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Femminicidi, un problema degli anziani?

4 Dicembre 2023 - di fondazioneHume

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A mia memoria, non era mai successo che un problema sociale attirasse un’attenzione così enorme come quella suscitata dal dramma di Giulia Cecchettin, e al tempo stesso fosse così poco studiato, almeno in Italia. Il fatto che quasi tutti abbiano un’opinione sulle cause e sui rimedi, non deve ingannarci: in realtà non sappiamo quasi nulla, se per “sapere” intendiamo conoscere chi sono le vittime, quali sono le cause, quali possono essere i rimedi efficaci.

Finora, quasi tutte le analisi del fenomeno si sono basate su dati molto aggregati, senza riuscire a scendere nel dettaglio – caso per caso, individuo per individuo – come sarebbe necessario se vogliamo cominciare a capire. Per questo meritano una speciale riconoscenza le donne dell’associazione Non Una Di Meno (NUDM), che da alcuni anni raccolgono in un database tutte le informazioni disponibili su ogni evento in cui una donna viene uccisa, indipendentemente dal fatto che l’omicidio possa essere classificato come femminicidio oppure no (al momento non esiste una definizione statistica condivisa e facile da applicare).

Sono andato a curiosare nel database, che descrive i 110 casi del 2023, e ho provato a fare alcuni calcoli, confrontando i profili di tre insiemi: le donne uccise, i loro uccisori, la popolazione italiana di almeno 10 anni. Ed ecco alcuni risultati.

Cominciamo da quella che considero la maggiore sorpresa: l’età media. Come la maggior parte delle persone che – a titolo di curiosità – ho interrogato in questi giorni, pensavo che le fasce di età a maggiore rischio fossero quelle intorno ai 20-30 anni, o tutt’al più fino ai 40. Ebbene, niente di più sbagliato. Nella fascia 20-40 anni rientra solo 1 donna uccisa su 4. La fascia a maggiore rischio è la fascia delle donne con almeno 60 anni, e il rischio aumenta passando alla fascia delle ultra-70enni. E infatti l’età media di tutte le donne uccise è 53 anni, e quella dei loro assassini (quasi tutti maschi) è 54 anni, entrambe maggiori dell’età media degli italiani  che è di 46 anni (50 se escludiamo i bambini).

In concreto, questo significa che il rischio di essere uccisa di una donna anziana è maggiore di quello di una donna giovane o adulta. Si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che, nelle uccisioni di donne, rientrano anche i casi che non configurano un femminicidio. Ma ripetendo il calcolo per i soli femminicidi in base a due definizioni e a due dataset diversi (è stato pubblicato anche un secondo dataset, molto meno ricco), il risultato non cambia, anzi si rafforza: il rischio di essere uccisa di una anziana di almeno 60 anni è del 46% più alto di quello di una donna sotto i 60, e quello di una donna di almeno 70 anni è del 69% più alto di quello di una donna sotto i 70. In breve: il caso di Giulia non è in nessun modo tipico.

Ma questa non è l’unica sorpresa. Nel database di NUDM ci sono molte altre informazioni che, in teoria, potrebbero aiutarci a costruire un profilo tipico delle vittime e dei loro assassini. Ebbene, quel che si scopre facendo i confronti con la popolazione, è che un tale profilo non c’è, anche se – su alcune variabili – emerge una qualche specificità del campione dei femminicidi (lo chiamo così per brevità). I 108 casi registrati sono avvenuti in quasi tutte le regioni; in comuni piccoli, medi e grandi; gli autori del delitto sono operai, impiegati, dirigenti, commercianti, pensionati, disoccupati, tutti in proporzioni comparabili a quelle della popolazione maschile generale.

Solo su alcuni particolari aspetti, è possibile rintracciare scostamenti – talora grandi, talora al limite della significatività statistica – fra il campione e la popolazione. Uno scostamento macroscopico, ma forse non sorprendente, è che metà degli aggressori o si suicida (oltre 1 su 3) o è comunque in una condizione di devianza nel senso tecnico del termine (precedenti penali, prostituzione, problemi psichiatrici, vagabondaggio, eccetera). Un secondo scostamento riguarda la nazionalità delle vittime e degli aggressori. In entrambi i casi sono sovrarappresentate le persone di nazionalità straniera, ma con una importante asimmetria: nel campione il rischio che una donna italiana sia uccisa da uno straniero è quasi 7 volte più alto del rischio opposto, ossia che una donna straniera sia uccisa da un italiano.

Prendere spunto da questi dati per fare affermazioni generali sulle radici dei femminicidi sarebbe una mossa avventata. Però, forse, una piccola considerazione possiamo farla: la visione che abbiamo dei femminicidi è molto stereotipata. Il caso della giovane donna vittima di un partner possessivo, ma per il resto “normale”, è decisamente minoritario. Le donne di meno di 40 anni uccise dal partner o dall’ex sono 20 su 110, e scendono a 16 se trascuriamo i casi in cui l’aggressore è un deviante o si suicida. In altre parole: i casi analoghi a quelli di Giulia e Filippo, anche a voler considerare tutta la fascia di età fino ai 40 anni, riguardano circa il 15% delle uccisioni di donne. E tutto il resto?

Sul resto dobbiamo indagare e riflettere, sapendo però che – al centro – ci sono le donne che attraversano “il terzo tempo” della loro vita, come lo ha chiamato Lidia Ravera in un suo libro recente sulla vecchiaia. Un gruppo sociale al quale, notava fin dagli anni ’80 un’altra scrittrice – Natalia Ginzburg – la nostra società riserva una sola, ipocrita, cortesia, quella di chiamarle anziane anziché vecchie.

Il singhiozzo dell’uomo maschio – A proposito di violenza sulle donne

25 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Era il 1983, giusto 40 anni fa, quando Pascal Bruckner pubblicava il suo libro più famoso, Il singhiozzo dell’uomo bianco, in cui descriveva gli impulsi di autoflagellazione della cultura occidentale, già allora in via di autoliquidazione.

Ma oggi siamo ben oltre. Quello cui ci tocca assistere, dopo la orribile, tristissima vicenda di Giulia Cecchettin, è il singhiozzo dell’uomo maschio: il bisogno di tanti maschi di dire che sì, si sentono anche loro responsabili, si vergognano di essere maschi, insomma la responsabilità di quel che è accaduto alla povera Giulia sarebbe anche loro.

La cosa interessante è che questo moto di autodenuncia, che per lo più scopiazza le più ardite (e indimostrate) teorie del movimento woke d’oltre oceano, non tocca minimamente la gente comune, che con difficoltà più o meno grandi, continua a condurre la sua vita ordinaria. Difficile ascoltare un operaio che si sente corresponsabile del femminicidio di Giulia, ma facilissimo leggere le riflessioni di un intellettuale, di uno studioso, di un giornalista, di un politico, che mettono in scena esercizi più o meno sofisticati di autoaccusa e rincrescimento.

Perché questa differenza?

Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente due, del tutto diverse l’una dall’altra. La prima è che chi occupa posizioni di prestigio nella sfera pubblica corre oggi un grandissimo rischio: quello di entrare nel mirino delle attiviste che conducono la crociata conto il maschio, il maschilismo, il cosiddetto patriarcato. Improvvisamente, ci si rende conto che, solo se ci si schiera “dalla parte giusta”, si ha qualche possibilità di salvarsi dalla valanga di accuse dell’attivismo woke, tradizionalmente debole in Italia ma improvvisamente sdoganato dal (sacrosanto) moto di indignazione per la morte di Giulia Cecchettin. Può accadere così che, nella schiera dei maschi pensosi, mi capiti di trovare Ignazio La Russa (quello certo dell’innocenza del figlio, sotto indagine per stupro) che propone una manifestazione bipartisan di soli maschi, ma anche alcuni dei miei giornalisti e intellettuali preferiti. Mattia Feltri, sulla Stampa, per far sentire “tutti noi” corresponsabili di quel che è accaduto a Giulia, scomoda nientemeno che il concetto di “responsabilità collettiva” di Hannah Arendt. Francesco Piccolo, su Repubblica, non esita a stigmatizzare – quasi fossero comportamenti orribili, propedeutici ai peggiori crimini – comunissimi comportamenti della vita quotidiana di maschi e femmine: “urlare sopra, non far parlare, pretendere di parlare per primi, spiegare come bisogna comportarsi, o come fare una cosa, o addirittura come bisogna vivere”. Una mia amica, madre di tre figli, ha commentato divertita: è esattamente quel che faccio io quando sono esasperata con mio figlio adolescente!

Ma c’è anche un’altra ragione per cui il “singhiozzo dell’uomo maschio” ha tanto spazio sui media, ma lascia indifferente la gente comune. Ed è che, nel dibattito pubblico, da tempo hanno trovato un enorme spazio le opinioni astruse, o antiscientifiche, o contrarie al senso comune. Se un’idea strampalata, o semplicemente priva di basi scientifiche, è affermata in nome di una buona causa, i media tendono a presentarla come vera. Nel mondo dell’attivismo woke, ma soprattutto in quello di una parte (solo una parte, per fortuna) dell’attivismo femminista, negli ultimi anni hanno preso piede diverse idee indimostrate. Ad esempio, che la biologia non conti nulla, e tutto dipenda dalla cultura. Che alle radici dell’aggressività maschile vi siano gli stereotipi di genere e la sopravvivenza del patriarcato. Che il linguaggio sia il medium fondamentale della violenza. Che esista una precisa catena causale che dalla battuta sessista conduce alla prevaricazione, alla violenza, allo stupro, quando non al femminicidio. Che sterilizzare il linguaggio sia la via maestra per fermare la violenza. Che l’azione preventiva più efficace sia l’introduzione precoce di corsi di educazione sessuale e sentimentale nelle scuole.

Nessuna di queste credenze è palesemente falsa, ma nessuna è sostenuta da prove scientifiche robuste. Alcune sono, almeno a prima vista, incompatibili con i dati. Quasi tutte sono in contrasto con il senso comune. Il quale senso comune, a differenza degli intellettuali e dei politici, è umile, empirista, e non pretende di imporsi agli altri in nome un’ideologia. Perché di questo si tratta, purtroppo: il modo in cui si parla del dramma di Giulia non ha nulla di scientifico, e tutto della solita pretesa di imporre il proprio punto di vista e di aver ragione dell’avversario politico.

In questo, è paradossale doverlo osservare, molte donne oggi impegnate nella giusta battaglia contro i femminicidi, mostrano un’inquietante somiglianza con i maschi che mettono sotto accusa: forse l’unico segno inequivocabile dell’ubiquità del maschio che è in tutti noi.

Sulla violenza contro le donne, un cambio di prospettiva

24 Novembre 2023 - di Luciana Piddiu

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Vexata quaestio quella della violenza che si manifesta in forme diverse contro donne e bambine in ogni angolo del pianeta, e controversa l’analisi che se ne fa.

         C’è chi semplifica la questione adottando lo schema binario vittima/carnefice. Ma così si rischia di tralasciare proprio quelle zone d’ombra che spiegano la persistenza del fenomeno, una violenza che sembra non cessare mai nonostante le misure prese per contrastarla. Regolarmente, dopo ogni femminicidio, si invoca un intervento delle istituzioni più incisivo ed efficace. Ma non si può certo porre freno alla violenza domestica mettendo un poliziotto in ogni famiglia.

         L’Onu ha istituito il 17 Dicembre 1999 la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che si celebra il 25 Novembre. Gesto simbolico importante, ma che non sposta di un millimetro la soluzione del problema che presenta tuttora aspetti altamente problematici.

         In mancanza di interventi efficaci si rischia di fare i conti con atti di disperazione che non possono essere additati come esempi da imitare.

         In Francia, per esempio, ha fatto molto discutere il caso di Valerie Bacot. Una giovane donna, violata, picchiata, fatta prostituire dal compagno Daniel Polette, che era stato suo patrigno prima di diventare suo marito, nonché padre dei suoi quattro figli. Dopo 24 anni d’inferno Valerie ha ucciso il marito. Condannata a quattro anni, è uscita di prigione subito dopo la sentenza grazie alla sospensione condizionale della pena. La condanna è risultata del tutto simbolica considerato che si trattava di omicidio premeditato. Il suo gesto è stato considerato come una sorta di legittima difesa, sia pure ritardata. Il caso Bacot non è un caso isolato. Prima di lei c’erano stati quelli di Jacqueline Sauvage e poi quello di Edith Scaravetti, condannata in primo grado a tre anni e in appello a dieci per aver ucciso e murato il marito maltrattatore.

         Ora l’eliminazione fisica del ‘carnefice’ si può certo capire, ma non può essere giustificata. Ben prima di arrivare a un punto di non ritorno bisognerebbe mettere al sicuro la donna e i suoi figli, prendersene cura, rimarginare ferite profonde e ricostruire la sua soggettività. Ma tutto questo non è per niente facile.

         L’accoglienza di donne maltrattate nelle case-rifugio a indirizzo segreto dove possono godere dell’assistenza psicologica, legale, economica è molto utile, ma è uno strumento che ha molti limiti. Il più serio è che si tratta di un intervento comunque limitato nel tempo. Una volta che la donna esce dal circuito di sostegno e torna alla propria casa, nella maggioranza dei casi la violenza del convivente ricomincia senza soluzione di continuità.

         Per sperimentare metodi più efficaci si potrebbe introdurre un nuovo modello, già utilizzato in paesi come Canada e Islanda, e che comincia a farsi strada anche da noi, sia pure a fatica. Si tratterebbe di portare fuori dalla casa in cui si consuma la violenza non la vittima e i suoi figli, ma il maltrattatore. Il partner aggressivo viene preso in carico da strutture apposite nelle quali viene aiutato a prendere coscienza del suo essere violento e dei danni che il suo comportamento produce: non solo nei riguardi della compagna ma anche dei figli che subiscono traumi profondi per le aggressioni e il clima di paura.

         In Italia ci sono già alcune strutture dedicate a maschi violenti che abbiano raggiunto un minimo di consapevolezza del loro comportamento nefasto. A Firenze è in funzione dal 2009 il CAM (Centro di Ascolto uomini Maltrattanti) che successivamente è stato esteso a Ferrara, Roma, Cremona e al Nord Sardegna. A Bassano è sorto il centro Ares con l’obiettivo di avviare adeguati percorsi di cambiamento per uomini che agiscono con violenza all’interno della coppia. Sarebbe interess ante vedere se queste esperienze hanno avuto un impatto locale significativo e cercare di espanderle a livello nazionale.

         L’unica nota positiva in questo contesto così complicato è il dato numerico che riguarda i femminicidi nel nostro paese. Sono ancora troppi ma, contrariamente a quello che la cronaca sembra suggerire, i dati non sono in crescita, semmai ci sono timidi segnali di un numero che si sta lentamente riducendo. È un dato di fatto che in Italia il fenomeno è numericamente molto inferiore rispetto a quasi tutti i paesi europei, in particolare quelli del Nord. A questo proposito qualcuno ha parlato di ‘paradosso nordico’. Paesi come Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, che rispettano molto più degli altri l’eguaglianza di genere, sono anche quelli in cui si registra  il maggior numero di violenze domestiche contro le donne. Portogallo, Italia e Grecia che sono molto indietro per quanto riguarda l’uguaglianza di genere, hanno invece tassi molto più bassi di violenza domestica (Nov. 2017 Social Science and Medicine). La Harvard Political Review sottolinea come questa inattesa discrepanza vada indagata per capire, prevenire e soprattutto cercare di bloccare il fenomeno.

         Quello che è certo è che occorre un cambio di passo, un vero cambio di civiltà. Fin dalla più tenera età bisogna educare bambini e bambine al rispetto reciproco e coltivare la loro autostima. Il giovane adolescente o adulto che sia stato sminuito nel corso della sua infanzia  cercherà con la forza di ricostituire un’immagine di sé ‘forte e virile’ brutalizzando la propria donna per far tornare i conti. A sua volta la giovane adolescente o giovane donna che non ha stima di se stessa, che si considera di poco valore non troverà la forza di fermare la mano di chi la brutalizza scambiando spesso le attenzioni malate per gesti di cura. Alla base del progetto educativo va posto il concetto di inviolabilità del proprio corpo. La centralità di questo concetto metterebbe al riparo non solo dalle violenze fisiche ma anche dalle molestie e dagli abusi di natura sessuale.

 

 

(pubblicato su Free Skipper 25 Novembre 2021 e su Lilìa, giornalino dell Associazione dei pugliesi di Pisa).

Patriarcato? – Alle radici dei femminicidi

22 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

SocietàSpeciale

Intervento del Prof. Ricolfi a Quarta Repubblica (Min. 29)

Esaurite le lacrime e le indignazioni, chiuso il ciclo degli innumerevoli esercizi retorici che hanno provato a dire il nostro sgomento, sarà il caso – prima o poi – di riflettere anche sui dati che descrivono la violenza sulle donne. Non ce ne sono abbastanza per formulare una diagnosi inattaccabile, ma quei pochi che ci sono bastano a sollevare interrogativi importanti.

Il dato più importante, ben noto agli studiosi da quasi un decennio, è il cosiddetto “paradosso nordico”: come mai i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrano nei paesi considerati più civili, o addirittura in quelli più avanzati in materia di parità di genere?

Non tutti lo sanno, ma nei civilissimi paesi scandinavi, in Germania, in Francia, nel Regno Unito, le donne rischiano la vita più che in Italia. In Europa solo Irlanda e Lussemburgo hanno tassi di uccisione delle donne minori che in Italia. E se allarghiamo lo sguardo alle società avanzate non europee, solo in Giappone le cose vanno meglio che in Italia: paesi come Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Israele, Corea del Sud hanno tutti tassi di uccisione maggiori di quelli italiani.

Come mai?

Qualcuno ipotizza che alla base possa esservi un maggiore consumo di alcol. Altri che il problema possa essere la presenza di immigrati, o di stranieri di fede islamica. Ma i dati non sembrano facilmente conciliabili con queste ipotesi. Se vogliamo capire, dobbiamo cercare altrove.

Questo altrove potrebbe essere la sopravvivenza del patriarcato, come si sente affermare ogni volta che una donna viene uccisa da un partner possessivo. Certo. Ma sfortunatamente, anche questa ipotesi è difficilmente conciliabile con i dati. Qualcuno può plausibilmente sostenere che i paesi scandinavi siano società patriarcali? O che lo sia il Regno Unito? O il civilissimo e ultra-avanzato Canada?

Del resto è il caso stesso dell’Italia a mettere in dubbio la teoria del patriarcato. Diversi dati, dagli stupri ai femminicidi, suggeriscono che la violenza sulle donne sia maggiore nel Centro-nord che nel Sud. Se ne deve dedurre che il patriarcato è in via di estinzione nelle regioni del Mezzogiorno, mentre prospera in quelle centro-settentrionali?

Quando si è affezionati a una teoria, si trova sempre un modo di salvarla, anche contro le evidenze empiriche. Il caso della teoria del patriarcato non sfugge alla regola. Quando si è scoperto che gli stupri dilagavano in Svezia, qualcuno ha provato a spiegare le cose così: proprio il fatto di avere reso il paese molto più civile con riforme dall’alto precoci ha provocato la reazione degli uomini, che non erano pronti ad accettare tanta libertà per le donne. Di qui una sorta di contraccolpo (backlash): la violenza sulle donne sarebbe una sorta di reazione del maschio, spiazzato dalla libertà e intraprendenza femminile dopo le riforme illuminate degli anni ’70 e ’80.

Se si accetta questa lettura, si dovrebbe anche ipotizzare una straordinaria lentezza del maschio del Nord: possibile che cinquant’anni non gli siano bastati per assorbire lo shock della liberazione della donna? Mah…

Eppure esiste anche una spiegazione più semplice, per quanto più difficile da accettare. Una delle radici della violenza sulle donne nelle realtà più avanzate potrebbe essere proprio il loro essere avanzate. Quando si parla del grado di civiltà raggiunto da un sistema sociale, infatti, troppo sovente si dimentica che l’aspetto centrale delle società avanzate è la cultura dei diritti. E la cultura dei diritti è una cosa meravigliosa, ma ha anche effetti collaterali perversi. Ad esempio: l’educazione è permissiva, i genitori iper-proteggono i figli, gli insegnanti si colpevolizzano per gli insuccessi dei ragazzi. Sicché una parte di questi ultimi si convince di avere un fascio di diritti fondamentali, o quasi naturali: successo formativo, abitazione, consumi, status, divertimento, sesso. Naturalmente, succedeva anche prima che si desiderassero tutte queste cose. Ma non erano considerate diritti, bensì conquistepossibili, spesso costose in termini di sforzi, e sempre esposte al rischio di fallimento.

In breve, e detto brutalmente: nelle società “arretrate” i giovani sanno (e accettano) di poter fallire, in quelle avanzate non sono preparati all’eventualità. E il momento più critico è proprio quello della ricerca del partner sentimentale, perché quella è la prima sfida in cui i genitori – per quanto ricchi, potenti, dotati di conoscenze – non possono intervenire, né supplire alle inadeguatezze di un figlio. Per diversi ragazzi, quello di essere rifiutati dalla donna che desiderano può essere il primo vero trauma della loro vita, proprio perché è il primo scacco in cui la rete di protezione familiare è fuori gioco.

Da questo punto di vista, non stupisce che negli Stati Uniti – dove l’iper-protezione dei giovani da parte di genitori, insegnanti, istituzioni culturali ha assunto tratti grotteschi e dimensioni patologiche – per una donna il rischio di essere uccisa sia 7 volte quello dell’Italia.

Così come non stupisce l’inquietante sincronismo con cui, negli ultimissimi anni, sono aumentati sia il numero di donne uccise (quasi + 20% fra l’era pre-Covid e oggi) sia il numero di denunce e arresti di minorenni per omicidi, violenze sessuali, lesioni, percosse, danneggiamenti, risse, rapine in strada, minacce, solo per citare alcuni esempi da un recente rapporto della Polizia criminale.

La mia è solo un’ipotesi, naturalmente, ma non mi sento di escludere che, sotto questi repentini cambiamenti, non vi sia solo un deficit di consapevolezza dei diritti e del valore delle donne (un guaio cui la scuola può tentare di porre rimedio), ma una degenerazione della cultura dei diritti, che ha reso tanti maschi del tutto incapaci di fare i conti con il rischio di fallire.

Consumismo, rivendicazione di diritti individuali e violenza contro le donne

20 Ottobre 2023 - di Silvia Bonino

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Luca Ricolfi nel suo articolo A proposito di stupri. Il lato oscuro della civiltà, del 3 settembre scorso, ha fatto chiarezza sui dati statistici italiani ed europei relativi agli stupri e alle uccisioni di donne, compresi i femminicidi “di possesso”, in cui l’uomo non accetta di perdere quella che considera la “sua” donna. In questo come in altri casi, il confronto con i dati obiettivi consente di fare luce su un fenomeno, mettendo in discussione le interpretazioni stereotipate, individuali e collettive, che vanno per la maggiore.

A conclusione del suo intervento, l’autore si chiede: non sarà che il nostro modello di civiltà, basato sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali, contenga in sé un difetto di fabbricazione, una sorta di vizio nascosto? Cerco qui di rispondere alla sua domanda, che a mio parere va al cuore della questione. Lo faccio riferendomi all’analisi del rapporto tra influenze culturali e disposizioni biologiche, relativamente alle relazioni tra uomini e donne, che ho approfondito nel mio libro Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia (Laterza, 2019).

Riguardo alle disposizioni biologiche, occorre in primo luogo prendere atto dell’esistenza di una tendenza filogeneticamente primitiva, radicata nella parte più arcaica dl cervello umano, che collega sessualità e aggressione nei maschi, così come sessualità e paura nelle femmine, in un rapporto di dominanza-sottomissione. Ci sono fortissime resistenze nel prendere consapevolezza dell’esistenza di queste disposizioni, e in particolare della disposizione maschile primitiva, principalmente per due ragioni: una di carattere generale, poiché si ritiene che tutto sia solo culturale (“dipende tutto soltanto dal modello patriarcale”), e una specifica, poiché vi è il timore che riconoscere l’esistenza di disposizioni biologiche significhi legittimare come inevitabile la violenza sulle donne (“la natura dei maschi è necessariamente violenta, non si può fare nulla, bisogna rassegnarsi”). Non è così, perché stiamo parlando di disposizioni filogeneticamente arcaiche e preumane, risalenti ai primi vertebrati (i rettili), quindi non specifiche della sessualità umana. Quest’ultima, al contrario, ha congiunto lungo la filogenesi il sesso ai legami e non alla violenza: nessuna necessità biologica costringe gli uomini alla sopraffazione, che è del tutto disadattiva e genera solo sofferenza individuale e sociale. Nella complessità dell’architettura e del funzionamento del cervello, da cui la mente emerge, queste disposizioni sono però ancora presenti come possibilità, non certo come necessità, e negarle costituisce un pessimo meccanismo di difesa, che non aiuta a evitare che tali disposizioni si manifestino e si traducano in azioni violente. Finché non si prende atto – come uomini e anche come donne – dell’esistenza di questa possibilità ancora presente nel cervello maschile non si farà mai nessun passo in avanti nel superamento dei rapporti di dominanza e sopraffazione delle donne, che non si concretizzano unicamente nello stupro.

Ma la presa d’atto non è che il primo passo, necessario ma non sufficiente, dal momento che siamo “animali culturali”, in cui la cultura – con l’educazione, i modelli, i simboli, gli stimoli, ecc. – interagisce continuamente con le nostre disposizioni biologiche. Si tratta quindi di chiedersi come la cultura può favorire l’emergere delle disposizioni primitive a scapito di quelle più evolute, specificamente umane, che congiungono la sessualità ai legami personali e danno luogo a rapporti egualitari, gli unici capaci di procurare benessere.

Veniamo allora alla domanda se non sia il nostro modello di civiltà, basato “sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali”, a favorire e stimolare le disposizioni maschili più arcaiche. Dall’analisi dei processi psicologici implicati nei modelli individualisti e consumistici in cui siamo immersi ormai da decenni, la risposta è affermativa (ho esaminato in specifico questi aspetti nel capitolo 3 del libro citato).

Partiamo dal consumismo e dall’educazione consumistica che ne è derivata. Quest’ultima rappresenta la massima concretizzazione dell’educazione permissiva, che prevede il soddisfacimento di ogni richiesta infantile. Già era noto da tempo, perché confermato da tutti gli studi in proposito, che l’educazione permissiva conduce, assai più di quella autoritaria, a un aumento generalizzato del comportamento aggressivo e al mancato sviluppo del comportamento prosociale (Mestre et  Al., 2006) Con l’affermarsi del consumismo, non solo ogni desiderio infantile viene assecondato, ma le richieste sono crescenti, spinte dalla pubblicità e dal confronto conformistico con i coetanei; quest’ultimo diventa particolarmente pressante in adolescenza, per l’importanza che il gruppo dei pari acquisisce a quest’età. Inoltre, queste richieste sono soddisfatte grazie al denaro, che assume così un grandissimo valore come strumento per ottenere tutto ciò che si vuole.

I bambini educati in questi ultimi decenni secondo modalità permissive e consumistiche sono quindi cresciuti nell’abitudine a veder soddisfatto ogni desiderio di possedere qualcosa; di fatto non si tratta nemmeno di un vero desiderio, che richiederebbe ben altra consapevolezza, ma di un impulso, una voglia, un capriccio momentaneo. L’immediato passaggio da questo al possesso ha impedito lo sviluppo di tutte quelle capacità che consentono di raggiungere nel tempo un obiettivo significativo e appagante. Si tratta di capacità tra loro collegate che vengono distinte solo per comodità di analisi: cognitive (immaginazione, creatività, progettazione di uno o più percorsi, aggiramento, valutazione, ecc.), emotive (saper rimandare, avere pazienza, perseverare, gestire la paura e l’ansia, scegliere, riconoscere i limiti, ecc.), sociali (empatia, sapersi mettere dal punto di vista altrui, tenere conto dei desideri altrui, saper coinvolgere gli altri, saper cooperare per uno scopo comune, ecc.).  È stata al contrario favorita l’impulsività, con un appiattimento sul presente (voler ottenere tutto subito) e su di sé (conta solo il proprio desiderio). In modo ancora più profondo, questo tipo di educazione non sviluppa la sicurezza e la fiducia nelle proprie capacità di essere in grado di raggiungere un obiettivo e di superare gli eventuali ostacoli o insuccessi: sono aspetti basilari che si possono sviluppare solo facendo esperienza, lungo l’età evolutiva, di situazioni in cui il proprio desiderio non è immediatamente soddisfatto e il denaro non serve per raggiungere lo scopo.

Tutto questo ha effetti rovinosi sul piano relazionale, con un incremento dei comportamenti aggressivi. Un bambino diventato adolescente e adulto con questo modello educativo risulta incapace di rimandare la soddisfazione del suo desiderio sessuale, e quindi di tenere conto della volontà dell’altra persona, così come di tollerarne il rifiuto, che non sa come affrontare. Abituato a ottenere tutto ciò che desidera, ritiene di poter avere anche il corpo di chi desidera.  Viene quindi favorita l’imposizione sessuale con la violenza.

Anche a livello affettivo l’educazione permissiva consumistica ha provocato una diffusa incapacità a costruire relazioni sentimentali, poiché non ha permesso lo sviluppo delle competenze necessarie per coinvolgere l’altro. Poiché ci si aspetta che il proprio desiderio venga sempre soddisfatto, e ci si illude che sia possibile possedere l’affetto di un’altra persona, così come si posseggono le cose, i fallimenti e le frustrazioni sono inevitabili.  Infatti l’affetto non si può imporre e nemmeno comprare – come invece si può fare con il sesso – ma soltanto condividere e costruire insieme, cosa che non si è in grado di fare per mancanza delle indispensabili capacità relazionali. Di conseguenza, diventati adolescenti e adulti, i bambini cresciuti secondo il modello educativo consumistico sono del tutto incapaci di tollerare il rifiuto affettivo o l’abbandono, situazioni che appaiono allo stesso tempo inconcepibili (“come si permette di sfuggire al mio possesso?”) e insuperabili (“non posso fare niente”). La violenza rappresenta la reazione più facile a un tale profondo vissuto di frustrazione.

La soddisfazione illimitata dei propri desideri, caratteristica del modello consumistico, ha avuto un’altra importante conseguenza: essa ha favorito la trasformazione di ogni desiderio in diritto, reclamato non solo a livello individuale ma anche collettivo. Sul piano psicologico, questa trasformazione ha due grandi vantaggi: anzi tutto, essa converte una richiesta soggettiva ed egocentrica – e come tale censurabile – in qualcosa di oggettivo ed eticamente fondato; di conseguenza, essa permette di condannare chi avanza critiche come un illiberale che non rispetta i diritti altrui. Il risultato è una crescente enfasi sui diritti individuali, caratteristica delle società occidentali “avanzate”.

Questa centratura sui diritti individuali – espressione in realtà di desideri personali – è andata di pari passo con la disattenzione alle corrispondenti esigenze altrui, fino a dimenticare che la rivendicazione di un diritto comporta il riconoscimento speculare dell’analogo diritto degli altri, da cui derivano necessariamente dei limiti all’affermazione del proprio. Infatti, l’enfasi sui diritti ha avuto l’effetto retroattivo di favorire l’egocentrismo, poiché ha legittimato la pretesa di vedere soddisfatto ogni desiderio, senza tenere conto degli altri e dei limiti che da essi provengono. Si è così creato un circolo vizioso di progressiva chiusura egocentrica e di aumento della conflittualità relazionale, che sfocia facilmente in comportamenti aggressivi.

Per tornare dal punto da cui è partita questa analisi – l’interazione tra fattori biologici e culturali – dobbiamo essere consapevoli che la cultura consumistica in cui siamo immersi non sta favorendo lo sviluppo delle potenzialità di socialità positiva che sono caratteristiche della nostra specie (Bonino, 2012). Al contrario, l’espansione illimitata dei consumi e dei diritti che la caratterizza, sia nell’educazione dei bambini e degli adolescenti sia nella vita degli adulti, favorisce l’emergere delle disposizioni aggressive più arcaiche ancora presenti in noi, in particolare nel cervello maschile. Ne deriva che il superamento della diffusa sopraffazione e violenza sulle donne è possibile solo modificando in profondità i modelli educativi e culturali in cui siamo immersi: piccoli aggiustamenti non sono sufficienti. Di certo le disposizioni di socialità positiva di cui siamo biologicamente dotati come specie umana rendono possibile questo superamento e inducono alla speranza; occorre però una cultura e un’educazione che ne favoriscano l’attuazione.

 

Riferimenti bibliografici

Bonino S. (2012). Altruisti per natura. Alle radici della socialità positiva. Roma: Laterza.

Bonino S. (2019). Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia. Laterza: Roma.

Mestre V., Tur A.M., Samper P., Nàcher M. J., Cortés M. T., Stili educativi e condotta prosociale. In: Caprara G. V., Bonino S. (2006). Il comportamento prosociale. Erickson: Trento, pp. 135-156.

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