Verso una sinistra comunitaria?

Qualche giorno fa, sul quotidiano “La Stampa”, è uscita una intervista di Michael Sandel, uno dei più noti filosofi americani, probabilmente oggi il principale rappresentante della corrente dei “comunitari”, ostili all’individualismo e assai critici verso la cultura dei diritti, tipica dei partiti progressisti. Per i comunitari il legame sociale non può che poggiare sulla comunità e sulla tradizione, e la patria non è un concetto vuoto, superato dalla unificazione del mondo.

Questa linea di pensiero, da noi, trova una certa eco quasi esclusivamente a destra, sia a livello intellettuale (ad esempio con Marcelo Veneziani), sia a livello politico (soprattutto con Fratelli d’Italia). La sinistra, tendenzialmente, è globalista, cosmopolita, individualista, più attenta ai processi di emancipazione individuali che alle radici comunitarie dell’identità.

La cosa interessante dell’intervista di Sandel è che, anziché rivolgersi alla destra, si rivolge alla sinistra (tramortita dalla vittoria di Trump), auspicando un recupero del concetto di patria, l’abbandono della meritocrazia, una postura critica verso la globalizzazione, un ritorno ai ceti popolari, fin qui dimenticati a favore dell’élite e dei ceti istruiti. In breve: Sandel sogna una sinistra comunitaria, che scalzi la sinistra liberal fin qui egemone, negli Stati Uniti come in Europa.

È un pensiero isolato?

Direi proprio di no. La realtà è che la sinistra è in movimento, non solo in America ma anche da noi. In Danimarca già da qualche anno i socialdemocratici hanno imboccato una linea di arroccamento comunitario nei confronti dell’immigrazione, una linea che ha permesso alla premier Mette Frederiksen di restare al potere. In Germania da un anno è nata una nuova forza politica di sinistra, la BSW di Sahra Wagenknecht, ostile all’immigrazione, agli eccessi della cultura dei diritti, al primato delle istanze europee su quelle nazionali: se il socialdemocratico Scholz vuole restare cancelliere, non può evitare l’alleanza con la sinistra comunitaria di Wagenknecht.

E da noi?

Da noi i grandi media fanno in modo di non parlarne, ma la tentazione di rifondare la sinistra in chiave comunitaria sta facendo capolino. Non che sia la prima volta, perché anche in passato i tentativi comunitari e anti-mondialisti non sono mancati: a
livello intellettuale, con il filosofo Costantino Preve (il maestro di Diego Fusaro); a livello partitico con il Partito Comunista di Marco Rizzo, e le sue varie reincarnazioni sovraniste; a livello politico-culturale, con l’associazione Patria e Costituzione (PeC),
fondata dall’economista (ed ex PD) Stefano Fassina.

Solo ora, però, queste tentazioni sembrano aver trovato un canale di espressione non periferico: il nuovo movimento Cinque Stelle, che sta prendendo forma in queste settimane. Alla Assemblea costituente del nuovo soggetto, l’unica forza politica
invitata è stata la BSW, che con la sua leader – Sahra Wagenknecht – ha avuto modo di esporre la linea del neo-nato partito tedesco: sovranista, popolare, anti-migranti, scettico sulla guerra in Ucraina.

Conte si è ben guardato dal sottoscrivere in toto il discorso di Wagenknecht, ma il messaggio è stato chiaro lo stesso: il nuovo movimento Cinque Stelle dialoga con la BSW, una formazione che – culturalmente – è agli antipodi rispetto al PD. A prenderne atto in modo lucido è stato il solo Stefano Fassina, che tuttavia – per esprimersi – si è dovuto rifugiare su due quotidiani eretici, il Fatto Quotidiano e la Verità.

Ci sono cose, evidentemente, delle quali sulla grande stampa si preferisce non parlare e dibattere. Un vero peccato…

[articolo trasmesso alla Ragione il 1° dicembre 2024]




Sulla degenerazione del discorso pubblico – Il linciaggio di Valditara

La vicenda del ministro Valditara, contestato per alcune affermazioni fatte alla inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin, è a suo modo meravigliosa, preziosa, insostituibile. Raramente, infatti, è dato trovare concentrati in così poco tempo e spazio i peggiori difetti del nostro discorso pubblico, per non dire della nostra democrazia.

Nel suo messaggio videotrasmesso Valditara aveva osato – nel quadro di un ragionamento molto ampio – fare due affermazioni, che gli hanno scatenato addosso un mare di critiche, contestazioni, insulti, nonché la piacevole esperienza di vedere la propria immagine bruciata in piazza.

La prima affermazione è che in Italia il patriarcato non c’è più da tempo, anche se forse non da così tanto tempo come ritiene Cacciari (ossia da due secoli), e che dal punto di vista giuridico è finito nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia. Le
reazioni a questa affermazione sono state di scandalo, rabbia, indignazione, come se il ministro avesse detto una bestialità, e tale bestialità fosse oggettivamente offensiva per le donne (un po’ come lo è, per gli ebrei, sentirsi dire che la Shoah non c’è mai
stata). In questo esercizio di demonizzazione (del ministro) e di virtue signalling (degli indignati) si sono cimentati un po’ tutti, comprese legioni di giornalisti, editorialisti, conduttori televisivi. Peccato che la tesi di Valditara sia assolutamente pacifica fra gli scienziati sociali (oltreché fra le persone di buon senso), se non altro perché uno dei tratti distintivi delle società occidentali è precisamente la scomparsa dell’autorità paterna, per non dire la scomparsa di ogni autorità: e un patriarcato senza autorità paterna è una contraddizione in termini. Qui osserviamo una prima malattia del discorso pubblico: anziché ascoltare le ragioni di chi parla, se ne manipolano i contenuti (è la tecnica dello straw man) si reagisce in modo pavloviano, caricando a testa bassa il reprobo di turno.

La seconda affermazione è meglio riportarla per esteso: “occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. Ho messo in evidenza gli avverbi ‘anche’, e ‘in qualche modo’ perché sono queste due cruciali specificazioni che sono saltate nella stragrande maggioranza dei resoconti del discorso di Valditara, resoconti il cui prototipo è stato: “i femminicidi sono colpa dell’immigrazione”. Ma Valditara non aveva parlato dei femminicidi, ma più in generale dei reati di violenza sessuale. E i dati del ministero dell’Interno gli danno pienamente ragione: da anni la percentuale di stranieri accusati o incarcerati per tali reati è sensibilmente maggiore della quota di stranieri, ed è enormemente superiore se consideriamo il segmento degli stranieri irregolari.

Le cifre, le fonti, le statistiche si possono discutere, naturalmente, ma il punto è che il ministro non aveva detto quel che gli è stato messo in bocca, e quel che ha effettivamente detto è supportato dai dati, e appare più che plausibile. Di nuovo, non solo il mondo politico, ma anche il mondo dell’informazione e della cultura hanno dato prova di scarsa professionalità e nessuna imparzialità. Le affermazioni di Valditara sono state deformate, le cifre da lui evocate sono state ignorate, o contrastate con cifre mal comprese, o lette faziosamente.

Si parla tanto di fake news e della necessità di contrastarle, ma che cosa è stata – se non una gigantesca fake news – la campagna contro il discorso del ministro dell’istruzione?

Sì, a ben pensarci è stata anche qualcos’altro: è stata una sconfitta della democrazia.

Perché il linciaggio che un ministro della Repubblica ha subito sui media e nelle piazze, con slogan truculenti, minacce di morte e gesti simbolici terribili – prima l’incendio di un fantoccio del ministro, qualche giorno dopo di una sua fotografia – è qualcosa che, come molte altre manifestazioni di violenza degli ultimi mesi, avrebbe meritato una presa di posizione ferma, solenne e unanime dei media, del mondo della cultura, della politica, delle organizzazioni sindacali, delle maggiori istituzioni della Repubblica. Una presa di posizione che, ad oggi, non ci è stato dato ancora di ascoltare.

[articolo uscito sulla Ragione il 26 novembre 2024]




Una distinzione fondamentale – Patriarcato e maschilismo

[estratto da:

Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, 2024]

Devo confessare che, fino a non molto tempo fa, non mi era chiarissima la ragione per cui una parte delle femministe (talora definite ‘radicali’) nutre ostilità non solo nei confronti dei maschi ordinari, ma anche nei confronti degli omosessuali e dei transessuali biologicamente maschi. Non mi era chiara, in particolare, l’accusa di “patriarcato”, una nozione che – come sociologo – ho sempre trovato evanescente, in quanto del tutto priva di una definizione operativa che permetta di stabilire se e quanto una società o un individuo siano appunto patriarcali. Tanto più che nelle nostre società occidentali è da tempo venuto meno un ingrediente chiave delle culture patriarcali: il principio di autorità. Cioè, per l’appunto, il pater. Lo aveva spiegato bene, e profeticamente, lo psicanalista e psicologo sociale Alexander Mitscherlich nel suo libro Verso una società senza padre, che già nel 1963 delineava i tratti della società in cui oggi viviamo: una società in cui è scomparsa l’autorità paterna, e con essa ogni forma di autorità. Ne hanno preso atto, ripetutamente, sociologi, psicologi e psicanalisti, più o meno rassegnati per la scomparsa del padre.  E, se posso permettermi una nota autobiografica, ne avevo preso atto io stesso alla fine degli anni ’70, quando, con la collega Loredana Sciolla, pubblicammo Senza padri né maestri, resoconto stupefatto degli atteggiamenti della generazione immediatamente successiva a quella del ’68, una generazione disincantata, che aveva perso ogni deferenza verso il mondo degli adulti.

Insomma, difficile parlare sensatamente di patriarcato se i padri – siano essi genitori, maestri, o preti – sono destituiti di ogni autorità.

Dunque, fino a non molto tempo fa, restavo con due domande in sospeso:

– perché le femministe continuano a evocare il patriarcato a dispetto della scomparsa del padre?

– perché tanta ostilità verso trans e omosessuali maschi?

Poi, però, una notizia di cronaca mi ha illuminato. Un brillante articolo di Marina Terragni sul Foglio titolava: “Se due uomini denunciano la discriminazione di essere nati senza utero”.

Ed ecco la vicenda in breve. Una coppia gay di New York, regolarmente sposata pochi anni prima, decide di intentare una causa contro l’assicurazione sanitaria di uno dei due. Nella polizza, infatti, è previsto che, in caso di perdurante infertilità, l’assicurazione intervenga pagando le spese di una fecondazione in vitro. Ma che significa, secondo le clausole dell’assicurazione, perdurante infertilità?

Significa che la coppia non è riuscita a concepire un figlio né facendo sesso senza protezione per almeno 12 mesi, né ricorrendo alla inseminazione intrauterina. Clausola ragionevole, ma – dicono gli aspiranti padri – non adatta al loro caso, in quanto nessuno dei due ha un utero (in effetti la loro sarebbe una infertilità a priori, e perdurante ad infinitum). Se interpretata letteralmente, la clausola è discriminatoria, perché tutela il diritto alla genitorialità alle coppie eterosessuali o lesbiche, ma non a quelle gay. Dunque va reinterpretata. Ma come?

Secondo i due aspiranti padri e i loro avvocati, riconoscendo agli assicurati una somma dell’ordine di 150 mila dollari con cui pagare una donna-incubatrice, che si faccia carico della gestazione.

Non so come la vicenda finirà, ma il caso è di straordinario interesse, e risponde alle mie due domande in sospeso.

Risposta alla prima domanda: la ragione per cui le femministe evocano ossessivamente il patriarcato è che lo confondono con il maschilismo. Nessuno dei due concetti è scientifico, ma non per questo è privo di ancoraggi nella storia e nel linguaggio comune. La radice della parola patriarca è pater, quella della parola maschilista è maschio.

Nelle nostre società il primato del pater familias è un ricordo del passato, così come lo è il surplus di autorità un tempo associato ai ruoli di comando se interpretati da uomini. Se proprio vogliamo trovare tracce di patriarcato in senso proprio, dobbiamo cercarle nelle famiglie di credo islamico, con la sottomissione di moglie e figli ai divieti e ai piani di vita stabiliti dai capifamiglia.

Tutt’altro che scomparso, invece, è il maschilismo, come tratto culturale fondamentale della nostra società. Maschilista è la volontà di controllo di tanti maschi sulle loro partner. Maschilista è il disprezzo verso le donne. Maschilista è quasi tutta la pubblicità, in cui la donna è usata come oggetto-stimolo atto a incentivare gli acquisti. Maschilista è la pornografia. Maschilista è la promozione del sexting (invio di immagini sessualmente esplicite). Maschilista è l’esaltazione del sex-work. Maschilista, infine, è la pratica dell’utero in affitto, in cui la donna assume il ruolo di incubatrice al servizio del maschio, eterosessuale, omosessuale o transessuale che sia.

Ed ecco la risposta alla seconda domanda: l’ostilità di una parte delle femministe verso i maschi anche quando appartengono a minoranze protette deriva, in realtà, dal maschilismo di cui non di rado tali minoranze dànno prova o, se vogliamo metterla sul filosofico, dalla mancata adesione al precetto del maschio Immanuel Kant: “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine, mai solo come mezzo”.

Agli occhi delle femministe radicali la cosiddetta gestazione per altri (GPA), o maternità surrogata, o utero in affitto, tratta la donna-madre come strumento che permette di adempiere alle clausole di un contratto economico, tipicamente stipulato fra una parte forte (chi commissiona la gravidanza) e una parte debole (la donna che si farà carico della gravidanza, e si separerà dal bambino che ha portato in grembo). Nella GPA, non solo per una parte delle femministe, ma anche per diversi intellettuali e filosofi maschi, prende forma il più inquietante degli ideali della post-modernità: il superamento di ogni limite umano, grazie alla tecnologia e alla dilatazione della cultura dei diritti, una forma estrema di hybris. Come se non fosse più vero quello che, nella storia dell’umanità, è sempre stato vero, e cioè che scegliere significa rinunciare, o accettare dei condizionamenti: se faccio la carriera militare non posso fare il manager, se vado ad abitare in un paesino di montagna non avrò il supermercato (e neanche la spiaggia) a un tiro di schioppo, se mi sposo con una donna di cinquant’anni non ne avrò dei figli, se faccio il prete non mi potrò sposare. E, naturalmente: nessuno è tenuto a risarcirmi delle conseguenze non desiderate o non previste delle mie libere scelte.

Simone Weil ammoniva che “dietro un errore di vocabolario c’è un errore di pensiero”. Il fatto è che qui gli errori di vocabolario sono due, non uno soltanto. Confondere patriarcato e maschilismo non porta solo a vedere il patriarcato quando non c’è, ma anche a non vederlo quando c’è. È quel che è successo con Saman Abbas. Un caso di patriarcato allo stato puro (il padre che impone alla figlia chi deve sposare), snobbato dalle femministe perché l’autore del crimine non è il solito maschio italiano bianco, prepotente e possessivo, ma qualcuno che ha “un’altra cultura”, e dunque avrebbe diritto a qualche attenuante.

Ma c’è anche un secondo errore di vocabolario, e quindi di pensiero: quello di parlare di diritti quando si tratta di semplici desideri. I diritti in senso proprio, lo ha ricordato anche Bobbio nella sua importante riflessione sulla “età dei diritti”, sono quelli il cui godimento è garantito dalle leggi, il resto sono desideri, pretese o rivendicazioni (claim). E non è affatto vero che garantire un diritto significa solo allargare la platea degli inclusi (come è accaduto con il diritto di voto, le unioni civili, l’accesso delle donne a determinate professioni), perché quasi tutti i diritti – non solo i cosiddetti diritti sociali – hanno un costo, spesso ingente (si pensi al “diritto alla salute”). In concreto, questo significa che farli valere implica togliere risorse ad altri impieghi (altri diritti possibili, o ampliamenti dei beneficiari di diritti preesistenti). Persino l’aborto, con la costituzione dei consultori, ha comportato un costo, e quindi ha sottratto risorse ad altri impieghi socialmente utili. Lo stesso accadrebbe con una norma che obbligasse lo Stato o le società di assicurazione a riconoscere a tutti (comprese le coppie gay benestanti) il “diritto alla genitorialità”.

Anche si ammettesse che non vi è nulla di sbagliato nella “gestazione per altri”, anche si volesse legittimare le gravidanze su commissione come manifestazioni della incoercibile libertà delle donne che le accettano, resterebbe la domanda: siamo certi che, con quei 150 mila dollari erogati a due membri gay del ceto medio, moltiplicati per tutte le coppie potenzialmente beneficiarie (circa mezzo milione, prevalentemente bianche e istruite), non si potrebbero garantire diritti più urgenti e fondamentali?

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Il fantasma del patriarcato

Domani è la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”. Possiamo star certi che, fra gli slogan, non mancheranno quelli contro il patriarcato. Del resto ne abbiamo avuto un assaggio in questi giorni: chiunque neghi l’esistenza del patriarcato
viene guardato con stupefatto rimprovero, come se avesse osato negare la Shoah.

La ragione è semplice: siamo stati talmente martellati dalla tesi che la violenza sulle donne dipende dalla sopravvivenza del patriarcato che, per molti, negare il patriarcato suona come negare la violenza sulle donne.

Eppure, se lasciamo per un attimo gli ardori ideologici dei credenti nel patriarcato, e ci concediamo il minimo sindacale di lucidità, non possiamo non vedere le ottime ragioni dei negazionisti. Che sono tante e solidissime.

La più importante è che, a parte alcune specifiche enclave di cui parlerò fra poco, nelle società occidentali sono scomparsi quasi interamente i tratti distintivi delle società patriarcali: il potere dispotico del capofamiglia, il matrimonio combinato, la
sottomissione dei figli (anche dei figli maschi) all’autorità genitoriale, più in generale il primato dei doveri sui diritti in quasi ogni campo della vita sociale (lavoro, famiglia, guerra). Il processo è durato secoli, ma ha avuto due impulsi fondamentali: l’ascesa del matrimonio d’amore fra Settecento e Ottocento, in epoca romantica, e le rivoluzioni libertarie e anti-autoritarie degli studenti e delle donne negli anni ’60 e ’70 del Novecento. Un aspetto fondamentale di questi processi è l’evaporazione della figura del padre, e più in generale di ogni autorità, tempestivamente annunciata da Alexander Mitscherlich con il suo libro Verso una società senza padre, uscito in lingua tedesca fin dal 1963. Su questo, fra i sociologi, gli psicologi sociali e gli psicoanalisti sussistono ben pochi dubbi.

Di qui un’ovvia domanda: come si fa a parlare di società patriarcale, quando la figura del padre è scomparsa non solo nella famiglia, ma più in generale nella società?

La realtà è che la nostra società è profondamente maschilista, o machista, o basata sul “dominio maschile” (titolo di un importante libro di Bourdieu), a dispetto della scomparsa del patriarca, del padre, di ogni autorità. E anzi, l’ipotesi che dovremmo
prendere seriamente in considerazione è che la violenza di cui le donne sono vittime sia semmai il risultato – controintuitivo e paradossale – della sconfitta del patriarcato.

Sono sempre più numerose le voci che attirano l’attenzione sul fatto che potrebbero essere proprio le grandi conquiste di libertà e di autonomia delle donne negli ultimi 50 anni, combinate con il crescente individualismo, consumismo, ipertrofia dei diritti
– tutti tratti tipici del nostro tempo – ad avere reso gli esautorati maschi sempre più aggressivi, insicuri, fragili, possessivi, e in definitiva incapaci di reggere la minima sconfitta, o di accettare un semplice rifiuto. Insomma: l’odierno maschilismo sarebbe
anche una sorta di contraccolpo a conquiste delle donne per cui i maschi non erano pronti, né disposti a farsi da parte. La violenza maschile non sarebbe il segno della sopravvivenza del patriarcato, ma semmai della sua agonia, e del disordine che da quest’ultima deriva.

Questa linea di pensiero, su cui mi paiono convergere anche importanti settori del femminismo (vedi il recentissimo coraggioso intervento di Marina Terragni sul sito Feminist Post), ha un importante vantaggio concettuale: spiega il “paradosso nordico”, ovvero il fatto – a prima vista sorprendente – che la violenza sulle donne, dagli stupri ai femminicidi, sia maggiore nei paesi più civilizzati (come quelli scandinavi) e che un paese come l’Italia, in cui il gender gap è ancora relativamente ampio, sia fra i meno insicuri del continente europeo.

Ma quali sono le implicazioni pratiche di questo schema interpretativo, che distingue nettamente fra patriarcato e maschilismo?

La prima, e più ovvia, è di combattere il patriarcato ovunque sopravvive davvero, e cioè nelle enclave religiose e culturali che, all’interno delle società occidentali, ospitano famiglie davvero patriarcali, come quella di Saman Abbas, che ha pagato con la vita il suo rifiuto di un matrimonio combinato. I dati del Ministero dell’interno sulle vittime di reati gravissimi, come la costrizione al matrimonio, lo stupro di gruppo, la violenza sessuale, il revenge porn, mostrano con grande nettezza che le ragazze straniere corrono rischi enormemente maggiori di quelli delle ragazze italiane. Forse ci vorrebbe, accanto alla ultra-meritoria “Fondazione Giulia Cecchettin”, anche una “Fondazione Saman Abbas”, che aiuti le ragazze straniere oppresse a liberarsi dei rispettivi patriarchi, della cui nefasta influenza si possono trovare indizi anche nelle scuole, ad esempio ogniqualvolta il tasso di partecipazione ad attività sociali delle ragazze straniere è sensibilmente inferiore a quello delle ragazze italiane.

Ma la implicazione più importante del passaggio dalla lotta al patriarcato alla lotta al maschilismo, è quella di sollecitarci a cercare, individuare e combattere le vere determinanti del maschilismo stesso. Che a me paiono almeno due. Innanzitutto,
l’uso sistematico del corpo delle donne per promuovere la commercializzazione di ogni genere di merce, servizio, evento, spettacolo: una prassi più che gradita ai maschi, ma non di rado assecondata dalle donne stesse, e che solo una parte del
femminismo osteggia. E poi, una determinante più sfuggente, ma forse ancora più impattante: gli eccessi della cultura dei diritti, a partire dal diritto a non soffrire, né patire sconfitte, né subire scacchi, né vivere frustrazioni, né sostenere sacrifici o lunghe attese.

Se il maschio si rivela incapace di reggere un rifiuto, o non sa rinunciare a prendersi con la forza quello che vuole, è anche perché vive in una società nella quale – sul piatto della bilancia – il peso dei diritti è diventato incomparabilmente maggiore di quello dei doveri.

[articolo uscito sul Messaggero il 24 novembre 2024]




Il rebus di Elly

Non vorrei essere al posto di Elly Schlein. Se prima della vittoria di Trump poteva ancora accarezzare l’idea di una possibile futura vittoria della sinistra, oggi coltivare quel sogno è diventato ancora più difficile di prima. Le elezioni americane hanno mostrato infatti almeno due cose. La prima è che l’adesione acritica alla cultura dei diritti, da cui Kamala Harris non ha saputo prendere le distanze, è una pesantissima zavorra nella corsa elettorale. La seconda è che la sinistra non ha più un’idea di società, o meglio di cambiamento degli assetti sociali, capace di convincere gli strati popolari.

Il perché lo ha spiegato, con qualche tortuosità, Massimo Cacciari in un mesto articolo comparso sulla Stampa pochi giorni fa. Ridotto all’osso, il suo ragionamento è il seguente. La sinistra non ha perso per ragioni contingenti, ma per ragioni strutturali. E la ragione strutturale fondamentale è che ai ceti popolari impauriti e impoveriti la sinistra stessa non è più in grado di offrire la risposta che dava un tempo: più welfare finanziato in deficit. Di qui una certa comprensione (manifestata in altri interventi) per i limiti della legge di bilancio varata da Meloni, e il riconoscimento che – vigente il patto di stabilità europeo – ad analoghi vincoli si troverebbe soggetto un eventuale governo Schlein.

Rimedi?

Come sempre, una lieve oscurità avvolge i pensieri del filosofo veneziano, però leggendo tra le righe la risposta la si intuisce: quello su cui la sinistra dovrebbe puntare è una politica di sviluppo “radicalmente riformista”, basata su “una efficace politica ridistributiva”. In concreto: ripudio della stagione renziana, che abbassava le tasse e puntava sulla crescita, nella credenza che “quando la marea sale fa salire tutte le barche”; e ritorno a una stagione bertinottiana, in cui “anche i ricchi piangono”, perché è dalle loro tasche che vengono prelevate le risorse necessarie per rifinanziare lo stato sociale (sanità e scuola innanzitutto).

Abbiamo trovato la quadra, dunque?

In un certo senso sì. La linea Cacciari ha una sua logica. Prende atto che l’Europa non ci lascia finanziare il welfare facendo ulteriore debito, e dà per scontato il ripudio irreversibile della della “terza via”, a suo tempo entusiasticamente sottoscritta da
Renzi. Un ripudio che, a ben guardare, è un punto di forza del nuovo gruppo dirigente del Pd, che alle reiterate domande della destra “come mai, quel che proponete ora, non lo avete fatto quando eravate al governo?” può tranquillamente rispondere “noi al governo non c’eravamo, e il Pd di allora è il contrario del Pd che stiamo cercando di costruire adesso”.

Apparentemente tutto fila. C’è un punto, però, che non funziona. Finora Elly Schlein si è ben guardata dall’ammettere (come invece fa Cacciari) che, stanti i vincoli europei, non si poteva fare una legge di bilancio sostanzialmente diversa (e più pro
ceti bassi) di quella varata da Meloni. Ma soprattutto si è ben guardata dal dire la verità sulle tasse, e cioè che già solo per raddrizzare sanità e scuola occorre prevedere un prelievo fiscale aggiuntivo ingente, permanente, e inevitabilmente gravante anche sul ceto medio-alto, non certo sui soli ricchi. In breve: occorre che il Pd diventi come il Labour Party di Jeremy Corbyn, che però proprio con quel tipo di programma non era mai riuscito a battere i conservatori.

Se riflettiamo su questo nodo, forse capiamo meglio anche perché – negli ultimi anni – il Pd è diventato sempre più il partito dei diritti, attento alle rivendicazioni delle minoranze sessuali, ossessionato dalla cultura woke, irremovibile nella tutela dei migranti, paladino delle grandi battaglie di civiltà, ma dimentico dei diritti sociali, dei drammi del lavoro e dello sfruttamento: la ragione è che le battaglie sui diritti civili, a differenza di quelle sui diritti sociali, costano poco, e quindi non mettono a repentaglio i conti pubblici. Voglio dire che, paradossalmente, puntare tutte le carte sulla cultura dei diritti ha il notevole vantaggio di non esporre alla domanda delle domande: ma dove le prendete le risorse? Mentre, puntare sui diritti sociali, quella domanda non permette di eluderla facilmente (anche se, ovviamente, ogni politico fingerà di sapere dove trovarle, quelle benedette
risorse).

Conclusione: tornare a puntare sui diritti sociali, e mettere la sordina su quelli civili, può riavvicinare la sinistra alla sensibilità dei ceti popolari. Più difficile supporre che la stangata fiscale permanente che quel ritorno comporta non spaventi i ceti medi, come già è accaduto con il Labour di Corbyn nel Regno Unito e con il Fronte Popolare di Mélenchon in Francia.

Ecco perché non vorrei essere al posto di Elly Schlein.

[articolo uscito sulla Ragione il 12 novembre 2024]