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La guerra, la pace, i valori. La lezione ignorata di Isaiah Berlin

12 Luglio 2022 - di Dino Cofrancesco

Speciale

I. La guerra in Ucraina non segna soltanto una svolta nei rapporti internazionali tra le potenze che tengono nelle loro mani i destini del mondo ma comporta una profonda rinnovata riflessione sulle grandi questioni che da secoli travagliano l’umanità, soprattutto occidentale. A leggere i giornali e a seguire i talkshow televisivi (che non sempre meritano il disprezzo di cui sono oggetto), si ha l’impressione di un enorme rimescolamento delle carte: amici, conoscenti, colleghi, intellettuali, giornalisti, politici che da tempo immemorabile si riconoscono nei valori della destra o della sinistra si ritrovano dalla stessa parte dei loro antichi avversari. Le appartenenze ideologiche diventano magmatiche e ogni giorno nascono raggruppamenti trasversali inediti. Vecchi atlantisti ritengono che la Casa Bianca e Joe Biden abbiano scatenato una guerra per procura contro la Federazione Russa al fine di ridurla a ‘potenza regionale’ non più in grado di nuocere; mentre un esponente della sinistra più radicale, come Pancho Pardi, sul ‘Manifesto’ dell’8 giugno u.s., critica aspramente Emmanuel Macron (e un po’ anche Enrico Letta), in un articolo che già nel titolo è un atto di accusa, Per non umiliare Putin, si consiglia all’Ucraina la resa. Come scriveva E.M. Cioran nel suo breviario spirituale, L’inconveniente di essere nati (1973), “nei confronti di un qualunque atto della vita, lo spirito fa la parte del guastafeste”. Nel fervore dello scontro tra atlantisti nuovi e stagionati e quanti vengono accusati di comprendere le buone ragioni di Putin, avanzare dubbi e perplessità sulla guerra russo-ucraina diventa un peccato contro lo spirito. Un noto politico democristiano, intervenendo a ‘Stasera Italia’, ha sostenuto che non si può consentire a chi nega la verità di esporre le sue tesi (chiaro riferimento al Prof. Alessandro Orsini). Giustamente Augusto Minzolini sul ‘Giornale’ del 7 giugno u.s. – L’arma del silenzio – ha ribattuto ai censori, paladini del Vero, del Bello e del Buono: “chi è forte dei propri argomenti non dovrebbe temere quelli degli avversari”. Eppure nel mondo capovolto in cui viviamo, sembra che l’arma del ‘silenzio’ cioè il tentativo di stendere una cappa sul dissenso, sia diventata la ’scorciatoia’ preferita pure in Occidente. Si tratta, però di una scorciatoia ‘pericolosa’ perché racchiude in sé un germe autoritario che è incompatibile con ogni democrazia degna di questo nome; ma, nel contempo, seducente perché è molto meno faticosa del confronto. Il sottoscritto, ad esempio ha sempre pensato che si debba stare dalla parte dell’Ucraina, che sia doveroso assicurarle le armi di cui ha bisogno per difendersi, che la precondizione di ogni mediazione debba essere il ‘sì’ di Kiev. Detto questo, la ‘caccia’ ai putiniani e le liste di proscrizione nei confronti di dubbiosi e ‘pseudo pacifisti’ sono atteggiamenti ridicoli, che offrono a Mosca una patina di vittimismo.

Sennonché il problema non è solo quello della tolleranza delle opinioni politiche che non condividiamo ma è, soprattutto, quello della disponibilità ad ammettere che in quelle opinioni potrebbero esserci valori che non sono i nostri ma che, non pertanto, sono meno degni di rispetto e di considerazione. In non pochi interventi di storici e di analisti politici che onorano le patrie lettere è proprio il dubbio scettico – il momento più alto della saggezza dell’Occidente – che è venuto meno. Ben pochi hanno preso sul serio il pluralismo (non taroccato e non retorico) che costituisce la quintessenza del liberalismo di Isaiah Berlin. Rispondendo a Guy Sorman, – v. I veri pensatori del nostro tempo, Ventotto incontri con i protagonisti del pensiero contemporaneo (Ed. Tea, Milano 1989 p. 287) – il filosofo politico oxoniense, andando ben oltre il mero principio del rispetto che si deve agli altri e riprendendo un tema milliano (abbiamo bisogno di chi non la pensa come noi giacché è la dialettica delle opinioni che porta alla verità) rilevava ironicamente che: “essere liberale non significa soltanto accettare le opinioni divergenti, ma ammettere che forse hanno ragione gli avversari”. I nostri liberali italiani, sembra, “non appreser ben quell’arte”: col tempo, senza rendersene conto, dopo aver abbandonato la chiestacomunista, ricadono nei peccati di gioventù – il bisogno di certezze assolute, l’incapacità di mettersi nei panni degli altri, di rimanere fedeli al dovere della professione intellettuale che è quello di trasformare un fatto in un problema. Un maestro del ‘sospetto’ come il ricordato Cioran, diceva che “nei confronti di un qualunque atto della vita, lo spirito fa la parte del guastafeste” e che “penser, c’est saper, se saper” ed è per questo che si preferisce l’azione al pensiero, giacché “agire comporta meno rischi, perché l’azione riempie il divario tra le cose e noi, mentre il pensare lo allarga pericolosamente”.

Confesso di essere sconcertato dalla ‘trahison des clercs’ che constato ogni giorno. Amici e colleghi che considero degni di stima e che, talora, mi hanno dato insegnamenti preziosi di tipo storico e metodologico, intervenendo sul conflitto in Ucraina, non si limitano a esternare, a buon diritto, le loro opinioni su una tragedia epocale ma si rifiutano di prendere in considerazione quanti la pensano diversamente da loro, squalificandoli moralmente e intellettualmente. Ancora una volta, ci troviamo dinanzi al rifiuto di accettare il fatto che “il mondo è pieno di dei” e alla pretesa che solo i nostri sono veri dei mentre gli altri sono demoni.

Uno studioso che stimo molto, Giovanni Belardelli, – uno dei più importanti studiosi di Giuseppe Mazzini e della cultura fascista – anche se non usa il termine, non ha esitato, in sostanza, a riguardare come ‘panciafichisti’ – cioè quanti serbano la pancia per i fichi, ovvero evitano vilmente il pericolo, tenendo alla propria pelle: la parola fu coniata polemicamente nel 1914 per indicare coloro che allo scoppio della prima guerra mondiale erano contrarî all’intervento italiano nel conflitto – i (presunti) putiniani d’Italia. Nell’articolo Gli eroici ucraini hanno reso impossibile la nostra tranquilla vita d’antan. È per questo che, ahinoi, in tanti non li sopportano più (‘Il Foglio’ 21 maggio), ha rilevato: “Ciò che tanti hanno difficoltà ad accettare, fino al punto di prendere le parti del dittatore del Cremlino, è la fine di un’illusione, il dissolversi di una storia che ci raccontavamo da decenni e in cui avevamo finito col credere. L’idea che, nonostante grandi e pic­coli sconvolgimenti mondiali, i cittadini delle democrazie europee avrebbero potuto continuare a vivere per sempre in un continente caratterizzato dalla pace, avrebbero continuato a godersi un benessere pressoché unico – nonostante qualche recente battuta d’arresto – nell’intera storia umana. La resistenza degli ucraini ha insomma distrutto il sogno dì una nuova belle époque che era iniziata nel 1945 ma, a differenza di quella sprofondata a Sarajevo, non avrebbe mai avuto fine. Dietro tanti discorsi sugli aiuti militari e sulle armi difensive o offensive, su Biden e la Nato, sul battaglione Azov e così via, c’è anche (soprattutto?) il fatto che gli ucraini, resistendo hanno reso impossibile la nostra tranquilla vita d’antan. Per questo in molti cominciano a non sopportarli più. Insomma gli ‘eroici ucraini’ hanno fatto irruzione nelle nostre case come elefanti nei negozi di cristallo: stavamo tanto bene sprofondati nelle nostre comode poltrone ed ecco che i guastafeste ci ricordano che le guerre non sono un ricordo del passato ma all’improvviso possono tornare seminando distruzioni e morti come ieri, più di ieri”.

Leggendo le parole di Belardelli si può davvero fare a meno di pensare che i suoi avversari politici non vengano messi “in cattiva luce”, ridotti ad egoisti preoccupati unicamente della loro tranquillità domestica? L’antiamericanismo è una costante della cultura italiana ma l’antiqualunquismo non è da meno, col suo hate speech nei confronti dell’italiano familista amorale, sollecito solo del proprio particulare (l’intramontabile ‘uomo del Guicciardini’ stigmatizzato da Francesco De Sanctis!): come al primo, anche al secondo si nega ogni parentela con i valori e la dimensione etica dell’esistenza. Ma davvero non hanno nulla a che vedere con la morale quanti si preoccupano delle conseguenze economiche e politiche della guerra ucraina? A causa della globalizzazione – che ci ha insegnato a definire sovraniste e autarchiche le preoccupazioni di chi avrebbe voluto che la dipendenza di materie prime cruciali per il nostro apparato produttivo non fosse totale e che pertanto campi di grano, centrali idroelettriche, giacimenti di gas e di petrolio nazionali non cadessero in disuso – l’aggressione criminale di Putin sta mettendo in crisi interi settori economici. Migliaia di imprese, di piccole e medie industrie chiudono i battenti per il rincaro delle bollette energetiche, scene di disperazione di chi non può più ‘andare avanti’ vengono trasmesse tutte le sere dai vari canali televisivi (soprattutto Mediaset) e noi quasi ci dovemmo vergognare se l’uomo della strada si chiede ”ma” è giusto che accada tutto questo solo per non riconoscere alla Federazione russa l’annessione di regioni da sempre contese e in preda alla guerra civile, lacerate come sono dalla difficile convivenza di etnie culturali simili ma sempre più ‘parenti serpenti’?

All’uomo della strada la violazione del diritto internazionale (che oggettivamente è innegabile da parte della prepotente autocrazia russa) è indifferente ma non per questo è condannato al ruolo del vigliacco se non vuol morire per Danzica o per il Donbass.

In fondo, per il qualunquista la patria (quella propria e quella degli altri) non è il valore più alto mentre la guerra è sicuramente il male peggiore che possa abbattersi sugli uomini. Lo testimonia già nel XVI secolo con forti e crudi accenti Angelo Beolco, detto il Ruzante nel Parlamento di Ruzante che torna dalla guerra 1528-9. “Cancaro a i campi, a la guerra e a i soldé, e a i soldé e a la guerra3! A’ sé che te no me ghe archiaperé pì in campo! A’ no sentiré zà pì ste remore de tramburlini, con’ a’ fasea; ni è trombe mo, criar «Arme!» mo… Aretu mo pì paura, mo? che, com a’ sentia criar «Arme!», a’ parea un tordo che aesse abù una sbolzonà. Schiopitti mo, trelarì mo? a’ sé che le no me arvisinerà; sì, le me darà mo, in lo culo! Ferze mo, muzare mo? A’ dromiré pur i mié soni. A’ magneré pur, che me farà pro. Pota, mo squase che qualche bota a’ no avea destro da cagare, che ’l me fesse pro. Oh, Marco, Marco4! A’ son pur chì, a la segura” (“Canchero alla guerra e alla vita militare, e alla guerra e ai soldati, e ai soldati e alla guerra! So che tu non mi ci acchiapperai più a fare il soldato! Non sentirò certo più questi rumori di tamburini, come sentivo; né (vi) sono trombe, ora, a gridare «All’armi!», ora… Avrai tu più paura, ora? che, come sentivo gridare «All’armi!», sembravo un tordo che avesse avuto una frecciata. Schioppi ora, artiglierie ora? so che non mi verranno vicine; sì, mi daranno ora, nel culo! Frecce ora, scappare ora? dormirò infine i miei sonni. Mangerò anche, che mi farà pro. Potta, pure che qualche volta quasi non avevo modo di cacare, che mi facesse pro. Oh, Marco, Marco! Sono infine qui, e al sicuro”).

Ma non è da meno il fondatore dell’Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini, che, nella raccolta dei suoi pensieri, La Folla(1945, pp. 106-107) demolisce l’ideale patriottico e le guerre alle quali esso conduce in termini che sarebbe eufemistico definire eversivi. “La sconfitta, realtà per i Capi, che perdono lo stipendio, è soltanto un’opinione per la Folla. Supponiamo che l’Italia dovesse cedere il Veneto alla Iugoslavia, e che la Iugoslavia fosse tanto sciocca da prenderselo. Cosa accadrebbe per la Folla? Niente. L’autore di libri continuerebbe a vendere i suoi libri nel Veneto, dove i libri iugoslavi non potrebbero essere venduti poiché nessuno saprebbe leggerli. Chi commerciava con Treviso, Udine, Padova, continuerebbe a commerciarvi. Su tutto il territorio ceduto si continuerebbe a fare l’amore, nascerebbero’ dei bimbi che imparerebbero a parlare italiano con accento veneto, e andrebbero poi a studiare, nelle scuole italiane, delle sciocchezze poco diverse da quelle che studierebbero se il provveditore agli studi dipendesse da Roma anziché da Belgrado. La fisica, la matematica – le cose veramente serie, insomma – sarebbero le stesse. […] Unico vero cambiamento: il prefetto di Venezia sarebbe iugoslavo anziché napoletano o piemontese. E cos’importa all’uomo della Folla che un prefetto si chiami Milan Nencic anziché Gennaro Coppola o Alberto Rossi? Deve dare la vita dei suoi figli e la sua per così poco?”.

Nei Taccuini di guerra 1943-1945 (Ed. Adelphi) di Benedetto Croce si legge, alla data 26 ottobre 1945: “È venuto a farmi visita […] la sera, dopo pranzo, il Giannini, direttore dell’«Uomo qua-lunque», che mi ha chiesto che il partito liberale accolga in sé le centinaia di migliaia dei suoi lettori e seguaci. Gli ho risposto che questo è impossibile, perché noi siamo un organismo politico, e il suo partito è una folla. È rimasto un po’ deluso, e dalla conversazione con lui (che è napoletano ) mi è apparso un ingenuo e di fondo sentimentale e doloroso, che sta contro gli uomini di politica e di guerra, e tutta la storia del mondo che costoro hanno governata, perché egli ha perduto l’unico suo figlio, che volle andare in guerra e nell’aviazione ed è morto in un incidente aviatorio: donde la campagna che egli ha intrapresa e il libro che ha scritto e che io ho scorso alcune settimane fa a Napoli”. È difficile non avvertire nelle parole del filosofo tutta l’umana comprensione per un padre dolorosamente colpito nei suoi affetti più cari per colpa delle guerre del duce, ma è altrettanto difficile non cogliere nella pagina di Giannini una protesta morale, certo lontana anni luce dal republicanism della cultura azionista e in genere dal giacobinismo ideale, comune a tutto l’arco antifascista ma non meno iscritta nell’umano. Augusto Del Noce ha scritto, in proposito, pagine memorabili che, meditate a fondo, avrebbero potuto guarire il liberalismo italiano dal suo coté moralistico e dogmatico.

Tornando a Giannini (e al suo antenato Ruzante) è azzardato immaginare come si sarebbe schierato nella guerra in corso? E la sua numerosa progenie che, stando ai sondaggi elettorali, è contraria all’invio di armi a Zelensky va considerata come una massa damnationis che, essendo in maggioranza, andrebbe tenuta, quanto più è possibile, lontana dalle urne. In realtà è in questi frangenti che emerge quell’ineliminabile ‘conflitto di valori’ al quale purtroppo è condannato il mal seme d’Adamo. Valori da una parte, valori dall’altra ma proprio per questo il filosofo, nel senso classico del termine, non può scendere in campo, fingendo di essere rimasto sugli spalti. Si prenda la figura del ‘disertore’ che ha ispirato testi teatrali e film. Il bersagliere Alessandro Anderloni (1881) come ha raccontato il regista omonimo nel film Al disertore (1918), mentre infuriava la battaglia sull’Altopiano di Asiago, abbandonò la trincea per raggiungere la moglie, Maria Zumerle, in fin di vita e la figlia Norma. Fermato dai carabinieri venne fucilato il 7 marzo 1917. Portando la vicenda sulle scene teatrali e sul set il regista ha inteso protestare contro la guerra e certo oggi, commossi, comprendiamo bene l’etica del ‘disertore’ (che tra l’altro sarebbe stato considerato tale anche oggi in Ucraina) ma l’agraphos nomos che lo aveva portato a lasciare la prima linea non era in contrasto col dovere di servire la patria anche col sacrificio della vita? Anderloni aveva le sue ‘ragioni’ ma anche l’esercito impegnato nella ‘grande guerra’ ne aveva e se gli Anderloni e i Ruzanti di oggi sono contrari all’invio di armi a Kiev vanno trattati come “sciaurati che mai non fur vivi?”.

Credo che in una società aperta si debba tener conto di tutte le opinioni, anche di quelle contrarie alla ‘difesa della democrazia’ fuori dai confini patri. Che i loro sostenitori siano ‘putiniani’ o ‘facciano il gioco di Putin’ è qualcosa che certo si può sostenere, astenendosi però dal metter in dubbio la buona fede e/o l’intelligenza del prossimo. Anche i comunisti italiani ‘facevano il gioco di Stalin’ ma non era ciò che si proponevano quando si battevano sulle piazze o nelle aule parlamentari per una giustizia sociale che ponesse termine alle diseguaglianze tra classi e tra regioni della penisola. Analogamente non ‘fanno il gioco di Putin’ quanti chiedono la pace e che il governo italiano si assuma le sue responsabilità. Come ho scritto recentemente nella rubrichetta Vistodagenova che tengo sul ‘Giornale del Piemonte e della Liguria’: “ritengo che, ora come ora, aiutare gli Ucraini – anche con le armi – a sedersi al tavolo del negoziato in veste di non perdenti davanti ai russi non vincenti, sia tutto sommato ragionevole”. Ma il problema non è questo, bensì è quello di mantenere lo sguardo lucido, di non ritenersi i vicari di Cristo in Terra (solo il papa lo è per i credenti) e di guardarci bene dall’ergerci a giudici di chi sulla guerra, le sue cause, il modo di por fine alle ostilità ha idee che non collimano con le nostre.

II. Repetita juvant. Non intendo ‘dire la mia’ sulla guerra russo-ucraina anche perché farsene un’idea è particolarmente difficile giacché, per quanto riguarda l’informazione, ci troviamo dinanzi a un fenomeno unico per un paese, come il nostro, che non essendo in guerra, non sarebbe tenuto a fornire ‘narrazioni’ (ma che brutto termine, quando ce ne potremo liberare?) di parte. Mi riferisco al disaccordo non solo sulle interpretazioni, ma sui fatti stessi. Natoatlantisti e (presunti) filoputiani convergono solo nel riconoscere che a febbraio c’è stata un’aggressione russa all’Ucraina e che l’ira funesta di Putin ‘infiniti addusse lutti agli Achei’ – distruzione di vite umane, di edifici civili, di monumenti storici, di scuole, di chiese etc. Per il resto, non si è d’accordo su niente. Nei giornali e nei talk show si confrontano tesi così opposte che sembrano quasi riferite a vicende e a personaggi omonimi ma diversi. Zelensky è un eroe della resistenza ucraina / Zelensky non è diverso da Putin, è un politicante ricco e dalle frequentazioni ambigue. Gli Ucraini, anche i russofoni, sono spiritualmente uniti, difendono la nazione contro ogni tentativo di dividerla; gli Ucraini sono da tempo impegnati in una guerra civile, giacché le etnie culturali minoritarie non si rassegnano al dominio di Kiev. Gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a difendere l’Ucraina se non quello di non consentire al despota russo di ricostituire l’impero zarista; gli Stati Uniti hanno armato l’Ucraina, spendendo miliardi di dollari, per ridurre la Federazione Russa a potenza regionale. Le sanzioni contro Mosca hanno dei costi per l’Europa e per la stessa America ma sono rovinose per Putin che prima o poi dovrà fare i conti con un’economia al collasso; le sanzioni contro la Russia sono inefficaci, come tutte le sanzioni storiche che conosciamo, ma determineranno, in Europa, una crisi duratura e un ritorno alle politiche autarchiche. L’Ucraina, modello di stato democratico, ha un governo liberamente eletto dal popolo;l’Ucraina ha un regime non meno autoritario di quello russo e l’attuale dirigenza si è affermata solo grazie a un golpe, sul quale i mass media occidentali hanno steso un velo di silenzio. Per la Russia la conquista dell’Ucraina è un primo passo sulla via del ritorno all’Europa pre-1991; in Ucraina la Russia vuol riprendersi solo i territori russofoni di cui Kiev minaccia di cancellare l’identità culturale. Una Nato – forza militare di difesa e di pace – non costituisce alcuna minaccia per la Federazione russa; la Nato, per adoperare l’immagine di Papa Francesco, è un cane che abbia alle porte di Mosca e non meraviglia, pertanto, che preoccupi il suo progressivo allargamento. L’Ucraina difendendo il proprio diritto alla sopravvivenza, difende tutto l’Occidente, e va considerata quindi un avamposto della democrazia e della libertà; la guerra in corso si spiega con ragioni di strategia geopolitica: ideologie, crociate e missioni sono soltanto orpelli retorici, che mascherano i vecchi conflitti di potenza. Putin ha scatenato una guerra dagli esiti imprevedibili temendo il contagio di una Ucraina libera e democratica sul popolo russo asservito a una dittatura non meno spietata di quella sovietica; Putin non teme alcun contagio e gli bastano le scene dell’assalto a Capitol Hill per togliere ai russi ogni illusione sull’Occidente e sull’America. A chi non ha alcuna esitazione nel dichiarare che è stata la ‘paura della libertà’ (Erich Fromm non poteva mancare!) a scatenare il nuovo zar, fa riscontro chi giustifica l’intervento russo con il dovere di bonificare Kiev dai nazisti. Il battaglione Azov ad alcuni ricorda Leonida e le Termopili, ad altri i proscritti dei Freikorps. Se non ‘i ragazzi venuti dal Brasile’. Ci troviamo alle prese con una miriade di fatti e di congetture che forse solo gli storici del domani potranno districare. Quello che colpisce, in ogni caso, sono le tetragone sicurezze con le quali storici, analisti politici, pubblicisti di prestigio sostengono l’una o l’altra tesi: nessuno sembra sfiorato dal dubbio scettico (e metodologico) che sta alla base della nostra civiltà, a nessuno viene in mente la saggezza piemontese, cara a Norberto Bobbio, esageruma nen.

Certo non mancano neppure da noi analisti liberalconservatori (Sergio Romano) o di sinistra (Lucio Caracciolo) che hanno preso sul serio il ‘lavoro intellettuale come professione” e cercano, pertanto, di mostrare, nella tragedia bellica in corso, le due facce della medaglia ma a differenza dei combattenti dell’una e dell’altra barricata non sembrano avere molto seguito (anche se il numero di ‘Limes’ la Russia cambia l’Europa ha richiesto una ristampa). I telespettatori in genere non amano la complessità e i conduttori televisivi, per vivacizzare il dibattito per lo più preferiscono i portatori di tetragone certezze – tipo Antonio Caprarica o Giorgio Bianchi – ai problematici.

Questo passa il convento e io certo non pretendo giudicare le parti contendenti e assidermi arbitro in mezzo a lor, semmai in nome del vecchio banale adagio in medio stat virtus. Quando si scende in campo, bisogna stare lealmente da una parte o dall’altra: la militanza non deve mai spegnere la luce dell’intelligenza ma seppur si deve dire sempre la verità non si è tenuti a dirla tutta.

Quello che uno studioso coscienzioso può fare, invece, nel difficile periodo che stiamo vivendo, è richiamarsi, come ho scritto sopra, alla grande lezione di Isaiah Berlin, mettendo a fuoco i valori che ispirano anche quanti sono più lontani dal nostro universo etico-politico. Mi riferisco ai ‘deterrenti’(quelli che avrebbero preferito la resa immediata di Kiev ai massacri) ai quali nulla mi lega ma che leggo spesso portati ad esempio di pusillanimità e di rinuncia alla difesa della libertà e della dignità del popolo ucraino. “Ma davvero – è il rimprovero loro mosso – volete che gli Ucraini alzino bandiera bianca e si arrendano alle forze soverchianti del nemico?”

Ha scritto Ernesto Galli della Loggia, in un editoriale memorabile sul coraggio dell’Ucraina (“Corriere della Sera” del 1° marzo 2022): “dietro l’esempio di coraggio che oggi stanno dando l’Ucraina e la sua gente è facile indovinare un senso fortissimo di dignità personale e di appartenenza collettiva, si sente risuonare di un suono chiarissimo l’idea per cui la vita può essere sacrificata nonché la convinzione che non deve essere tollerata la prepotenza di chi vuole imporci la sua volontà. […] Il patriottismo non è l’orgoglio e la ricerca della potenza della propria nazione. È innanzitutto l’amore per il proprio paese, per la sua storia e i suoi costumi, e insieme il desiderio di vivervi da liberi, liberi di deciderne le sorti condividendole con gli altri che parlano la nostra stessa lingua ma con i quali siamo capaci d’intenderci senza bisogno di parole bensì con uno sguardo, con un semplice cenno del capo. È dal patriottismo, da questo alto e pur elementare sentimento del vivere e delle virtù civili, da questo legame che tiene insieme le società umane, che nasce il coraggio odierno degli ucraini”. Parole bellissime – a parte il fatto che anche i russofoni della Crimea e del Donbass potrebbero richiamarsi al diritto di vivere con chi parla la loro stessa lingua e con cui ci si può intendere “senza bisogno di parole bensì con uno sguardo” – ma che pongono un problema grande come una montagna e che così si potrebbe sintetizzare: l’idea della comunità politica si esaurisce nello Stato e nel regime politico che di volta in volta lo definisce oppure è qualcosa, un bene prezioso, un retaggio storico che sta oltre lo Stato, il governo, i parlamenti, i partiti politici che ne sono i custodi? E le stesse vite dei cittadini che abitano la comunità politica in un determinato periodo, sono qualcosa di cui lo Stato può disporre ad libitum e a cui può chiedere ogni sacrificio, – tanto, chi per la patria muor vissuto è assai – o vanno messe a rischio ma solo entro ragionevoli limiti? Se un bandito assalta una banca, ne svuota i forzieri e in cambio del cessate il fuoco da parte delle forze dell’ordine accorse sul luogo chiede di poter uscire con qualche ostaggio e di disporre di un auto veloce a garanzia della fuga, lasceremo distruggere la banca e ammazzare tutti i clienti che vi si trovavano occasionalmente per una questione di principio, pur di “non tollerare la prepotenza di chi vuole imporci la sua volontà”? Si fa presto a dire “propter vitam, vivendi perdere causas”: nel mondo umano è tutto questione di misura, di quantità. Se il numero dei morti ammazzati è spaventosamente alto, se delle città invase non rimangono che cumuli di macerie, è da vigliacchi alzare bandiera bianca e consentire agli invasori di occupare, senza spargimento di sangue, Roma, Parigi, Milano, Bruxelles, Firenze per farvi ritornare la vita e la libertà quando le sorti del conflitto avranno ricacciato i ‘barbari’ oltre le frontiere?

I bombardamenti sulle città italiane iniziarono l’11 giugno 1940, circa 24 ore dopo la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, mentre le ultime bombe caddero all’inizio di maggio 1945 sulle truppe tedesche in ritirata verso il Brennero. Nei cinque anni che passarono tra queste due date, quasi ogni città italiana fu bombardata. I centri industriali del nord come Genova, Milano e Torino subirono più di 50 attacchi ciascuno; le città portuali del sud, come Messina e Napoli, più di un centinaio. Milano registrò più di 2000 vittime civili; Napoli, nell’anno peggiore, il 1943, perse quasi 6.100 abitanti sotto le bombe. Città più piccole furono pure pesantemente danneggiate: per esempio, a Foggia le bombe distrussero il 75% degli edifici residenziali, mentre altre località come Rimini subirono ripetuti attacchi per periodi prolungati perché si trovarono per mesi sulla linea del fronte. L’Italia centrale non fu attaccata fino alla primavera del 1943 (e per questa ragione ospitò gli sfollati da altre regioni), per diventare la parte più bombardata del paese nei 15 mesi seguenti mentre il fronte, lentamente, si spostava dal sud al nord Italia”. Il 9 luglio 1943, lo sbarco degli americani in Sicilia segnò la fine del fascismo e di Mussolini, anche se si dovettero aspettare ancora due mesi per tirarsi fuori dal conflitto. Ricordiamo tutti il discorso del Maresciallo Pietro Badoglio dell’8 settembre: “Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane”. Per quanto discutibili fossero state prima le strategie del Re e del Maresciallo, cos’altro c’era da fare? Sottoporre l’Italia che non si arrendeva al trattamento inflitto dagli Anglo-americani alla millenaria abbazia di Montecassino (17 gennaio – 18 maggio 1944)?

Dice un vecchio proverbio napoletano: “quanno si’ncudine statte e quanno si martello vatte” (“Quando sei incudine stattifermo, quando sei martello percuoti”). In un raccontino fantapolitico – Se l’Alto Adige fosse come il Donbass pubblicato il 6 giugno u.s. su ‘La Zuppa di Porro’ – mi sono chiesto: qualora le soverchianti forze militari di una ipotetica Federazione austro-tedesca invadesse l’Alto-Adige per ricongiungerlo al Tirolo, lasceremmo distruggere Trento e Rovereto, Verona e Trieste in nome dei sacri confini della patria? E se lo facessimo la cancellazione della storia scolpita nelle pietre di quelle città, l’incendio dei suoi parchi, l’abbattimento dei suoi monumenti, la distruzione di scuole, stadi, teatri, ospedali, non indurrebbe a chiederci con quale diritto disponiamo di un patrimonio ideale e materiale che ci eravamo impegnati a prendere in custodia? Ancora una volta, in politica è questione di quantità: fino a che punto si possono sacrificare uomini e cose in nome della dignità? Galli della Loggia invita a “chiedersi ad esempio se il nostro discorso pubblico – al di là dell’algida e vuota ritualità di ogni cerimonia ufficiale – mostri di apprezzare realmente i valori che si accompagnano al patriottismo, se i protagonisti della nostra vita politica mostrino qualche coerenza personale rispetto a quei valori. Chiedersi, ad esempio, se questi valori medesimi, viceversa, non siano abitualmente circondati, specie nell’ambito intellettuale e dei media, da un’ironica condiscendenza che li dipinge come qualcosa ormai fuori dal tempo”. Non si può dargli torto per quanto riguarda il tramonto dell’idea di nazione nei nostri giovani e nelle nostre scuole ma non potrebbe essere la stessa idea di nazione a sconsigliare una resistenza a oltranza, distruttiva di vite e di beni che nessuna ricostruzione ci restituirà più? La prima guerra mondiale ci costò seicentomila morti: se i morti fossero stati tre milioni non avremmo accusato le classi dirigenti di aver scatenato un’inutile strage? Non le avremmo messe sotto accusa come pure facemmo in qualche modo a quota seicentomila?

Un comandante che lascia distruggere la nave, ammazzare il suo equipaggio, violentare i suoi passeggeri, rubare il suo carico prezioso, pur di non darla vinta ai pirati che se ne sono impadroniti non ha qualche responsabilità dinanzi al tribunale del genere umano? In base all‘etica politica’ squalificata come ‘pacifista’, nessuno Stato, nessun governo ha il diritto di fare terra bruciata e di chiedere ai cittadini di rinunciare a tutto, alla vita, ai beni, alla famiglia per impedire agli abitanti di Bozen e di Bruneck di ritornare nel seno della patria secolare.

Tornando a Badoglio e all’8 settembre, fu il Mussolini di Salò – quello del Tempo del bastone e della carota – a rammaricarsi della mancata resistenza degli Italiani ai nemici angloamericani fin dai tempi di Pantelleria. Fosse dipeso da lui, le macerie del Colosseo, dell’Altare della Patria, del Quirinale – come quelle di Montecassino utilizzate, dopo l’assurdo bombardamento angloamericano, dai tedeschi – avrebbero dovuto trasformarsi in trincee per fermare l’invasore. Arrendendosi agli Alleati, gli Italiani, invece, rinunciarono a far parte del novero delle potenze che decidono i destini del pianeta ma recuperarono il piacere del ‘vivere liberi’. Certo allora ci siamo arresi a chi esportava la democrazia, mentre oggi gli ucraini, è l’obiezione rivolta ai desistenti, dovrebbero arrendersi a chi, dietro i carri armati, porterebbe loro uno stato poliziesco, una dittatura fuori stagione e asservita al Cremlino. E tuttavia Putin non è Hitler e non è Stalin: occupati dall’Armata rossa (si chiama ancora così), ai vinti sarebbero rimaste la resistenza non violenta (nel solco di Gandhi), la non collaborazione coi vincitori, le sfilate di protesta davanti ai quartieri generali dell’occupante, insomma la ‘disobbedienza civile’, difficile da neutralizzare senza un bagno di sangue alla Tienanmen. Forse quelle di quanti si oppongono ad armare Kiev sono congetture non ragionevoli ma qui si sta parlando dei ‘valori’, non del loro riscontro fattuale.

Con queste considerazioni per così dire ‘filosofiche e storiche non sto dando ragione ai desistenti – o agli ucraini, ce ne saranno pure, renitenti alla leva – ma di richiamare l’attenzione su una lezione della celeberrima Politica come professione (1918) di Max Weber che non dovrebbe mai essere dimenticata: “e quanto alla nobiltà dei fini ultimi, anche gli odiati avversari pretendono di averla dal canto loro, e, soggettivamente, in perfetta buona fede”.

Come si legge nei Quattro saggi sulla libertà (1989) di Isaiah Berlin – a mio avviso, il momento più alto del liberalismo novecentesco – : “Il mondo in cui c’imbattiamo nell’esperienza ordinaria ci pone dí fronte a una scelta tra fini ultimi ed esigenze egualmente assolute; la realizzazione di alcuni dei quali implica inevitabilmente il sacrificio di altro. In realtà, è proprio perché si trovano in questa condizione che gli uomini attribuiscono un valore così immenso alla libertà di scelta; perché se avessero la certezza che in qualche stato perfetto, realizzabile in terra dagli uomini, nessuno dei fini che essi perseguono sarà mai in conflitto con altri, scomparirebbero la necessità e il tormento della scelta e con essa l’importanza centrale della libertà di scegliere. Se, come credo, i fini degli uomini sono molteplici e non tutti sono in linea di principio compatibili l’uno con gli altri, allora non si può mai eliminare del tutto la possibilità del conflitto – e della tragedia – dalla vita umana, sia personale sia sociale”.

È questo lo ‘stile di pensiero’ che non vedo nei giornali, nella saggistica politica, nei salotti televisivi, dove intolleranza ed hate speech regnano sovrani e per caratterizzare quanti sono perplessi sull’aiuto militare a Kiev e, pertanto, vengono arruolati, ipso facto, come putiniani si manda in onda un servizio sulla cellula comunista di… Zagarolo e se ne intervistano gli stalinisti incrollabilmente certi che Putin ha invaso l’Ucraina per scacciarne i nazisti e per completare l’opera della seconda guerra mondiale.

Il più grande storico italiano della seconda metà del Novecento, Rosario Romeo, nella voce ‘Nazione’ per l’Enciclopedia del Novecento (1979) scriveva non senza coraggio e spregiudicatezza intellettuale: “sia da parte delle potenze dell’Asse che da parte delle Nazioni Unite, l’intreccio degli egoismi e delle ambizioni nazionali con motivazioni universalistiche che pretendevano a un’assoluta validità etica induceva a configurare gli avversari non già come esponenti di interessi contrapposti e dotati ciascuno di una propria legittimità, ma come fautori di una causa che si collocava al di fuori della comunità civile, e dunque privi dei diritti che la tradizione dell’Europa illuministica e cristiana riconosceva agli avversari in qualche modo legittimati dalla fedeltà al proprio paese o ai propri ideali. La guerra venne dunque ad assumere carattere, come allora si disse (Croce), di guerra civile o di religione, nella quale amici e avversari si cercavano e riconoscevano nell’identità degli ideali al di là delle frontiere nazionali. […] Da ciò, anche, la tendenza al totale annientamento dell’avversario, addirittura relegato dal nazismo in una sfera biologicamente inferiore, e dagli alleati identificato con la causa del Male e dell’Errore. Che erano atteggiamenti scomparsi da secoli nella coscienza dell’Europa civile, anche se in passato se n’erano avute, specie nei paesi anglosassoni, manifestazioni significative, ispirate alla calvinistica tendenza a vedere le lotte dei popoli e degli Stati in termini di lotte fra reprobi ed eletti: come era accaduto al tempo della guerra contro Napoleone o durante la prima guerra mondiale, quando uomini come John Dewey e George Santayana avevano dichiarato responsabile della «perversità della Germania» il soggettivismo e apriorismo della sua tradizione filosofica, mentre a livello popolare era risuonato sempre più spesso lo slogan «hang the Kaiser»”.

Mi chiedo: quell’“intreccio degli egoismi e delle ambizioni nazionali con motivazioni universalistiche” riconosciuto persino nella guerra dell’Asse, oggi è scomparso nel conflitto russo-ucraino dove le figure del Bene e del Male occupano la scena e non consentono al dubbio di salirvi? Si comprende il linguaggio di Zelensky, impegnato in prima linea, in una partita che non vuole pareggiare ma vincere (in nome delle altissime idealità illustrate da Galli della Loggia) ma perché il linguaggio dell’eroico combattente dev’essere anche quello dello spettatore che si pone al servizio della verità? Con gli squilli di tromba si avvicina il giorno della pace? E se si dice che Putin è davvero il nuovo Hitler – e non un brigante da strada che si è impadronito della diligenza e col quale il ricatto delle pistole impone di venire a patti – perché, coerentemente, non si chiede di fermarlo, entrando in guerra con la Federazione russa? Per evitare la terza guerra mondiale e una probabile catastrofe nucleare? Ed è morale lasciar dissanguare l’Ucraina e coventrizzare le sue città, i suoi campi, i suoi apparati industriali per infliggere all’orso russo ferite tali da costringerlo a tornare nella sua tana?

Vittorio Parsi, ordinario di Relazioni internazionali all’Università di Milano – v. ‘Il Dubbio’ del 26 maggio u.s. – ha affermato che “la proposta di Kissinger all’Ucraina || [cedere territori in cambio della pace] || è ‘irricevibile’. […] Come al solito Kissinger dice cose sulla pelle degli altri. Tanto per ricordare di chi stiamo parlando, è quello del golpe contro Allende in Cile nel 1973. Con le parole sull’Ucraina conferma il suo approccio cinico alla politica internazionale”. Evidentemente Parsi ricorda male le vicende cilene (forse anche perché quanto ne hanno scritto autori come Jean-François Revel o Arturo Valenzuela è stato sommerso dalla saggistica retorica antifascista) se crede che un Segretario di Stato Usa abbia potuto liquidare in quattro e quattr’otto un’antica democrazia come quella cilena, caratterizzata dalla tradizionale non ingerenza dei militari negli affari politici.

In un impeccabile articolo pubblicato su ‘La Repubblica’ del 9 giugno u.s., L’ora della Realpolitik, Furio Colombo ha sintetizzato come meglio non si sarebbe potuto l’essenza dell’insegnamento di Kissinger: “lo stato delle cose conta più dei progetti, quelli aggressivi e quelli eroici. Non è una sgridata agli ucraini che resistono e un gesto di tolleranza per i russi che si ostinano. È la stessa posizione che ha indotto la potentissima America a interrompere la guerra in Vietnam. Non importa se una visione politica (russa) sia giusta o distorta, se una resistenza (ucraina) sia eroicamente condotta. L’importante è interrompere, perché i due contendenti sono destinati a restare uno accanto all’altro e in mezzo all’Europa. È la politica della realtà che ha sempre guidato Kissinger. Non si tratta di approvarla, né di pensare che Kissinger sia venuto a benedire una delle parti. Dell’Ucraina lo irrita il sentimento, che non coincide con la strategia. Della Russia non condivide l’incancellabile strappo con l’Europa a cui dovrà tentare in tutti i modi di porre rimedio”.

Questa non è l’Etica tout court: è solo l’‘etica della responsabilità’, scolpita da Weber nel Lavoro intellettuale come professione (1918). Accanto ad essa c’è l’etica della convinzione – mirante non alle conseguenze dell’agire ma alle sue motivazioni ideali – e ce ne sono altre infinite, religiose e laiche, secolari e trascendenti. Tenerne conto non evita certo i flagelli della guerra ma può contribuire a un confronto pacato tra le diverse opinioni e i diversi interessi e valori in campo: un confronto che potrebbe rendere meno difficili gli inevitabili compromessi senza i quali la parola resta solo alle armi.

Punire o fermare Putin?

2 Maggio 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Da qualche tempo a questa parte, di pace, negoziati, compromessi, nuovi equilibri si parla poco. Al loro posto, profezie di vittoria: Putin può vincere, l’Ucraina può vincere. Quel che non è chiaro, però, è che cosa significhi vincere. E se significhi la stessa cosa per tutti.

Per Putin pare che la condizione minima per potersi proclamare vincitore sia il mantenimento della Crimea e l’annessione del Donbass, possibilmente collegati fra loro attraverso la striscia di terra che, lungo il mare di Azov, va da Mariupol alla Crimea.

Ma per l’Ucraina, e per i paesi che la sostengono?

Qui le cose sono molto meno chiare, o meglio sono chiare solo per Usa e Regno Unito (e per Zelensky). Per loro, vincere significa cacciare Putin dall’Ucraina, o con le armi o grazie a un cambio di regime a Mosca. Il fatto che l’impresa possa richiedere anni, comportare la completa distruzione materiale dell’Ucraina, nonché il sacrificio di centinaia di migliaia (se non milioni) di vite umane sembra importare poco. L’idea di fondo è che l’invasore vada punito, perché solo così si potranno evitare ulteriori, future aggressioni della Russia nei confronti di altri paesi europei.

Il mistero si fa fitto, invece, quando cominciamo a domandarci quale sia l’obiettivo dell’Europa, o almeno dei principali paesi europei. Apparentemente è il medesimo degli Stati Uniti, e magari lo è davvero, perché i nostri governi, in nome della unità e compattezza dell’Occidente, hanno accettato di seguire Biden e Johnson nella loro crociata anti-Russia.

Ma non occorre essere fini strateghi per rendersi conto che i nostri interessi sono molto diversi da quelli americani. Primo, perché le sanzioni che infliggiamo alla Russia sono catastrofiche per le economie europee (specie di Germania e Italia), ma fanno appena il solletico all’economia americana. Secondo, perché un eventuale allargamento del conflitto toccherebbe innanzitutto l’Europa, mentre difficilmente metterebbe a repentaglio la sicurezza degli americani. Terzo, perché, per vari motivi, il rischio nucleare che corre l’Europa è incomparabilmente superiore a quello degli Stati Uniti (le centrali nucleari a rischio sono tutte in Ucraina, l’eventualità di un attacco nucleare russo agli Stati Uniti è estremamente remota).

Questa asimmetria fra interessi Usa e interessi europei è particolarmente pronunciata per quanto riguarda la durata della guerra. Per gli Stati Uniti la prospettiva di una guerra che dura 10 anni, in stile Afghanistan, è tutto sommato accettabile, per l’Europa è catastrofica. E lo è innanzitutto per una ragione aritmetica, o meglio di calcolo delle probabilità: se in un generico giorno il rischio di un incidente (ad esempio un missile che cade su una centrale nucleare) è trascurabile, o comunque piccolissimo, in un arco di un anno diventa ragguardevole, e in dieci anni diventa una quasi certezza.

In statistica, è il paradosso del taxista di New York: la probabilità di essere ucciso da un cliente in una singola corsa è quasi zero, ma il rischio di esserlo nel corso di una intera carriera, fatta di decine di migliaia di corse, è altissimo, e fa di quel mestiere una delle professioni più pericolose al mondo.

Se le cose non stanno troppo diversamente da come le abbiamo descritte, diventa fondamentale che l’Europa esca dallo stato di ipnosi in cui Zelensky l’ha precipitata, e cominci a prendere atto dei rapporti di forza reali, nonché degli interessi dei popoli che la compongono. Aiutare gli ucraini a difendersi dall’invasione russa è non solo giusto, ma è nell’interesse dell’Europa. Inasprire e prolungare il conflitto nella speranza di cacciare i russi da tutta l’Ucraina è (forse) nell’interesse degli Stati Uniti, ma non in quello dei cittadini europei, cui la guerra infliggerebbe anni di recessione, una sequela di crisi umanitarie, per non parlare della spada di Damocle degli incidenti nucleari e dell’allargamento del conflitto.

Il vero interesse dell’Europa non è punire Putin costi quel che costi, ma fermarlo. Il che significa convincere Putin stesso e Zelensky a sospendere i combattimenti, sedersi a un tavolo, e cercare un compromesso ragionevole, che fermi l’escalation in atto, e assicuri un minimo di stabilità all’Europa tutta, “dall’Atlantico agli Urali”, come direbbe De Gaulle. Quel che servirebbe, in altre parole, è una grande e coraggiosa iniziativa politica, che finora è mancata perché il problema è stato posto in termini etici (punire l’aggressore) anziché in termini, appunto, politici (minimizzare il danno per i popoli europei, ucraini inclusi). E forse anche perché l’unico leader europeo in grado di tentare l’impresa – Macron – era in altre faccende affaccendato.

Eppure dovrebbe essere chiaro. Arrendersi a Putin non è etico, ma l’alternativa non può essere esporre l’Europa al rischio di una guerra lunga e sanguinosa, e il pianeta a quello di una catastrofe nucleare. Forse, più che dar prova di fedeltà incondizionata all’alleato americano, è giunto il momento per l’Europa di mostrarsi non solo determinata, ma anche saggia, e pienamente consapevole di quale sia il bene dei popoli che la abitano.

Luca Ricolfi

(www.fondazionehume.it)

Perché anche l’arte e lo sport ci dividono

27 Aprile 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, la reazione del mondo occidentale non si è limitata a colpire oligarchi e interessi economici russi ma ha coinvolto anche ambiti che siamo abituati a pensare come spazi di libertà e di cooperazione. L’arte e la cultura, ad esempio, con la cancellazione più o meno totale dei russi dalle fiere del libro, dai festival del cinema, dai teatri. Lo sport, con l’esclusione dei russi da calcio, basket, ciclismo, sci, tiro a volo, automobilismo, fino alla (per me) incredibile esclusione degli atleti russi e bielorussi dalle paralimpiadi. Solo un ambito, quello della cooperazione spaziale, si è finora salvato dalla furia anti-russa: chi le ha viste, non può non essersi commosso di fronte alle immagini del cosmonauta russo Denis Matveev che abbraccia l’americana Kayla Barrow sulla Stazione Spaziale Internazionale, o alle immagini dei tre cosmonauti, due russi e uno americano, che scendono insieme dalla navicella Soyuz atterrata in Kazakistan.

Lì per lì la mia anima liberale ha provato un senso di angoscia, e di incredulità, di fronte alla prontezza e compattezza della reazione punitiva scatenata dai governi e dalle istituzioni internazionali contro tutto ciò che è russo. Sono abituato a pensare che le colpe degli avi non possono ricadere sui discendenti, e che le colpe dei governi non possono ricadere sui singoli cittadini. La responsabilità è individuale, e discriminare qualcuno solo perché appartiene a una certa etnia o confessione religiosa ai miei occhi sa di razzismo.

Poi però ho cominciato ad ascoltare l’altra campana, quella dei falchi che vorrebbero cancellare atleti, artisti, scrittori, musicisti russi da ogni consesso civile. Non posso dire che mi abbiano convinto, ma devo ammettere che il loro ragionamento ha una sua logica: se abbiamo deciso di sanzionare le imprese e le banche russe, non si vede perché non si debbano sanzionare anche le organizzazioni economico-politiche, spesso enormi apparati burocratici, che gestiscono lo sport e la cultura della Russia, come peraltro di ogni altro stato. Un ragionamento rafforzato dal fatto che arte, cultura e sport sono da sempre armi di propaganda politica, e di conseguenza esclusioni e boicottaggi – specie nello sport – sono entrati a far parte della fisiologia del sistema, almeno dalla prima guerra mondiale in poi.

Detto ancora più crudamente: non è in quanto singoli artisti, scrittori o atleti che si viene esclusi, discriminati o sanzionati, ma in quanto ingranaggi delle rispettive industrie.

Potrei obiettare che questo modo di vedere le cose omette di spiegarci perché, avendo deciso di sanzionare la Russia, preferiamo colpire i suoi innocenti atleti paraolimpici (misura a impatto zero) piuttosto che rinunciare al petrolio e al gas con cui la Russia stessa sostiene i costi dell’aggressione all’Ucraina (misura a impatto massimo).

Invece preferisco prendere sul serio la tesi secondo cui scienza, arte, cultura e sport non sono innocenti, in quanto governati dall’economia e dalla politica. Perché è vero, ma è solo una faccia del problema. L’altra faccia è il modo in cui lo sono. Un conto è il fatto che, per funzionare, questi ambiti abbiano bisogno di enormi risorse finanziarie e organizzative, dunque dell’economia e della politica. Un altro è che la politica entri pesantemente nella logica con cui si svolge la competizione nei vari ambiti, distorcendo e inquinando i giochi.

Penso, ad esempio, ai criteri politici che, con tutta evidenza, spesso influenzano l’assegnazione dei premi più prestigiosi. O all’invasione del politicamente corretto nella vita delle università (specie americane), con conseguenze non solo sul reclutamento, ma anche sulla pianificazione dei corsi e la valutazione dei risultati della ricerca. O ai palchi dei festival e dei premi usati per lanciare appelli e scomuniche. Per non parlare dell’abitudine, invalsa fra le celebrities, di assegnare a sé stesse un indebito vantaggio intestandosi buone cause.

In breve: si ripete che la politica dovrebbe star fuori dallo sport, dalla scienza, dalla cultura, ma la realtà è che la politica inquina tutto, dall’alto ma anche dal basso.

Perché è un male?

Una risposta possibile è che, se non fossero così politicizzati, questi ambiti potrebbero aiutarci oggi a stabilire dei ponti, anziché costringerci ad alzare nuovi muri. Abbiamo tollerato per decenni la politicizzazione di spazi “sacri”, non possiamo ora stupirci se non siamo più in grado di farli funzionare come canali di fraternità e di conciliazione.

Ma la risposta più profonda, forse, ci viene dalla sociologia, e vale anche al di là della guerra. La grande lezione di Niklas Luhmann, uno dei maggiori sociologi del Novecento, è che una condizione fondamentale di funzionamento dei sistemi sociali è che le varie sfere siano reciprocamente autonome, e non interferiscano fra loro. Per Luhmann, le  sfere fondamentali sono denaro, potere, amore, verità. Non si può acquistare l’amore di una donna con il potere, così come non si può acquistare il potere con il denaro, né si può usare il potere per alterare una verità scientifica, o giudicare un’opera d’arte.

Ecco, credo che questo sia il male: né la cultura, né lo sport, né l’arte sono stati capaci di lasciare la politica fuori dai loro mondi, tradendo così i propri stessi statuti e principi. Solo la scienza, tutto sommato, finora ci è riuscita. E forse anche per questo abbiamo potuto vedere cosmonauti russi e americani abbracciarsi, ma non vedremo atleti, artisti, scrittori fare lo stesso.

Ucraina, libere idee in libero dibattito

25 Marzo 2022 - di Luca Ricolfi

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Su quale sia, di fronte all’invasione dell’Ucraina, la linea di condotta più adeguata, non ho convinzioni forti. E questo non solo perché sono del tutto incompetente in materia di geopolitica, ma perché constato che fra i competenti le opinioni divergono radicalmente. E le divergenze non riguardano solo la scelta dei mezzi, ma anche quella dei fini: fermare Putin o punire Putin? trovare un compromesso o umiliare l’avversario? minimizzare il numero di morti di oggi o quello di domani?

C’è chi ritiene che limitarsi agli aiuti umanitari sia la condotta più saggia, anche questo dovesse comportare la resa dell’Ucraina. C’è chi ritiene che solo continuando ad armare la resistenza ucraina sarà possibile fermare Putin. C’è chi ritiene che istituire una no fly zone sull’Ucraina ci porterebbe dritti alla terza guerra mondiale (se non all’apocalisse nucleare), e c’è chi ritiene – tutto al contrario – che ancora più imprudente sarebbe non istituirla: la rinuncia Nato alla no fly zone sarebbe un segnale di debolezza, che potrebbe convincere Putin che noi occidentali non oseremo mai entrare in guerra con lui, anche dovesse invadere un altro paese europeo.

Quello su cui ho invece un’opinione è il destino delle nostre menti in tempo di guerra. Quel che mi colpisce, come studioso di scienze sociali, è il clima di illibertà che governa i nostri scambi di idee. Un clima in cui nessuno si sente completamente libero di dire come vede le cose, perché sa che, qualsiasi cosa dica, sarà aggredito da chi vede le cose in modo opposto, o anche semplicemente diverso.

L’indizio più rivelatore di questo clima è la “premessite”: prima di dire qualcosa di sostanziale, si passa un tempo notevole a fare premesse autodifensive per tutelarsi dal rischio di essere crocefissi per quel che si sta per dire. Mi impressiona molto ascoltare in tv autorevoli giornalisti e studiosi avvilupparsi in lunghissime serie di auto-certificazioni di anti-putinismo per sentirsi in diritto di dire quel che pensano, ad esempio che li ha colpiti l’ammissione di Biden di aver passato l’ultimo anno a rifornire l’Ucraina di armamenti.

E’ un meccanismo che avevamo già sperimentato nella pandemia, quando – se si aveva da dire qualcosa di non perfettamente ortodosso sui vaccini – si esordiva dicendosi plurivaccinati, sottoposti alla terza dose, equipaggiati con green pass, eccetera.

Si potrebbe pensare che è normale che tutto ciò accada quando è in gioco una questione importante, e inoltre sussiste un’ortodossia, ossia un pensiero prevalente e ritenuto più giusto.

In realtà non è così. O meglio non è solo così. Il meccanismo che non ci lascia discutere liberamente, senza accusarci reciprocamente di stare dalla parte sbagliata, è più universale e profondo. Fu scoperto e studiato nei primi anni ’50 dallo psicologo sociale americano Leon Festinger, viene chiamato “riduzione della dissonanza cognitiva”, e costituisce probabilmente la più importante scoperta delle scienze sociali del Novecento. Quel che Festinger scoperse è che non solo la mente umana non sopporta i conflitti interni, ma il suo bisogno di coerenza interna è così forte da generare meccanismi di correzione radicali, come l’autoinganno, l’adozione di credenze irrazionali, l’incapacità di prendere atto dei dati di realtà, anche di fronte a clamorose smentite delle proprie convinzioni.

La mente umana, si potrebbe dire riprendendo una lucida considerazione di Walter Siti, funziona in modo opposto a come funziona la grande letteratura. La nostra mente ha bisogno di coerenza, la grande letteratura si nutre delle contraddizioni, dei drammi e delle ambiguità della vita reale. Soprattutto, la nostra mente è incapace di passare da un piano all’altro del discorso senza esigere che fra i vari piani vi sia coerenza. Se l’empatia ti porta da una parte, non ce la fai ad accettare che qualche notizia, o ragionamento, o fatto storico ti possa portare dall’altra. E se il ragionamento ti porta dalla parte opposta, la tua empatia ne risente, o gli altri ti percepiscono come privo di empatia.

Vale oggi per la guerra in Ucraina, ma valeva anche ieri per le “guerre umanitarie”, o per quelle contro il terrorismo. Noi, per come funziona la nostra mente, non siamo capaci di sopportare quel che invece nutre la grande letteratura, ossia l’imperfezione del bene e la complessità del male. Abbiamo bisogno di pensare che il mondo delle vittime sia senza ombre, e quello dei carnefici sia del tutto privo di umanità. Ogni spiegazione del male ci appare un’offesa al bene, e il bisogno di sentirci dalla parte del bene ci impedisce di vedere i nostri limiti.

E’ un vero peccato, anche se – dopo Festinger – sappiamo che è connaturato al modo di funzionare del nostro cervello.  E’ un peccato perché, se può essere vero, come scrisse Primo Levi, che “comprendere è quasi giustificare”, è altrettanto vero che spiegare il male (che è cosa ben diversa dal comprenderlo) è essenziale per evitare il suo ripetersi, ed è ancora più essenziale adesso, quando una maggiore lucidità potrebbe guidarci a prendere le decisioni giuste.

La pietà e la solidarietà per le vittime non dovrebbero mai essere scalfite dalla ricostruzione dei torti e delle ragioni delle parti in gioco, che – nella storia – sono sempre entità collettive, ovvero partiti, nazioni, imperi, potenze che agiscono sopra le teste della gente comune.

 

Cimiteri di guerra e di retoriche

14 Marzo 2022 - di Dino Cofrancesco

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Nei cimiteri di guerra non ci sono soltanto le tombe dei caduti: accanto ad esse troviamo cippi senza croci in cui giacciono le retoriche dei tempi di pace. Quello più monumentale è dedicato all’idea che la convivenza pacifica dei popoli e delle etnie culturali troverebbe un ostacolo insormontabile negli stati nazionali. In realtà, come dimostra la storia contemporanea, sono gli imperi —da distinguere dalle libere federazioni— che, con le loro rovinose cadute, provocano stragi di uomini e distruzioni di beni. Scrivendo a Mauro Macchi nel 1856, Carlo Cattaneo così motivava il progetto di unione europea:” Congresso comune per le cose comuni; e ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha casa, le cognate non fanno liti”. Già ognuno ‘padrone a casa sua’, ovvero ciascuno impegnato a preservare la propria identità, nella consapevolezza che non può esserci democrazia senza un comune linguaggio, senza un comune retaggio culturale, senza la valorizzazione e la tutela della propria diversità. Gli imperi fanno convivere popoli diversi giacché è nella loro essenza la rimozione della politica e l’imposizione di un ordine esterno, che nel caso dell’Austria-Ungheria non esclude la buona amministrazione. Quando però si rompono le file e riemerge la dimensione politica –il ‘noi’ e il ‘loro’– è la democrazia non la barbarie (che certo non manca mai) a richiedere un’arena istituzionale in cui i conflitti vengano regolati e contenuti dal sentirsi membri di una stessa famiglia. Le tragedie europee sono dovute ai lasciti degli imperi, al fatto che negli stati sorti sulle loro rovine si ritrovano cittadini appartenenti a minoranze etniche che ora ‘non si sentono più a casa’: v. i Sudeti in Cecoslovacchia, gli Armeni in Turchia, i Russi in Ucraina, gli Altoatesini in Italia etc.. Forse lo stato nazionale non ha tutte le colpe che gli vengono attribuite. Lo si comincia a sospettare negli Stati Uniti in cui la fine della nation ovvero del credo americano iscritto nel melting pot , non promuove la   pacifica convivenza razziale ma scatena una guerra permanente, che trova nella cancel culture la sua espressione più coerente.

Dino Cofrancesco

Il Giornale del Piemonte e della Liguria

Vistodagenova

Martedì 8 marzo 2022

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