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L’utopia limitata degli homeschooler in Italia

7 Febbraio 2022 - di Paolo Di Motoli

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Per homeschooling o istruzione parentale si intende l’amministrazione di un programma di istruzione offerto in casa invece che in una scuola pubblica o privata; una situazione di insegnamento dove i bambini imparano in casa invece che nelle scuole convenzionali. In tale contesto i genitori o i parenti assumono la diretta responsabilità dell’educazione dei bambini (Murphy 2012).

Il fenomeno, assai minoritario nel nostro paese sta lentamente assumendo dimensioni più rilevanti per una serie di cause che andremo ad analizzare ma gli ultimi anni di pandemia ne hanno probabilmente accelerato la crescita.

Secondo i dati dell’Anagrafe Nazionale degli studenti nell’anno scolastico 2017-2018 gli alunni in istruzione parentale erano 4.169, divisi tra scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. Nell’anno successivo, il 2018-2019 sono saliti a 5126 e secondo i dati pubblicati di recente dal MIUR e ripresi dall’agenzia Adnkronos sarebbero passati a 15.361 nell’ultimo anno (2020-2021).

La pandemia ha moltiplicato la tendenza dei genitori a istruire i figli in casa per ragioni che potremmo definire pragmatiche.

Tra gli homeschooler, anche in Italia, è possibile includere i genitori che seguono il programma ministeriale e quelli che praticano l’unschooling. Il termine venne coniato negli anni Ottanta da John Holt, insegnante statunitense, che lo usò nella sua rivista-newsletter Growing without schooling per indicare la possibilità di imparare senza andare a scuola. Le prime vittorie legali di famiglie che volevano praticare l’homeschooling fecero notizia negli Stati Uniti e il settimanale “Time” dedicò degli articoli al tema. Holt partecipò anche al “Phil Donahue Show” e pur dovendo fronteggiare un pubblico di persone ostili alla pratica ottenne un successo notevole, che moltiplicò la platea di padri e madri pronte a lanciarsi nella pratica della scuola. Presto i gruppi religiosi protestanti grazie alla maggiore organizzazione e forza economica soppiantarono numericamente i gruppi di genitori libertari e progressisti che sull’onda dei movimenti di contestazione degli anni Sessanta avevano iniziato a educare i figli fuori dai tradizionali circuiti scolastici.

Oggi il termine homeschooling (auto)definisce le famiglie che intendono lasciare i figli liberi di decidere cosa imparare, dove farlo e in che modo eludendo se possibile gli obblighi di esami di idoneità annuali resi obbligatori dalla cosiddetta legge 107 sulla Buona scuola del 2017.

Statofobia, puerocentrismo e neoliberalismo

L’indagine sulle motivazioni dei genitori che compiono questa scelta è un tema che ha prodotto una notevole quantità di studi nel mondo accademico (Van Galen 1991; Steven 2001; Morton 2010: Gaither 2017).

In un saggio dedicato alle ricerche quantitative sulle famiglie di homeschooler negli Stati Uniti, Eric Isenberg ha sottolineato la differenza tra gli approcci etnografici e quelli che si limitano a prendere in esame i dati raccolti da varie organizzazioni pubbliche e private. Secondo Isenberg, uno dei limiti degli approcci quantitativi è il fatto di non essere spesso in grado di cogliere le motivazioni profonde che spingono le famiglie verso questa pratica educativa, a differenza di quanto avviene nel caso dei lavori di taglio etnografico (Isenberg 2007). Un approccio qualitativo mira quindi ad approfondire il tema proprio sul piano delle motivazioni.

In una recente ricerca svolta sotto la supervisione del Dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di Padova è emersa, almeno nel mondo dei genitori che compiono la scelta per ragioni “ideali” e non pragmatiche (che pure sono interessanti come la presenza di handicap, bullismo o più di recente il timore del contagio) la prevalenza di quella che il filosofo Michel Foucault chiamava “fobia di stato” affiancata a un atteggiamento da parte dei genitori che si è chiamato “puerocentrico” (Di Motoli 2020).

Fare scuola in casa sarebbe secondo alcuni di questi genitori l’espressione più coerente della libertà parentale di scelta. Questi rivendicano il diritto di decidere cosa è veramente meglio per i loro figli sostituendo al paternalismo “artificiale” dello Stato quello “naturale” della famiglia. Per molti genitori si tratta di costruire in casa una sorta di mondo perfetto più adatto per i propri figli, che non impone orari, non impone programmi scolastici e non reprime le istanze dei piccoli in una specie di utopia limitata alle mura domestiche che conserva echi dei testi di Herbert Marcuse.

I gruppi denominati “Stato fobici” hanno diffidenza verso le strutture istituzionali, tendono a definirsi libertari o anarchici e la spinta prevalente che li muove è un individualismo che li porta a non riconoscere o a criticare fortemente il ruolo dei mediatori pubblici e privati siano questi insegnanti, medici o amministratori. Non respingono forme di cooperazione ma rifiutano la sfera pubblica così come organizzata dallo Stato.

I “puerocentristi” sono coloro che pongono il bambino e i suoi interessi al centro del progetto educativo, sull’onda delle teorie pedagogiche attiviste à la John Dewey o à la Maria Montessori. È un tema che emerge spesso nei discorsi di questa categoria di homeschooler, a volte slegato da solidi riferimenti teorici.

Una nuova/vecchia ideologia

Quello che la pandemia ha per certi versi reso più evidente (pensiamo ai dibattiti sulle restrizioni e sul tema dei vaccini) è una sorta di nuova ideologia. Questa linea di pensiero mette insieme istanze tipicamente neoliberali di repulsione verso le istituzioni e il controllo dello stato su questioni educative, sanitarie ed economiche (di destra liberale? di liberalismo prevalentemente negativo?) con atteggiamenti di critica della società e dei dispositivi di legittimazione delle sue strutture tipiche di un pensiero (di sinistra? progressista?) che trova proprio in Michel Foucault il suo fondatore.

Va ricordato che nel caso dei bambini si sostituisce il paternalismo dello Stato a un paternalismo ancora più forte come quello della famiglia e dei genitori che inevitabilmente limitano la possibilità per i loro figli di venire in contatto con realtà, figure e idee differenti rispetto a quelle del gruppo di appartenenza. Qui ci pare che il cortocircuito sia evidente. Per sottrarre il bambino al paternalismo dello stato lo si sottopone ad un paternalismo ancora più forte e invasivo come quello della famiglia.

Fulcro dell’individualismo liberale è, come noto, il principio secondo cui i diritti e le libertà individuali devono essere protetti anzitutto dall’ingerenza dello Stato. Scrive Friedrich von Hayek nel suo testo sul liberalismo: “La concezione liberale della libertà è stata spesso, e con ragione, definita come una concezione puramente negativa” (Von Hayek 2012: 43).

Coloro che ricollegano la pratica dello homeschooling a tale tradizione, come fanno per esempio Romualdo Portela de Oliveira e Luciane Muniz Ribeiro Barbosa (Portela de Oliveira, Muniz Ribeiro Barbosa, 2017), sottolineano come essa rappresenti la declinazione, in ambito educativo, delle teorie dello “Stato minimo” o “ultraminimo” che, sorte già con il liberalismo ottocentesco, hanno influenzato soprattutto la tradizione liberale del secolo scorso.

Nel corso delle ricerche per individuare le ragioni dei genitori homeschooler sono emersi discorsi che denotano una serie di temi che appaiono oggi quelli di una possibile piattaforma politica:

1) resistenza alla cultura dominante

2) sospetto verso le istituzioni, la scuola e i mediatori

3) opposizione alle politiche sanitarie (obbligo vaccinale)

4) attenzione particolare alle istanze dei figli

5) esigenza di controllo dei figli

6) centralità dei valori familiari

7) centralità dei valori religiosi

8) sospetto verso tematiche legate al genere e al contrasto delle discriminazioni

9) riferimento a teorici o particolari educatori

10) definizione del rapporto con la libertà prevalentemente negativo (“libertà da” come la intendeva Isaiah Berlin).

Alla luce di tutto questo non è da escludere che anche nel nostro paese si presenti prima o poi la necessità di un dibattito più ampio sul tema che in Francia ha già prodotto nel luglio del 2021 una legge che ha drasticamente limitato per molte famiglie (erano circa 50mila nel 2020) di praticare l’istruzione parentale. Lo spirito che animava la legge era quello di ostacolare il settarismo che nell’esagono ha prodotto i terribili attentati islamisti degli ultimi anni.

Riferimenti bibliografici

  1. Berlin, Due concetti di libertà, Feltrinelli 2000.
  2. Damele, P. Di Motoli, Homeschooling. Appunti su una pratica educativa al confine tra comunitarismo e individualismo libertarian, in Meridiana n. 94, 2019, pp. 195-2014.
  3. Di Motoli, Fuori dalla scuola. L’homeschooling in Italia, Studium 2020.
  4. DeKoven, Utopia Limited: The Sixties and the Emergence of the Postmodern, Duke University Press, 2004.
  5. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli 2005.
  6. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli 1997.
  7. Gaither, Homeschool an American History, Palgrave Mc Millan 2017.
  8. Holt, Come apprendono i bambini, Bompiani 2020.
  9. Isenberg, What Have We Learned About Homeschooling?, in Peabody Journal of Education, V. 82 n. 2-3, 2007, pp. 387-409.
  10. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi 1967.
  11. S. Merry, S. Karstein, Restricted Liberty, Parental Choice and Homeschooling, in Journal of Philosophy of Education, V. 44, n. 4, 2010.
  12. Morton, Home Education: Constructions of Choice in International Electronic Journal of Elementary Education 3, no. 1, October 2010.
  13. Murphy, Homeschooling in America: Capturing and Assessing the Movement, Corwin, SAGE 2012.
  14. Portela de Oliveira, L. Muniz Ribeiro Barbosa, Neoliberal as one of the Foundation of Homeschooling, in Pro-Posições, V. 28, n.2, 2017, pp.193-212.
  15. Stevens, Kingdom of Children. Culture and Contreversity in the Homeschooler Movement, Princeton University Press 2001.
  16. Von Hayek, Liberalismo, Rubbettino 2012.

Nuova Zelanda: i primi della classe

10 Gennaio 2022 - di Silvia Milone

In primo pianoSocietà

Martedì 17 agosto 2021 i cittadini neozelandesi hanno ricevuto sui propri cellulari un messaggio inaspettato: la Nuova Zelanda era entrata nel livello di allerta 4 e così, dopo quasi 15 mesi dalla fine del primo, iniziava ufficialmente un nuovo lockdown. Era successo che un uomo di 58 anni che si era recato da Auckland nel Coromandel (un territorio situato nel nord-est dell’isola) al suo ritorno era risultato positivo alla variante Delta. È bastato quindi che una sola persona fosse risultata contagiata dal Covid su territorio neozelandese perché l’intera nazione si fermasse.

Per capire il senso di questo provvedimento, che in altri paesi potrebbe apparire ridicolo, se non addirittura folle, bisogna capire la logica della peculiare strategia di prevenzione in vigore nel paese fin dall’inizio della crisi.

La Nuova Zelanda aveva infatti registrato il suo primo caso di Covid il 28 febbraio 2020. Dopo tre settimane esatte, durante le quali cui si era seguita una strategia di contenimento in stile sudcoreano, la giovane premier Jacinda Ardern, vedendo che gli 8 casi rilevati fino al 15 marzo negli ultimi giorni avevano iniziato ad aumentare sempre più rapidamente, decise di cambiare radicalmente metodo, puntando a stroncare il contagio sul nascere anziché cercare di conviverci.

L’azione del governo da lei guidato fu rapidissima. Il 19 marzo vennero chiuse le frontiere a tutti i non residenti, mentre il 21 venne varato un sistema basato su 4 livelli differenti di allerta, così definiti sul sito ufficiale del governo (cfr. New Zealand Government, COVID-19 Alert System, https://covid19.govt.nz/alert-system/#:~:text=New%20Zealand%20has%20a%204,measures%20we%20need%20to%20take.&text=Advice%20on%20international%20travel%2C%20what,safely%20travel%20within%20New%20Zealand.):

Livello di allerta 1: «COVID-19 non è controllato all’estero. La malattia è contenuta in Nuova Zelanda e ci sono sporadici casi importati, ma potrebbe verificarsi una trasmissione familiare isolata». Esso prevede misure simili a quella adottate da noi a partire dal 21 febbraio 2020 fino all’inizio del semi-lockdown di marzo e poi di nuovo nell’estate 2020, ma anche controlli rigorosi alle frontiere e soprattutto il «tracciamento rapido dei contatti di qualsiasi caso positivo», misure previste anche per tutti i livelli successivi.

Livello di allerta 2: «La malattia è contenuta, ma rimane il rischio di trasmissione comunitaria. Potrebbe verificarsi trasmissione domestica e focolai di cluster singoli o isolati». Le misure previste sono simili a quelle del regime di “semi-lockdown non dichiarato” applicato in Italia a partire dal 3 novembre 2020 con il sistema dei “tre colori”.

Livello di allerta 3: «C’è un alto rischio che la malattia non sia contenuta. Potrebbe essere in corso una trasmissione comunitaria. Possono emergere nuovi cluster, ma possono essere controllati tramite test e tracciamento dei contatti». Le misure previste corrispondono all’incirca a quelle messe in atto da noi nel semi-lockdown dichiarato di marzo 2020.

Livello di allerta 4: «È probabile che la malattia non sia contenuta. Si sta verificando una trasmissione di comunità sostenuta e intensa e ci sono epidemie diffuse e nuovi cluster». Le misure previste sono quelle del lockdown vero e proprio, che da noi non è mai stato applicato, in cui si chiudono tutte le attività non vitali per la sopravvivenza e chi non lavora in una di esse può uscire di casa solo per fare la spesa.

Come chiunque può verificare da sé al link indicato, «l’Italia ha sempre adottato misure di contenimento che secondo il protocollo neozelandese erano inferiori di almeno un livello (e talvolta anche di due) rispetto a quello in cui il nostro paese si trovava […]. E tenete presente che a noi è sempre mancato il tracciamento dei contagi e spesso anche il controllo rigoroso delle frontiere, che invece in Nuova Zelanda sono previsti a tutti i livelli» (Paolo Musso, Un anno con il virus, Parte 2, in Nuova Secondaria, anno 38, n. 10, pp. 20-26).

In sole tre settimane la signora Ardern aveva capito due cose fondamentali, che né i nostri politici né i nostri esperti hanno ancora capito dopo quasi due anni. La prima è che la risposta a un’epidemia è tanto più efficace quanto più è “hard and early”, cioè “dura e precoce”, per dirla con il motto dei mitici All Blacks, simbolo della Nuova Zelanda. La seconda è che i dati sono importantissimi, ma non basta raccoglierli: bisogna anche saperli interpretare, per individuare quelli davvero importanti.

E così, mentre da noi il governo Conte ancora nell’autunno del 2020 si vantava dei 21 parametri su cui si basava la sua “strategia dei tre colori”, che aveva trasformato l’Italia in un “semaforo” impazzito che faceva continuamente cambiare le regole senza riuscire a contenere efficacemente il virus, sei mesi prima la giovane premier neozelandese aveva già capito che bisognava concentrarsi su uno solo: due settimane, ovvero il tempo massimo di incubazione del virus, il che significava che se si riusciva a impedire tutti o quasi tutti i contatti interpersonali per un periodo di poco superiore – diciamo tre settimane – il contagio sarebbe inevitabilmente andato a esaurimento. E così è stato.

Il livello di allerta venne progressivamente elevato fino a raggiungere il livello 4 – quello del “vero” lockdown – il 25 marzo. Il 28 marzo si ebbe il picco dell’epidemia, con 146 nuovi contagi e il primo morto (per ovvie ragioni, l’andamento delle morti è sempre spostato un paio di settimane in avanti rispetto a quello dei contagi). Il 14 aprile ci fu il picco dei morti (“picco” per modo di dire, dato che furono appena 4, cioè nemmeno 1 ogni milione di abitanti). Il 20 aprile era già tutto finito: i nuovi casi erano scesi a 9, i pazienti in fin di vita non erano più di una decina e la Ardern poté annunciare ufficialmente la vittoria sul virus, anche se per prudenza mantenne il lockdown ancora per una settimana, per un totale di un mese: il limite massimo che, secondo i suoi esperti, il paese poteva tollerare.

Il 27 aprile (giorno in cui, per un caso suggestivo, non si verificò nessun nuovo contagio) si scese al livello 3 e due settimane dopo, l’11 maggio, fu annunciato il progressivo passaggio al livello 2, che si concluse il 25 maggio, quando riaprirono anche i bar e gli altri locali pubblici e morì l’ultimo malato. L’ultimo contagio era invece stato rilevato il 22 maggio 2020. Da allora e per 15 mesi consecutivi la Nuova Zelanda è stata un paese Covid-free: un record assoluto a livello mondiale (a parte alcuni minuscoli Stati-isola dove il Covid non è mai arrivato per il loro estremo isolamento, ma che proprio per questo non possono costituire un termine di paragone per i paesi normali).

L’8 giugno, con un bilancio di appena 22 morti su 5 milioni di abitanti, il paese passò al livello 1, che permette una vita sostanzialmente normale, senza mascherine e senza distanziamenti, e da allora ci è rimasto quasi costantemente. Ci sono state due sole eccezioni, entrambe ad Auckland ed entrambe casi di allerta 3, anche se da noi sono stati chiamati impropriamente “lockdown” (perché, come già detto, le misure preventive corrispondono a quelle del “nostro” lockdown, che in realtà non è tale). La prima è stata imposta dall’11 al 30 agosto, per spegnere un focolaio che ha causato circa 200 contagi e 3 morti, la seconda invece, molto più breve, dal 14 al 17 febbraio 2021, durante la Coppa America di vela (cfr. Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo, https://www.fondazionehume.it/politica/il-virus-dellautoritarismo/), per stroncare sul nascere un mini-focolaio di soli 3 casi, che però causò anche un morto.

Questo è stato l’ultimo morto e anche l’ultimo caso di contagio “comunitario”, cioè avvenuto su territorio neozelandese (anche se innescato da qualcuno proveniente dall’estero, visto che nel paese il virus non era più presente) fino all’arrivo della variante Delta. Tutti quelli successivi (comunque molto pochi), compresi i due morti del settembre 2020, erano infatti casi “di importazione”, cioè persone provenienti dall’estero trovate positive all’aeroporto e messe in quarantena. Anche calcolando queste decessi “spuri”, comunque, al 17 agosto 2021 in tutta la Nuova Zelanda se n’erano registrati solo 26, con un tasso di appena 5,2 morti per milione di abitanti in 18 mesi, il migliore al mondo (sempre escludendo i soliti micro-Stati). In proporzione, noi avremmo dovuto avere poco più di 300 morti: invece ne avevamo 131.000.

Si capisce quindi perché, di fronte ad un successo del genere, si sia deciso di procedere con questa durezza anche per un solo caso di contagio comunitario. Il fatto che stavolta si sia arrivati addirittura al livello 4 è dovuto al fatto che si trattava della variante Delta, altrettanto letale, ma molto più contagiosa del ceppo originario. Inoltre, la copertura vaccinale era ancora piuttosto carente: appena il 18,7%. In effetti, l’unico errore fin qui commesso dal governo neozelandese è stato proprio il ritardato inizio della campagna vaccinale, decollata solo in giugno, come del resto anche negli altri paesi del Pacifico (con la sola eccezione di Singapore).

Purtroppo, quasi subito si sono scoperti altri dieci casi direttamente connessi al “paziente zero”, anch’essi poi risultati positivi alla variante delta, mentre altri hanno iniziato a comparire nel Nuovo Galles del Sud. Il 23 agosto si è perciò deciso di sospendere anche le sedute in presenza del Parlamento, garantendo solo le riunioni delle commissioni.

Nel valutare queste notizie, che a prima vista possono apparire preoccupanti (e in genere così vengono presentate dai mass media occidentali), non bisogna però mai dimenticare che ciò non accade perché la situazione è drammatica, ma perché la strategia della Nuova Zelanda è quella di impedire che lo diventi, prendendo misure drastiche fin dall’inizio e ammorbidendole progressivamente man mano che la situazione migliora. Come ha chiaramente dimostrato Luca Ricolfi (La notte delle ninfee, La Nave di Teseo, Milano 2021, pp. 110-125), si tratta di una logica diametralmente opposta rispetto a quella seguita in Italia e, più in generale, in Occidente. Che sia anche migliore (e di molto) lo dicono i numeri.

E infatti, anche se un po’ più lentamente della prima volta, il “martello” di Jacinda ha funzionato di nuovo. Attraverso l’analisi genomica dei virus è stato possibile ricondurre tutti i casi scoperti a specifici cluster, la maggior parte dei quali ubicata ad Auckland e nella contea di Manukau. Già due settimane dopo, Auckland a parte, la situazione era già sostanzialmente sotto controllo, tanto che il 1° settembre il resto del paese veniva riportato al livello 3 e il 7 settembre al livello 2 (anche se un po’ “rafforzato”), il che significava una vita “quasi” normale. E così si è andati avanti fino al 3 dicembre, quando è stato introdotto un nuovo sistema di gestione dell’epidemia (vedi oltre), anche se di quando in quando alcune specifiche aree, soprattutto al nord, sono state riportate per brevi periodi ai livelli 2 o 3.

Il 21 settembre anche Auckland è stata riportata al livello 3, anche se l’epidemia è andata avanti ancora per due mesi e mezzo. Il 17 novembre sono state riaperte anche le scuole di Auckland, benché proprio il giorno prima si fosse raggiunto il picco con 222 nuovi casi (nuovo record assoluto, ma comunque sempre bassissimo rispetto agli standard europei). Subito dopo, però, i contagi hanno cominciato a calare, prima lentamente, poi, a partire dall’inizio di dicembre, in maniera sempre più rapida.

In ciò ha sicuramente pesato anche la grande accelerazione impressa alla campagna vaccinale, che al 16 novembre era già arrivata al 63,7% (con un incremento del 15% al mese per 3 mesi consecutivi) e al 1° dicembre al 70,1% (oggi è al 75,3%, mentre noi, pur avendo iniziato 6 mesi prima, siamo al 74,1%). Per questo, come accennato sopra, il 16 novembre è stato annunciato che dal 3 dicembre sarebbe entrato in vigore un nuovo protocollo chiamato COVID-19 Protection Framework o, più informalmente Traffic Light System, che superficialmente può ricordare il sistema da tempo in vigore in Italia. I criteri su cui si basa sono però molto diversi (per i dettagli si veda il sito ufficiale: https://covid19.govt.nz/traffic-lights/covid-19-protection-framework/), anche se per ora non ha molto senso discuterne, dato che è presto per valutarne i risultati.

In ogni caso, ciò non significa, come molti hanno detto, che la Nuova Zelanda abbia rinunciato alla strategia eliminativa del virus, ma solo che, in considerazione del mutato contesto, ha deciso di perseguirla con metodi in parte diversi. Sono inequivocabili, al riguardo, le parole pronunciate dalla signora Ardern il 20 settembre, annunciando la fine dell’allerta 4 ad Auckland: «Non stiamo uscendo dal livello 4 perché il lavoro è finito, ma nemmeno ci muoviamo perché non pensiamo di poter raggiungere l’obiettivo di eliminare il Covid-19 – ci stiamo muovendo perché il livello 3 fornisce ancora un approccio sufficientemente cauto mentre continuiamo a eliminare il Covid-19» («We are not stepping out of level 4 because the job is done, but nor are we moving because we don’t think we can achieve the goal of stamping out Covid-19 – we are moving because level 3 still provides a cautious approach while we continue to stamp out Covid-19», The Guardian del 20 settembre 2021, https://www.theguardian.com/world/2021/sep/20/new-zealand-covid-update-new-cases-outside-auckland-could-delay-lockdown-easing).

Ma, più ancora di lei, parlano i fatti. Al 31 dicembre 2021, infatti, la temutissima variante Delta ha causato appena 24 morti in tutta la Nuova Zelanda, il che significa sì aver quasi raddoppiato il tasso di mortalità, ma solo perché si partiva da livelli incredibilmente bassi: in valore assoluto parliamo di 50 morti su una popolazione di oltre 5 milioni di persone, ovvero 10 morti per milione di abitanti. Tanto per dare un termine di paragone, oggi l’Italia ne ha 2.278, l’Europa nel suo insieme 2.038, il Sudamerica 2.744 e gli USA 2.536.

Quanto ai contagi, al 31 dicembre 2021 nel paese risultano ancora 1.197 casi di positività, quasi 200 dei quali, però, si trovano nelle strutture di quarantena per i viaggiatori in arrivo. I casi comunitari, quindi, sono ormai meno di un migliaio e continuano a scendere: oggi sono stati appena 61 in tutto il paese, cioè poco più di 12 per milione di abitanti. In proporzione, noi avremmo dovuto averne 144, mentre sono stati 144mila. Infine, a oggi in Nuova Zelanda non si è ancora registrato neanche un caso di variante Omicron (che peraltro, benché la cosa non sia ancora del tutto certa, sembra meno letale delle precedenti, anche se più contagiosa).

Il vero motivo del cambio di strategia della Nuova Zelanda non sta quindi in una presunta inefficacia del “metodo Jacinda” di fronte alle nuove varianti, ma è sostanzialmente analogo a quello dell’Australia (cfr. Silvia Milone, Australia: il “salto triplo” dei canguri, https://www.fondazionehume.it/societa/australia-il-salto-triplo-dei-canguri/): la necessità di trovare un modus vivendi accettabile con il resto del mondo, che invece il virus non l’ha ancora eliminato.

Infatti, anche se a prima vista ciò che colpisce di più della strategia neozelandese è il lockdown “duro e puro”, in realtà non è questo che causa i danni maggiori, dato che la sua durata è inversamente proporzionale alla sua durezza. Il vero problema sono i controlli alle frontiere, che hanno sì conosciuto qualche oscillazione a seconda del momento, ma devono comunque essere sempre molto rigorosi, onde evitare che il virus cacciato dalla porta rientri dalla finestra, il che finisce inevitabilmente col causare gravi problemi sia alle persone che agli scambi commerciali.

Per adesso le frontiere restano chiuse, ma la premier e i suoi tecnici hanno illustrato una road map che avrà il compito di riportare alla graduale riapertura. Dal 2022 sarà infatti avviato un sistema basato su tre diversi livelli di rischio. Ai viaggiatori vaccinati e provenienti dai paesi considerati a basso rischio sarà consentito l’ingresso sul territorio neozelandese senza sottoporsi a quarantena: quelli provenienti dai paesi a medio rischio dovranno sottoporsi a un periodo di isolamento volontario; infine, quelli provenienti dai paesi ad alto rischio e tutti i non vaccinati, da qualsiasi paese provengano, dovranno sostare per quattordici giorni in isolamento in alcune strutture a ciò preposte.

Comunque, anche se alcune cose cambieranno, vi sono buone probabilità che i kiwi continuino ancora a lungo ad essere i “primi della classe” nella gestione del Covid. Infatti, il segreto del metodo neozelandese non sta solo nel lockdown. Anzitutto, come già detto, c’è la consapevolezza (che vale in generale) che qualunque cosa si voglia fare, occorre farla “hard and early”, cioè con la massima decisione e rapidità. Poi c’è una catena di comando cortissima, in cui gli unici autorizzati a parlare sono la premier e il direttore esecutivo del Ministero della Salute, il dottor Ashley Bloomfield: l’esatto contrario, ancora una volta, della caotica babele di casa nostra, in cui anche le persone più ragionevoli rischiano di perdere la testa.

Ma, soprattutto, il vero segreto sta nel diverso rapporto tra cittadini e istituzioni, che in parte è frutto della tradizione, ma in parte forse perfino maggiore è merito personale della signora Ardern. Anzitutto, infatti, la premier ha sempre usato un linguaggio basato sulla ragione anziché sulla paura. Inoltre, ci ha sempre “messo la faccia”, prendendosi la responsabilità di qualsiasi cosa, anche minima, che andasse storta, senza mai cercare di darne la colpa ai cittadini. Infine, non ha mai cercato di attribuirsi in esclusiva il merito degli straordinari risultati ottenuti, ma l’ha sempre condiviso con tutti, non solo a parole, ma anche nei fatti, come si è visto quando, dopo avere stravinto le elezioni con la maggioranza assoluta dei seggi, pur potendo governare da sola si è messa subito al lavoro per creare una maggioranza più ampia possibile.

In fondo è semplice: se le istituzioni rispettano i cittadini e dimostrano di fare del loro meglio per risolvere i loro problemi, anche i cittadini rispetteranno le istituzioni e faranno del loro meglio per sostenere i loro sforzi. Ed è per questo che la signora Ardern ha potuto applicare con successo in un paese democratico misure che si credeva fossero possibili solo schierando l’esercito per le strade, come in Cina.

Che differenza, anzi, che abisso rispetto ai leader nostrani, sempre pronti ad attribuirsi successi puramente immaginari e ad incolpare gli altri dei disastri reali da loro stessi combinati! Ma, se è stato possibile da loro, perché non dovrebbe esserlo anche da noi?

In fondo, basterebbe che qualcuno ci credesse e cominciasse a comportarsi come la signora Jacinda: nonostante le apparenze, la gente non aspetta altro.

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https://www.govt.nz

https://covid19.govt.nz

https://www.nzherald.co.nz

https://www.stuff.co.nz

https://www.cnbc.com

https://ourauckland.aucklandcouncil.govt.nz

https://www.theguardian.com/world/newzealand

www.ansa.it

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