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Consumismo, rivendicazione di diritti individuali e violenza contro le donne

20 Ottobre 2023 - di Silvia Bonino

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Luca Ricolfi nel suo articolo A proposito di stupri. Il lato oscuro della civiltà, del 3 settembre scorso, ha fatto chiarezza sui dati statistici italiani ed europei relativi agli stupri e alle uccisioni di donne, compresi i femminicidi “di possesso”, in cui l’uomo non accetta di perdere quella che considera la “sua” donna. In questo come in altri casi, il confronto con i dati obiettivi consente di fare luce su un fenomeno, mettendo in discussione le interpretazioni stereotipate, individuali e collettive, che vanno per la maggiore.

A conclusione del suo intervento, l’autore si chiede: non sarà che il nostro modello di civiltà, basato sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali, contenga in sé un difetto di fabbricazione, una sorta di vizio nascosto? Cerco qui di rispondere alla sua domanda, che a mio parere va al cuore della questione. Lo faccio riferendomi all’analisi del rapporto tra influenze culturali e disposizioni biologiche, relativamente alle relazioni tra uomini e donne, che ho approfondito nel mio libro Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia (Laterza, 2019).

Riguardo alle disposizioni biologiche, occorre in primo luogo prendere atto dell’esistenza di una tendenza filogeneticamente primitiva, radicata nella parte più arcaica dl cervello umano, che collega sessualità e aggressione nei maschi, così come sessualità e paura nelle femmine, in un rapporto di dominanza-sottomissione. Ci sono fortissime resistenze nel prendere consapevolezza dell’esistenza di queste disposizioni, e in particolare della disposizione maschile primitiva, principalmente per due ragioni: una di carattere generale, poiché si ritiene che tutto sia solo culturale (“dipende tutto soltanto dal modello patriarcale”), e una specifica, poiché vi è il timore che riconoscere l’esistenza di disposizioni biologiche significhi legittimare come inevitabile la violenza sulle donne (“la natura dei maschi è necessariamente violenta, non si può fare nulla, bisogna rassegnarsi”). Non è così, perché stiamo parlando di disposizioni filogeneticamente arcaiche e preumane, risalenti ai primi vertebrati (i rettili), quindi non specifiche della sessualità umana. Quest’ultima, al contrario, ha congiunto lungo la filogenesi il sesso ai legami e non alla violenza: nessuna necessità biologica costringe gli uomini alla sopraffazione, che è del tutto disadattiva e genera solo sofferenza individuale e sociale. Nella complessità dell’architettura e del funzionamento del cervello, da cui la mente emerge, queste disposizioni sono però ancora presenti come possibilità, non certo come necessità, e negarle costituisce un pessimo meccanismo di difesa, che non aiuta a evitare che tali disposizioni si manifestino e si traducano in azioni violente. Finché non si prende atto – come uomini e anche come donne – dell’esistenza di questa possibilità ancora presente nel cervello maschile non si farà mai nessun passo in avanti nel superamento dei rapporti di dominanza e sopraffazione delle donne, che non si concretizzano unicamente nello stupro.

Ma la presa d’atto non è che il primo passo, necessario ma non sufficiente, dal momento che siamo “animali culturali”, in cui la cultura – con l’educazione, i modelli, i simboli, gli stimoli, ecc. – interagisce continuamente con le nostre disposizioni biologiche. Si tratta quindi di chiedersi come la cultura può favorire l’emergere delle disposizioni primitive a scapito di quelle più evolute, specificamente umane, che congiungono la sessualità ai legami personali e danno luogo a rapporti egualitari, gli unici capaci di procurare benessere.

Veniamo allora alla domanda se non sia il nostro modello di civiltà, basato “sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali”, a favorire e stimolare le disposizioni maschili più arcaiche. Dall’analisi dei processi psicologici implicati nei modelli individualisti e consumistici in cui siamo immersi ormai da decenni, la risposta è affermativa (ho esaminato in specifico questi aspetti nel capitolo 3 del libro citato).

Partiamo dal consumismo e dall’educazione consumistica che ne è derivata. Quest’ultima rappresenta la massima concretizzazione dell’educazione permissiva, che prevede il soddisfacimento di ogni richiesta infantile. Già era noto da tempo, perché confermato da tutti gli studi in proposito, che l’educazione permissiva conduce, assai più di quella autoritaria, a un aumento generalizzato del comportamento aggressivo e al mancato sviluppo del comportamento prosociale (Mestre et  Al., 2006) Con l’affermarsi del consumismo, non solo ogni desiderio infantile viene assecondato, ma le richieste sono crescenti, spinte dalla pubblicità e dal confronto conformistico con i coetanei; quest’ultimo diventa particolarmente pressante in adolescenza, per l’importanza che il gruppo dei pari acquisisce a quest’età. Inoltre, queste richieste sono soddisfatte grazie al denaro, che assume così un grandissimo valore come strumento per ottenere tutto ciò che si vuole.

I bambini educati in questi ultimi decenni secondo modalità permissive e consumistiche sono quindi cresciuti nell’abitudine a veder soddisfatto ogni desiderio di possedere qualcosa; di fatto non si tratta nemmeno di un vero desiderio, che richiederebbe ben altra consapevolezza, ma di un impulso, una voglia, un capriccio momentaneo. L’immediato passaggio da questo al possesso ha impedito lo sviluppo di tutte quelle capacità che consentono di raggiungere nel tempo un obiettivo significativo e appagante. Si tratta di capacità tra loro collegate che vengono distinte solo per comodità di analisi: cognitive (immaginazione, creatività, progettazione di uno o più percorsi, aggiramento, valutazione, ecc.), emotive (saper rimandare, avere pazienza, perseverare, gestire la paura e l’ansia, scegliere, riconoscere i limiti, ecc.), sociali (empatia, sapersi mettere dal punto di vista altrui, tenere conto dei desideri altrui, saper coinvolgere gli altri, saper cooperare per uno scopo comune, ecc.).  È stata al contrario favorita l’impulsività, con un appiattimento sul presente (voler ottenere tutto subito) e su di sé (conta solo il proprio desiderio). In modo ancora più profondo, questo tipo di educazione non sviluppa la sicurezza e la fiducia nelle proprie capacità di essere in grado di raggiungere un obiettivo e di superare gli eventuali ostacoli o insuccessi: sono aspetti basilari che si possono sviluppare solo facendo esperienza, lungo l’età evolutiva, di situazioni in cui il proprio desiderio non è immediatamente soddisfatto e il denaro non serve per raggiungere lo scopo.

Tutto questo ha effetti rovinosi sul piano relazionale, con un incremento dei comportamenti aggressivi. Un bambino diventato adolescente e adulto con questo modello educativo risulta incapace di rimandare la soddisfazione del suo desiderio sessuale, e quindi di tenere conto della volontà dell’altra persona, così come di tollerarne il rifiuto, che non sa come affrontare. Abituato a ottenere tutto ciò che desidera, ritiene di poter avere anche il corpo di chi desidera.  Viene quindi favorita l’imposizione sessuale con la violenza.

Anche a livello affettivo l’educazione permissiva consumistica ha provocato una diffusa incapacità a costruire relazioni sentimentali, poiché non ha permesso lo sviluppo delle competenze necessarie per coinvolgere l’altro. Poiché ci si aspetta che il proprio desiderio venga sempre soddisfatto, e ci si illude che sia possibile possedere l’affetto di un’altra persona, così come si posseggono le cose, i fallimenti e le frustrazioni sono inevitabili.  Infatti l’affetto non si può imporre e nemmeno comprare – come invece si può fare con il sesso – ma soltanto condividere e costruire insieme, cosa che non si è in grado di fare per mancanza delle indispensabili capacità relazionali. Di conseguenza, diventati adolescenti e adulti, i bambini cresciuti secondo il modello educativo consumistico sono del tutto incapaci di tollerare il rifiuto affettivo o l’abbandono, situazioni che appaiono allo stesso tempo inconcepibili (“come si permette di sfuggire al mio possesso?”) e insuperabili (“non posso fare niente”). La violenza rappresenta la reazione più facile a un tale profondo vissuto di frustrazione.

La soddisfazione illimitata dei propri desideri, caratteristica del modello consumistico, ha avuto un’altra importante conseguenza: essa ha favorito la trasformazione di ogni desiderio in diritto, reclamato non solo a livello individuale ma anche collettivo. Sul piano psicologico, questa trasformazione ha due grandi vantaggi: anzi tutto, essa converte una richiesta soggettiva ed egocentrica – e come tale censurabile – in qualcosa di oggettivo ed eticamente fondato; di conseguenza, essa permette di condannare chi avanza critiche come un illiberale che non rispetta i diritti altrui. Il risultato è una crescente enfasi sui diritti individuali, caratteristica delle società occidentali “avanzate”.

Questa centratura sui diritti individuali – espressione in realtà di desideri personali – è andata di pari passo con la disattenzione alle corrispondenti esigenze altrui, fino a dimenticare che la rivendicazione di un diritto comporta il riconoscimento speculare dell’analogo diritto degli altri, da cui derivano necessariamente dei limiti all’affermazione del proprio. Infatti, l’enfasi sui diritti ha avuto l’effetto retroattivo di favorire l’egocentrismo, poiché ha legittimato la pretesa di vedere soddisfatto ogni desiderio, senza tenere conto degli altri e dei limiti che da essi provengono. Si è così creato un circolo vizioso di progressiva chiusura egocentrica e di aumento della conflittualità relazionale, che sfocia facilmente in comportamenti aggressivi.

Per tornare dal punto da cui è partita questa analisi – l’interazione tra fattori biologici e culturali – dobbiamo essere consapevoli che la cultura consumistica in cui siamo immersi non sta favorendo lo sviluppo delle potenzialità di socialità positiva che sono caratteristiche della nostra specie (Bonino, 2012). Al contrario, l’espansione illimitata dei consumi e dei diritti che la caratterizza, sia nell’educazione dei bambini e degli adolescenti sia nella vita degli adulti, favorisce l’emergere delle disposizioni aggressive più arcaiche ancora presenti in noi, in particolare nel cervello maschile. Ne deriva che il superamento della diffusa sopraffazione e violenza sulle donne è possibile solo modificando in profondità i modelli educativi e culturali in cui siamo immersi: piccoli aggiustamenti non sono sufficienti. Di certo le disposizioni di socialità positiva di cui siamo biologicamente dotati come specie umana rendono possibile questo superamento e inducono alla speranza; occorre però una cultura e un’educazione che ne favoriscano l’attuazione.

 

Riferimenti bibliografici

Bonino S. (2012). Altruisti per natura. Alle radici della socialità positiva. Roma: Laterza.

Bonino S. (2019). Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia. Laterza: Roma.

Mestre V., Tur A.M., Samper P., Nàcher M. J., Cortés M. T., Stili educativi e condotta prosociale. In: Caprara G. V., Bonino S. (2006). Il comportamento prosociale. Erickson: Trento, pp. 135-156.

A proposito di stupri – Il lato oscuro della civiltà

3 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Ogni tanto la stampa e le televisioni ci informano di qualche drammatica violenza su donne, ragazze, e persino bambine: stalking, abusi sessuali, stupri, femminicidi. Ultimamente, l’attenzione è caduta su due casi di stupro di gruppo avvenuti uno a Palermo, l’altro a Caivano in provincia di Napoli, in una realtà degradata e ostaggio della criminalità.

Notizie di questo tipo sono doverose, e tanto più utili quanto più accompagnate da ricostruzioni accurate del contesto economico, sociale e culturale in cui i fatti maturano. C’è un risvolto della medaglia, tuttavia. Da questo genere di episodi, di cui si parla qualche volta al mese, possono derivare credenze sostanzialmente errate. Ad esempio, che si tratti di poche decine di casi l’anno. O che la matrice siano le condizioni sociali e culturali, particolarmente problematiche nel Mezzogiorno. O che l’Italia sia una realtà particolarmente arretrata, ben lontana dagli standard di civiltà di tante altre società avanzate.

Ebbene, nessuna di queste letture, spesso stimolate dagli episodi di cronaca, regge a un’analisi dei dati (pur imperfetti e frammentari) di cui oggi disponiamo. Partiamo dal numero di stupri: le denunce sono circa 5 al giorno, con un “numero oscuro” di almeno 50 casi non denunciati ogni giorno. Una stima rozza e per difetto suggerisce che gli stupri siano dell’ordine di 20 mila l’anno.

Ma dove si concentrano gli stupri? I dati disponibili mostrano che, contrariamente a una credenza piuttosto diffusa, la frequenza è maggiore nelle regioni del Centro-nord rispetto a quelle del Sud. Secondo i dati più recenti del Ministero dell’interno, relativi al 2021, il record negativo delle violenze sessuali è detenuto dalla civilissima Emilia- Romagna, mentre la regione meno toccata è l’arretrata Calabria. Né si pensi che questa (presunta) anomalia sia una particolarità italiana. Se allarghiamo l’orizzonte, e passiamo a considerare i paesi dell’Unione europea, o l’insieme ancor più ampio dei paesi Oecd, troviamo la stessa regolarità già osservata confrontando le regioni italiane. Sulla base dei pochi dati disponibili, pare che i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrino nei paesi (considerati) più sviluppati, come Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Olanda, con punte inquietanti negli ultra-moderni, ultra-civili paesi del Nord: Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca (per non parlare di quel che accade fra i super-privilegiati e sovra-istruiti studenti dei college americani e britannici, dove alcune inchieste indicano che le studentesse vittime di violenza sessuale sarebbero 1 su 5). Mentre i tassi più bassi si riscontrano in paesi mediterranei come Grecia, Spagna, Portogallo, Italia. In tutte le statistiche il nostro paese si trova sempre nella fascia dei paesi meno esposti alla violenza di genere.

Arrivati a questo punto, so già qual è l’obiezione: è tutta colpa del “numero oscuro”, ossia del tasso di denuncia, presumibilmente molto diverso da paese a paese, e significativamente più alto nei “paesi civili”. Se il centro-nord ha più violenze sessuali del Sud, e la Svezia ne ha molte di più dell’Italia, è solo perché nelle realtà avanzate quasi tutte le violenze vengono denunciate, mentre in quelle arretrate ciò accade soltanto per una piccola frazione del totale.

Questo argomento non è del tutto infondato, ma non basta a spiegare i fatti. Le differenze nei tassi di violenza fra un paese come l’Italia e un paese come la Svezia sono troppo ampie per attribuirle interamente a differenze nei tassi di denuncia, anche perché vari studi condotti nei paesi nordici indicano, anche lì come nel nostro paese, tassi di denuncia molto bassi, dell’ordine di 1 caso su 10 (se non peggio).

Ma c’è un modo sicuro per verificare se il “paradosso nordico” (i territori più avanzati hanno tassi di violenza sulle donne maggiori di quelli più arretrate), è una realtà e non un artefatto statistico: basta confrontare fra loro non le denunce per stupro, ma i femminicidi, per i quali il numero oscuro non può che essere vicino a zero (è molto difficile che l’uccisione di una donna non venga rilevata dalle statistiche). Ebbene, anche in questo caso i paesi del Nord hanno i tassi di femminicidio più alti, l’Italia ha valori comparativamente molto bassi e, dentro l’Italia, è il Centro-nord a primeggiare (sia pure di poco), non l’arretrato Mezzogiorno. Non solo, ma – contrariamente a un pregiudizio molto diffuso – i femminicidi “di possesso” (in cui il maschio non riesce ad accettare la perdita della donna) sono tipici del Nord, non del Sud.

Conclusione: i dati dicono che, tendenzialmente, più avanzata è una realtà dal punto di vista del benessere e della parità di genere, maggiore è il tasso di violenza sulle donne. In quale modo questa circostanza debba essere interpretata, è tutt’altro che ovvio. Ma il fatto resta. E solleva una domanda: non sarà che il nostro modello di civiltà, basato sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali, contenga in sé un difetto di fabbricazione, una sorta di vizio nascosto?

Sulla violenza delle donne

2 Agosto 2022 - di Luciana Piddiu

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Da qualche tempo vado inanellando alcuni fatti di cronaca come grani di un rosario.

Mi inquieta che nella loro gravità vengano fatti passare sotto traccia, forse perché hanno come protagoniste delle donne.

Provo a citarne qualcuno.

Fa prostituire in un ovile la figlia di 13 anni. Mamma arrestata. (Agrigento, 12 Marzo 2019)

Donna violenta da anni i suoi 4 figli disabili. Arrestata insieme al compagno . (Taranto, 8 Marzo 2019)

Madre droga e fa bere la figlia di 17 anni. Poi il suo compagno abusa della giovane. (Genova,18 Febbraio 2019)

Una mamma costringe la figlia di 13 anni a masturbarsi e poi manda il video ad un pedofilo. (Conegliano,28 marzo 2019).

Atti sessuali con un minore di 13 anni durante l’ora di ripetizione. L’assistente sanitaria di Prato dà alla luce un bambino che suo marito riconosce come figlio proprio. (Prato 12 Marzo 2019).

Solo quest’ultimo episodio ha suscitato una qualche debole reazione nell’opinione pubblica mentre gli altri sono subito svaniti dalle pagine di cronaca dei quotidiani nazionali.

Sulla assistente sanitaria ,già madre di un ragazzino, qualcuno ha scritto che in verità non di violenza o di abuso si tratta ma di un’esperienza erotica gratificante per il minore in piena tempesta ormonale data l’età.Il che è platealmente contraddetto dalle suppliche del ragazzino di essere lasciato in pace e non piu’ ricattato.

Questa squallida vicenda odora di manipolazione e -comunque vadano le indagini- lascerà  tracce pesanti nella psiche e nella sfera delle emozioni  dell’adolescente usato come un giocattolo  di carne , costretto mentre è  ancora figlio in fase di transizione dall’infanzia all’adolescenza , a farsi padre suo malgrado.

Ma proprio questo episodio che non è sparito subito dalla cronaca puo’ gettare luce su tutti quegli altri. Darci un indizio di cosa si agita nella mente di chi lavora nel settore dell’informazione e contribuisce al formarsi dell’opinione pubblica.

Nel caso di Prato dove non è in gioco la relazione madre-figlio/a alti si sono levati i ‘lai’ da parte di schiere di innocentisti, secondo cui la signora non avrebbe fatto niente di male perchè non si puo’ violentare un maschio e poi è il maschio l’unico vero autentico predatore e sicuramente il ragazzino avrà goduto delle attenzioni sessuali dell’improvvisata insegnante. Sugli altri gravi fatti di abuso e sopraffazione si è steso un velo pietoso. Sembra inaccettabile il dover riconoscere che anche le donne – le madri per giunta – si prestano ad usare e violare i loro figli .

Perche’ questa tolleranza o indifferenza verso queste derive e perversioni delle relazioni tra madre e figli? O tra donne adulte e minori?

Se i protagonisti fossero stati dei maschi si sarebbe gridato allo scandalo ,si sarebbe invocate la castrazione chimica e il carcere duro.

Perche’ questa asimmetria nel giudizio? Le donne sembrano godere in modo del tutto ingiustificato – se teniamo conto dei dati di realtà – di un pregiudizio positivo che scatta nei loro confronti.

Non vi è alcun dubbio che nella vicenda millenaria dei sessi le donne sono state le vittime di un sistema che le ha oppresse, sfruttate, negate, abusate, uccise talvolta.

Gli uomini hanno giocato il ruolo dei carnefici esercitando un potere assoluto sui corpi e le menti. Ma lo scenario è cambiato grazie alle lotte  degli ultimi due secoli e a straordinarie figure femminili che si sono pensate come ‘soggetti’ liberi e autonomi, non piu’ appendici di qualche maschio. Oggi le donne sono libere di scegliere. Tuttavia  l’esercizio della libertà non è  gratuito, comporta un prezzo  quello della responsabilità  delle scelte che si fanno.

E allora perche’ ci si ostina a dire che se le donne assumono il ruolo di carnefici ,non a loro va imputata la colpa ma al sistema sociale in generale? O ad asserire che le donne hanno sempre ragione qualunque cosa facciano?

Il rifiuto di vedere le zone d’ombra che pure albergano negli esseri di sesso femminile sembra una costante che si ripete in questi casi. Una volta di piu’ le donne vengono considerate nell’opinione corrente ‘vittime’, incapaci di scelte autonome e dunque necessitate a comportamenti inaccettabili da non si sa bene quali cause di forza maggiore.

Ritorna il leitmotiv giustificazionista a tutti i costi senza considerare che questo modo di  ragionare rende obiettivamente le donne delle minus habens.

Certo i rapporti di potere sono ancora in larga misura saldamente in mano agli uomini ma questo non deve impedirci di cogliere cio’ che si cela dietro questa forma di negazionismo: l’idea che ‘per natura’ la donna non sia aggressiva ma fondamentalmente accogliente, amorevole, incapace di gesti sconsiderati di violenza e abuso.

Tuttavia alcuni miti (Medea in primis) e fiabe (Biancaneve, Hänsel e Gretel) per non dire di personaggi letterari illuminanti come Lady Macbeth potrebbero aiutarci a cogliere indizi preziosi per decodificare correttamente alcuni fatti. E se a questi non vogliamo dar credito possiamo sempre servirci di studi antropologici per aprire finalmente gli occhi e la mente.

Un’ipotesi convincente sembra essere quella  avanzata da Valcarenghi nel suo “L’aggressività femminile”. In tempi lontani sembra essere successo qualcosa  che ha indotto la compressione dell’aggressività femminile ,forse per esigenze legate alla conservazione della specie.Questa costrizione avrebbe avuto nel corso del tempo esiti altalenanti  tra comportamenti eccessivi come forme di prepotenza,insofferenza, collere esplosive, ecc. o deficitari come forme di autolesionismo, senso di colpa, insicurezza, dipendenza. L’istinto aggressivo represso si sarebbe ammalato non riuscendo ad esprimersi e rivelandosi cosi incapace di garantire la necessaria autodifesa dello spazio fisico, psichico e sociale che solo consente l’affermazione dell’identità soggettiva.

Accanto a questa ipotesi non andrebbe trascurato, a mio avviso, l’esito perverso di una cattiva ‘emancipazione’, quella che in nome dell’uguaglianza, insegue i maschi sul loro stesso terreno di predazione  per pareggiare finalmente i conti dello svantaggio accumulato nei secoli. Alcune sembrano bearsi del loro potere di seduzione e della loro capacità predatoria e ad ogni conquista piantano la bandiera, fiere del nuovo status di cacciatrici e della conquistata indipendenza.

Ma noi sappiamo bene che non è questa la strada maestra per liberarci del male che gli uomini hanno fatto, ci fanno, si fanno.

Luciana Piddiu

Assalto di branco

12 Gennaio 2022 - di Luciana Piddiu

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La pacca sul sedere alla giornalista sportiva Greta Beccaglia ha fatto versare fiumi d’inchiostro e per parecchio tempo giornali locali e nazionali, nonché reti televisive hanno commentato l’increscioso episodio con parole di fuoco. L’aggressione sessuale è stata considerata intollerabile e il tifoso, autore del gesto, è stato additato come un mostro e denunciato per violenza sessuale.

Risulta perciò tanto più incredibile che sulle violenze di gruppo perpetrate a Milano la notte di Capodanno da parte di un branco di maschi nei confronti di giovani ragazze (almeno cinque i casi registrati) per giorni non sia stata data alcuna notizia.Timidamente e solo dopo alcuni giorni Il Corriere della sera per primo e poi, buon ultima, La Repubblica hanno dato spazio alla notizia seguiti dai telegiornali nazionali.

Eppure i fatti rivelano, come si evince dai due video che sono circolati in rete, una carica di aggressività e di ferocia che fa paura. Il cerchio di maschi urlanti e assatanati che si stringono attorno alle giovani vittime denota una prepotenza misogina sconfinata e la convinzione di poter godere dell’impunità. I fatti sono avvenuti in pieno centro, in Piazza Duomo, nel cuore di una Milano in festa illuminata a giorno e presidiata da forze di polizia che avrebbero dovuto garantire il massimo della sicurezza.

La voce della segretaria del Pd milanese ha definito ‘strazianti’ le immagini della violenza di branco contro giovani ragazze inermi, ma ha poi intonato la solita litania generica sulla persistenza del patriarcato nella nostra società e sulla necessità che la scuola educhi al rispetto. Il sindaco Sala ha parlato di molestie indegne di una città come Milano, che si presenta come capitale morale, smart e all’avanguardia. Solo Sardone ha messo in evidenza l’analogia tra i fatti di Milano e quanto accaduto a Colonia nella notte di Capodanno del 2016, quando gruppi di giovani immigrati hanno aggredito e stuprato decine di donne giovani e meno giovani che festeggiavano in piazza.

Perché questa minimizzazione, questo passare sotto traccia il fatto che gli assalitori parlavano arabo? Cosa si vuole nascondere?

Scrive Bhakti Patel, giornalista di Womenplanet: “Si tratta di un attacco sessuale su donne che non avviene in un bosco o in strade solitarie. È l’assalto di un gruppo di uomini a donne nello spazio pubblico, sotto gli occhi di centinaia di altri uomini che possono assistere al crimine odioso cui sono sottoposte la vittime. Questo atto barbarico ha fatto la sua prima comparsa in Egitto più di dieci anni fa e si è diffuso in Europa attraverso immigrati e rifugiati che si sono riversati nel vecchio continente dopo il periodo delle rivoluzioni arabe. Il primo episodio è stato registrato al Cairo, durante le manifestazioni per il referendum costituzionale del 25 Maggio 2005.” In quella occasione furono aggredite attiviste e ragazze egiziane che partecipavano alle manifestazioni.

E come non ricordare Lara Logan, corrispondente della CBS, che è stata assalita da duecento uomini per trenta minuti in piazza Tahrir, prima di essere messa in salvo da un gruppo di donne e soldati. Questa pratica ha un nome preciso si chiama in arabo Taharrush jama’i e da quel lontano 2005 ha preso piede nelle piazze in lotta delle primavere arabe, ma è arrivata anche da noi sia pure in tutt’altro contesto.

Il messaggio esercitato grazie alla forza è chiaro: lo spazio pubblico è di esclusiva appartenenza maschile e va interdetto alle donne. Se osano avventurarsi da sole, in piazza, nel luogo del dominio maschile, sappiano che diventano delle prede. Questo dato va taciuto o la stampa deve metterlo in evidenza? A onor del vero sulla pagina di Wikipedia le aggressioni di Milano sono state subito ascritte alla pratica barbarica del Taharrush jama’i. Ma allora perché stampa e televisioni nazionali, che si fanno vanto di svolgere un compito fondamentale di informazione hanno minimizzato e chiuso gli occhi? Che cosa va nascosto ? Che le differenze culturali ci sono e sono difficili da superare ? Che se un crimine di questa gravita è commesso da giovani immigrati o figli di immigrati è meno grave? Che se gli autori vengono dalle periferie disagiate della città i mass media non devono dedicare alla cosa la stessa attenzione?

Abbiamo combattuto duramente per conquistarci il diritto di uscire e abitare lo spazio pubblico e non ce lo faremo scippare certo per un malinteso senso di compiacenza verso maschi trogloditi che di strada ne devono fare se vogliono vivere tra noi ed essere rispettati.

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