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L’utopia limitata degli homeschooler in Italia

7 Febbraio 2022 - di Paolo Di Motoli

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Per homeschooling o istruzione parentale si intende l’amministrazione di un programma di istruzione offerto in casa invece che in una scuola pubblica o privata; una situazione di insegnamento dove i bambini imparano in casa invece che nelle scuole convenzionali. In tale contesto i genitori o i parenti assumono la diretta responsabilità dell’educazione dei bambini (Murphy 2012).

Il fenomeno, assai minoritario nel nostro paese sta lentamente assumendo dimensioni più rilevanti per una serie di cause che andremo ad analizzare ma gli ultimi anni di pandemia ne hanno probabilmente accelerato la crescita.

Secondo i dati dell’Anagrafe Nazionale degli studenti nell’anno scolastico 2017-2018 gli alunni in istruzione parentale erano 4.169, divisi tra scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. Nell’anno successivo, il 2018-2019 sono saliti a 5126 e secondo i dati pubblicati di recente dal MIUR e ripresi dall’agenzia Adnkronos sarebbero passati a 15.361 nell’ultimo anno (2020-2021).

La pandemia ha moltiplicato la tendenza dei genitori a istruire i figli in casa per ragioni che potremmo definire pragmatiche.

Tra gli homeschooler, anche in Italia, è possibile includere i genitori che seguono il programma ministeriale e quelli che praticano l’unschooling. Il termine venne coniato negli anni Ottanta da John Holt, insegnante statunitense, che lo usò nella sua rivista-newsletter Growing without schooling per indicare la possibilità di imparare senza andare a scuola. Le prime vittorie legali di famiglie che volevano praticare l’homeschooling fecero notizia negli Stati Uniti e il settimanale “Time” dedicò degli articoli al tema. Holt partecipò anche al “Phil Donahue Show” e pur dovendo fronteggiare un pubblico di persone ostili alla pratica ottenne un successo notevole, che moltiplicò la platea di padri e madri pronte a lanciarsi nella pratica della scuola. Presto i gruppi religiosi protestanti grazie alla maggiore organizzazione e forza economica soppiantarono numericamente i gruppi di genitori libertari e progressisti che sull’onda dei movimenti di contestazione degli anni Sessanta avevano iniziato a educare i figli fuori dai tradizionali circuiti scolastici.

Oggi il termine homeschooling (auto)definisce le famiglie che intendono lasciare i figli liberi di decidere cosa imparare, dove farlo e in che modo eludendo se possibile gli obblighi di esami di idoneità annuali resi obbligatori dalla cosiddetta legge 107 sulla Buona scuola del 2017.

Statofobia, puerocentrismo e neoliberalismo

L’indagine sulle motivazioni dei genitori che compiono questa scelta è un tema che ha prodotto una notevole quantità di studi nel mondo accademico (Van Galen 1991; Steven 2001; Morton 2010: Gaither 2017).

In un saggio dedicato alle ricerche quantitative sulle famiglie di homeschooler negli Stati Uniti, Eric Isenberg ha sottolineato la differenza tra gli approcci etnografici e quelli che si limitano a prendere in esame i dati raccolti da varie organizzazioni pubbliche e private. Secondo Isenberg, uno dei limiti degli approcci quantitativi è il fatto di non essere spesso in grado di cogliere le motivazioni profonde che spingono le famiglie verso questa pratica educativa, a differenza di quanto avviene nel caso dei lavori di taglio etnografico (Isenberg 2007). Un approccio qualitativo mira quindi ad approfondire il tema proprio sul piano delle motivazioni.

In una recente ricerca svolta sotto la supervisione del Dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di Padova è emersa, almeno nel mondo dei genitori che compiono la scelta per ragioni “ideali” e non pragmatiche (che pure sono interessanti come la presenza di handicap, bullismo o più di recente il timore del contagio) la prevalenza di quella che il filosofo Michel Foucault chiamava “fobia di stato” affiancata a un atteggiamento da parte dei genitori che si è chiamato “puerocentrico” (Di Motoli 2020).

Fare scuola in casa sarebbe secondo alcuni di questi genitori l’espressione più coerente della libertà parentale di scelta. Questi rivendicano il diritto di decidere cosa è veramente meglio per i loro figli sostituendo al paternalismo “artificiale” dello Stato quello “naturale” della famiglia. Per molti genitori si tratta di costruire in casa una sorta di mondo perfetto più adatto per i propri figli, che non impone orari, non impone programmi scolastici e non reprime le istanze dei piccoli in una specie di utopia limitata alle mura domestiche che conserva echi dei testi di Herbert Marcuse.

I gruppi denominati “Stato fobici” hanno diffidenza verso le strutture istituzionali, tendono a definirsi libertari o anarchici e la spinta prevalente che li muove è un individualismo che li porta a non riconoscere o a criticare fortemente il ruolo dei mediatori pubblici e privati siano questi insegnanti, medici o amministratori. Non respingono forme di cooperazione ma rifiutano la sfera pubblica così come organizzata dallo Stato.

I “puerocentristi” sono coloro che pongono il bambino e i suoi interessi al centro del progetto educativo, sull’onda delle teorie pedagogiche attiviste à la John Dewey o à la Maria Montessori. È un tema che emerge spesso nei discorsi di questa categoria di homeschooler, a volte slegato da solidi riferimenti teorici.

Una nuova/vecchia ideologia

Quello che la pandemia ha per certi versi reso più evidente (pensiamo ai dibattiti sulle restrizioni e sul tema dei vaccini) è una sorta di nuova ideologia. Questa linea di pensiero mette insieme istanze tipicamente neoliberali di repulsione verso le istituzioni e il controllo dello stato su questioni educative, sanitarie ed economiche (di destra liberale? di liberalismo prevalentemente negativo?) con atteggiamenti di critica della società e dei dispositivi di legittimazione delle sue strutture tipiche di un pensiero (di sinistra? progressista?) che trova proprio in Michel Foucault il suo fondatore.

Va ricordato che nel caso dei bambini si sostituisce il paternalismo dello Stato a un paternalismo ancora più forte come quello della famiglia e dei genitori che inevitabilmente limitano la possibilità per i loro figli di venire in contatto con realtà, figure e idee differenti rispetto a quelle del gruppo di appartenenza. Qui ci pare che il cortocircuito sia evidente. Per sottrarre il bambino al paternalismo dello stato lo si sottopone ad un paternalismo ancora più forte e invasivo come quello della famiglia.

Fulcro dell’individualismo liberale è, come noto, il principio secondo cui i diritti e le libertà individuali devono essere protetti anzitutto dall’ingerenza dello Stato. Scrive Friedrich von Hayek nel suo testo sul liberalismo: “La concezione liberale della libertà è stata spesso, e con ragione, definita come una concezione puramente negativa” (Von Hayek 2012: 43).

Coloro che ricollegano la pratica dello homeschooling a tale tradizione, come fanno per esempio Romualdo Portela de Oliveira e Luciane Muniz Ribeiro Barbosa (Portela de Oliveira, Muniz Ribeiro Barbosa, 2017), sottolineano come essa rappresenti la declinazione, in ambito educativo, delle teorie dello “Stato minimo” o “ultraminimo” che, sorte già con il liberalismo ottocentesco, hanno influenzato soprattutto la tradizione liberale del secolo scorso.

Nel corso delle ricerche per individuare le ragioni dei genitori homeschooler sono emersi discorsi che denotano una serie di temi che appaiono oggi quelli di una possibile piattaforma politica:

1) resistenza alla cultura dominante

2) sospetto verso le istituzioni, la scuola e i mediatori

3) opposizione alle politiche sanitarie (obbligo vaccinale)

4) attenzione particolare alle istanze dei figli

5) esigenza di controllo dei figli

6) centralità dei valori familiari

7) centralità dei valori religiosi

8) sospetto verso tematiche legate al genere e al contrasto delle discriminazioni

9) riferimento a teorici o particolari educatori

10) definizione del rapporto con la libertà prevalentemente negativo (“libertà da” come la intendeva Isaiah Berlin).

Alla luce di tutto questo non è da escludere che anche nel nostro paese si presenti prima o poi la necessità di un dibattito più ampio sul tema che in Francia ha già prodotto nel luglio del 2021 una legge che ha drasticamente limitato per molte famiglie (erano circa 50mila nel 2020) di praticare l’istruzione parentale. Lo spirito che animava la legge era quello di ostacolare il settarismo che nell’esagono ha prodotto i terribili attentati islamisti degli ultimi anni.

Riferimenti bibliografici

  1. Berlin, Due concetti di libertà, Feltrinelli 2000.
  2. Damele, P. Di Motoli, Homeschooling. Appunti su una pratica educativa al confine tra comunitarismo e individualismo libertarian, in Meridiana n. 94, 2019, pp. 195-2014.
  3. Di Motoli, Fuori dalla scuola. L’homeschooling in Italia, Studium 2020.
  4. DeKoven, Utopia Limited: The Sixties and the Emergence of the Postmodern, Duke University Press, 2004.
  5. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli 2005.
  6. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli 1997.
  7. Gaither, Homeschool an American History, Palgrave Mc Millan 2017.
  8. Holt, Come apprendono i bambini, Bompiani 2020.
  9. Isenberg, What Have We Learned About Homeschooling?, in Peabody Journal of Education, V. 82 n. 2-3, 2007, pp. 387-409.
  10. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi 1967.
  11. S. Merry, S. Karstein, Restricted Liberty, Parental Choice and Homeschooling, in Journal of Philosophy of Education, V. 44, n. 4, 2010.
  12. Morton, Home Education: Constructions of Choice in International Electronic Journal of Elementary Education 3, no. 1, October 2010.
  13. Murphy, Homeschooling in America: Capturing and Assessing the Movement, Corwin, SAGE 2012.
  14. Portela de Oliveira, L. Muniz Ribeiro Barbosa, Neoliberal as one of the Foundation of Homeschooling, in Pro-Posições, V. 28, n.2, 2017, pp.193-212.
  15. Stevens, Kingdom of Children. Culture and Contreversity in the Homeschooler Movement, Princeton University Press 2001.
  16. Von Hayek, Liberalismo, Rubbettino 2012.

Liberismo sanitario

12 Gennaio 2022 - di Luca Ricolfi

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Ero già stupito a fine ottobre, quando i primi chiari segnali di ripartenza dell’epidemia (incidenza e Rt) vennero ignorati dalle nostre autorità politiche e sanitarie. Da allora non ho fatto che ristupirmi, perché né la scoperta di omicron e della sua trasmissibilità, né i rischi connessi alle vacanze natalizie hanno condotto al varo di misure tempestive e incisive. Ma ieri il mio stupore si è trasformato in incredulità. Nel giorno in cui i contagi hanno superato la cifra record di 200 mila casi al giorno, il Consiglio dei ministri ha deciso che entro lunedì 10 gennaio tutti gli ordini di scuole riapriranno, e che solo nelle scuole materne lo faranno con la cautela minima necessaria, ossia con la regola: se c’è anche un solo positivo in classe la frequenza si interrompe per tutti. Non me lo aspettavo, non tanto perché lo giudico molto imprudente (a decisioni che considero incaute sono abituato da due anni, ma può essere che sia io a essere troppo cauto), ma perché sui rischi di apertura si erano espressi chiaramente molti presidenti di regione e molti dirigenti scolastici. I primi invocando il via libera preventivo del Comitato tecnico-scientifico, i secondi spiegando dettagliatamente perché le scuole e le Asl non erano in condizione di garantire un rientro “in sicurezza”.

Quando succede una cosa che non ti aspetti, la domanda da farsi non è “perché sbagliano?” ma “che cosa gli fa pensare di fare la cosa giusta?” Perché se l’esecutivo agisce come agisce, e il Comitato tecnico-scientifico avalla tacendo, una logica ci deve pur essere. Ma quale può essere questa logica?

A me pare che la logica che guida la filosofia di “apertura a oltranza” poggi su una scelta di fondo, maturata e ribadita innumerevoli volte in questi mesi: lasciamo pure correre i contagi, tanto – grazie ai vaccini – si muore poco e si va poco in ospedale. Questa scelta di “liberismo sanitario”, paradossalmente, è stata rafforzata e non indebolita dalla comparsa della variante omicron, di cui si è preferito sottolineare la mitezza condizionale (“poco più di un raffreddore, se si è vaccinati”) che l’estrema contagiosità. Di qui l’idea che il vero problema sia la resistenza del popolo novax, e che obbligando tutti a vaccinarsi usciremo dall’incubo.

Ma regge questo ragionamento?

Sfortunatamente no. La scommessa liberista è incompatibile con i dati su quattro punti fondamentali.

Primo, l’esperienza degli altri paesi mostra che la vaccinazione di massa è necessaria ma non sufficiente a fermare il contagio. Lo mostra senza ombra di dubbio il fatto che Rt è sopra la soglia critica di 1 in tutte le società avanzate, compresi i paesi che hanno vaccinato tutti i vaccinabili  (Portogallo) o sono molto avanti con le terze dosi (Israele, Regno Unito).

Secondo, noi discutiamo come se il nostro problema fossero i 5 milioni di maggiorenni non vaccinati, o i 2 milioni di ultra-cinquantenni non vaccinati (che sarebbero tenuti a vaccinarsi entro metà febbraio), ma i non vaccinati sono ben 11 milioni, di cui circa 3 non vaccinabili in assoluto (bambini fino a 4 anni), e altri 3 (bambini da 5 a 11 anni) vaccinabili solo nei casi in cui i genitori superassero i loro dubbi, peraltro condivisi da una parte della comunità scientifica e delle istituzioni sanitarie (nel Regno Unito la vaccinazione dei più piccoli non è ammessa). Tutto questo significa che l’obbligo per gli ultra 50-enni, ove venisse rispettato integralmente, coprirebbe circa il 20% della popolazione non vaccinata, mentre più del 50% del problema sta precisamente negli allievi delle scuole materne, elementari e medie, che ci apprestiamo a riaprire da lunedì.

Terzo, oggi il problema principale non è che 5 milioni di adulti non si vogliono vaccinare, ma che 15 milioni di adulti non riescono a farlo, perché gli hub vaccinali non sono in grado di coprire la richiesta di terze dosi per coloro che hanno perso la protezione.

Quarto, il calcolo secondo cui possiamo permetterci di lasciar correre il contagio perché la probabilità di ammalarsi gravemente è bassa, si scontra con l’aritmetica dell’epidemia: se la letalità si dimezza, ma i contagi quadruplicano (cosa per cui bastano 2 settimane), il numero di morti e di ospedalizzati raddoppia, rendendo catastrofica una situazione che negli ospedali di molte regioni è già oggi drammatica.

Ecco perché dicevo che la scommessa liberista di lasciar correre i contagi è incompatibile con i dati, ovvero con quel che si sa dei meccanismi che governano questa epidemia. Qualsiasi cosa si pensi del perché siamo arrivati fin qui, è difficile non prendere atto che lasciar (ancora) correre il virus è un azzardo che non ha alcun supporto nei dati.

Possiamo dolerci della chiusura delle scuole e del ritorno alla Dad, ma se siamo lucidi dovremmo riconoscere che è prima che avremmo dovuto tutelarle, le nostre amate scuole, con le tante cose che sono state invano proposte, dall’aumento delle aule alla ventilazione meccanica controllata. Ora ci resta solo da prendere atto che rimandarne l’apertura, come per primo ha proposto il governatore della Campania, non è certo la soluzione, ma è il minimo sindacale per provare a rallentare l’epidemia.

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