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Sull’inattualità di don Milani

29 Maggio 2023 - di Luca Ricolfi

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Inevitabilmente, in questi giorni in cui ricorre il centenario della nascita di don Milani, si moltiplicheranno le celebrazioni del suo pensiero, della sua opera, della sua perdurante attualità. Non so se sia il modo giusto di ricordarlo, se sia questo il modo migliore per onorare i grandi del passato. Provo sempre un po’ di disagio, quando un autore classico viene usato per fargli dire quel che piace a noi, che viviamo in un’epoca completamente diversa. Dante era di destra? Manzoni ci invita a non parlare di etnie? Don Milani ci dice come dovrebbe essere la scuola oggi?

Proprio per questo, ho accolto con sollievo l’uscita, giusto in questi giorni, di un libriccino di Adolfo Scotto di Luzio (uno dei più autorevoli studiosi della storia della scuola), che parla del Priore e della sua opera in un modo diverso, non agiografico né strumentale, e che definirei semplicemente rispettoso (L’equivoco don Milani, Einaudi). Rispettoso perché filologico, perché si sforza – attraverso gli scritti – di farci entrare nella testa del Priore, con le sue ansie, i suoi sogni, il suo modo di vedere le cose. Evitando di ridurre “una figura così complessa, piena di tante cose, ambigua, contraddittoria e indubbiamente carica di fascino” al “figurino senza spessore del pedagogismo nostrano”.

Il risultato dell’operazione è spiazzante, perché non ci fornisce affatto – come spesso si presume – una soluzione ai problemi della scuola di oggi. Ma semmai ci rivela la radicale inattualità del pensiero di don Milani, una inattualità che, fin da subito, fu pienamente intuita da Pasolini, e da pochissimi altri. Lettera a una professoressa, spiega Scotto di Luzio, “è un pressante invito ad abbandonare ambizioni e illusioni del moderno”. Don Milani detestava il gioco, il pallone, il biliardo, il divertimento, la televisione, persino la ricreazione scolastica. Considerava egoistico persino avere una ragazza, farsi una famiglia, studiare all’università, aspirare a una professione come chirurgo o ingegnere. Le uniche professioni che considerava degne di stima erano, nell’ordine: prete, maestro, sindacalista, politico. La sua scuola era durissima, senza pause, e non disdegnava il ricorso alle maniere forti. Se avesse potuto vedere la scuola (e la gioventù) di oggi, don Milani ne avrebbe avuto orrore. Consumismo e volontà di autorealizzazione, cardini del nostro tempo, erano per lui debolezze piccolo-borghesi: solo la dedizione totale agli altri rendeva una vita degna di essere vissuta.

Ma qual era l’idea di scuola pubblica del Priore?

Fondamentalmente, poggiava su tre cardini. Primo, la cultura popolare, e contadina in particolare, fatta di esperienza e saperi pratici, ha pari dignità rispetto alla cultura alta, formale, borghese, insegnata nelle scuole. Secondo, la scuola dell’obbligo dovrebbe riconoscere il pieno valore della cultura popolare, e rinunciare a trasmettere conoscenze prive di utilità pratica (matematica, letteratura, filosofia, ecc.), puntando tutte le carte sull’attualità (leggere i giornali) e sul controllo della lingua (non solo italiana). Terzo, l’orario scolastico dovrebbe essere molto più lungo, perché è nelle ore di non-scuola che i figli dei ricchi acquisiscono un vantaggio rispetto a quelli dei poveri, costretti a lavorare quando non sono a scuola (di qui il favore con cui don Milani vedeva il “pieno tempo”, e persino le “classi differenziali”).

Da questo complesso di idee derivava una conseguenza fondamentale. Diversamente da Gramsci, da Concetto Marchesi, e dallo stesso Togliatti, don Milani non vedeva l’accesso alla cultura alta come strumento di elevazione ed emancipazione degli strati popolari. Per lui, come per Pierre Bourdieu pochi anni dopo, la cultura alta era uno strumento di dominio, che imponeva saperi arbitrari, fatti apposta per consentire ai ricchi di umiliare ed escludere i poveri. Come tale, andava lasciata ai ceti alti e a quanti, fra i poveri, preferivano tradire la loro classe di origine, sottomettendosi alla scuola borghese e frequentando quelle che don Milani spregiativamente considerava “Scuole di Servizio dell’Io”, università e licei in particolare.

In questa sua visione dei compiti dell’istruzione, don Milani si situa agli antipodi del pensiero dei Padri Costituenti, in particolare di Piero Calamandrei. Per loro la scuola doveva rompere il monopolio borghese della cultura, facendo sì che la nuova classe dirigente dell’Italia repubblicana potesse attingere alle forze migliori di ogni ceto sociale. Era a questo alto compito che guardava l’articolo 34 della Costituzione, che al comma 2 recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”.

Piero Calamandrei considerava quell’articolo il più importante della Costituzione. Don Milani, invece, detestava l’articolo 34. Per lui, diventando chirurgo o ingegnere, il povero perdeva la sua purezza, il suo legame con i compagni, l’appartenenza al magico universo della cultura popolare. Premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi” non era la strada giusta. E infatti non fu seguita. Le borse di studio che l’articolo 34 prometteva (al comma 3) sono rimaste in gran parte sulla carta: don Milani ha vinto, Piero Calamandrei ha perso.

Fu un bene? Fu un male? Su questo, fra una celebrazione e l’altra, forse varrebbe la pena riflettere.

Chiediamo troppo ai ragazzi?

3 Aprile 2023 - di Luca Ricolfi

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Stanno suscitando una certa inquietudine le notizie che, negli ultimi tempi, riferiscono di giovani in crisi, specie in ambito scolastico. Fra le fonti di disagio, spesso vengono menzionate le eccessive pretese di insegnanti e genitori, ma anche ansie e frustrazioni che possono nascere nel gruppo dei pari. La diagnosi prevalente sembra essere quella che sottolinea l’insostenibilità delle pressioni competitive che il mondo degli adulti eserciterebbe sui ragazzi, chiedendo loro più di quanto possano dare.

C’è ovviamente del vero in ciascuna di queste letture, ma credo sia bene distinguere. I problemi del liceo classico, di cui tanto si parla, riguardano meno del 6% dei ragazzi, e sono di natura molto diversa da quelli degli altri licei e degli istituti tecnici e professionali. Nella mia ormai lunga esperienza di genitore e docente, quel che più mi ha colpito, negli ultimi decenni, non è certo l’eccesso di competitività, che spesso si attribuisce al classico, ma un fenomeno del tutto diverso, per certi versi opposto, che si può osservare a occhio nudo un po’ in tutti gli ordini di scuola: par la maggior parte delle famiglie, da molti anni a questa parte, la stella polare è il binomio serenità + promozione. L’importante non è che la scuola sia eccellente, o che il figlio primeggi, ma solo che sia promosso e non subisca frustrazioni. Se non fosse così, anziché legioni di genitori che se la prendono con gli insegnanti per gli insuccessi dei figli, vedremmo un vasto movimento che chiede alla scuola come mai il livello sia sceso così tanto.

Ed è qui che interviene il problema dei licei classici, e più in generale delle scuole esigenti, che per fortuna esistono anche in altri indirizzi. La strage di ragazzi che abbandonano i licei per passare a scuole più facili si spiega con il fatto che il primo anno di scuola secondaria superiore è anche il primo momento in cui la scuola smette di scherzare, ossia non sottostà all’obbligo non scritto di intrattenere e promuovere (quasi) tutti. Negli anni ’60 questo passaggio alla “scuola vera” avveniva dopo la 5aelementare, e infatti la scuola media inferiore faceva ancora stragi. Mentre oggi il passaggio alla scuola vera avviene solo dopo la 3a media, e a fare stragi ci pensano i licei.

C’è un’importante differenza, però, fra ieri e oggi. Negli anni ’60, il tipico ragazzo che non ce la faceva proveniva da una famiglia povera, in un’Italia che non aveva ancora raggiunto l’unità linguistica (come Tullio De Mauro ci ha mille volte ricordato). Oggi, invece, se un ragazzo non ce la fa, spesso è semplicemente perché la scuola media non gli ha fornito le basi per frequentare un liceo, e meno che mai per frequentare un liceo classico, con il latino e il greco. È innanzitutto da questa rinuncia della scuola media a raggiungere standard minimi di competenza linguistica (una rinuncia aggravata da tre anni di pandemia) che derivano le enormi difficoltà di tanti nostri ragazzi non appena, con la scuola secondaria superiore, incontrano la scuola vera.

Non è tutto, però. Una vasta letteratura internazionale, soprattutto psicologica e sociologica, da almeno vent’anni ci avverte che i figli dei baby boomers, ovvero i genitori dei ragazzi di oggi, oltre ad accettare il declino della qualità dell’istruzione e a rompere la storica alleanza con gli insegnanti, si sono resi responsabili di un altro disastro: la formazione di una generazione fragile, ipersensibile, ultra-bisognosa di protezione, affamata di approvazione, incapace di tollerare gli insuccessi e di gestire le difficoltà. In una parola: una generazione non-resiliente, per usare una espressione che il Pnrr ha reso di moda.

Chiunque abbia frequentato le scuole negli anni ’60 può testimoniare che le pressioni che insegnanti e genitori, allora alleati, esercitavano sui ragazzi e le ragazze erano enormemente superiori a quelle di oggi. Personalmente, ricordo i miei anni di scuola media come anni di terrore, di ansia, di spasmodica attenzione a non sbagliare. Ma anche di grandi soddisfazioni, scolastiche ed extra-scolastiche.

Dunque il punto cruciale non può essere che si chiede troppo ai ragazzi. Il punto, semmai, è che nessuno, allora, pensava di avere “diritto al successo formativo”, alla serenità, a supporti psicologici, al riconoscimento di ogni esigenza o aspirazione. Non lo pensavamo noi ragazzi, non lo pensavano i nostri genitori, non lo pensavano i nostri insegnanti, perché quelle cose non le vedevamo come diritti esigibili, ma come possibili conquiste. Oggi ai ragazzi si chiede molto di meno, ma proprio questo chiedere di meno li rende fragili, perché li lascia disarmati verso gli ostacoli e le asperità della vita, scolastica e non. Siamo sicuri che sia la strada giusta?

Follemente corretto (8) – Presunto colpevole

29 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

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Supponete che il Parlamento italiano approvasse una legge controversa, ad esempio una norma che regola le adozioni dei bambini da parte delle coppie di fatto (non importa qui che tipo di norma). Credo che nessuno si stupirebbe se varie associazioni di genitori, educatori o altre categorie scendessero in campo, a favore o contro la legge. Nemmeno ci stupiremmo troppo se scrittori, studiosi, docenti, giornalisti, artisti e celebrità varie dicessero la loro, sui quotidiani o in tv. Così come considereremmo normale, in un mondo infestato dai social, che migliaia di utenti di internet fornissero il loro parere non richiesto sulla nuova norma.

Quello che invece ci apparirebbe strano, per non dire assurdo, è che l’amministratore delegato di un’azienda che non ha nulla a che fare con le adozioni – per esempio la catena di supermercati Esselunga – si scusasse con le proprie commesse e i propri impiegati per non aver preso immediatamente posizione contro la legge. Se lo facesse, lo considereremmo fuori luogo. Che cosa c’entra la Esselunga con le adozioni?  E poi, visto che la questione è controversa, perché mai l’amministratore delegato di una catena di supermercati dovrebbe prendere posizione contro? Perché non a favore?

Adesso spostiamoci negli Stati Uniti: lì invece può succedere. Anzi, è già successo. La questione controversa è a che età si può cominciare, nella scuola, a parlare di scelta di genere e orientamento sessuale. Come noto, le associazioni LGBT+ premono perché la scuola ne parli il più presto possibile. Diverse associazioni di genitori, invece, chiedono che venga rispettato l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), che al comma 3 recita: “I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”.

Insomma, un caso perfetto di questione controversa. Su di essa, qualche mese fa, il Governatore (repubblicano) della Florida ha varato una legge che fissa il confine fra la 3° e la 4° elementare: nell’asilo e fino alla terza elementare non si può parlare di temi LGBT+, dopo invece sì può.

Risultato: Bob Chapek, amministratore delegato della Disney (un’azienda che ha una forte presenza in Florida), si è scusato con i propri dipendenti per non aver preso posizione tempestivamente contro la legge. E lo ha fatto con parole patetiche, per non dire piagnucolose: “Avevate bisogno di me come alleato più forte nella lotta per la parità di diritti e io vi ho deluso. Mi dispiace”.

Perché è intervenuto, lui che fa film e cartoni animati? Perché si è sentito in dovere, su una questione altamente controversa, di prendere posizione contro, anziché a favore?

La risposta non è semplice, perché è fatta di due tasselli logici distinti. Il primo è che l’establishment americano (di cui Chapek è parte) è progressista, e per i progressisti americani quella questione non è politica ma etica. Dunque ammette un’unica soluzione, esattamente come – per i fanatici religiosi – la sacralità della vita del feto chiude ogni possibilità di discussione sull’aborto.

Fin qui siamo di fronte a un problema di intolleranza laica, variante illuminista dell’intolleranza clericale. Ma questo spiega solo perché il Ceo di Disney abbia preso posizione contro la legge, anziché a favore. Non spiega come mai si sia sentito in dovere di assumere pubblicamente una posizione, anziché occuparsi del prossimo cartone animato.

Già, come mai?

E qui veniamo al secondo tassello. La ragione per cui, a differenza di quel che accadrebbe in Italia, in America un amministratore delegato si sente tenuto a prendere posizione, è che lì il politicamente corretto è riuscito a imporre una sorta di (folle) presunzione di colpevolezza: dato che discriminazione e razzismo sono ubiqui e “sistemici”, siamo tutti colpevoli fino a prova contraria. E prendere posizione nel modo giusto è l’unica chance che abbiamo per provare la nostra innocenza.

Ma il merito è un ascensore sociale

12 Dicembre 2022 - di Giovanni Cominelli

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Poiché l’egemonia incomincia con nuove parole e le parole sono pietre, è con queste che il nuovo governo di Destra/Centro – ma il Centro vi è ormai appeso come una lampadina sull’albero di Natale – sta cercando di lastricare il proprio faticoso cammino. Ecco dunque comparire il MIM, Ministero dell’Istruzione e del Merito, ultima tappa della lunga marcia delle sigle: dal MIP del Regno d’Italia al MEN del Fascismo, al MIP, al MIUR, al MI, al MIM…

E’ bastato dichiarare l’intenzione di appiccicare quella M sul frontone del palazzone di Viale Trastevere 76/A, perché, per riflesso pavloviano, insegnanti, pedagogisti, opinionisti ponessero mano alla pistola ideologica, dalla quale sono usciti proiettili quali “esclusione”, “selezione di classe”, “iniquità”, “diseguaglianza”, “macelleria sociale”, “Don Milani”… “Merito” è risuonata come una bestemmia nel silenzio della chiesa della sinistra.  Si tratta di proiettili a salve, che offrono solo un fuoco fatuo di copertura alla scuola italiana di oggi, che è realmente una “scuola di classe”, una scuola iniqua.

Ci sono due tipi di merito: “il merito del talento” e “il merito della prestazione”.

Quanto al primo: è lo sforzo di investire i talenti che gli individui si trovano nello zaino. Tutti hanno dei talenti, fosse pure solo la capacità di fischiare, come prese atto una volta Don Bosco, parlando con un ragazzo della Torino povera. Vi sono poi quelli che, nel lessico dell’OCSE-Education, sono i “gifted”, cioè  i “plus-dotati” o “iperdotati” o “ad APC” – ad  Alto Potenziale Cognitivo. Costoro hanno dei talenti superiori alla media. In ogni caso, non c’è propriamente merito nell’avere talenti. Esso scatta solo quando compare lo sforzo di farli fruttare, non importa a quale livello sociale la lotteria della vita collochi i talentuosi.

E’ a questo tipo di “merito” che si riferisce l’art. 34, ai commi 3 e 4: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”; “La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Appare, dunque, ben strano che oggi alla sinistra, sempre pronta a gridare al tradimento della Costituzione, il lemma “merito” appaia così politically incorrect.

“Il merito” è una conquista delle lotte storiche dei Movimenti operai, fin dalla seconda metà dell’800, così come lo era stata a suo tempo della Borghesia rispetto al sistema feudale dei Ceti. Una volta al potere, la Borghesia aveva tenuto il merito solo per sé. I Movimenti operai socialisti, comunisti, cattolici lo rivendicarono per tutti. Muovendo i primi passi con le Mutue, con le Leghe, con i Fasci, con le Cooperative, con i Sindacati riuscirono a strappare allo Stato liberale i primi provvedimenti relativi all’Istruzione, alla Sanità, all’Assistenza. Diventati partiti politici, rappresentati in Parlamento e entrati nei governi, riuscirono a costruire un sistema di Welfare, che, nel settore dell’Istruzione, dava a tutti, almeno nella proclamazione di diritto, la possibilità di farsi strada fino ai livelli più alti. L’art. 34 ne costituisce, appunto, la piattaforma di diritto più nota e più definitiva.

Facile a scriversi in Costituzione, molto più difficile a realizzarsi nella società. Perché iI sistema scolastico italiano continua a mal/funzionare in modo pre-costituzionale. Non riconosce il merito, lo umilia e lo scoraggia. Non riconosce i livelli diversi, ignora che ciascuno è diverso. Come spiegava don Milani, ipercitato a seconda dei propri comodi, la scuola è di tutti, se è scuola per ciascuno, perché “nulla è più ingiusto che far parti uguali tra disuguali”.

E’ cresciuto il tasso di scolarizzazione, ma sempre troppo basso rispetto al resto d’Europa. La percentuale dei NEET (Not in Education, Employment or Training) è arrivata negli anni al 25,1%, raggiungendo quota 3.047.000. Abbiamo più NEET rispetto a tutti gli altri Stati dell’Unione europea. Il tasso di analfabetismo funzionale sta crescendo, non solo quello di ritorno, ma anche quello in uscita dalla scuola dei quindicenni.

Quanto al “merito della prestazione”. Che succede in Italia? Se sei una donna, piena di talenti e impegnata ad investirli, almeno quanto un maschio talentuoso, non avrai affatto le stesse possibilità né di stipendio né di carriera del suddetto. A scuola no, la donna ha la stessa possibilità di un maschio: cioè zero per tutti! Qui, in effetti, funziona un’altra legge, che parifica maschi e femmine: se sei un insegnante capace e meritevole, non perciò avrai uno stipendio più alto di un insegnante incapace o lavativo. Nell’universo scolastico, dove regna la diseguaglianza reale dei meriti e delle prestazioni, questa viene nascosta sotto il tappeto ipocrita dell’uniformità giuridico-sindacale. Nella vulgata ministeriale-sindacale, tutti gli insegnanti sono bravi allo stesso modo e tutti fanno il mestiere allo stesso modo. Quando Luigi Berlinguer avanzò nel 1999 l’idea di fare uno screening valutativo degli insegnanti, ne fu travolto e licenziato.

Così, in nome della retorica dell’inclusione e dell’eguaglianza, il sistema di istruzione genera dall’interno e sottoproduce esclusione reale, cioè impreparazione, analfabetismo e frustrazione professionale. Ciò accade in misura particolare e massiccia nella scuola meridionale. Nel caso dei ragazzi, tale esclusione rimbalza sulle famiglie. Così quelle abbienti mandano i figli nelle Università del Nord, più hanno soldi e più a Nord li mandano. I ragazzi di quelle povere gironzolano nella piazza del paese con la pensione dei nonni e con il reddito di cittadinanza.

Come si può rimediare alla scuola della diseguaglianza, quella che Luigi Berlinguer ha ancora recentemente denunciato come “scuola di classe”? In due modi.

Il primo richiede riforme istituzionali profonde del quadrilatero del sistema scolastico: Curriculum, Ordinamenti, Politiche del personale (differenziazione di carriere e stipendi, reclutamento diretto da parte delle scuole), Autonomie. Non le ripropongo qui, per l’ennesima volta. Mi limito realisticamente a rilevare che né la destra sociale né quella sovranista, oggi al governo, né la sinistra politica e sindacale né quella populista, oggi all’opposizione, dispongono delle risorse culturali e intellettuali e della volontà politica sufficienti a rovesciare il modello di organizzazione statal-centralistica dell’istruzione, adottato nel 1859. L’assetto centralistico del sistema di istruzione e quello dello Stato amministrativo sono organicamente legati. Non si può voler cambiare l’uno senza voler cambiare l’altro. Finora si intravedono solo delle velleità.

Il secondo modo di contrasto si può praticare qui e ora in ogni istituto scolastico. Ed è decisivo. Gli insegnanti devono valutare e certificare senza indulgenze e senza sconti il livello reale di acquisizione del sapere e della costruzione del carattere dei loro ragazzi. Devono dire la verità ai ragazzi e alle loro onniprotettive e invasive famiglie. Solo la verità meritocratica è inclusiva, perché essa serve a stimolare soprattutto i più poveri socialmente e culturalmente. Sapere e carattere sono i tiranti dell’ascensore sociale. Se gli insegnanti non sono esigenti e rigorosi, quando interrogano o quando sono riuniti in scrutini ed esami, se non applicano severamente il principio meritocratico, finiscono per danneggiare i meritevoli, ma privi di mezzi. Quanto agli immeritevoli, ma ricchi di famiglia, trovano sempre una strada grazie al capitale economico o relazionale di papà. Il lassismo e il facilismo, praticati al fine dichiarato dell’inclusione, si rovesciano in esclusione. Certo, la severità è faticosa e impopolare, gli avvocati di famiglie – abbienti! – sono in agguato, i Presidi sono ormai tutti costretti a dotarsi di avvocati, gli insegnanti sono più tranquilli con il laisser faire, laisser passer.

Perciò, se resta dubbio che il maquillage della M fosse necessario, di certo non è sufficiente. Il Ministro Valditara lo sa.

Aiuta il progetto ARTICOLO 34 – MERITO E PARI OPPORTUNITA’

6 Dicembre 2022 - di fondazioneHume

Speciale

L’articolo 34 della Costituzione recita:

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Purtroppo, il sistema di sussidi che enti pubblici e privati erogano agli studenti è ancora ben lungi dal garantire il rispetto dell’articolo 34.

Le borse destinate ai “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” sono ancora troppo poche (specie nella scuola secondaria superiore), di importo insufficiente, e non sempre in grado di individuare i più capaci e meritevoli.

La Fondazione David Hume sta elaborando un progetto per far sì che, nel giro di alcuni anni, il dettato costituzionale venga pienamente rispettato attraverso un sistema di borse di studio ampio, generoso, e in grado di assicurare anche ai meno abbienti il proseguimento degli studi fino ai gradi più alti.

La promozione del merito, a partire dalla scuola, è uno degli strumenti fondamentali per contrastare le diseguaglianze e favorire le pari opportunità. Ma è anche una via per alzare il livello medio di preparazione degli studenti, con benefici in tutti i campi, dalla cultura alla sanità, dall’economia alla qualità della vita democratica.

Il nostro progetto prevede innanzitutto l’istituzione di un FONDO NAZIONALE DEL MERITO, che permetta ad ogni singola scuola di:

  • Premiare, con un riconoscimento simbolico e una piccola somma in denaro (per esempio 100 euro), le allieve e gli allievi che hanno ottenuto i risultati migliori, indipendentemente dalla condizione economico-sociale della famiglia: le ragazze e i ragazzi che ottengono buoni risultati vanno tutti riconosciuti e valorizzati, perché – con il loro impegno e il loro talento – contribuiscono al benessere e al buon funzionamento dell’intera comunità;
  • Dotare di una significativa borsa di studio (per esempio 12 mila euro l’anno) le premiate e i premiati che provengono da famiglie svantaggiate, e rischiano quindi di interrompere prematuramente gli studi, o intraprendere percorsi inferiori alle loro possibilità, dover lavorare per mantenersi agli studi, con grave perdita per loro stessi e per la collettività.

Il FONDO NAZIONALE DEL MERITO, provvisto di una dotazione iniziale dello Stato centrale, dovrebbe essere aperto ai contributi degli altri enti pubblici e dei privati, in particolare famiglie, imprese, fondazioni bancarie, istituzioni e organizzazioni del terzo settore.

L’ipotesi da cui muoviamo è di iniziare dai ragazzi di 3a media e, ogni anno, estendere il sistema ad una o più leve successive, anche in funzione dell’apporto dei soggetti che vorranno contribuire al “Fondo nazionale del merito”. Più generosi saranno i contributi al Fondo, più rapidamente sarà raggiunto l’obiettivo di assicurare un adeguato sostegno a tutti i “capaci e meritevoli”, come avevano previsto i Padri Costituenti.

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