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A proposito del duello Khelif-Carini – Inclusione e invasione

7 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Anche se (quasi) tutti si sono pronunciati sul match di pugilato femminile fra l’italiana Angela Carini e l’algerina Imane Khelif, credo sarebbe saggio ammettere che quasi nessuno – tranne forse i medici del Comitato Olimpico – ha in mano tutti
gli elementi per giudicare l’equità del confronto.

Quel che sembra appurato è solo che Khelif è atleta intersessuale (ovvero ha caratteri sessuali di entrambi i sessi), e che due organizzazioni internazionali – il comitato olimpico (CIO) e la federazione internazionale della boxe (IBA), peraltro non
riconosciuta dal CIO – hanno criteri di ammissione differenti, che hanno dato luogo a due decisioni opposte: esclusione di Khelif da parte dell’IBA nel 2023, ammissione da parte del CIO nel 2024. Sulle ragioni dell’esclusione non esiste alcun rapporto
medico chiaro, completo, e ufficiale, ma solo dichiarazioni generiche sul livello di testosterone (CIO e IBA hanno soglie di accettazione diverse) e sul corredo cromosomico (Khelif avrebbe cromosomi XY, tipici dei maschi).

È chiaro che su questa sola base nessuno, neppure un medico sportivo, può avere tutti gli elementi per dire se la gara è stata equa oppure no. L’unica cosa che finora nessuno ha messo in dubbio è che il “difetto genetico” di Khelif le conferisce un vantaggio sull’avversaria. Come ha spiegato il professor Maurizio Genuardi (Ordinario di Genetica Medica all’Università Cattolica di Roma) la ragione è che il possesso del cromosoma Y, assente nelle donne-donne come la Carini, “può favorire lo sviluppo di caratteristiche sessuali secondarie, come la massa muscolare, in senso più maschile”.

Di per sé, questa osservazione non depone né a favore né contro l’ammissione dell’atleta intersessuale. Il problema non è se Khelif avesse o no un vantaggio su Carini, perché certamente l’aveva, ma se tale vantaggio fosse tale da rendere non equo il confronto. Anche un peso welter di 66 chili ha un vantaggio su uno di 64, ma le regole della boxe stabiliscono (in modo convenzionale, e in parte arbitrario), che il vantaggio non è così grande da compromettere l’equità della competizione. Si spera che, prima o poi, le organizzazioni che si occupano di boxe uniformino le regole di ammissione, e spieghino come misurano il vantaggio, e su quali basi fissano le soglie. Magari tenendo anche conto del fatto che nella boxe, a differenza di quel che capita in quasi tutti gli altri sport, un vantaggio fisico eccessivo di un atleta mette a rischio l’incolumità dell’avversario.

Questione chiusa?

Proprio per niente. La vicenda di Khelif e Carini ha avuto il merito di mettere in luce un problema molto più generale: il possibile conflitto fra inclusione e diritti delle donne non solo nello sport ma più in generale in tutti i luoghi in cui le donne usufruiscono di spazi esclusivi, e in tutti i contesti in cui alle donne sono riservati trattamenti o garanzie particolari. Rientrano nella prima categoria non solo le gare sportive ma anche i reparti femminili delle carceri, i centri anti-violenza, gli spogliatoi. Rientrano nella seconda le quote riservate nelle competizioni elettorali, l’esenzione dal servizio militare, i benefici previdenziali (età della pensione, incentivi all’assunzione).

In entrambi i tipi di situazioni, il principio di inclusione può produrre – e in parte ha già prodotto – effetti quantomeno problematici. Nello sport, è nota la vicenda della nuotatrice transgender Lia Thomas, che per anni ha sbaragliato le avversarie, prima che la federazione intervenisse sulle regole di ammissione. Meno noti sono i casi di stupri di detenute da parte di detenuti biologicamente maschi trasferiti nei reparti femminili delle carceri in quanto auto-identificati come donne. O i casi in cui una
presunta identità femminile ha permesso a maschi biologici di usufruire di quote riservate alle donne, ad esempio nelle competizioni elettorali. E sono tutti da valutare gli effetti delle leggi sull’autoidentificazione di genere recentemente approvate in
Spagna e in Germania, posto che molte legislazioni riservano alle donne speciali tutele e vantaggi.

Insomma, il caso Khelif-Carini è solo la punta dell’iceberg dell’inclusione. Contrariamente a quello che siamo portati a pensare, l’inclusione non è sempre e semplicemente un atto di apertura a categorie ingiustamente emarginate, come è stato – per fare un esempio – il diritto di voto alle donne nel 1946, una conquista che non ha tolto niente a nessuno. Gestita in modo rigido o ideologico, l’inclusione nello spazio femminile di persone intersex o transgender può produrre effetti critici: rendere iniqua una competizione sportiva, mettere a repentaglio la sicurezza delle detenute, contrarre gli spazi delle donne dove sono previste quote.

È tempo di prenderne atto: quel che per Imane è un diritto, per Angela è un’ingiustizia; quel che per alcuni è inclusione, agli occhi di altri è un’invasione. E non c’è alcun modo semplice per tutelare le buone ragioni di tutti.

[Articolo uscito sul Messaggero il 4 agosto 2024]

A proposito del caso Khelif – Il silenzio delle femministe

7 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Credo che molti avranno seguito il caso della nostra pugile Angela Carini, che alle Olimpiadi di Parigi ha abbandonato il ring dopo 46 secondi per la durezza dei colpi ricevuti dall’algerina Imane Khelif, pugile intersessuale affetta (a quel che si è appreso) da iperandrogenismo, che comporta una iperproduzione di ormoni maschili.

La sua storia è interessante e coinvolgente, ma forse ancora più interessante è il modo con cui della vicenda si è parlato sui giornali, sui media, sui social. Intanto, colpisce il fatto che quasi tutti abbiano espresso un’opinione, nonostante nessuno di coloro che sono intervenuti pubblicamente avesse accesso alla cartella clinica dell’algerina, e quasi nessuno avesse le competenze mediche necessarie per formulare valutazioni. Colpisce ancora di più il fatto che il giudizio su una questione così delicata e complessa sia dipeso quasi interamente dai posizionamenti politico-ideologici. Gli esponenti della destra si sono mossi quasi tutti come se fosse evidente che il combattimento era iniquo. Gli esponenti della sinistra si sono mossi quasi tutti come se fosse evidente che il combattimento era equo.

Ma forse l’aspetto più istruttivo di questa vicenda sono i problemi di coerenza logica che sono venuti a galla. Uno su tutti: la natura della distinzione maschi-femmina a livello biologico. Su questo fra gli ideologi della teoria gender coesistono due
posizioni difficilmente conciliabili: da un lato si sostiene che il sesso è un costrutto sociale, e che maschio e femmina sono solo due poli fra i quali esistono infinite gradazioni intermedie, di cui le persone intersessuali sono testimonianza vivente; dall’altro si afferma in modo categorico che la pugile Imane Khelif è una donna, e quindi può senz’altro gareggiare nelle competizioni femminili.

Ma le due affermazioni sono logicamente incompatibili. Se davvero il sesso è un continuum (come l’altezza o il peso), allora è inevitabile dedurne che per trasformare questo continuum in un attributo dicotomico (maschio/femmina) occorrono delle
procedure di misurazione e delle soglie. La questione non è più se Khelif sia o no una donna, ma se si avvicini a sufficienza al polo femminile per essere ammessa in una competizione femminile. E si noti che, se si accetta la teoria del continuum, allora –
in linea di principio – al medesimo test dovrebbero essere sottoposti anche i maschi. Se ad esempio l’unico criterio fosse il testosterone, dovremmo assicurarci che le concorrenti nelle gare femminili non ne abbiano troppo, ma anche che i concorrenti a
quelle maschili ne abbiano a sufficienza.

Come si vede, accettare il principio che il sesso biologico non esiste e che esistono innumerevoli stati intermedi pone più problemi di quanti ne risolva. Sfortunatamente, però, non esistono scorciatoie. Nel momento in cui il peso demografico delle persone
transessuali aumenta, e si prende coscienza dell’esistenza di persone intersessuali, è inevitabile che si ponga il problema dei criteri di inclusione.

Il punto, però, è che questo problema si pone solo su un versante del continuum. Nessun intersessuale e nessun transessuale FtM (maschio transito a femmina) chiede di gareggiare con i maschi. Quindi, di fatto, il problema riguarda solo il lato donne.
Sono le donne-donne, il cui sesso biologico è inequivocabilmente femminile, che pagano il prezzo dell’inclusione. Criteri troppo laschi di ammissione alle competizioni femminili violano il principio sportivo della equità delle gare. Ma criteri
troppo stretti entrano in conflitto con l’ideale dell’inclusione, che ha potentemente informato le Olimpiadi di Parigi.

Come se ne esce?

Secondo la sinistra ideologica e buona parte della lobby LGBT+, l’inclusione è molto più importante dell’equità della gara, e le donne-donne dovranno farsene una ragione. Secondo la destra, la cosa più importante è l’equità della gara, e sono transessuali e intersessuali che dovranno farsene una ragione. In mezzo, per fortuna, ci sono anche posizioni ragionevoli, come quelle di Paola
Concia (ex deputata Pd e attivista LGBT) che, in un’intervista rilasciata nei giorni delle Olimpiadi, deplora che i criteri di ammissione cambino a seconda dei comitati e delle federazioni sportive, e paragona l’eccesso di testosterone al doping, usato in passato dalle atlete sovietiche. E infine conclude: “non è possibile, sull’altare del politicamente corretto e dell’inclusione, sacrificare le donne. Perché poi, alla fine, quelle danneggiate sono le donne. Io dico: va bene, tutto sta cambiando, ci sono casi nuovi, persone trans, intersex, in transizione, ma troviamo un modo per cui alla fine non ci rimettano le donne”.

Già, le donne. È proprio questa la nota dolente. Di fronte alla vicenda delle due pugili, le principali organizzazioni femministe italiane – Se non ora quando e Non Una di Meno – hanno scelto il silenzio. Nessuna dichiarazione, nessuna intervista,
nessun messaggio su internet. Né sostegno a Khelif, né sostegno a Carini, né solidarietà a entrambe.

Come mai?

Forse è stato solo un segno di rispetto. Ma forse è la presa d’atto che, sempre più spesso, inclusione significa invasione degli spazi delle donne: una deriva che piace a poche, ma di cui quasi nessuna trova il coraggio di parlare.

[articolo uscito sulla Ragione il 5 agosto 2024]

A proposito dell’Ultima Cena – Libertà di espressione e indottrinamento

31 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Ha suscitato un certo scalpore l’idea degli organizzatori delle Olimpiadi parigine di educarci “alla diversità e all’inclusione” allestendo una parodia dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, con sfilata di drag queen e una (alquanto volgare) esibizione di
un attore nella parte di Dioniso, dio pagano del vino, della festa e della trasgressione.

La cosa ha ovviamente turbato una parte del mondo cristiano, suscitato le ire della destra tradizionalista, nonché attivato varie difese di ufficio da parte progressista. La cosa più divertente, però, sono state le giustificazioni degli organizzatori, e in
particolare del direttore artistico Thomas Jolly.

In un primo tempo, la risposta alle critiche è stata che il messaggio dello spettacolo di ballerine e drag queen era che “in Francia abbiamo diritto di amarci come vogliamo e con chi vogliamo”, un chiaro riferimento al mondo LGBTQ+. Nessuno ha messo in
dubbio che l’esibizione parodiasse l’Ultima Cena, mostrando Gesù e gli apostoli in abiti femminili e piuttosto discinti. Anzi non pochi hanno cominciato a tirare in ballo la libertà artistica, paragonando il caso a quello tragicamente celebre delle caricature
di Maometto pubblicate su Charlie Hebdo, che nel 2015 erano costate la vita a 12 persone, fra cui 4 vignettisti.

Passano 48 ore e, improvvisamente, la versione cambia. Anziché rivendicare la libertà artistica e i diritti LGBT, gli organizzatori fanno una clamorosa quanto tardiva marcia indietro. Il direttore artistico dice che no, è stato tutto un equivoco, lo spettacolo non alludeva all’Ultima Cena, in realtà l’idea era solo di mettere in scena “una grande festa pagana, legata agli dei dell’Olimpo”. E la direttrice della comunicazione, per mettere fine alle polemiche, taglia corto e dichiara: “Se qualcuno è stato offeso, noi ce ne scusiamo”.

L’intera vicenda è estremamente istruttiva, perché consente di mettere in evidenza due clamorose falle logiche del politicamente corretto.

La prima falla è che se, in nome dell’arte o del diritto di critica, teorizzi la libertà di canzonare le religioni, allora non puoi farlo con certe religioni (il cristianesimo) e autocensurarti con altre (l’Islam). Da questo punto di vista, sono stati più coerenti i
vignettisti di Charlie Hebdo, che hanno avuto il coraggio di infrangere il tabù che in occidente protegge l’Islam.

La seconda falla logica è che alcuni dei principi generali della wokeness sono reciprocamente incompatibili. L’idea di poter parodiare una religione senza offenderne i fedeli è chiaramente contraddittoria. Analogamente, se in nome dei diritti di alcune minoranze sessuali ne metti in scena le manifestazioni più controverse e divisive, non puoi – contemporaneamente – sostenere che la comunicazione deve essere inclusiva e non offendere nessuno. Il caso paradigmatico, in proposito, sono i vari Pride e pseudo-Pride, che sono certamente più che legittimi, ma palesemente poco inclusivi. Il problema logico è che si vogliono far coesistere due principi incompatibili: il diritto di alcuni di manifestare sé stessi in totale libertà, e il diritto di altri di non venirne offesi.

Come se ne esce?

A mio parere il nodo fondamentale è di tipo per così dire tecnologico: dobbiamo classificare i messaggi in base al supporto comunicativo, skippabile o non skippabile, su cui usano viaggiare.

Un supporto è skippabile, se permette di sottrarsi al messaggio senza costi significativi. Ad esempio, se sono musulmano posso non andare in edicola a comprare il settimanale Charlie Hebdo. Se sono un po’ bigotto, posso non andare a vedere il gay Pride. Se ho un minimo di buon gusto, posso non guardare programmi tv come Il grande fratello, L’isola dei famosi, o Temptation Island. Se m disturba la pornografia, posso evitare certi siti, certi canali, certi film.

Un supporto, invece, è non skippabile, se per sottrarsi a un messaggio indesiderato mi costringe a rinunciare ad altri messaggi, che invece mi interessano. Tipici esempi le Olimpiadi, il festival di Sanremo, il concertone del 1° maggio, eventi che la gente segue per guardare le gare di atletica e ascoltare le esibizioni, ma che sempre più spesso contengono anche messaggi “pedagogici” che una parte del pubblico può non gradire, o da cui può sentirsi offeso, turbato, o indebitamente indottrinato. Lo stesso discorso, su scala molto minore, vale per i numerosi pop-up che ci balzano addosso mentre leggiamo un articolo o navighiamo in un sito.

Ebbene, se si usa la distinzione fra messaggi skippabili e non skippabili diventa chiaro perché il parallelo fra le caricature di Maometto su Charlie Hebdo e la parodia del cristianesimo alle Olimpiadi parigine non regge. Le vignette su Maometto erano skippabili, anche se potenzialmente virali. La parodia del Cristianesimo era non skippabile perché parte integrante dello spettacolo in cui era stata impiantata. Non solo, ma quella parodia, a differenza delle vignette di Charlie Hebdo, aveva un chiaro intento pedagogico, di indottrinamento e di cosiddetta sensibilizzazione.

È questa la scorrettezza, la mossa subdola cui le direzioni artistiche non riescono più a sottrarsi: approfittare di un grande evento, come possono essere le Olimpiadi o il Festival di Sanremo, per imporre a tutti un messaggio di parte, che finge di voler includere ma offende chi non lo condivide.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 luglio 2024]

Kamala Harris versus Donald Trump – Elezioni americane e politicamente corretto

29 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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In un solo giorno è cambiato tutto. Prima della rinuncia di Biden, nessuno avrebbe scommesso sulla vittoria dei Democratici alle presidenziali di novembre. Dopo le sue dimissioni, nessuno esclude che, con Kamala Harris, i Democratici possano vincere e
restare alla Casa Bianca.

I sondaggi concordano su un solo punto: lo scarto fra Trump e Harris è modesto e dello stesso ordine di grandezza dell’errore statistico. E a questa incertezza si aggiunge quella sui vice. Harris non ha ancora scelto il suo vice, né potrebbe essere diversamente, visto che non ha ancora ottenuto l’investitura ufficiale come candidata dei Democratici. Quanto a Trump, ha già fatto un errore: scegliere il proprio vice (J.D. Vance) senza sapere ancora chi sarà il suo avversario. C’è chi dice che, se avesse saputo che a sfidarlo sarebbe stata una donna, avrebbe scelto come vice un’altra donna (verosimilmente la sua ex acerrima rivale Nikki Haley).

Alcuni dei temi in campo sono i soliti: economia, immigrazione, diritti. Altri sono nuovi: guerra in Ucraina, guerra a Gaza. Ma è verosimile che, ad infiammare la competizione, saranno soprattutto due temi generali: la gestione dell’immigrazione
(in particolare del confine con il Messico); la questione dei diritti riproduttivi, delle minoranze sessuali, e più in generale della cultura woke.

Su questi due versanti Harris e Trump hanno, entrambi, punti deboli e punti forti.

Sull’immigrazione, Trump non potrà maramaldeggiare troppo perché Harris non è certo stata una paladina delle frontiere aperte, ha anzi più volte preso posizioni che in Italia siamo abituati ad associare a Salvini e Meloni: non venite, vi aiuteremo a casa
vostra, no al traffico di esseri umani, esternalizzazione delle richieste di asilo in paesi terzi (il nostro modello Albania). Trump potrà anche accusarla di non aver fatto abbastanza, ma non certo di aver spalancato i confini. Semmai, le critiche a Kamala
Harris potrebbero arrivare dalla sinistra del partito democratico (Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez), schierata su posizioni aperturiste. Insomma, in materia di immigrazione Kamala Harris si è comportata in modo moderato, se non di destra.

In termini diametralmente opposti stanno le cose sul tema dei diritti. Qui Kamala può vantare un non ambiguo posizionamento pro aborto e pro diritti LGBT+, una linea che la colloca nel cuore della cultura woke. Ma proprio questo suo radicalismo in
materia di diritti rischia di farne il bersaglio perfetto della guerra contro il wokismo dichiarata da Trump e dal suo vice. Una guerra che, in America, è molto più vasta e coinvolgente che da noi. E che non è detto trovi donne, neri, ispanici, compattamente schierati a sostegno della candidata democratica. Kamala Harris, ad esempio, ha l’ostilità del movimento Black Lives Matter, che non ha gradito la sua antidemocratica investitura dall’alto. Quanto alle donne, la maggioranza apprezza la difesa dell’aborto, ma una parte delle femministe non gradisce l’appoggio alle istanze dei transessuali, in particolare dei trans MtF (da maschio a femmine), accusati di invadere gli spazi tradizionalmente riservati alle donne.

E poi c’è il tema forse più importante: il politicamente corretto e più in generale la mentalità woke. Una etichetta che un tempo significava solo politica degli eufemismi (sostituire donna di sevizio con colf), ma negli ultimi anni – proprio negli Stati Uniti
– ha enormemente allargato il suo significato, ben al di là del semplice bon ton linguistico. In nome della correttezza politica i campus studenteschi si sono trasformati in campi di rieducazione, migliaia di professori hanno subito sanzioni o perso il posto, la selezione dei candidati e le promozioni hanno sempre più punito le maggioranze “normali” (maschi e femmine bianchi eterosessuali) a favore di minoranze etniche o sessuali, specie se politicamente impegnati in cause ritenute giuste e prioritarie: anti-razzismo, giustizia sociale, inclusione.

Più in generale si è enormemente allargata la frattura fra due mondi: da una parte l’establishment istruito, che occupa le posizioni chiave nell’economia, nella cultura, nell’arte, nello spettacolo, nel mondo della comunicazione, e in virtù della sua adesione alle istanze woke si sente portatore di una superiorità etica; dall’altra i ceti popolari a bassa istruzione, perennemente alle prese con le asperità della vita quotidiana, e del tutto insensibili alle sottili questioni linguistiche e giuridiche che appassionano l’élite colta. Questo è il terreno di scontro ideale per i Repubblicani, perché permette loro di presentarsi come paladini della libertà di espressione (contro la censura) e della meritocrazia (contro la politica delle quote). Già nel 2016 l’insofferenza per gli eccessi del politicamente corretto aveva aiutato l’elezione di Trump. Se vuole vincere, Kamala Harris farà bene a non scordare quella lezione.

[Articolo uscito sul Messaggero il 28 luglio 2024]

Kamala Harris e Donald Trump – 50 sfumature di cattiveria

24 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Alla fine Biden ha fatto il passo indietro che tutti (tranne la moglie Jill) gli chiedevano. E ha pure lanciato Kamala Harris, la sua vice, come candidata democratica alla presidenza. Ora si attende di capire se il Partito Democratico statunitense accetterà la candidatura, oppure aprirà i giochi per spianare la via a un altro candidato. E naturalmente si attende di conoscere il nome dell’eventuale vice-presidente democratico.

Ma supponiamo, per un attimo, che la prescelta per fermare l’ascesa di Trump sia proprio Kamala Harris, e proviamo a immaginare che tipo di campagna elettorale andrà in scena. Ebbene, io credo che quella cui assisteremo sarà a una campagna non
convenzionale. E addirittura sorprendente per noi europei, che sull’America siamo pieni di stereotipi.

Noi siamo convinti, per esempio, che i democratici siano i buoni, tutti accoglienza e diritti, e i repubblicani siano i cattivi, nemici dei migranti e delle donne. In qualche misura è vero, ma il punto è in quale misura.

Prendiamo la candidata presidente Kamala Harris. Da quando è stata eletta, lei e Biden sono stati durissimi con l’immigrazione irregolare. Il primo viaggio ufficiale di Kamala Harris è stato andare in Messico e in Guatemala a dire in modo chiaro: non
venite! se lo farete vi respingeremo. Il quadriennio Biden-Harris è stato costellato di atti e dichiarazioni assai severe verso i migranti, con conseguente indignazione della sinistra del partito (Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez). Su molti punti il duo Biden-Harris si è mosso come il duo Meloni-Salvini: analogo è l’impegno ad “aiutarli a casa loro”; analogo è il tentativo di esternalizzare in altri paesi le richieste di asilo (modello Albania); analoga è l’aspirazione a moltiplicare rimpatri e respingimenti;
analoga è la volontà di contenere le migrazioni irregolari e stroncare il traffico di esseri umani.

Se non sapessimo nulla di quel che accade negli Stati Uniti, e ci avessero chiesto di indovinare chi era al governo basandoci soltanto sulle politiche migratorie, avremmo detto che l’inquilino della Casa Bianca era un feroce repubblicano, ostile ai migranti. In breve: la candidata Harris ha un profilo moderato, sensibile alle preoccupazioni degli elettori in materia di immigrazione, e potrà essere attaccata per non aver fatto abbastanza, non certo per aver chiuso un occhio, o favorito l’immigrazione irregolare.

Esattamente come è appena accaduto nel Regno Unito con la vittoria di Starmer, i progressisti si presentano all’elettorato con un profilo moderato, attento all’elettore mediano incerto fra destra e sinistra e perciò potenzialmente decisivo. Lo stereotipo
dei democratici buoni e dei repubblicani cattivi regge forse sul piano dei toni e del linguaggio, ma nella sostanza c’è tutt’al più una (piccola) differenza di grado nella cattiveria.

Si potrebbe obiettare che, almeno sul piano dei diritti, la differenza fra i cattivi repubblicani e i buoni democratici regge. Ma anche qui, in realtà, quel che troviamo sono essenzialmente differenze di grado. Contrariamente a quel che si potrebbe supporre, sui diritti Trump si è mostrato molto cauto, e probabilmente dovrà esserlo ancora di più se la candidata democratica sarà una donna. Sull’aborto, ad esempio, ha chiarito di non volere una norma nazionale che lo proibisca, e di essere comunque sempre per la libera scelta della donna nei casi di stupro, incesto o pericolo di vita per la madre. Sulla fecondazione in vitro ha dichiarato che la pratica dovrebbe essere legale in tutti gli Stati americani, e ha duramente criticato una sentenza ultra-reazionaria della Corte Suprema dell’Alabama, in virtù della quale la distruzione di embrioni congelati sarebbe equiparabile all’omicidio colposo di minori. La distanza con i democratici c’è, ma forse è meno grande di quel che siamo portati a credere, tanto più ove i democratici dovessero recepire il monito di Hillary Clinton a mitigare l’ossessione per i diritti trans, se non vogliono perdere le elezioni.

Ecco perché dicevo che la campagna elettorale potrebbe rivelarsi sorprendente.

Scontate le grandi differenze in politica economica e in politica estera, sui temi che più coinvolgono i cittadini – immigrazione e diritti – potremmo invece scoprire una Harris meno buona di quel che si crede, e un Trump meno cattivo di quel che si vuol
pensare, perché entrambi sono impegnati nella caccia ai moderati.

Quanto al risultato, starei cautissimo. Nonostante gli ultimi eventi giochino nettamente a favore di Trump, i sondaggi non gli dànno – per ora – un margine di vittoria rassicurante. Alla fine, decisivo potrebbe essere l’elettore mediano, che può
otare sia repubblicano sia democratico. E decide in base alla ragionevolezza dei programmi.

[Articolo uscito sulla Ragione il 22 luglio 2024]

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