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Gaza, fake numbers?

13 Marzo 2024 - di Luca Ricolfi

Fact and figuresIn primo piano

C’è una cosa che, con il passare dei mesi, sempre più mi stupisce riguardo alla guerra di Gaza (ma anche alla guerra in Ucraina): il disinteresse della maggior parte della stampa, e ancor più delle tv, per i numeri della guerra. Sembra che le uniche cose importanti siano le dichiarazioni dei protagonisti (cioè la propaganda), le indiscrezioni (per lo più inattendibili), e i reportage su quel che accade a una delle due parti in conflitto (i Palestinesi). Come se lo scopo fosse solo di eccitare gli animi di chi parteggia per una delle due parti, e muovere a pietà la maggioranza dei cittadini-telespettatori.

Ma siamo sicuri che informare significhi solo questo? Siamo sicuri che non significhi anche raccontare che cosa veramente succede sul campo, e a che punto è la guerra rispetto agli obiettivi delle due parti in conflitto?

Faccio due esempi.

Primo esempio. Le cifre riportate dai media sono quasi sempre, e quasi esclusivamente, quelle fornite dai terroristi, rivestite di autorevolezza attribuendone l’origine al “ministero della Sanità” di Hamas. Su queste cifre (30 mila morti dall’inizio della guerra), e sulla loro disaggregazione in donne, bambini, anziani eccetera, non vi è il minimo controllo critico.

Naturalmente, di fronte alla richiesta di cifre vere sul numero di civili palestinesi uccisi, si può obiettare che 10, 20 o 30 mila sono sempre tantissimi, troppi, e quindi è inutile cercare di verificare (ma che cosa penseremmo se, dopo un grave incidente di lavoro in un cantiere, ci dicessero che sono morti 10-30 operai, e che è inutile sottilizzare sul numero esatto?).

Secondo esempio. Israele afferma di voler smantellare Hamas. Ma, se è così, non sarebbe essenziale avere qualche informazione sulle forze in campo, e sui risultati militari della guerra in corso? Quanti sono i miliziani di Hamas, e quanti ne sono stati uccisi finora? Quanti soldati ha Israele dentro Gaza, e quanti ne ha già persi?

A leggere i giornali e ad ascoltare radio e tv, sembra che i morti – oltre ad essere tantissimi – siano tutti civili, quasi che l’obiettivo dell’esercito israeliano sia lo sterminio della popolazione di Gaza e non l’eliminazione della rete terroristica di Hamas. Nessuno stupore che, con un’informazione così, attivisti e cantanti si sentano autorizzati a chiedere di “fermare il genocidio”, e un sondaggio di Renato Mannheimer riveli che oltre il 60% dell’opinione pubblica chiede a Israele di ritirarsi senza porre condizioni sul rilascio degli ostaggi.

In realtà, la vera domanda è un’altra: il compito dell’informazione è solo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’entità e la gravità della tragedia in atto (nel qual caso basterebbe dire: decine di migliaia di morti), o è anche quello di fornire un quadro preciso dei fatti, come succede quando c’è un disastro in un cantiere, o un naufragio in mare, e si cerca di capire non solo quanti hanno perso la vita ma anche come sono andate le cose?

È proprio perché queste perplessità mi inseguono da un bel po’, che ho appreso con sollievo che, almeno nel mondo anglosassone, c’è anche chi le domande-base se le fa. Un rapporto dello statistico Abraham Wyner, della Università della Pennsylvania, ha sottoposto a una analisi statistica i dati giornalieri dei morti di Hamas, disaggregati fra bambini, donne e maschi. Ho letto il suo report, e concordo sulle conclusioni, anche se non su tutti i dettagli: ci sono troppe anomalie matematico-statistiche nell’andamento giornaliero per non pensare che le cifre siano altamente inquinate.

Ma la conclusione più importante non è la stima del numero di civili morti (compresa fra 10 e 20 mila), ma la risposta alla domanda che facevo all’inizio, ossia quanti sono i miliziani di Hamas già eliminati sul totale dei miliziani. Mettendo insieme notizie di Hamas e di Israele sul numero di miliziani uccisi, si può azzardare che tale numero sia vicino a 10 mila, su un totale di 30 mila combattenti. Questo significa che, dopo soli 4 mesi, Israele – cha finora ha perso circa 600 soldati – è grosso modo a 1/3 della missione che si è prefissa, ossia molto avanti. Il che, forse, ci permette di capire meglio perché il suo esercito non si vuole fermare: un cessate il fuoco comprometterebbe un obiettivo che, ormai, appare a portata di mano. Ma anche di capire che, verosimilmente, la guerra potrebbe durare ancora qualche mese, non anni come quella in Ucraina.

Forse, più che illuderci su un imminente cessate il fuoco, varrebbe la pena cominciare a pensare anche al dopo. La popolazione civile di Gaza non ha solo bisogno di aiuti umanitari e sostegno morale, ma di piani realistici e generosi per quando – finalmente – tornerà la pace, e la vita riprenderà a scorrere sulla “Striscia”.

 

[uscito sul quotidiano La Ragione il 12 marzo 2024]

In margine all’8 marzo – Sexting, trionfo del maschilismo

10 Marzo 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Se ripercorriamo i quasi 80 anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, il cammino delle donne ci appare lastricato di conquiste legislative e di vittorie, alcune eclatanti e ben note, altre meno vistose ma non prive di importanza. Fra le prime: diritto di voto (1946), legge sul divorzio (1970, e referendum 1974), legge sull’aborto (1978, e referendum 1981). Fra le seconde: accesso ai pubblici uffici e alle professioni (1963), riforma del diritto di famiglia (1975), abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (1981), parità salariale (2010), contrasto alla violenza di genere (2013), codice rosso (2019).

Se però abbandoniamo il piano normativo, e ci interroghiamo sui cambiamenti effettivi della condizione della donna, il quadro si fa più complesso. Intanto, è difficile non vedere che, con l’importante eccezione del diritto di voto, la maggiore libertà di cui godono oggi le donne dipende assai più da processi sociali che da cambiamenti legislativi. Alla libertà sessuale, ad esempio, hanno dato un contributo decisivo la larga disponibilità di contraccettivi (e, con molti ostacoli, l’accesso alla “pillola del giorno dopo”). Quanto alla libertà economica, moltissimo ha fatto l’autonoma scelta delle ragazze di studiare, impegnarsi, ed entrare nel mercato del lavoro: se oggi per una donna è più facile separarsi o divorziare non è solo perché c’è una legge che lo consente, ma perché in tante, fin dagli anni ’70 e ’80, hanno preferito investire sullo studio e sul lavoro, piuttosto che sulla ricerca di un partner benestante. E i risultati si vedono: dal 1990, le ragazze superano sempre più ampiamente i ragazzi nella corsa alla laurea e, quanto alla scuola dell’obbligo, oggi non c’è una sola materia (nemmeno la matematica) in cui le ragazze non siano più preparate dei ragazzi.

Questi processi di emancipazione e di empowerment (come li chiamano gli psicologi), tuttavia, raccontano solo una parte della storia. Intrecciati ad essi, coesistono meccanismi e tendenze che investono in modo negativo la condizione della donna, e impattano in modo diverso sulle varie generazioni. Anche questi meccanismi  hanno a che fare con la libertà, ma in modo per così dire imprevisto: non come conquiste, ma – semmai – come effetti collaterali delle conquiste.

Una prima tendenza è la moltiplicazione del numero di donne che crescono i loro figli da sole, o comunque senza il padre. In una società in cui il numero di separazioni e di divorzi ha superato quello dei matrimoni, e in cui i giudici quasi sempre assegnano il figlio alla madre, si tratta di una conseguenza inevitabile. Una conseguenza che tocca soprattutto le madri della cosiddetta generazione X (1965-80), intermedia fra quella dei baby boomers (1946-1964) e quella dei millennials (1981-1996).

Una seconda tendenza, invece, ha a che fare soprattutto con le ultime generazioni (zeta e alpha), e più esattamente con quanti hanno attraversato l’adolescenza dopo il 2010. Queste due generazioni, da 10-15 anni stanno sperimentando – in tutto l’occidente – una drammatica esplosione di sintomi di sofferenza psicologica o esistenziale: depressione, stress, ritiro sociale, atti di autolesionismo, suicidi tentati e riusciti. Una crisi che investe con violenza la gioventù in tutte le fasce, ma colpisce in modo speciale le adolescenti.

Le cause sono ormai chiarissime, anche se enormi interessi economici e potenti forze psicologiche (e politiche) ostacolano un discorso di verità. Una impressionante mole di ricerche ha dimostrato che a mettere a repentaglio la salute mentale e la felicità di tanti ragazzi (e soprattutto ragazze) sono i vissuti di inadeguatezza che la pubblicità e i social alimentano in continuazione mediante i modelli di perfezione – soprattutto fisica ed estetica – che vengono fatti circolare in rete: un meccanismo infernale, al cui centro si trovano il materiale pornografico, che viaggia senza restrizioni, e la pratica del sexting (invio di testi, immagini e video – privati e non – sessualmente espliciti), che coinvolge un numero sempre più alto di adolescenti (ma anche di giovani e adulti).

Con milioni di persone che praticano il sexting (di cui 1/3 vittime di diffusione non consensuale di materiale intimo), con milioni di ragazze e ragazze che passano una frazione sempre più alta della loro giornata sui social, e incautamente affidano ai like la costruzione della propria identità e auto-stima, non stupisce che psichiatri, psicanalisti e psicologi sociali denuncino l’esplosione – dopo il 2010 (anno di uscita dell’iPhone 4) – di un’epidemia di disturbi mentali e sofferenza psicologica. Un’epidemia che, non a caso, colpisce innanzitutto le ragazze, che della pratica del sexting e del revenge porn(diffusione di immagini osé per vendetta) sono le principali vittime, come tristemente insegnò a suo tempo il suicidio di Tiziana Cantone.

In queste circostanze, non si può non provare ammirazione per il lavoro di chi, come la giovane giurista Francesca Florio, mette in guardia e insegna come denunciare (suo lo splendido libro Non chiamatelo revenge porn), ma forse si dovrebbe pure sollevare un interrogativo: perché i maschi progressisti – anziché autoflagellarsi per ogni femminicidio compiuto da altri, e difendere il sexting di immagini private come pratica normale, se non come suprema manifestazione della libertà sessuale della donna – non si decidono a dire la verità?

Che è tanto amara quanto semplice: la produzione, condivisione, diffusione di immagini sessualmente esplicite è la forma più aggiornata e ubiqua di sopraffazione del maschio sulla donna.

Perché le ragazze sono sempre più infelici? – Capitale erotico e social media

24 Febbraio 2024 - di Luca Ricolfi

SocietàSpeciale

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Di disagio giovanile si sta tornando a parlare da qualche tempo, perché i segnali sono tantissimi, sia prima, che durante, che dopo il covid: ansia, depressione, autolesionismo, disturbi alimentari, suicidi tentati e portati a termine. C’è un aspetto, però, che finora è rimasto un po’ in ombra: l’età e il genere delle vittime.

Se guardiamo ai dati internazionali, per lo più molto più ricchi, analitici e aggiornati di quelli italiani, quel che emerge con estrema nitidezza è che il disagio, pur colpendo la gioventù nel suo insieme, raggiunge il massimo di intensità nelle fasce di età più basse (dai 10 ai 19 anni), e in special modo fra le ragazze.

Sulle ragioni del disagio, da alcuni anni è in corso un dibattito molto acceso, specie negli Stati Uniti e nel Regno Unito. È un dibattito molto acceso, perché tocca questioni spinosissime, e ha il potenziale di colpire interessi enormi.

Nell’occhio del ciclone ci sono due scienziati sociali, Jonathan Haidt e Zach Rausch, che hanno fatto una scoperta strabiliante: tutti i principali indicatori di disagio svoltano all’inizio del decennio 2010-2020 e, qui sta il lato strabiliante della loro scoperta, lo fanno – simultaneamente – in tutti i paesi di lingua inglese e in tutti i paesi del Nord-Europa.

Come è possibile che i segni del disagio, e in particolare i suicidi, decollino tutti insieme, fra il 2010 e il 2012?

La risposta degli studiosi è che il 2010 è l’anno di nascita dell’i-phone4, e il 2012 è l’anno in cui Zuckeberg, inventore di Facebook, spende 1 miliardo di dollari per acquisire Instagram, che già allora aveva raggiunto un’enorme diffusione.

Che cosa c’entra?

Lo spiega Jonathan Haidt. L’i-phone 4 è il primo smartphone che permette un comodo accesso a internet e quindi ai social, e nello stesso tempo monta una camera frontale, che permette i selfie, e più in generale la diffusione di foto e immagini. L’acquisizione di Instagram completa l’opera. D’ora in poi diventerà facilissimo costruire immagini di sé stessi, abbellirle con photoshop, includerle nel proprio profilo, farle circolare. E inondare il mondo di tweet, di like, di post, nonché far rimbalzare quelli altrui. Inizia l’età dell’oro dei social media. Ognuno può tentare di pubblicizzare il suo ego, ma nel fare questo si espone alle critiche altrui, ma soprattutto alla (naturale) frustrazione di sentirsi surclassato da innumerevoli altri ego, più attraenti, più popolari, più capaci di attirare like.

Secondo Jonathan Haidt è precisamente questo che fa decollare il disagio giovanile. Quella sui social è una competizione cui nessuno, una volta che vi approda, è in grado di sottrarsi, che lo voglia oppure no. Di qui insoddisfazione, malessere, disagio, invidia, frustrazione, che sarebbero alla radice dell’epidemia di cattiva salute mentale in corso in moltissimi paesi da quando l’i-phone ha sostituto i vecchi flip-phone, telefoni cellulari privi di accesso a internet. E soprattutto ha sostituito le uscite con il gruppo di amici, il gioco all’aperto, le esperienze nel mondo reale, tutte cose cruciali nella formazione di un adolescente.

Supponiamo che Haidt abbia sostanzialmente ragione (visti gli argomenti dei suoi critici, propendo a pensare che la sua spiegazione sia valida), resta il problema: come mai, in questo disastro, a rimetterci sono soprattutto le ragazze, specie se adolescenti? A prima vista sembra strano, visto che le ragazze – almeno sul piano cognitivo –  da almeno 30 anni hanno sorpassato i ragazzi.

Qui ci soccorre un’altra studiosa, la sociologia britannica Catherine Hakim, che giusto negli anni della svolta (2010-2012) ebbe a dare alle stampe un saggio e un libro fondamentali: Erotic Capital (2010), e Honey Money (sottotitolo: Perché essere attraenti è la chiave del successo). Lì si può trovare facilmente la chiave per capire il disagio esistenziale delle adolescenti dopo l’i-phone.

In estrema sintesi. Prima dell’i-phone 4, una adolescente poteva cercare di costruire la propria identità e il proprio successo valorizzando le qualità più diverse: la bellezza, certamente, ma anche l’intelligenza, la simpatia, la socievolezza, l’eccellenza in qualche materia, le doti sportive, l’abilità in qualche campo specifico. E, soprattutto, lo poteva fare in una cerchia ristretta, e almeno in parte selezionata. Dopo l’i-phone4 non è più così: giusto o sbagliato che sia, la competizione è soprattutto sulla bellezza e l’avvenenza, e avviene in mare aperto, perché tutti vedono il tuo profilo e tu puoi vedere il profilo di tutti.

Ma la bellezza (o “capitale erotico”, per stare alla terminologia della Hakim) è una delle risorse più iniquamente distribuite, e – ahimé – è difficilmente modificabile, se non con la costosa e pericolosa chirurgia estetica (forse non a caso esplosa nell’ultimo decennio). Di qui il dramma delle adolescenti, che sono costrette a correre una gara da cui solo una minoranza può ragionevolmente attendersi di uscire vincitrice.

Che fare? si potrebbe domandare un padre o una madre di una quindicenne. Niente, mi verrebbe da dire, la forza del “così fan tutte” è soverchiante e invincibile. Però una piccola cosa, forse, si potrebbe anche tentare: far balenare il pensiero che, accanto alla paura di essere tagliati fuori, esiste anche la felicità di mettersi al riparo dalla macchina infernale dei social, una scelta audace che da tempo si usa chiamare JOMO, Joy of missing out, la gioia di restarne fuori (ne ha indirettamente parlato la giovane scrittrice Francesca Manfredi nel suo romanzo Il periodo del silenzio, appena uscito). Una scelta controcorrente, che però si può compiere anche in modo equilibrato e saggio, riscoprendo i telefonini tradizionali, che costano pochissimo, ci risparmiano la competizione sui social e, forse non casualmente, stanno tornando di moda.

Disagio giovanile? – Un mito diventato realtà

21 Febbraio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Se c’è una cosa che mi ha sempre lasciato perplesso, nella mia carriera di sociologo, è l’uso ossessivo, insistito e iterato dell’espressione “disagio giovanile” per descrivere la condizione dei giovani dagli anni della contestazione in poi. Con il passare del tempo la mia perplessità si è progressivamente tramutata in stupore, e alla fine in un sentimento di incredulità. Questo perché, se prendiamo in considerazione il cinquantennio che va dal 1969 (anno dell’esame di maturità facilitato e della liberalizzazione degli accessi all’università) fino al 2019, ossia all’ultimo anno prima del Covid, quello che ci è dato osservare è, semmai, il processo inverso: la instaurazione progressiva di condizioni materiali e immateriali sempre più agiate.

Vogliamo ricordare qualcuno degli spettacolari cambiamenti che, nel cinquantennio 1969-2019, hanno investito la condizione giovanile?

Libertà sessuale: è incomparabilmente maggiore oggi. Uso del tempo: nessun padre di allora avrebbe messo la sveglia alle 2 di mattina per prelevare alle 2.30 la figlia quindicenne in uscita dalla discoteca. Autorità genitoriale: l’ubbidienza è stata sostituita dal negoziato permanente, e fin dalla più tenera età, su tutti gli aspetti della vita quotidiana. Lavoro: si è allungato di circa 5 anni il periodo della vita in cui se ne può fare a meno. Servizio militare: non esiste più, abolito giusto vent’anni fa da un governo di destra. Scuola e università: alleggerimento dei programmi e abbassamento dell’asticella della promozione. Rapporti scuola-famiglia: il patto genitori-insegnanti si è rotto, molti genitori di sono trasformati in sindacalisti dei figli.

Insomma, almeno a prima vista, nei decenni in cui illustri colleghi rilasciavano pensose riflessioni sul “disagio giovanile”, la società spensieratamente evolveva per mettere sempre più suo agio la maggioranza dei giovani. Dico “a prima vista” perché maggioranza dei giovani (ovviamente) non vuol dire tutti i giovani (le sacche di marginalità ci sono anche oggi), ma anche perché non è detto che quel che, oggettivamente, si presenta come uno spettacolare aumento di benessere e di libertà si traduca poi, soggettivamente, in maggiore appagamento, felicità, autorealizzazione.

In effetti, se leggiamo attentamente le sia pur frammentarie statistiche degli ultimi 4-5 anni, è difficile non essere colti da un certo sgomento. Quello cui si assiste, infatti, è una vera e propria esplosione di comportamenti che manifestano – oggi sì – una condizione di disagio: a quel che ricordo, mai in passato si era osservata una crescita tanto rapida e improvvisa di segnali di malessere. Nel breve lasso di tempo che va dall’ultimo anno pre-covid (2019) agli anni più recenti per cui si dispone di statistiche (2022 e 2023) si sono improvvisamente impennati sia i comportamenti autolesionistici o di ritiro sociale, come disturbi alimentari, suicidi, tentati suicidi, richieste di aiuto, auto-isolamento, sia i comportamenti aggressivi come omicidi, rapine, risse, minacce, lesioni dolose, violenza sessuale e, a scuola, bullismo e attacchi agli insegnanti (alcune stime nel grafico accanto).

È curioso. Quando l’evoluzione sociale, come una cornucopia, regalava alla condizione giovanile ogni sorta di agio, i convegni dei sociologi leggevano tutto nel registro del “disagio giovanile”, ora che quel disagio c’è davvero, i sociologi latitano, quasi avessero passato la palla a psichiatri, psicologi e pedagogisti. Resta però una domanda, anzi forse la domanda: c’è un nesso fra il disagio di oggi e gli agi dei 50 anni precedenti?

Sì, io penso che ci sia. La cifra del cinquantennio felice 1969-2019 è stata la rimozione sistematica e progressiva di ogni possibile ostacolo, nella famiglia, nella scuola e nella società, e la piena affermazione della cultura dei diritti, ovvero dell’attitudine a pretendere piuttosto che a conquistare. Questo ha reso i giovani non solo più fragili e impreparati ad affrontare difficoltà, sconfitte, sfide difficili, ma anche più insicuri, più suscettibili, più in competizione reciproca (anche grazie ai social), e in definitiva meno capaci di perseguire la felicità esistenziale: “non si diventa felici per assenza di difficoltà” aveva avvertito, esattamente vent’anni fa, Hara Estroff Marano, psicologa sociale statunitense, già allora preoccupata per la deriva mentale della gioventù americana, devastata dalla vita facilitata e dalla iper-protezione dei genitori (invasive parenting).

Tutto questo, fino allo scoppio del Covid è rimasto allo stato latente. Poi non più. Gli anni del Covid sono stati, non solo per i giovani, anni di ristrutturazione mentale, che hanno indotto a riflettere sulla propria esistenza, le proprie scelte, le proprie priorità. E spesso a concludere, più o meno vittimisticamente, che si meritava di più, o si aveva diritto a un risarcimento. Stranamente, di questa riconversione dei desideri (posso chiamarla così?) si è parlato quasi esclusivamente riguardo agli adulti e al mercato del lavoro, dove si è osservato un innalzamento generalizzato del livello di aspirazione, con l’abbandono di posti di lavoro insoddisfacenti per posti migliori o più remunerativi.

Ma la riconversione ha riguardato anche, se non soprattutto, i giovani, e non solo sul mercato del lavoro. Per loro, il fossato fra quel che si desidera e quel che si ha si è fatto più ampio, molto più ampio. Non tutti sono stati in grado di reggere lo scarto. I dati indicano che alcuni hanno reagito in modo auto-distruttivo, altri in modo aggressivo, come testimonia l’esplosione dei reati predatori, degli omicidi, delle violenze sessuali.

Forse, per il mondo degli adulti, è venuto il momento di farsi qualche domanda.

[sintesi dell’intervento di oggi al Convegno sul cinquantenario dei Decreti delegati, Firenze, Palazzo Vecchio]

Europa al bivio?

14 Febbraio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Mancano meno di 4 mesi al voto europeo, ma quasi nessuno pare interessarsene più di tanto. Eppure, forse per la prima volta, si incrociano tre circostanze cruciali. La prima è che, sul tavolo, c’è una posta di enorme impatto macro-economico e sociale: il futuro del Green deal. Secondo, si tratta di una questione su cui l’opinione pubblica è profondamente divisa, anche se in questo momento – a fronte della protesta degli agricoltori – pare emotivamente schierata da una parte, quella dei frenatori della transizione verde. Terzo, mai come oggi l’esito finale del voto è stato incerto.

Parlo di esito finale perché, come sempre in un regime parlamentare proporzionale, l’esito del voto è un “missile a due stadi”, dove il primo stadio è l’esito del voto in termini di composizione del parlamento, mentre il secondo è il tipo di maggioranza cui le forze in campo decideranno di dar luogo.

Storicamente, questo secondo stadio è sempre stato poco problematico, perché – alla fine – si è sempre trovata una quadra puntando su una sorta di Grosse Koalition, ossia sulla santa alleanza fra i tre gruppi più numerosi e più europeisti (socialisti, liberali, popolari/conservatori), talora puntellati da forze euroscettiche più o meno decisive. Quel che poteva cambiare, era solo che l’equilibrio pendesse leggermente più a destra o leggermente più a sinistra, ma la sostanza era sempre quella.

Ebbene, non è detto che lo schema si ripeta. A suggerire cautela sono i sondaggi degli ultimi mesi condotti nei paesi più popolosi, ovvero Germania, Francia e Italia. In Germania, il vento soffia nelle vele della Afd (Alternative für Deutschland), partito di destra anti-immigrati, che alle ultime politiche aveva ottenuto il 10% ma oggi è dato in prossimità del 24%. In Francia il Rassemblement National di Marine Le Pen è in crescita ed è dato intorno al 28%. In Italia il partito di Giorgia Meloni, che aveva pochi seggi in Europa, si avvia a rimpiazzare quello di Salvini, che – con il 34% dei consensi – ne aveva conquistati tantissimi. Complessivamente, i due gruppi di destra del Parlamento Europeo – ECR e ID – dovrebbero guadagnare un numero considerevole di seggi.

Contemporaneamente, i partiti della coalizione che governa l’Europa appaiono in difficoltà. In Francia, perde colpi Macron, in Germania i Popolari, in Italia Forza Italia. I Verdi sono in crisi quasi ovunque in Europa, e i sondaggi prevedono una drastica riduzione dei loro seggi al Parlamento Europeo. Quanto ai socialisti, molto dipenderà dalle alleanze, scissioni e ricomposizioni in atto in Francia e Germania, soprattutto quanto alla capacità di attirare o mantenere il voto degli elettori progressisti ma anti-immigrati. In Francia questo tipo di voto è intercettato soprattutto da La France Insoumise di Jean Luc Mélanchon, che non è chiaro se afferirà ai socialisti o all’estrema sinistra. In Germania, proprio per trattenere il voto anti-immigrati è nato poche settimane fa un partito di estrema sinistra – la BSW di Sahra Wagenknecht – che potrebbe sottrarre voti ai socialisti del premier Olaf Scholtz.

In breve, nel prossimo parlamento europeo dovremmo assistere a un significativo ridimensionamento della attuale maggioranza popolari-liberali-socialisti, a un crollo dei Verdi, e a una avanzata dei due gruppi di destra, uno dei quali potrebbe diventare il terzo raggruppamento, dopo i Popolari e i Socialisti.

L’ipotesi tuttora più verosimile è che si ricostituisca la vecchia maggioranza, eventualmente puntellata dai Cinque Stelle, come l’attuale “maggioranza Ursula”. Ma, ove tale maggioranza non ci fosse, o fosse troppo risicata, non si possono escludere due scenari alternativi, divisi essenzialmente dall’atteggiamento verso la transizione ecologica.

Nel primo, la maggioranza potrebbe allargarsi al gruppo ECR, guidato da Giorgia Meloni, e (quasi sicuramente) rimpolpato dall’ingresso di due partiti decisamente controversi, Fidesz dell’ungherese Orban e Reconquête del francese Éric Zemmour. Nel secondo scenario, l’allargamento avverrebbe invece verso i Verdi, a dispetto del loro quasi certo declassamento da terza a quinta forza del Palamento europeo (in quanto scavalcati da ECR e ID).

Difficile immaginare due scenari più antitetici. Nel primo, assisteremmo a un ridimensionamento e a una decelerazione della transizione verde, in sintonia con le richieste del mondo agricolo. Nel secondo, a un rilancio in grande stile del Green Deal, in barba alle rassicurazioni della attuale Commissione. E checché ne pensi la mucca Ercolina seconda.

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