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Può esistere un partito sia di destra sia di sinistra?

4 Settembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Partiti né di destra né di sinistra non sono rari nelle democrazie. Il tipico esempio sono i partiti liberaldemocratici, che hanno spesso fatto la loro apparizione nei maggiori paesi europei, come il Regno Unito, la Germania, la Francia. Anche l’Italia ha una
lunga tradizione di partiti moderati di centro, sia nella prima Repubblica (pri, psdi, pli), sia nella seconda: recentemente, il Terzo polo di Renzi e Calenda, in passato le infinite varianti del mastellismo-casinismo-follinismo: ccd, cdu, udc, eccetera.

Ma un partito sia di destra sia di sinistra? Può esistere, o è una contraddizione logica, come l’ircocervo che Benedetto Croce evocava per spiegare l’impossibilità del liberalsocialismo?

Dall’8 gennaio di quest’anno dobbiamo invece ritenere che possa esistere. E da ieri, dopo le elezioni amministrative nei länder tedeschi della Germania e della Sassonia, dobbiamo ritenere non solo che possa esistere, ma che possa sfondare. La prova
vivente è la pioggia di voti che, alla sua prima uscita in un’elezione germanica, ha inondato il partito fondato da Sahra Wagenknecht per l’appunto l’8 gennaio. Il partito si chiama Bündnis Sahra Wagenknecht (Lega Sara Wagenknecht), ed è il risultato di una scissione del partito della Linke, la formazione di estrema sinistra radicata nelle regioni della ex Germania dell’Est. Moglie di Oscar Lafontaine, ex leader della Linke, Sahra Wagenknecht è una politica tedesca con una chiara matrice di sinistra, ma si discosta dalla sinistra ufficiale classica, non importa qui se moderata o estrema, su almeno 4 punti fondamentali.

Il primo è il sostegno all’Ucraina, più in generale l’adesione alla Nato, ritenute controproducenti. Il secondo sono le politiche green, troppo costose per i ceti popolari. Il terzo sono gli eccessi del politicamente corretto e dell’agenda LGBT+. Il quarto, di gran lunga il più importante, sono le politiche migratorie, considerate troppo permissive.

In generale, le idee di Wagenknecht si richiamano alla dottrina marxista nel senso che privilegiano i conflitti a livello economico-strutturale, e snobbano quelli di tipo culturale e sovrastrutturale. Di qui la difesa dei lavoratori tedeschi nei confronti della
concorrenza dei migranti, visti come un temibile “esercito industriale di riserva”, e la freddezza rispetto alle rivendicazioni LGBT+.

Il successo di Wagenknecht, che in Turingia ha ottenuto il 16% e in Sassonia il 12%, è cruciale per la politica tedesca perché si è accompagnato a un successo ancora maggiore di Alternative für Deutschland, il partito tedesco più anti-immigrati e più
nostalgico del nazismo, che ormai raccoglie circa 1/3 dei voti in entrambe le regioni. Insieme, i due partiti anti-immigrati sfiorano il 50% dei consensi, a fronte del disastroso risultato dei partiti di governo (socialdemocratici, verdi, liberali), e al discreto ma non sufficiente risultato dei Popolari (24% in Turingia, 32% in Sassonia).
Per questi ultimi si prospetta un dilemma: fare fronte comune con socialdemocratici e Linke contro i due partiti anti-immigrati (BSW e AfD), con il rischio che al prossimo giro possano ottenere la maggioranza dei voti e formare un governo il cui unico vero
obiettivo sarebbe la lotta all’immigrazione illegale; oppure tentare il dialogo con il partito “sia di destra sia di sinistra” di Sahra Wagenknecht, recependo le inquietudini di tanti tedeschi nei confronti degli immigrati.

Resta il fatto che, nei due länder in cui si è votato, i quasi-nazisti di AfD hanno il 30% dei voti, e se Sahra Wagenknecht non avesse canalizzato una parte della protesta contro i migranti, probabilmente veleggerebbero sul 40%.

Qual è la lezione?

Sono tante, e dipendono dai pregiudizi di ciascuno di noi. L’unica lezione difficilmente contestabile è che il partito-ircocervo – sia di destra sia di sinistra – è diventato possibile. Staremo a vedere se solo in Germania.

[articolo uscito sulla Ragione il 3 settembre 2024]

Follemente corretto (18) – Cambiare razza?

21 Febbraio 2023 - di Luca Ricolfi

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Che si possa cambiare sesso, è una eventualità ormai entrata nel senso comune. Ma il percorso è stato lungo, e non è ancora concluso. Con la legge 164 del 1982, la riassegnazione del sesso sulla carta di identità comportava necessariamente un intervento chirurgico. Con il decreto legislativo 150 del 2011 le cose cambiano drasticamente: si può ottenere una modificazione del proprio status anagrafico anche senza intervento chirurgico, l’essenziale è convincere il giudice dell’esistenza di una condizione di “disforia di genere” e della serietà (e irreversibilità) della propria scelta.

Oggi le organizzazioni che promuovono i diritti delle persone trans chiedono molto di più: quel che molti vorrebbero è il cosiddetto self-id, ossia la possibilità di scegliere il proprio genere in modo completamente libero, senza alcun intervento di medici, psicologi, giudici.

La questione è delicata perché alla condizione di maschio o femmina sono associati diritti e prerogative differenti. Un maschio, ad esempio, non può accedere a bagni, spogliatoi, reparti carcerari, associazioni, competizioni (sportive e non) riservate alle donne. Simmetricamente, una donna non può partecipare ad associazioni, gare e reclutamenti riservati agli uomini. Il problema che si pone, quindi, è se il cambio di sesso/genere comporti una riallocazione automatica e completa di diritti, prerogative e corrispondenti divieti. E, soprattutto, se sia il singolo l’unico arbitro che può decidere del proprio sesso/genere, secondo la filosofia del self-id, o sia invece necessaria l’approvazione di altri soggetti individuali e istituzionali (genitori, medici, psicologi, giudici). E, infine, se debbano essere sanzionati quanti si rifiutano di accettare auto-identificazioni di genere soggettive, non sancite dalla legge (ad esempio l’insegnante che continua ad usare pronomi maschili verso un allievo che si autoidentifica come femmina).

Le organizzazioni che promuovono i diritti LGBT tendono ad asserire che la scelta del sesso/genere debba essere individuale, completamente libera, rispettata e riconosciuta da tutti. Non hanno però messo in conto che la medesima pretesa di scegliere – e far valere – la propria identità potesse essere avanzata in ambiti diversi dal genere: ad esempio quello della razza. Dopo quello dei trans-sessuali, è venuto il tempo dei trans-razziali.

Sono celebri, negli Stati Uniti, i casi di Rachel Dolezal, donna caucasica che si è finta di colore per anni (prima di fare outing, nel 2015); o di Korla Pandit, musicista afro-americano che si è fatto passare per indiano; o della professoressa Jessika Crug, figlia di genitori bianchi, che per tutta la vita lavorativa ha fatto credere di essere di colore.

Ma i casi più interessanti sono quelli di coloro che, anziché ricorrere all’inganno, sono ricorsi alla medicina e alla chirurgia per modificare effettivamente il proprio corpo. Martina Big, donna tedesca bianca, è ricorsa a iniezioni di melanina per diventare nera. Oli London, ragazzo bianco inglese, si è sottoposto a 18 (diciotto) interventi chirurgici per diventare come un coreano (più esattamente: per somigliare alla popstar coreana Jimin dei BTS).

Il fenomeno sarebbe rimasto poco più che una curiosità folkloristica se non avesse attirato l’attenzione delle accademiche femministe. Tutto parte da un provocatorio saggio del 2017 di Rebecca Tuvel, giovane docente di filosofia, in cui si sostiene che, così come ammettiamo la possibilità di cambiare genere, per coerenza dovremmo ammettere quella di cambiare razza. Fra i due tipi di transizione, infatti, non sussistono differenze tali da autorizzarne una e negare l’altra.

La filosofa non aveva previsto, però, che la sua difesa del transrazzialismo può portare da tutt’altra parte. I paradossi connessi alla scelta soggettiva della razza (un bianco che diventa nero può godere dei diritti riservati ai neri?), anziché ampliare gli ambiti della autodeterminazione, hanno finito per accendere un faro sull’assurdità di ogni auto-identificazione, di genere o di razza che sia. Di qui una pioggia di contumelie a Rebecca Tuvel, e il contrordine: cambiare razza non si può, solo il genere può essere cambiato.

La lobby LGBT è, e deve restare, un club esclusivo.

Follemente corretto (8) – Presunto colpevole

29 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

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Supponete che il Parlamento italiano approvasse una legge controversa, ad esempio una norma che regola le adozioni dei bambini da parte delle coppie di fatto (non importa qui che tipo di norma). Credo che nessuno si stupirebbe se varie associazioni di genitori, educatori o altre categorie scendessero in campo, a favore o contro la legge. Nemmeno ci stupiremmo troppo se scrittori, studiosi, docenti, giornalisti, artisti e celebrità varie dicessero la loro, sui quotidiani o in tv. Così come considereremmo normale, in un mondo infestato dai social, che migliaia di utenti di internet fornissero il loro parere non richiesto sulla nuova norma.

Quello che invece ci apparirebbe strano, per non dire assurdo, è che l’amministratore delegato di un’azienda che non ha nulla a che fare con le adozioni – per esempio la catena di supermercati Esselunga – si scusasse con le proprie commesse e i propri impiegati per non aver preso immediatamente posizione contro la legge. Se lo facesse, lo considereremmo fuori luogo. Che cosa c’entra la Esselunga con le adozioni?  E poi, visto che la questione è controversa, perché mai l’amministratore delegato di una catena di supermercati dovrebbe prendere posizione contro? Perché non a favore?

Adesso spostiamoci negli Stati Uniti: lì invece può succedere. Anzi, è già successo. La questione controversa è a che età si può cominciare, nella scuola, a parlare di scelta di genere e orientamento sessuale. Come noto, le associazioni LGBT+ premono perché la scuola ne parli il più presto possibile. Diverse associazioni di genitori, invece, chiedono che venga rispettato l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), che al comma 3 recita: “I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”.

Insomma, un caso perfetto di questione controversa. Su di essa, qualche mese fa, il Governatore (repubblicano) della Florida ha varato una legge che fissa il confine fra la 3° e la 4° elementare: nell’asilo e fino alla terza elementare non si può parlare di temi LGBT+, dopo invece sì può.

Risultato: Bob Chapek, amministratore delegato della Disney (un’azienda che ha una forte presenza in Florida), si è scusato con i propri dipendenti per non aver preso posizione tempestivamente contro la legge. E lo ha fatto con parole patetiche, per non dire piagnucolose: “Avevate bisogno di me come alleato più forte nella lotta per la parità di diritti e io vi ho deluso. Mi dispiace”.

Perché è intervenuto, lui che fa film e cartoni animati? Perché si è sentito in dovere, su una questione altamente controversa, di prendere posizione contro, anziché a favore?

La risposta non è semplice, perché è fatta di due tasselli logici distinti. Il primo è che l’establishment americano (di cui Chapek è parte) è progressista, e per i progressisti americani quella questione non è politica ma etica. Dunque ammette un’unica soluzione, esattamente come – per i fanatici religiosi – la sacralità della vita del feto chiude ogni possibilità di discussione sull’aborto.

Fin qui siamo di fronte a un problema di intolleranza laica, variante illuminista dell’intolleranza clericale. Ma questo spiega solo perché il Ceo di Disney abbia preso posizione contro la legge, anziché a favore. Non spiega come mai si sia sentito in dovere di assumere pubblicamente una posizione, anziché occuparsi del prossimo cartone animato.

Già, come mai?

E qui veniamo al secondo tassello. La ragione per cui, a differenza di quel che accadrebbe in Italia, in America un amministratore delegato si sente tenuto a prendere posizione, è che lì il politicamente corretto è riuscito a imporre una sorta di (folle) presunzione di colpevolezza: dato che discriminazione e razzismo sono ubiqui e “sistemici”, siamo tutti colpevoli fino a prova contraria. E prendere posizione nel modo giusto è l’unica chance che abbiamo per provare la nostra innocenza.

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