Perché Salvini e Schlein sono un problema – Smottamento al centro?

La teoria secondo cui le elezioni si vincono al centro, convincendo l’elettore moderato, da un bel po’ di anni (almeno una decina) non gode di grande credito fra scienziati politici e sondaggisti. E questo a dispetto dell’autorevolezza di coloro che per primi ebbero a proporla, l’economista Duncan Black (nel 1948) e il politologo Anthony Downs, il padre della cosiddetta “teoria economica della democrazia” (titolo del suo libro, uscito nel 1957). Da un bel po’ di anni si sente ripetere che, in realtà, il fattore decisivo per vincere è galvanizzare il proprio elettorato, e che questo richiede uno spostamento verso le posizioni estreme: i successi elettorali delle forze estremiste, populiste o anti-sistema ne sarebbero la prova.

Ultimamente, almeno in Italia, sembra che il vento stia cambiando di nuovo. A farlo cambiare, però, non paiono essere gli insuccessi della sinistra estrema negli Stati Uniti (Bernie Sanders, Alexandra Ocasio Cortez) e nel Regno Unito (Geremy Corbyn), ma la banale constatazione che la linea estremista di Elly Schlein ha portato pochi voti, non mobilita affatto (vedi il flop del referendum della Cgil), e soprattutto rende impossibile la formazione di una coalizione larga, come quelle che per due volte portarono Prodi a Palazzo Chigi e permisero di sconfiggere Silvio Berlusconi.

Il contributo decisivo alla crisi dell’estremismo di sinistra sta venendo, in questi giorni, dalle reazioni alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere. La linea ufficiale del Pd è nettamente contraria (“la democrazia è in pericolo”, “Meloni vuole i pieni poteri”), ma deve fare i conti con il dissenso di parecchi esponenti tutt’altro che marginali del partito, o più in generale del campo progressista. Giusto per fare qualche nome, si sono espressi a favore della riforma, in ordine alfabetico: Goffredo Bettini, Emma Bonino, Carlo Calenda, Stefano Ceccanti, Paola Concia, Vincenzo De Luca, Antonio Di Pietro, Roberto Giachetti, Claudio Martelli, Enrico Morando, Claudio Petruccioli, Cesare Salvi. In breve: una parte della sinistra voterà sì al referendum, sfidando (e neutralizzando) il racconto estremista-apocalittico di Elly Schlein. Mi pare difficile, specie se dovesse vincere il sì, che il Pd possa andare alle elezioni amputando completamente le correnti riformiste-liberali-garantiste del fronte progressista.

Si potrebbe pensare che quello di non soccombere (elettoralmente) sotto il peso dell’estremismo sia soprattutto un problema della sinistra. Ma qualche indizio fa pensare che, sia pure in forme assai diverse, un problema simile sia destinato ad affliggere anche la destra. Dove il problema non è più il partito di Giorgia Meloni, il link ideologico con il Movimento Sociale Italiano, l’anti-europeismo, tutti test ampiamente superati, bensì il partito di Matteo Salvini. Un alleato sempre più anti-europeo, insofferente, aggressivo, sopra le righe. E ultimamente reso ancora meno governabile dall’innesto del generale Vannacci e delle sue truppe. Solo i commentatori più visceralmente ostili a Giorgia Meloni non si rendono conto che è la presenza della Lega, non di Fratelli d’Italia, che permette di dire che in Italia l’estrema destra è al governo.

Se la sinistra ha il problema di non cancellare la sua faccia riformista, la destra ha il problema speculare di attenuare almeno un po’ la sua faccia estremista. Un compito forse ancora più difficile, visto che Salvini – nonostante la sua incapacità di risollevare la Lega dalla stagnazione (o dal declino?) elettorale – appare inamovibile.

Ma lo è davvero?

Se lo è, non è per mancanza di valide alternative, ma perché né le vecchie glorie (Zaia, Fedriga, Giorgetti) né le nuove leve specie femminili (Ceccardi, Tovaglieri, Sardone) se la sentono di sfidare il capo.

Vedremo come andrà a finire. Se è vero, come sostengono alcuni politologi, che l’elettore sceglie la coalizione più rassicurante (o meno inquietante), le prossime elezioni potrebbe vincerle chi sarà più capace di frenare la deriva estremista che affligge entrambi gli schieramenti.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 novembre 2025]




A proposito di un’uscita di Elly Schlein – Democrazia a rischio?

«La democrazia è a rischio, la libertà di parola è a rischio quando l’estrema destra è al governo».

Così parlò Elly Schlein ad Amsterdam, al congresso dei Socialisti Europei. Le si potrebbe rispondere che è vero, la libertà di parola in Italia è a rischio, ma a metterla a rischio è l’estrema sinistra, come ha appena sperimentato sulla sua pelle Emanuele Fiano, ex deputato Pd cui è stato impedito di parlare all’Università di Ca’ Foscari “perché ebreo”. Era già successo ad altri ebrei, come David Parenzo e Maurizio Molinari (allora direttore di Repubblica), e a tanti altri con colpe meno gravi di quella di essere ebreo.

C’è però anche un altro modo, più utile, di ragionare sull’infelice uscita della segretaria del Pd, ed è di chiederci che cosa deve succedere per parlare seriamente di un deterioramento della democrazia. O, più precisamente, che nozione di democrazia hanno in mente quanti la vedono “a rischio”.

La mia impressione è che il concetto di democrazia che hanno in mente quanti la vedono in pericolo soffra di due gravi distorsioni. La prima è di misurare il grado di democrazia non in base al rigoroso rispetto dei principi costituzionali, ma in base al grado di avvicinamento agli obiettivi che ispirano una politica progressista, ad esempio: più stato sociale, più redistribuzione, più mitezza in campo penale. Quando da tali obiettivi ci si allontana perché le elezioni vengono vinte da una coalizione di destra, anziché prendere atto che l’esecutivo ha cambiato colore politico (e quindi sono al governo idee opposte) si denuncia, perlopiù in modo pensoso e corrucciato, che è in atto un deterioramento della qualità della democrazia. Ma è un errore concettuale grave: l’orientamento delle politiche dei governi non può essere un criterio per giudicare il grado di democraticità di un determinato paese, o la qualità della sua democrazia. E non può esserlo per un motivo logico ben preciso: ogni politica è frutto di un bilanciamento fra istanze opposte ma entrambe legittime, e nulla autorizza a dire che muoversi verso uno dei due poli sia più democratico che muoversi verso l’altro. Faccio un esempio, spesso evocato dal sociologo progressista Zygmunt Bauman: il conflitto fra libertà e sicurezza. Quando si introducono nuovi reati o nuove pene per contrastare comportamenti anti-sociali, è indubbio che si sta privilegiando la sicurezza a scapito della libertà. Ma dire che si sta mettendo a rischio la democrazia, o che se ne sta deteriorando la qualità, è un errore concettuale, perché nulla autorizza a dire che certe combinazioni di sicurezza e libertà sono più democratiche di altre. Si può dire che sono più o meno libertarie, più o meno garantiste, più o meno autoritarie, ma non più o meno democratiche. Questa, detta per inciso, è una delle differenze cruciali fra destra e sinistra oggi in Italia. La destra, di norma, critica le politiche di sinistra per i loro contenuti, non perché metterebbero a rischio la democrazia. La sinistra, al contrario, critica le politiche di destra perché (quasi) tutto quel che fa la destra le pare un attentato alla convivenza democratica.

E qui arriviamo al secondo tipo di distorsione che affligge chi evoca continuamente pericoli per la democrazia: la credenza che una delle due parti politiche – la destra – non sia pienamente legittimata a governare. E non lo sia precisamente perché non pienamente democratica. Qui si va davvero al nocciolo del problema: democrazia è innanzitutto l’accettazione del pluralismo, come ci ha insegnato Isaiah Berlin. Dove pluralismo significa che alcuni conflitti fra valori possono essere insuperabili, e nessuno può pretendere che i propri siano intrinsecamente superiori a quelli dell’avversario politico.

Anche in questo caso abbiamo un’asimmetria. Nessuno, dopo la svolta della Bolognina compiuta da Achille Occhetto nel 1991, contesta più il diritto degli eredi del Partito comunista di andare al potere. Ma ancora molti contestano il medesimo diritto agli eredi del Movimento sociale italiano, a dispetto della svolta di Fiuggi, voluta da Gianfranco Fini nel 1995, e della ulteriore rifondazione del partito compiuta da Giorgia Meloni (insieme a Crosetto e La Russa) nel 2012. La continua richiesta di credenziali antifasciste, e l’ossessivo allarme per la “democrazia a rischio”, segnalano esattamente questo: l’incompiutezza del cammino che, dopo la stagione del terrorismo e delle ideologie, avrebbe dovuto condurre l’Italia a essere una democrazia normale, in cui destra e sinistra si combattono sui programmi, non sul diritto a governare e sulle credenziali democratiche.

In questo senso do un po’ di ragione a Elly Schlein. Sì, effettivamente in Italia la democrazia corre qualche rischio, ma non nel senso che qualcuno voglia o possa sovvertirne le istituzioni, bensì nel senso più sottile, ma non meno inquietante, che non tutti gli attori in campo hanno ancora raggiunto la piena “maturità democratica”, ovvero la piena accettazione della legittimità dell’avversario politico e – forse ancora più importante – del diritto di espressione di tutte le opinioni, purché non violente. Su questo, dopo il caso dell’on. Fiano, silenziato da sinistra perché ebreo, urge davvero una riflessione.

[articolo uscito sul Messaggero il 2° novembre 2025]




A proposito di un video di Trump – Follemente scorretto

Non ha attirato la dovuta attenzione, in Italia, il video (costruito con l’intelligenza artificiale) nel quale Trump, con una corona da re in testa e un respiratore in bocca, pilota un jet da combattimento e scarica tonnellate di liquami sui manifestanti. Il video è una provocatoria risposta al “no kings day”, ossia alle migliaia di manifestazioni contro la deriva autoritaria (espressione abusata, ma in questo caso ineccepibile) del presidente Usa. È come dire: voi dite che non volete essere governati da un re, e io non solo vi dico che sono il vostro re, ma vi mostro tutto il mio disprezzo ricoprendovi di escrementi.

Perché merita tutta la nostra attenzione quel video?

Fondamentalmente perché segna un salto di qualità nella degenerazione della lotta politica in America (e speriamo solo in America). Dopo circa un dodicennio (2012-2024) di follemente corretto, gli Stati Uniti si sono improvvisamente trovati di fronte al suo perfetto rovescio, il follemente scorretto di Trump. Due fenomeni collegati, per certi versi speculari, ma sottilmente distinti come possono esserlo l’esterno e l’interno di un guanto. La forma tipica del follemente corretto era il bullismo etico, ovvero il disprezzo per chi la pensava diversamente esercitato in virtù di una presunta superiorità morale delle proprie convinzioni. La forma tipica del follemente scorretto nella versione trumpiana è l’umiliazione dell’avversario in virtù di un effettivo (non presunto) eccesso di potere. Il follemente corretto proclamava: io sono migliore di te, perciò devi adeguarti. Il follemente scorretto proclama: tu non sei nessuno, io posso schiacciarti.

È possibile che il follemente scorretto sia anche una reazione estrema, al limite della paranoia, alla lunga scia di aberrazioni e prevaricazioni che, specie nei paesi di lingua inglese, la cultura woke ha inflitto a chiunque la pensasse diversamente. Ma temo che ci sia ben più di questo. Questo di più è la nostra incapacità, a sinistra come a destra, di prendere veramente congedo dal politicamente corretto e dalle sue degenerazioni.  La sinistra si tiene ben stretta al politicamente corretto perché questo le permette di mantenere in vita il “complesso dei migliori”, la destra – specie nelle sue frange estremiste – è perennemente tentata dal politicamente scorretto, quasi che l’alternativa al politicamente corretto potesse essere il suo rovescio.

Ma è un grave errore logico. Politicamente corretto e politicamente scorretto non sono opposti, ma due facce della medesima moneta. Il politicamente scorretto è il rovescio del politicamente corretto, non il suo contrario. Il contrario del politicamente corretto è il pluralismo, ovvero il riconoscimento che – fatti salvi il ripudio della violenza e il rispetto della legge – possono esservi valori al tempo stesso rispettabili e difficilmente compatibili, e che quindi nessuno può pretendere che i propri valori siano eticamente superiori a quelli dell’avversario politico. Una postura, questa, che la sinistra è strutturalmente incapace di assumere, convinta com’è di essere portatrice di valori universali e incontestabili, e che la destra – pur immune al complesso dei migliori – rischia di tradire ogniqualvolta l’istinto del politicamente scorretto secerne disprezzo, offesa, intimidazione.

Ecco perché la vicenda del video di Trump è inquietante. Fino a ieri si poteva sperare che il nuovo clima instaurato dall’avanzata delle destre nella maggior parte dei paesi occidentali si sarebbe limitato a raffreddare l’arroganza etica dei progressisti, ponendo un freno alle follie woke. L’improvvido video del volo di Trump sopra i manifestanti democratici fa temere anche un risveglio dei peggiori istinti nel mondo dei conservatori.

Una recente indagine di Mannheimer ha documentato una vera esplosione, nell’elettorato italiano, del consenso nei confronti del presidente degli Stati Uniti. C’è solo da sperare che tanto entusiasmo riguardi la sua determinazione nel porre fine agli eccidi di Gaza, piuttosto che la tentazione di inaugurare una stagione di disprezzo per gli avversari politici.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 ottobre 2025]




Sinistra e doppia verità – Era meglio il PCI?

Qualche giorno fa ad Amsterdam, all’incontro dei socialisti europei, la segretaria del Pd Elly Schlein, dopo aver espresso la solidarietà a Sigfrido Ranucci, appena scampato a un attentato, non ha trovato di meglio che aggiungere: «Così la democrazia è a rischio, la libertà di parola è a rischio quando l’estrema destra è al governo».

Notate quel così, che suggerisce una connessione causale: l’attentato a Ranucci è figlio del clima che si è instaurato da quando Giorgia Meloni ha preso le redini del governo. Si capisce quindi l’indignazione che le parole di Schlein hanno suscitato a destra, con conseguente durissima risposta della premier.

Io però penso che, almeno su un piano politico, Giorgia Meloni avrebbe dovuto rallegrarsene. Quelle parole, come la maggior parte delle analisi che gli esponenti del Pd ripropongono quotidianamente, sono straordinariamente utili alla destra, e hanno effetti catastrofici sulla sinistra.

Perché siano utili alla destra è evidente: poiché contengono diagnosi sballate e previsioni di eventi che non si avverano, non fanno che rafforzare il consenso alla destra. Se dici che Meloni cancellerà la legge 194 sull’aborto e poi la legge resta in piedi, se dici che con la destra al governo la stampa non sarà più libera e poi la stampa continua imperturbata a denigrare la destra, se dici che le paure verso gli immigrati irregolari sono ingiustificate e poi le cronache (e le statistiche) suggeriscono il contrario, se fai tutto questo la gente crede sempre di meno a te, e si rassicura sempre di più nei confronti dell’avversario che hai dipinto come un demonio. Insomma: gridare al lupo al lupo troppe volte non funziona se poi il lupo non arriva.

Meno evidente è perché le diagnosi errate abbiano effetti catastrofici sulla sinistra, al di là dell’aiuto che finiscono per dare alla destra sul piano elettorale. Ebbene, la ragione  è che non c’è più il vecchio Partito Comunista, con i comitati centrali a porte chiuse e la pratica della doppia verità. I comunisti non credevano a tutto quello che raccontavano alle masse. Quindi potevano benissimo proporre analisi sbagliate (per catturare voti) ma al tempo stesso sapere, o meglio cercare di sapere, come stavano le cose davvero. E sapere come le cose stavano davvero era essenziale per non mettere in atto politiche sbagliate, irrealistiche o controproducenti.

Oggi non è più così. Nella maggior parte dei casi i dirigenti della sinistra, gli intellettuali progressisti, i giornalisti di area credono veramente a quello che dicono e scrivono. Davvero temevano “rigurgiti” fascisti e autoritari se Meloni avesse vinto le elezioni. Davvero erano persuasi che fosse in atto una drammatica crisi economica quando Berlusconi obiettava “però i ristoranti sono pieni”. Persino un grande intellettuale come Umberto Eco ebbe a cascarci quando, nel 2001, profetizzò la scomparsa della libera stampa nel caso avesse vinto Berlusconi.

A nessuno piacerebbe svegliarsi un mattino e scoprire che tutti i giornali, il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Messaggero, Il Giornale, e via via dall’Unità al Manifesto, compresi i settimanali e i mensili, dall’Espresso a Novella Duemila, sino alla rivista on line Golem, appartengono tutti allo stesso proprietario e finalmente ne riflettono le opinioni. Ci sentiremmo meno liberi. Ma è quello che accadrebbe con una vittoria del Polo che si dice delle Libertà.

Sappiamo come sono andate le cose. I giornali hanno continuato ognuno per la sua strada, e i pochi – peraltro fallimentari – tentativi di accentrare il comando delle maggiori testate sono venuti, alcuni decenni dopo, da sinistra e non da destra. Dunque la teoria di Eco, come tante teorie e analisi che allignano in campo progressista, era sociologicamente errata.

Quel che voglio dire è che la sinistra italiana, e massimamente quella guidata da Schlein, ha disimparato una lezione fondamentale della politica: ingannare gli altri può funzionare, ma ingannare sé stessi è sempre catastrofico. Perché se vuoi cambiare la realtà è meglio – molto meglio – che tu sappia come funziona: altrimenti sarà la realtà a giocarti un brutto tiro.

[articolo uscito sulla Ragione il 21 ottobre 2025]




Dopo le Regionali – Chi deve comandare a sinistra?

La vittoria dell’alleanza progressista in Toscana ha riacceso qualche speranza a sinistra, dopo le sconfitte nelle Marche e in Calabria. Le speranze di un’inversione di tendenza, tuttavia, sono mitigate dalle preoccupazioni per l’astensionismo, cresciuto di ben 15 punti in Toscana, e per la crisi del Movimento Cinque Stelle, ossia di quello che – sulla carta – è il principale alleato del Pd in vista delle elezioni politiche del 2027. Alcuni analisti e sondaggisti fanno notare che l’astensionismo è un pericolo soprattutto per la sinistra: a differenza che in passato, sarebbero proprio i suoi elettori a disertare le urne quando non apprezzano le proposte dei leader progressisti. I due grandi mali dell’alleanza di sinistra, dunque, sarebbero l’astensionismo e la “evaporazione” del Movimento Cinque Stelle.

Questa analisi, a prima vista, ha una sua plausibilità. La crisi del Movimento Cinque Stelle è conclamata, e l’ascesa del “partito dell’astensione” è da decenni il leitmotiv dei media all’indomani di ogni consultazione elettorale. A ben vedere, però, le cose sono molto più complicate di come appaiono.

Intanto, non è vero che nelle ultime tre consultazioni regionali abbiamo assistito a un’impennata dell’astensionismo. L’impressione di un aumento è dovuta a un banale errore tecnico-metodologico: la partecipazione elettorale viene confrontata con quella del 2020, in cui il dato di Toscana e Marche era inflazionato dall’abbinamento delle Regionali alla consultazione referendaria (molto sentita) sulla riduzione del numero di parlamentari. Se il confronto viene fatto con il 2015, in cui non c’erano altre elezioni, si osserva una perfetta stabilità della partecipazione al voto in tutte e tre le regioni (48% in Toscana, 50% nelle Marche, 44% in Calabria). E nell’unico caso in cui si può fare un confronto con le ultime elezioni regionali (quello della Calabria, che andò al voto nel 2021, in data diversa da quella del referendum) il dato del 2025 è praticamente identico a quello del 2020 (44.4% contro 44.3%). Dunque cominciamo con lo sgombrare il campo dalla prima mina: la crisi della sinistra non è colpa dell’astensionismo.

Ma anche l’altra parte delle preoccupazioni che travagliano la sinistra, ovvero la crisi dei Cinque Stelle, andrebbe riconsiderata alla luce dei dati. È vero che nelle elezioni regionali i Cinque Stelle raccolgono pochi consensi, ed è verissimo che il loro peso elettorale è oggi molto minore di 10 anni fa, e tuttavia se guardiamo ai movimenti più recenti dell’opinione pubblica non sono i Cinque Stelle il vero tallone di Achille della sinistra. La supermedia dei sondaggi calcolata da Youtrend mostra che dopo le elezioni europee del 2024, ovvero nell’ultimo anno e mezzo, il consenso verso i Cinque Stelle è in costante aumento, mentre quello al Partito Democratico è in calo. Il differenziale fra i due partiti era di circa 14 punti (a favore del Pd), ora è sceso a circa 9. L’evaporazione dei Cinque stelle è un fenomeno che riguarda le elezioni locali, ma sul piano nazionale (almeno a stare ai sondaggi) è semmai il Pd a perdere colpi (dal 24 al 22%), mentre i Cinque Stelle sono in lenta ma costante crescita (dal 10 al 13%).

Non solo. Una recentissima indagine di Renato Mannheimer ha scoperto una cosa assolutamente sorprendente. Nonostante il Pd abbia quasi il doppio dei consensi dei Cinque Stelle, l’elettorato progressista preferisce nettamente Giuseppe Conte a Elly Schlein come candidato alla Presidenza del Consiglio per le elezioni del 2027: il leader Cinque Stelle viene scelto dal 34% degli elettori di sinistra, mentre la segretaria del Pd deve accontentarsi del 22% delle indicazioni. E lo scarto fra i due leader è ancora più grande se si considera l’intero elettorato, non solo gli elettori di sinistra: 27% contro 14%.

Come mai?

La spiegazione, probabilmente, sta in una precedente indagine di Mannheimer, condotta poche settimane fa. Da essa emergeva la profonda insoddisfazione dell’elettorato di sinistra per l’operato (o il mancato operato) dell’opposizione, ben maggiore della speculare insoddisfazione dell’elettorato di destra per l’operato del governo. A sinistra gli insoddisfatti sfioravano il 50%, a destra erano meno del 13%. E anche fra gli indecisi coloro che bocciano l’opposizione risultavano più numerosi di coloro che bocciano il governo (79% contro 67%).

Fra i due risultati – preferenza per Conte e insoddisfazione per l’opposizione – un nesso c’è: l’elettorato progressista, proprio perché Schlein è il leader che dà le carte a sinistra, tende a attribuire a lei e non a Conte litigiosità e mancanza di idee del campo largo, e al tempo stesso apprezza la vena populista e soprattutto iper-pacifista del leader Cinque Stelle.

A quanto pare, la questione di chi debba guidare il centro-sinistra è più che mai all’ordine del giorno.

 

 

[articolo uscito sul Messaggero il 17 ottobre 2025]