[estratto da:
Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, 2024]
Devo confessare che, fino a non molto tempo fa, non mi era chiarissima la ragione per cui una parte delle femministe (talora definite ‘radicali’) nutre ostilità non solo nei confronti dei maschi ordinari, ma anche nei confronti degli omosessuali e dei transessuali biologicamente maschi. Non mi era chiara, in particolare, l’accusa di “patriarcato”, una nozione che – come sociologo – ho sempre trovato evanescente, in quanto del tutto priva di una definizione operativa che permetta di stabilire se e quanto una società o un individuo siano appunto patriarcali. Tanto più che nelle nostre società occidentali è da tempo venuto meno un ingrediente chiave delle culture patriarcali: il principio di autorità. Cioè, per l’appunto, il pater. Lo aveva spiegato bene, e profeticamente, lo psicanalista e psicologo sociale Alexander Mitscherlich nel suo libro Verso una società senza padre, che già nel 1963 delineava i tratti della società in cui oggi viviamo: una società in cui è scomparsa l’autorità paterna, e con essa ogni forma di autorità. Ne hanno preso atto, ripetutamente, sociologi, psicologi e psicanalisti, più o meno rassegnati per la scomparsa del padre. E, se posso permettermi una nota autobiografica, ne avevo preso atto io stesso alla fine degli anni ’70, quando, con la collega Loredana Sciolla, pubblicammo Senza padri né maestri, resoconto stupefatto degli atteggiamenti della generazione immediatamente successiva a quella del ’68, una generazione disincantata, che aveva perso ogni deferenza verso il mondo degli adulti.
Insomma, difficile parlare sensatamente di patriarcato se i padri – siano essi genitori, maestri, o preti – sono destituiti di ogni autorità.
Dunque, fino a non molto tempo fa, restavo con due domande in sospeso:
– perché le femministe continuano a evocare il patriarcato a dispetto della scomparsa del padre?
– perché tanta ostilità verso trans e omosessuali maschi?
Poi, però, una notizia di cronaca mi ha illuminato. Un brillante articolo di Marina Terragni sul Foglio titolava: “Se due uomini denunciano la discriminazione di essere nati senza utero”.
Ed ecco la vicenda in breve. Una coppia gay di New York, regolarmente sposata pochi anni prima, decide di intentare una causa contro l’assicurazione sanitaria di uno dei due. Nella polizza, infatti, è previsto che, in caso di perdurante infertilità, l’assicurazione intervenga pagando le spese di una fecondazione in vitro. Ma che significa, secondo le clausole dell’assicurazione, perdurante infertilità?
Significa che la coppia non è riuscita a concepire un figlio né facendo sesso senza protezione per almeno 12 mesi, né ricorrendo alla inseminazione intrauterina. Clausola ragionevole, ma – dicono gli aspiranti padri – non adatta al loro caso, in quanto nessuno dei due ha un utero (in effetti la loro sarebbe una infertilità a priori, e perdurante ad infinitum). Se interpretata letteralmente, la clausola è discriminatoria, perché tutela il diritto alla genitorialità alle coppie eterosessuali o lesbiche, ma non a quelle gay. Dunque va reinterpretata. Ma come?
Secondo i due aspiranti padri e i loro avvocati, riconoscendo agli assicurati una somma dell’ordine di 150 mila dollari con cui pagare una donna-incubatrice, che si faccia carico della gestazione.
Non so come la vicenda finirà, ma il caso è di straordinario interesse, e risponde alle mie due domande in sospeso.
Risposta alla prima domanda: la ragione per cui le femministe evocano ossessivamente il patriarcato è che lo confondono con il maschilismo. Nessuno dei due concetti è scientifico, ma non per questo è privo di ancoraggi nella storia e nel linguaggio comune. La radice della parola patriarca è pater, quella della parola maschilista è maschio.
Nelle nostre società il primato del pater familias è un ricordo del passato, così come lo è il surplus di autorità un tempo associato ai ruoli di comando se interpretati da uomini. Se proprio vogliamo trovare tracce di patriarcato in senso proprio, dobbiamo cercarle nelle famiglie di credo islamico, con la sottomissione di moglie e figli ai divieti e ai piani di vita stabiliti dai capifamiglia.
Tutt’altro che scomparso, invece, è il maschilismo, come tratto culturale fondamentale della nostra società. Maschilista è la volontà di controllo di tanti maschi sulle loro partner. Maschilista è il disprezzo verso le donne. Maschilista è quasi tutta la pubblicità, in cui la donna è usata come oggetto-stimolo atto a incentivare gli acquisti. Maschilista è la pornografia. Maschilista è la promozione del sexting (invio di immagini sessualmente esplicite). Maschilista è l’esaltazione del sex-work. Maschilista, infine, è la pratica dell’utero in affitto, in cui la donna assume il ruolo di incubatrice al servizio del maschio, eterosessuale, omosessuale o transessuale che sia.
Ed ecco la risposta alla seconda domanda: l’ostilità di una parte delle femministe verso i maschi anche quando appartengono a minoranze protette deriva, in realtà, dal maschilismo di cui non di rado tali minoranze dànno prova o, se vogliamo metterla sul filosofico, dalla mancata adesione al precetto del maschio Immanuel Kant: “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine, mai solo come mezzo”.
Agli occhi delle femministe radicali la cosiddetta gestazione per altri (GPA), o maternità surrogata, o utero in affitto, tratta la donna-madre come strumento che permette di adempiere alle clausole di un contratto economico, tipicamente stipulato fra una parte forte (chi commissiona la gravidanza) e una parte debole (la donna che si farà carico della gravidanza, e si separerà dal bambino che ha portato in grembo). Nella GPA, non solo per una parte delle femministe, ma anche per diversi intellettuali e filosofi maschi, prende forma il più inquietante degli ideali della post-modernità: il superamento di ogni limite umano, grazie alla tecnologia e alla dilatazione della cultura dei diritti, una forma estrema di hybris. Come se non fosse più vero quello che, nella storia dell’umanità, è sempre stato vero, e cioè che scegliere significa rinunciare, o accettare dei condizionamenti: se faccio la carriera militare non posso fare il manager, se vado ad abitare in un paesino di montagna non avrò il supermercato (e neanche la spiaggia) a un tiro di schioppo, se mi sposo con una donna di cinquant’anni non ne avrò dei figli, se faccio il prete non mi potrò sposare. E, naturalmente: nessuno è tenuto a risarcirmi delle conseguenze non desiderate o non previste delle mie libere scelte.
Simone Weil ammoniva che “dietro un errore di vocabolario c’è un errore di pensiero”. Il fatto è che qui gli errori di vocabolario sono due, non uno soltanto. Confondere patriarcato e maschilismo non porta solo a vedere il patriarcato quando non c’è, ma anche a non vederlo quando c’è. È quel che è successo con Saman Abbas. Un caso di patriarcato allo stato puro (il padre che impone alla figlia chi deve sposare), snobbato dalle femministe perché l’autore del crimine non è il solito maschio italiano bianco, prepotente e possessivo, ma qualcuno che ha “un’altra cultura”, e dunque avrebbe diritto a qualche attenuante.
Ma c’è anche un secondo errore di vocabolario, e quindi di pensiero: quello di parlare di diritti quando si tratta di semplici desideri. I diritti in senso proprio, lo ha ricordato anche Bobbio nella sua importante riflessione sulla “età dei diritti”, sono quelli il cui godimento è garantito dalle leggi, il resto sono desideri, pretese o rivendicazioni (claim). E non è affatto vero che garantire un diritto significa solo allargare la platea degli inclusi (come è accaduto con il diritto di voto, le unioni civili, l’accesso delle donne a determinate professioni), perché quasi tutti i diritti – non solo i cosiddetti diritti sociali – hanno un costo, spesso ingente (si pensi al “diritto alla salute”). In concreto, questo significa che farli valere implica togliere risorse ad altri impieghi (altri diritti possibili, o ampliamenti dei beneficiari di diritti preesistenti). Persino l’aborto, con la costituzione dei consultori, ha comportato un costo, e quindi ha sottratto risorse ad altri impieghi socialmente utili. Lo stesso accadrebbe con una norma che obbligasse lo Stato o le società di assicurazione a riconoscere a tutti (comprese le coppie gay benestanti) il “diritto alla genitorialità”.
Anche si ammettesse che non vi è nulla di sbagliato nella “gestazione per altri”, anche si volesse legittimare le gravidanze su commissione come manifestazioni della incoercibile libertà delle donne che le accettano, resterebbe la domanda: siamo certi che, con quei 150 mila dollari erogati a due membri gay del ceto medio, moltiplicati per tutte le coppie potenzialmente beneficiarie (circa mezzo milione, prevalentemente bianche e istruite), non si potrebbero garantire diritti più urgenti e fondamentali?
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