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Il successo del “sistema misto” di Singapore

23 Giugno 2021 - di Silvia Milone

In primo pianoSocietà

Continua la nostra riflessione sui paesi orientali che meglio hanno affrontato la pandemia. Fino ad ora abbiamo visto come Corea del Sud e Taiwan hanno dimostrato come un protocollo efficiente possa contenere, o quantomeno limitare, i danni derivanti dal Coronavirus. Tuttavia, non bisogna dimenticarsi di Singapore, una città-Stato di quasi 6 milioni di abitanti in cui la cultura cinese, indiana e occidentale convivono in armonia e dove finora si è avuto un numero di contagiati di poco superiore a 62.000 e un numero di morti ancor più esiguo: appena 34, il che equivale a un tasso di 6 morti per milione di abitanti, uno dei più bassi al mondo.

Inoltre, va considerato che la maggior parte dei contagi e dei decessi si è verificata all’inizio dell’epidemia, giacché da diversi mesi Singapore ha arrestato l’avanzata del virus: da metà settembre in poi i nuovi casi giornalieri si sono mantenuti stabilmente quasi sempre sotto la decina per cui dobbiamo chiederci come sia potuto accadere.

Anzitutto, dobbiamo notare che il fattore tempo è stato fondamentale nella scelta delle strategie da adottare per la gestione dell’epidemia. Nella cosiddetta “Svizzera d’oriente” si è deciso di rispondere anticipatamente e con aggressività al problema, forse memori delle recenti epidemie e forti dell’esperienza maturata dal National Centre for Infectious Diseases. Così come è accaduto a Taiwan, infatti, anche il governo di Singapore ha disposto dei controlli pressoché immediati per chiunque arrivasse dalla Cina e in particolare da Wuhan, benché queste restrizioni siano costate molto in termini di introiti economici, in quanto la Cina continentale è per Singapore il principale partner commerciale e una grande fonte di turismo.

Già a inizio gennaio 2020 il ministro della salute aveva predisposto il controllo della temperatura per tutti i viaggiatori in entrata, per poi, di lì a poco, annullare completamente i voli con la Cina, quando il resto del mondo stava ancora cercando di capire cosa stesse accadendo. Inoltre, era stato attivato un articolato sistema di tracciamento e l’obbligo di quarantena per due settimane per tutte le persone che erano state a contatto con i contagiati e per chiunque provenisse da un paese estero con dei casi di coronavirus.

All’inizio il sistema ha funzionato, ma verso metà marzo c’è stata un’improvvisa impennata dei contagi, principalmente nei dormitori riservati ai lavoratori stranieri, molto affollati, in cui le misure di sicurezza non venivano rispettate. Così il 7 aprile 2020, il governo ha deciso di istituire un lockdown generalizzato di 8 settimane, oltre alla quarantena obbligatoria per oltre 20.000 migranti che risiedevano nei dormitori divenuti i principali focolai di trasmissione del virus.

Va notata la tempestività con cui il governo di Singapore ha reagito, dimostrando di avere perfettamente capito, diversamente dai governi occidentali, quella che Ricolfi chiama «l’aritmetica dell’epidemia» (La notte delle ninfee, Milano 2021, p. 17). Queste misure, infatti, sono state adottate quando in tutto il paese c’erano stati appena 5 morti e i contagi giornalieri erano un centinaio (per avere un termine di paragone, in Italia il semi-lockdown è stato dichiarato quando c’erano già stati oltre 7000 morti e si viaggiava sui 1500 contagi al giorno). Tuttavia, il dato allarmante non era il valore assoluto, ma il fatto che a metà marzo in pochi giorni si era passati da pochi casi sporadici a oltre una ventina al giorno e quindi, verso fine mese, da 20 a 100 nel giro di una settimana, il che significava che la crescita stava diventando esponenziale.

Nei giorni seguenti, infatti, i casi rilevati hanno continuato a crescere, fino ai 1426 del 20 aprile, ma poi, dopo solo due settimane, la tendenza si è invertita. A partire dal 2 giugno 2020, con il calo del numero dei contagi, si è giunti alla riapertura dei negozi e dei locali, mantenendo però severe norme di distanziamento sociale e l’obbligo di indossare la mascherina.

Inoltre, Singapore ha provveduto a creare un efficiente tracciamento dei contatti che si fonda su un sistema misto e decentralizzato, differente da quello offerto da Apple-Google con il modello Api, utilizzato invece in Corea del Sud. Durante la passata epidemia di Sars il governo di Singapore era stato infatti criticato aspramente per aver adottato misure fortemente lesive della privacy, come, ad esempio, l’obbligo delle persone poste in quarantena di misurare la temperatura due volte al giorno e di essere costantemente connesse ad una webcam. Per questo stavolta il governo ha scelto di seguire una strategia differente.

A testimonianza dell’efficienza delle misure di contenimento attuate dal governo possiamo considerare il modello utilizzato nei campus universitari. Per evitare che il contagio si diffondesse gli studenti sono stati confinati in diverse aree, gli è stato vietato di affollare i luoghi di aggregazione e sono stati obbligati a scaricare un’applicazione di tracciamento che attestasse la loro negatività. Dallo scorso dicembre, inoltre, agli alunni di età superiore ai sette anni è stato chiesto di indossare un dispositivo; un token grande come una moneta chiamato TraceTogether. Questa decisione è stata presa in quanto i bambini non sempre hanno uno smartphone di loro proprietà e i token, oltre ad essere gratuiti (il costo è a carico del governo), si possono indossare come una collana. Questo progetto si inserisce in una visione ben più ampia che ha permesso, utilizzando metodi analoghi, il riavvio di fiere e conferenze pubbliche grazie a una maggiore tracciabilità.

Le autorità tengono a precisare che il token non è obbligatorio, benché sia fortemente consigliato, e che per via dell’assenza di un chip di geolocalizzazione l’App TraceTogether non è da considerarsi come un dispositivo di tracciamento munito di tag elettronico e volto a individuare la posizione e gli spostamenti dei cittadini. Si tratta invece di uno strumento utile a seguire a ritroso le tracce del contagio, in cui però l’uploading dei dati è consentito solo con il consenso e la partecipazione dell’interessato. Le informazioni raccolte vengono archiviate sui dispositivi per 25 giorni e poi cancellate e vengono condivise con il ministero della salute solo in caso di positività al Coronavirus, allo scopo di consentire agli operatori di ricostruire la catena dei contagi. Chi viene contattato dal ministero in quanto potenzialmente contagiato è obbligato a collaborare e a fornire qualsiasi informazione possa essere utile. Questa formula sta riscuotendo i favori della critica perché, a differenza delle App coreane, questi dispositivi comportano meno rischi per la privacy e ottengono ugualmente ottimi risultati.

Il rovescio della medaglia è che la minore invasività del sistema di tracciamento implica la necessità di fare un maggior numero di tamponi rispetto alla Corea, ma comunque non in quantità eccessive. Attualmente, infatti, Singapore è 17° al mondo per numero di tamponi in rapporto alla popolazione col 217%, il che significa che in media ogni abitante è stato testato un po’ più di due volte. È circa il doppio dell’Italia (38a con il 114%) e degli altri principali paesi occidentali (che viaggino più o meno sulla stessa media dell’Italia), ma sempre molto meno del 1095% della Danimarca, che guida la classifica, avendo controllato i propri abitanti oltre 10 volte a testa, ottenendo però un risultato (435 morti per milione) certamente migliore di gran parte degli altri paesi occidentali, ma comunque lontanissimo da quello di Singapore. Ciò dimostra che fare molti tamponi certo aiuta, ma ancora più importante è farli bene.

Inoltre, ultimamente il ministero della salute ha avviato una sperimentazione chiamata BreFence Go Covid-19 Breath Test System. Si tratta di un test rapido non invasivo, alternativo ai tamponi e all’analisi sierologica: bastano solo sessanta secondi di attesa dopo aver fatto un bel respiro. Il sistema è stato messo a punto dalla Breathonix, una startup dell’Università Nazionale di Singapore, e può ricordare gli alcool test a cui sono sottoposti i guidatori in stato di ebbrezza, ma in realtà questo tipo di tecnologia deriva da quella in uso per la rilevazione di markers tumorali.

Il paziente deve soffiare in una valvola monouso e uno spettrometro rileva la composizione molecolare del suo respiro per scovare indizi di malattie in corso, tra cui indizi riconducibili al Covid. Un software di machine learning confronta il risultato ottenuto con il profilo del respiro ipotetico in caso di malattia. La procedura richiede un minuto e i risultati vengono mostrati in tempo reale. Il test è poco invasivo e può essere fatto anche da personale non medico. I tre trial clinici finora condotti su 180 pazienti hanno dimostrato che il sistema ha una sensibilità ai marker del Covid del 93% e una specificità del 95%: il margine di falsi negativi e falsi positivi è quindi molto basso. Il ministro della salute di Singapore sta collaborando con la Breathonix al fine di avviare una sperimentazione sul campo. I test rapidi verranno usati sulle persone che entrano in città dalla Malesia: la sperimentazione è necessaria in quanto nella vicina Malesia sono state individuate delle nuove varianti di Coronavirus trasmesse all’uomo dai cani. Comunque, anche per il futuro si avrà certamente bisogno di nuove tecnologie e di test rapidi non invasivi, economicamente sostenibili e applicabili su larga scala.

Il successo della strategia attuata dal governo di Singapore si può imputare a vari fattori. Anzitutto, come Taiwan, il riconoscimento della pericolosità del Covid-19 già in una fase embrionale. Inoltre, anche a Singapore, come a Taiwan e in Corea, si erano dovuti scontrare con le epidemie di Aviaria e di Sars, pertanto erano preparati e avevano i mezzi per intervenire, sia sul controllo dei casi di importazione, sia per il tracciamento e la quarantena degli infetti mediante l’utilizzo di tamponi gratuiti per tutta la popolazione. A ciò si aggiungono poi le severe sanzioni per chiunque disobbedisca alle disposizioni governative, tra cui la revoca del visto e l’espulsione per chi non è cittadino singaporiano.

Inoltre, di certo aiuta il fatto che Singapore presenti un territorio circoscritto che rende più semplice il controllo dei movimenti in entrata e in uscita dal paese e inoltre abbia una gestione singola e centralizzata che evita dissidi tra governi e autonomie come avviene invece in Europa o negli Stati Uniti. Ma anche l’aspetto culturale conta molto: Singapore nutre da sempre grande fiducia nella scienza, che è presente in ogni decisione politica e i medici posso ordinare tamponi per i pazienti sospetti basandosi esclusivamente sulle proprie valutazioni.

Infine, il governo di Singapore ha avviato una grande campagna comunicativa. È stato lanciato persino un video rap per invogliare i cittadini a vaccinarsi contro il Covid. I protagonisti del filmato sono alcuni interpreti di una sitcom molto famosa negli anni Novanta: Phua Chu Kang Pte Ltd. Il comico Gurmit Singh per l’occasione veste i panni di Phua Chu Kang, un eccentrico appaltatore che canta: “Insieme possiamo vincere. È ora di vaccinarci tutti insieme”. Con questo video il governo di Singapore vuole dissipare i dubbi e le preoccupazioni degli anziani e di tutti coloro che hanno dei problemi di salute in merito ai possibili rischi dei vaccini.

Singapore sta circoscrivendo molto bene i focolai di Covid-19, mentre i paesi occidentali sono sfiniti dalla quarantena e arrancano provando ad uscire dall’emergenza, mentre dovrebbero approfondire lo studio dei modelli asiatici di gestione della pandemia. A differenza dei suoi vicini, tuttavia, Singapore non ha puntato su un solo metodo, bensì su un “sistema misto”, che, molto pragmaticamente, cerca di prendere il meglio da ciascuna strategia, con un approccio caratterizzato da brevi lockdown alternati a momenti di maggiore libertà, insieme a una capillare azione per identificare e isolare i contagi. Una strategia che secondo molti esperti (si veda per esempio l’articolo di potrebbe essere la più funzionale per rendere sopportabile la convivenza con il Coronavirus.

 

Sitografia

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Silvia Milone
Silvia Milone
Tradate (VA), 26/07/1981. Giornalista del quotidiano La Prealpina, dottoranda di ricerca - dipartimento diritto e scienze umane presso l’Università degli Studi dell’Insubria, Vice Presidente dell’associazione Alumni Insubria e consulente aziendale in ambito comunicazione e marketing.
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