci recedere dai nostri sforzi di cercare una via di uscita ragionevole dalla crisi. Ma dovrebbe insegnarci che, se le vie semplici non esistono, è anche perché loro non pensano come noi, e noi non pensiamo come loro. Capire come pensa un israeliano e come pensa un palestinese, forse, è la prima cosa che dovremmo fare per aiutarli a trovare una strada meno sanguinosa di quella percorsa fin qui.

Il tempo delle credenze

21 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

Dossier Hume

Chi ha provocato la strage di civili e di malati all’ospedale di Gaza? È stato un bombardamento dell’esercito israeliano o un lancio fallito di un razzo di Hamas?

Secondo Lucio Caracciolo, uno dei più autorevoli studiosi di questioni internazionali, ci sono tre soggetti che conoscono la verità (Usa, Israele, Hamas), ma questa storia è destinata a restare “avvolta in una nube di tragica leggenda”. In assenza di testimoni indipendenti sul terreno, Hamas potrà continuare a dare la colpa all’esercito israeliano, Israele a darla ad Hamas.

E noi? Noi siamo impotenti. O meglio, siamo divisi in due campi. Quello di coloro che credono di sapere, e quello di coloro che sanno di non sapere.

Al primo campo appartengono gli schierati, convinti di poter scegliere fra le due versioni in base alle proprie convinzioni fondamentali: non può che essere stato Israele, non può che essere stato Hamas. Come Pier Paolo Pasolini che, di fronte alle stragi di Milano, Bologna, Brescia, diceva “io so, ma non ho le prove”. E diceva di sapere perché era un intellettuale, capace di collegare e interpolare frammenti di verità per ricomporli in una sola verità vera. Oggi la medesima hybris di sapere serpeggia ovunque, nei cortei degli studenti filo-palestinesi, nei media assetati di vendetta, nelle folle che in Medio Oriente assaltano le ambasciate occidentali e inneggiano alla distruzione di Israele.

Al secondo campo, quello di coloro che sanno di non sapere, appartiene la maggior parte della gente comune, ma anche una piccola minoranza di studiosi, scrittori, giornalisti, cui mi sento di appartenere anch’io. Per noi è tragico quel che è successo, ma è anche terribile il modo in cui se ne parla. È terribile che, in omaggio al dovere di cronaca, vengano accostate notizie e pseudo-notizie, fonti autorevoli e fonti prive di ogni credibilità. È terribile che il 95% dell’informazione nei media più seguiti (tv e social) non sia informazione ma spettacolo. Dove l’ospite è invitato perché si sa già che parte farà, come se un talk show fosse un combattimento fra cani. Dove è evidentissimo che nessuno vuole scoprire come sono andate le cose, e che nessuno modificherà mai la propria idea ascoltando quella degli altri.

Da dove viene questa mancanza di interesse per la verità, anche quando una verità fattuale esiste, come nel caso della tragedia di Gaza? Che cos’è che ha intossicato il mondo dell’informazione?

Fino a qualche anno fa pensavo che il problema centrale fossero la faziosità, la partigianeria, l’ignoranza, tutti guai che affliggono in modo particolare il nostro paese e il nostro sistema dei media. Oggi la vedo un po’ diversamente. Oggi la faziosità non è il problema, ma è la soluzione. Paradossale, contro-intuitiva, immorale quanto vi pare, ma a suo modo risolutiva. La faziosità risolve, in modo aberrante, quello che sta diventando il problema centrale del nostro tempo: l’impossibilità, per il cittadino comune (ma spesso anche per il cittadino più attrezzato), di valutare l’attendibilità di una notizia. Se la medesima notizia è data per vera da una fonte e per falsa da un’altra, che cosa mi resta se non decidere io, con le mie convinzioni e i miei pregiudizi, da che parte sta la verità?

In questo, la tecnologia non aiuta, e la moltiplicazione delle fonti ancor meno. La tecnologia toglie ogni valore di verità alle immagini, che possono essere manipolate e “fotoshoppate” a piacimento, come ben sanno ragazze e ragazzi che si scambiano foto in rete. E neppure gli audio si salvano: se è diventato facilissimo clonare la voce altrui e farsi credere un’altra persona (così, recentemente, una ragazza americana ha scoperto il tradimento del fidanzato), perché mai dovremmo credere all’esercito israeliano quando manda in onda una conversazione fra due palestinesi che confessano che l’attentato all’ospedale di Gaza è opera di Hamas?

Quanto alla moltiplicazione delle fonti, la sua funzione principale non è di permettere a voci scomode di farsi sentire, ma semmai di fornire ad ogni pregiudizio una fonte su cui poggiare. Un meccanismo ben noto fin dagli anni ’50, grazie agli studi di Leon Festinger (l’inventore della “teoria della dissonanza cognitiva”), ma divenuto ubiquo e pervasivo nell’era dei social.

Ma, si dirà, non tutte le fonti hanno la medesima autorevolezza: ci sono fonti autorevoli e fonti screditate. Temo che questa sia una grave semplificazione. Perché le fonti autorevoli sono spesso parziali, e di fonti imparziali (e riconoscibili) ve ne sono pochissime. Forse la vera domanda è un’altra: come mai, in un mondo che ne avrebbe sempre più bisogno, la domanda di imparzialità è sempre più scarsa?

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