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Le magnifiche 7

3 Febbraio 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

(a proposito di donne e politica)

Che, in tantissimi campi, le donne siano numerose ma le posizioni apicali siano tuttora occupate prevalentemente da uomini è verissimo. E’ vero nell’università, ad esempio, dove solo 7 rettori su 84 sono donne. E pure in politica, almeno in Italia: non abbiamo mai eletto un presidente della repubblica donna, né un presidente del consiglio donna. Perciò non stupisce che, periodicamente, circolino appelli più o meno ben argomentati (di solito pessimamente argomentati) per correggere questa stortura.

Da che cosa dipende la sotto-rappresentazione delle donne?

Dalla sopravvivenza del patriarcato, rispondono non di rado le paladine della causa femminile.  Può darsi, anche se – come sociologo – non posso non osservare che è una pseudo-spiegazione, che si limita a dare un nome a un fenomeno di cui non è in grado di ricostruire i meccanismi.

Se vogliamo capirne di più, è meglio circoscrivere gli ambiti e delimitare il campo. Potremmo, ad esempio, ragionare sulla leadership politica, e chiederci come mai, nei grandi paesi occidentali, negli ultimi 50 anni le donne hanno contato così poco.

Ebbene, se questa è la domanda, è difficile sfuggire a un paio di osservazioni. La prima è che l’accesso delle donne al potere politico è stata assai scarsa fino al 2018, ma a partire dalla metà del 2019 la vera domanda è un’altra: come hanno fatto le donne, nel giro di 3 anni, ad occupare praticamente tutte le posizioni apicali del potere politico-economico in Europa, sbaragliando i concorrenti maschi?

Luglio 2019: Christine Lagarde viene designata a succedere a Mario Draghi al vertice della Banca Centrale Europea; nello stesso mese, Ursula von der Leyen viene eletta Presidente della Commissione europea.

Ottobre 2019: Kristalina Georgieva, economista e politica bulgara, viene nominata direttrice del Fondo Monetario Internazionale.

Gennaio 2022: in seguito alla scomparsa di David Sassoli, la politica maltese Roberta Matsola viene eletta presidente del Parlamento Europeo.

A oggi, nelle grandi istituzioni politico-finanziarie, il potere maschile pare sopravvivere solo al di là dell’Atlantico, dove Donald Trump ha imposto David Malpass a capo della Banca Mondiale e Jerome Powell alla Fed (dove peraltro, fino al 2018, comandava una donna, Janet Yellen).

Ma c’è una seconda osservazione, ancora più interessante per gli studiosi di discriminazione e parità di genere. Se ci chiediamo quante e quali siano le donne che, negli ultimi 50 anni, siano state capaci di diventare leader politici di peso nei principali paesi occidentali scopriamo che sono solo 7, e che c’è un unico tratto che le accomuna.

Le elenco per paese: Margaret Thatcher e Theresa May nel Regno Unito; Marine e Marion Le Pen in Francia; Angela Merkel e Ursula von der Leyen in Germania; Giorgia Meloni in Italia.

Che cosa le accomuna?

Semplice: vengono tutte da destra, come da destra, peraltro, vengono le altre tre donne che negli ultimissimi anni hanno raggiunto posizioni apicali nella Bce, nel Fondo Monetario e al Parlamento europeo (e, sempre da destra, veniva Simone Veil, prima presidente del Parlamento Europeo) .

Dunque, cari amici studiosi di discriminazione ai danni delle donne, la domanda più interessante non è perché così spesso le donne non ce la fanno ma, semmai, perché per farcela devono essere di destra.

Una risposta possibile è che, nei meccanismi che regolano le carriere politiche, a sinistra è ancora dominante la cooptazione, mentre a destra c’è anche un po’ di meritocrazia. Le donne di destra non paiono avere remore a sfidare in campo aperto i rivali maschi (lo ha appena fatto Valérie Pécresse in Francia, che ha battuto il rivale maschio Eric Ciotti), mentre quelle di sinistra troppo spesso paiono attendere la chiamata del capo, umili e ossequiose come le donne di un tempo.

Non è forse un caso che, al di qua come al di là dell’Atlantico, le uniche donne di sinistra arrivate a sfiorare ruoli di comando nazionali – Ségolene Royal e Hillary Clinton – siano state in partita anche in virtù del loro essere “mogli di”, rispettivamente di un segretario di lungo corso del Partito Socialista francese e di un ex presidente egli Stati Uniti.

Quanto al nostro paese, come non notare che il Pd, a parole paladino della parità uomo-donna, non ha indicato alcuna donna come ministro del Governo Draghi? O come non osservare che, per avere due donne capogruppo in Senato e alla Camera, si sia dovuto scomodare il segretario del partito, che le ha imposte dall’alto ai suoi deputati e senatori?

Insomma, visto come sono andate le cose, è difficile sfuggire al dubbio: non sarà che l’esclusione delle donne dal potere è, innanzitutto e non solo in Italia, un problema della cultura progressista?

Analisi della trasmissione di SARS-CoV-2: influenza delle condizioni termoigrometriche rispetto al rischio di diffusione del contagio

3 Febbraio 2022 - di Cesare Saccani

In primo pianoSocietà
Autori: Maria Pia Fantini1, Davide Gori1, Alessandro Guzzini2, Marco Pellegrini2, Maria Carla Re3, Chiara Reno1, Greta Roncarati3, Cesare Saccani2,* , Caterina Vocale3
1 Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie, Università di Bologna, Italia.
2 Dipartimento di Ingegneria Industriale, Università di Bologna, Italia
3 CRREM, UOC Microbiologia, IRCSS Policlinico S. Orsola, Università di Bologna, Bologna, Italia

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Abstract

 In questo articolo vengono analizzati i principali meccanismi di diffusione del virus SARS-CoV-2, fornendo elementi utili per la corretta gestione per il contrasto alla diffusione del virus stesso.

Lo studio prende le mosse dalla constatazione che, allo stato dell’arte, manca una terminologia rigorosa e univocamente accettata nella letteratura tecnico-scientifica con riferimento alle modalità con cui può avvenire la trasmissione del contagio di SARS-CoV-2 e, in particolare, alle modalità di trasporto cosiddette “droplet” e “airborne”.

La corretta analisi dei meccanismi che governano la diffusione del virus non può prescindere da una rigorosa definizione dei termini che entrano in gioco nella descrizione dei fenomeni, da cui discendono importanti indicazioni volte a determinare soluzioni tecniche finalizzate alla minimizzazione del rischio di contagio.

Partendo dalla definizione di una terminologia rigorosa ed univoca, attraverso l’applicazione un nuovo modello per lo studio della propagazione del contagio, lo studio, sulla base di valutazioni fisico-matematiche, dà ragione di come il contagio avvenga solo mediante goccioline, sole a poter veicolare efficacemente il virus.

Sulla base di queste valutazioni, lo studio analizza il trasporto del virus, incluso nelle goccioline, sulla base dei principi della termo-fluidodinamica, ovvero accoppiando alle equazioni del moto le equazioni che descrivono la variazione di massa per evaporazione. Infatti, la gittata di una goccia emessa da un soggetto infetto, ovvero la distanza di sicurezza da mantenere per minimizzare il rischio di contagio, dipende da numerosi parametri fra i quali, di notevole importanza, il grado igrometrico dell’ambiente in cui questa, la goccia, si trova: da esso, infatti, dipende la velocità di evaporazione e, quindi, la sussistenza della goccia.

Pertanto, lo studio dimostra che il controllo del trasporto del contagio non può essere affrontato in assenza di controllo del grado igrometrico dell’ambiente in cui la goccia si muove: infatti, la definizione stessa di distanza di sicurezza perderebbe di significato in quanto la gocciolina potrebbe “sopravvivere” nell’ambiente con elevata umidità, anche per tempi lunghi e realizzando percorsi casuali, qualora le goccioline fossero al di sotto di certe dimensioni.

A conclusione dello studio, è riportato un caso di studio che dimostra non solo la correlazione fra grado igrometrico e distanza di sicurezza ma anche che la trasmissione del contagio di tipo airborne, ovvero tramite virioni rilasciati a seguito di evaporazione della goccia, in virtù della loro bassissima concentrazione e del moto di tipo browniano che li caratterizza, abbia una probabilità del tutto trascurabile rispetto alla trasmissione dell’infezione da SARS-CoV-2.

1.   Definizione delle modalità di trasporto aereo dei virus

 Con riferimento ai meccanismi con cui può avvenire la trasmissione aerea del virus SARS-CoV-2, occorre premettere che nella letteratura scientifica di tipo medico manca una terminologia univoca e condivisa con altri settori scientifico-disciplinari, in particolare per quanto riguarda le modalità di trasporto dei virus con importante riflessi sulle definizioni delle modalità di diffusione. Si analizzino, per esempio, le seguenti due definizioni:

  • Modalità di trasporto cosiddetta airborne: definita come quella modalità di trasporto in cui la particella solida che ospita il virione risulti aerotrasportata, ovvero, il cui movimento sia conseguente al moto della corrente fluida che la trasporta.
  • Trasmissione del contagio attraverso aerosol, in accordo alla definizione fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): “Aerosol transmission refers to the possibility that fine aerosol particles,…., which are generally considered to be particles <5μm in diameter, remain airborne for prolonged periods and be transmitted to others over distances greater than 1 m” (OMS, 2020).

Dalle due definizioni non è chiaro se ci si riferisca a particelle così fini da rimanere in sospensione in aria calma come conseguenza di moti Browniani, ovvero senza componente di moto del fluido di trasporto, oppure se le definizioni includano anche particelle di dimensioni più grandi ed in movimento in sospensione fluida come conseguenza della velocità di trascinamento della corrente che le trasporta.

Chi scrive ritiene che la terminologia migliore, in quanto rigorosa, univoca e più adatta allo studio dei modelli che si riferiscono alla propagazione ambientale delle particelle, sia la seguente:

  • Airborne: si definisce come tale il trasporto di particelle solide in sospensione fluida nell’ambiente considerato, comunque esse siano trasportate, ossia indipendentemente dalla velocità di trasporto della corrente fluida che le contiene, comprendendo quindi anche il trasporto di particelle ultrafini soggette a moti browniani;
  • Droplet: si definisce come tale il trasporto di goccioline nell’ambiente esaminato, indipendentemente dalla dimensione e comunque esse siano

Si fa presente che molta della letteratura scientifica attuale, in particolare per la trasmissione del virus SARS-CoV-2, fa riferimento alla modalità cosiddetta “airborne” anche per indicare emissione da parte dei soggetti infetti di goccioline di secrezioni ultrafini (dimensioni <5 micron) (come ad esempio nella lettera firmata da 239 ricercatori indirizzata alla WHO) (Morawska et al. 2020) [239 ricercatori]. Ciò provocherebbe confusione quando ci si addentrasse nell’analisi termo fluidodinamica che segue in quanto la gocciolina rappresenta una massa potenzialmente variabile, in funzione delle caratteristiche ambientali, mentre non è così per la particella solida.

La classificazione che individua la trasmissione droplet indipendentemente dalla dimensione delle goccioline, esclude in maniera chiara e univoca il particolato solido come vettore di potenziale contagio (Bontempi, 2020; Domingo et al., 2020). Inoltre, la distinzione tra vettore solido e gocciolina consente di limitare lo studio dell’impatto delle condizioni termo-igrometriche, cioè temperatura e grado di umidità, dell’aria ambiente riferite al solo caso droplet. Infatti, la gittata di una gocciolina emessa da un soggetto infetto dipende, oltre che dalla sua dimensione e dalla velocità iniziale, anche dalla velocità di trascinamento della eventuale corrente di trasporto, e dalla propria capacità di evaporare in funzione delle condizioni termo-igrometriche dell’ambiente in cui si trova.

Nel caso invece di trasporto del virus in modalità che consideriamo propriamente “airborne” (attraverso particolato solido) le condizioni termo-igrometriche potrebbero avere influenza sul moto della particella solida solo nel caso in cui essa agisca come nucleo di condensazione in un ambiente sovra-saturo. Quest’ultima condizione può rivestire grande interesse per inferire meccanismi di trasporto del virus e di infezione, ad esempio all’interno delle vie aeree. Si consideri, per esempio, il caso di una particella solida inalata all’interno dei polmoni dove è ragionevole ipotizzare la presenza di un ambiente saturo. In caso di temperatura superficiale della particella solida sufficientemente bassa, questa, potrebbe diventare un nucleo di condensazione, ovvero una particella bagnata. Questa modifica sostanziale delle condizioni di trasporto del virus consentirebbe il ritorno al trasporto in modalità droplet con nucleo solido all’interno dell’albero respiratorio e con la conseguenza che la gocciolina potrebbe impattare la superficie degli alveoli e ivi depositarsi per formare un nucleo di infezione.

2.   Relazione tra carica virale, dimensione della gocciolina e grado igrometrico dell’aria ambiente

Nello studio del moto delle goccioline, ovvero della distanza di sicurezza da mantenere per evitare la diffusione del contagio, si devono considerare anche i fenomeni di natura termo-igrometrica in relazione alle dimensioni della gocciolina stessa. Come mostrato in Figura 1a, l’andamento della superficie totale a disposizione per scambiare calore e massa con l’aria ambiente delle goccioline nebulizzate da un litro di acqua è proporzionale all’inverso del diametro dell’insieme delle goccioline stesse. In Figura 1b è riportato l’andamento della superficie totale per goccioline di diametro compreso fra 0 e 10 µm nebulizzate da un litro di acqua. L’andamento fa sì che i fenomeni di scambio termico e trasferimento di massa per evaporazione aumentino al diminuire del diametro della gocciolina.

Il fenomeno di evaporazione della gocciolina emessa da un soggetto infetto influisce non solo sulla sua gittata, ma anche sulla concentrazione virale della stessa. Per concentrazione virale si intende il numero di virioni per unità di volume. Partendo da considerazioni di tipo geometrico e fisico, si può affermare come una goccia possa contenere un numero di virioni massimo secondo una relazione che dipende dalla dimensione del virione e dalla dimensione (diametro) della goccia stessa. Pertanto, ad ogni gocciolina in grado di trasportare il virus può essere associato un valore massimo in numero di virioni, ovvero una concentrazione massima che andrà poi confrontata con la carica virale minima infettante. Dai dati di letteratura si evince che la dimensione del virione (SARS-CoV-2, considerato sferico, possa variare fra 0.06 e 0.15 μm (Zhu et al., 2020). Pertanto, una gocciolina di diametro inferiore a quella del virione non è in grado di includerlo e di trasportarlo nell’ambiente.

D’altro canto, le goccioline di dimensione maggiore di quelle del virione, e quindi in grado di ospitarne almeno uno, se emesse dal soggetto infetto in un ambiente relativamente secco vedono ridurre progressivamente il proprio volume per evaporazione. Le goccioline, qualora molto piccole, possono quindi evaporare completamente durante il loro percorso, rilasciando in ambiente la propria carica virale prima di raggiungere il bersaglio finale, ovvero molto prima di poter propagare il contagio. Segue che il diametro della gocciolina in grado di trasportare una carica virale significativa fino al soggetto ricevente (bersaglio) va identificata valutando con attenzione il meccanismo sopra descritto di progressiva riduzione del volume della gocciolina per evaporazione.

Si prenda allora in esame il caso di una goccia che raggiunga il bersaglio (soggetto suscettibile) con un diametro pari a 10 μm. Sulla base di semplificazioni di tipo geometrico, ovvero i) ipotizzando goccia e virione di forma sferica, ii) assumendo un grado di riempimento della gocciolina pari al 61% (Benenati & Brosilow, 1962), e

iii) associando al virione una dimensione sferica media pari a 0.1 μm, avremo che il volume di una goccia di diametro pari a 10 μm potrà ospitare al massimo 610.000 virioni, con una concentrazione virale massima di 1165 virioni/μm3. Esiste, dunque, una carica virale massima che ogni gocciolina può trasportare e che è identificabile in maniera univoca note le dimensioni del virione. Nella tabella 1 sono riportati i calcoli in accordo alle ipotesi effettuate.

Se la dimensione della goccia all’emissione fosse di 100 μm a parità di numero di virioni contenuto, ovvero

610.000 virioni, rispetto alla gocciolina da 10 μm vista in precedenza, questa avrebbe avuto in partenza una concentrazione virale pari a 1,165 virioni/μm3, ovvero un millesimo della precedente. Pertanto, durante il processo di riduzione volumetrica per evaporazione, ipotizzando di non perdere virioni dalla goccia di partenza (ipotesi prudenziale), si può affermare che una particella di 100 μm, con concentrazione virale pari a 1,165 virioni/μm3, qualora scendesse fino alle dimensioni di 10 μm di diametro, raggiungerebbe una concentrazione di 1165 virioni/µm3, ovvero mille volte superiore a quella iniziale, e pari a quella massima.

Si può allora affermare che alla riduzione del volume della goccia consegue, in modo inversamente proporzionale, un aumento della concentrazione virale rispetto a quella iniziale rilevata nell’istante di emissione da parte del soggetto infetto, sino al raggiungimento di un valore massimo che è geometricamente identificabile. Pertanto, il soggetto suscettibile (target), in caso di evaporazione incompleta delle gocce, risulterebbe raggiunto da goccioline caratterizzate da dimensione inferiore a quelle iniziali (all’emissione), ma con una concentrazione virale maggiore.

3.   Valutazioni quantitative sul processo di evaporazione della gocciolina infetta

 

Poiché le goccioline di diametro pari o inferiori a 10 μm hanno maggior probabilità di raggiungere le basse vie respiratorie (Gralton et al., 2020), la letteratura medica concorda sul fatto che questa tipologia di goccioline sia la più pericolosa. Tuttavia, il diametro soglia di 10 μm fa riferimento al punto di inalazione da parte del soggetto suscettibile, e non al punto di emissione da parte del soggetto infetto. Dunque, rimane da chiarire quale sia la dimensione critica iniziale della goccia all’emissione.

Si faccia allora riferimento alla Figura 2. Il soggetto infetto emette goccioline, identificate da una propria distribuzione dimensionale e, verosimilmente, aventi la stessa concentrazione virale iniziale. Infatti, è ragionevole pensare che tutte le goccioline, avendo origine nello stesso punto ed essendo prodotte dallo stesso fluido, indipendentemente dalla propria dimensione, abbiano la stessa concentrazione virale all’atto dell’emissione. Lungo la loro traiettoria, le goccioline riducono il proprio volume per effetto della evaporazione, incrementando così la concentrazione virale presente al loro interno. Per fare un esempio: una gocciolina di diametro iniziale pari a 100 μm, riducendo il proprio volume lungo la traiettoria, raggiungerebbe il soggetto bersaglio o si depositerebbe su una superficie inanimata ad una concentrazione virale nettamente superiore a quella di partenza. Viceversa, goccioline di diametro iniziale, pari o inferiori a 10 μm tenderanno ad evaporare completamente prima di raggiungere il soggetto bersaglio. Sulla base di queste considerazioni, si può affermare che la gocciolina da 10 μm, che se inalata ha buone probabilità di raggiungere le superfici respiratorie e veicolare il contagio, fosse in partenza caratterizzata da una dimensione maggiore e da una concentrazione virale inferiore.

Al fine di descrivere il rischio di diffusione del contagio, le dimensioni delle goccioline dovrebbero essere sempre riferite al punto di emissione, ovvero alla partenza dal soggetto potenzialmente infetto, e non al bersaglio, ovvero all’arrivo in prossimità del potenziale target o della superficie su cui la goccia, o ciò che ne rimane a seguito di evaporazione, si deposita. Infatti, in assenza di distinzione fra le dimensioni all’origine e al raggiungimento del bersaglio l’analisi del fenomeno di diffusione trascurerebbe implicitamente l’intensità del fenomeno, ovvero il potenziale impatto negativo della concentrazione virale.

Al fine di chiarire il concetto sopra esposto, è opportuno introdurre la metodologia per il calcolo della gittata per una gocciolina che sta evaporando. In premessa occorre sottolineare che il volume della gocciolina emessa dal soggetto infetto, tenendo conto delle considerazioni fatte sul grado di riempimento, è occupato da acqua solo in parte, mentre la restante parte è occupata dai virioni. Assumendo un grado di riempimento della gocciolina del 61%, solo il 39% del volume della gocciolina risulta costituito da acqua (secrezione liquida). Sulla base delle informazioni note nella letteratura tecnico-scientifica non si può escludere con ragionevole certezza che il tempo che la goccia impiega per evaporare completamente sia pari, nell’esempio riportato, al 39% di quello che la goccia avrebbe impiegato nel caso fosse stata costituita solo da acqua, ovvero in assenza di virioni. D’altro canto, non è noto, per esempio, se i virioni ostacolino il trasferimento di materia per evaporazione trattenendo acqua nella gocciolina. Ugualmente, non è nota la capacità termica del virione, ovvero quanto tempo impiega per raggiungere l’equilibrio termico con l’acqua che lo circonda. Pertanto, il fenomeno di evaporazione sarà studiato assumendo, rispetto ai punti su cui vi è incertezza, la seguente ipotesi: la riduzione, a parità di diametro, del tempo di evaporazione della gocciolina conseguente al minor volume di acqua contenuto per la presenza dei virioni, viene compensata dall’ostacolo che i virioni stessi potrebbero porre in essere con la loro presenza all’evaporazione dell’acqua.

Sono numerosi, ed hanno radici lontane nel tempo, gli studi volti a modellare il processo di evaporazione di una gocciolina sulla base dei principi della termo-fluidodinamica (Wells, 1934; Kukkonen et al., 1989; Ferron & Soderholm, 1990, Xie et al., 2007). Con riferimento ad una gocciolina da 10 μm, si è di seguito implementato il modello proposto da (Xie et al., 2007) su piattaforma Matlab. Per i calcoli sono stati assunti i seguenti valori:

  1. temperatura ambiente pari a 20 °C,
  2. velocità di lancio pari a 9 m/s, ovvero la velocità media delle particelle all’istante di emissione durante l’attività fonatoria (Chao et al., 2009),
  3. assenza di correnti di trasporto, ovvero velocità di trascinamento ambientale

Si consideri il modello di una goccia che evapora con le ipotesi introdotte. Si riportano in Figura 3 i risultati della simulazione effettuata assumendo un grado igrometrico dell’ambiente variabile fra 0% e 95%. La Figura 3 rappresenta il grafico normalizzato del tempo di evaporazione di gocce aventi diametro iniziale rispettivamente pari a 10 µm e 100 µm al variare del grado igrometrico. I risultati sono riferiti a due scale differenti, riportate in ordinata: a sinistra quella relativa alla goccia da 100 micron, a destra quella riferita alla goccia da 10 micron. I tempi di evaporazione sono stati normalizzati rispetto al tempo di evaporazione di una goccia di diametro iniziale pari a 100 µm in un ambiente a grado igrometrico del 90%, ovvero un tempo calcolato pari a 77.2 secondi. I calcoli risultano in accordo con le stime effettuate anche da Xie et al., 2007, riportati in Figura 4 e 5. Il tempo richiesto per l’evaporazione della gocciolina, rappresentato in ordinata, aumenta considerevolmente con il grado di umidità dell’ambiente in cui si trova (riportato in ascissa). Pertanto, poiché il tempo di persistenza della gocciolina aumenta con il grado di umidità, è ragionevole ipotizzare che anche il rischio di diffusione dell’infezione virale aumenti con il grado di umidità dell’ambiente in cui si trovano il soggetto infetto (emittente) ed il soggetto suscettibile (target). È importante osservare che, pur con scale molto diverse (quasi due ordini di grandezza), l’andamento dei tempi di evaporazione in funzione del grado igrometrico è simile per le due goccioline.

Se definiamo la distanza di sicurezza come la distanza oltre la quale si può assumere che la gocciolina emessa dal soggetto infetto sia precipitata in un luogo dove non rappresenti una minaccia, ovvero sia evaporata (e dunque la concentrazione dei virioni sia praticamente nulla ed incapace di infettare), da quanto sopra esposto appare chiaro come la distanza di sicurezza sia significativamente influenzata dal grado igrometrico dell’ambiente in cui la gocciolina si venga a trovare. A conferma di ciò, la Figura 5 evidenzia una notevole impennata del tempo di permanenza per valori del grado igrometrico (RH) superiori al 60-70%.

In Figura 6 è riportato l’andamento nel tempo del volume, in mL, di goccioline aventi diametro iniziale pari a 10 μm, 25 μm, 50 μm, 75 μm e 100 μm in un ambiente caratterizzato da grado igrometrico RH costante, pari al 50%, e temperatura ambiente pari a 20 °C. Il grafico è stato realizzato dagli autori rielaborando dati di letteratura. La gocciolina di diametro pari a 10 μm evapora completamente in una frazione di secondo. La gocciolina da 100 μm dopo 7 sec dall’atto dell’emissione, ovvero a circa metà del processo di completa evaporazione, possiede un volume residuo pari a circa 1.4 x 10-7 mL, ovvero un diametro pari a circa 64 μm. Per quanto sopra esposto, questa riduzione di volume (e diametro) produce una concentrazione virale 3.7 volte superiore a quella iniziale. La gocciolina da 75 μm, nello stesso istante (dopo 7 secondi dalla emissione), possiede un volume residuo pari a circa 2 x 10-8 mL, ovvero presenta un diametro pari a 34 μm, quindi una concentrazione 10 volte superiore a quella iniziale. Come mostra la Figura 5, la gocciolina da 100 μm, dopo circa 15 secondi, risulta quasi completamente evaporata.

È ragionevole pensare che la completa evaporazione della gocciolina possa ridurre il rischio di veicolazione della diffusione di contagio da virus SARS-CoV-2. Infatti, la goccia, raggiunta la propria concentrazione massima in conseguenza alla riduzione per evaporazione del proprio volume, inizia a rilasciare i virioni nell’aria circostante perché non è più in grado di contenerli al proprio interno. Si prenda come riferimento il numero di virioni massimo contenuto in una goccia da 10 μm, ovvero, per quanto visto in precedenza, 610.000 unità. Al ridursi del volume, i virioni che non possono più essere contenuti sono rilasciati in un volume molto piccolo e che circonda la gocciolina evaporata. Supponiamo che questo volume sia pari, ad esempio, ad 1 cm3. Assumendo la completa evaporazione della gocciolina, ovvero il rilascio di tutti i 610.000 virioni, si otterrebbe, nel cm3 di rilascio, una concentrazione virale di 6.1 x 10-7 virioni/μm3. In precedenza, nella gocciolina, si aveva una concentrazione di 1165 virioni/μm3.

Sulla base della letteratura esistente sembrerebbe emergere che la concentrazione virale giochi in vitro un ruolo negativo in riferimento alla velocità di diffusione del virione nelle cellule di colture cellulari (Yin & McCaskill, 1992). Difatti, se è vero che la diffusione dell’infezione nelle colture cellulari è correlata al numero di virioni per cellula, ovvero al parametro MOI (Multiplicity of Infection), è altresì vero che la rapidità con cui i virioni si diffondono dipende dalla concentrazione con cui il virus viene addizionato alla coltura. In altre parole, operando su due colture cellulari aventi lo stesso MOI, ovvero a parità del numero di virioni e di cellule presenti in coltura, se i virioni vengono introdotti con una concentrazione più elevata nella coltura A rispetto alla coltura B, i virioni presenti nella coltura A aggrediranno lo stesso numero di cellule della coltura B, ma in un tempo inferiore. Di conseguenza, alla dispersione in aria dei virioni, ovvero alla riduzione della concentrazione virale, dovrebbe seguire una minore probabilità di infezione. Questo fenomeno trova spiegazione nel fatto che una maggiore concentrazione virale porta a ridurre la distanza media fra cellula e virione. Come conseguenza di ciò, i contatti tra virione e potenziali cellule degli organi in cui il virus penetra, a parità di velocità del moto del virione che incontra la cellula, avvengono in tempi più brevi e, verosimilmente, inversamente proporzionali alla concentrazione stessa. Con riferimento all’esempio sopra illustrato, il rapporto fra le due concentrazioni (quella nella goccia e quella nel cm3 di rilascio) è pari a 1165/(6.1 x 10-7) = 1.909.836.066. In altre parole, la concentrazione virale nel cm3 circostante la goccia evaporata è quasi due miliardi di volte inferiore rispetto alla concentrazione massima nella goccia. Quindi, la concentrazione virale risulta assai elevata e, potenzialmente, con grande capacità infettiva fintantoché i virioni siano contenuti all’interno della gocciolina. In definitiva, la goccia (droplet) funge non solo da veicolo di trasporto del virione, ma anche e da elemento di concentrazione della carica virale.

 

4.   Considerazioni sulla trasmissione airborne

 I virioni rilasciati dalla goccia a seguito della completa evaporazione sono verosimilmente bagnati e, quindi, facilmente confondibili con la goccia. Però, mentre la goccia, se non contiene alcun virione, non può contaminare, il virione, ancorché bagnato sulla superficie e non identificabile come aerosol, può contaminare. È, infatti, verosimile pensare che, in ambiente asciutto, il film liquido evapori rapidamente in ragione del fatto che, per tali dimensioni, il rapporto fra superficie evaporante e massa di acqua è altissimo, come mostrato in figura 1a e figura 1b. In particolare, nel caso specifico, poiché la massa di acqua non occupa l’intero volume ma solo il film esterno, a seguito dell’evaporazione di questo, il virione si trova allo stato naturale.

Data la dimensione del singolo virione, ovvero nell’intervallo [0.06 µm, 0.15 µm], volendo approcciare il problema della mobilità dello stesso in aria, si deve fare riferimento a moti di tipo browniano2 (tipici delle particelle aventi le dimensioni minori o uguali a quelle indicate per i virioni), come schematicamente mostrato in Figura 7. Ora, dal momento che i virioni sono dispersi nel volume di aria inalato, quelli che possono andare a contatto con le cellule dell’albero respiratorio o, comunque, con superfici infettabili sono contenuti in un sottile strato il cui volume si può calcolare come prodotto della superficie di contatto e di uno spessore dz simile alla dimensione del virione.

Il numero di virioni (Nvirioni) contenuti all’interno di un volume di controllo di superficie (A) e di altezza dz (in figura) può essere calcolato mediante l’equazione 6:

𝑁𝑣𝑖𝑟𝑖𝑜𝑛𝑖 = 𝜌𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎 × 𝐴 × 𝑑𝑧                                                                                                    (6

Dove ρmedia è la concentrazione virale media assunta pari, per considerazioni precedenti, a 6.1 x 10-7 virioni/μm3. Relativamente all’altezza del volume di controllo (dz) si assume un valore pari alla dimensione media dei virioni, ovvero 0.1 µm. Assumendo una superficie (A) pari a 1 cm2, il numero di virioni contenuti è calcolato in accordo all’equazione 7, ovvero pari a:

Tale valore può essere definito come il numero massimo di contatti possibili per centimetro quadrato, ovvero il numero di contatti nel caso in cui tutti i virioni nel volume di controllo, come sopra definito, vengano captati dalla superficie del bersaglio anziché permanere in sospensione fluida. Pertanto, la probabilità di contatto fra virioni e la superficie respiratoria è bassissima in quanto è ragionevole pensare che i virioni siano distribuiti uniformemente dentro il volume grazie alla tipologia di moto (browniano) che li contraddistingue. Va sottolineato come i virioni, soggetti a moti browniani, anche avvicinandosi notevolmente alla superfice di contatto non necessariamente vadano a depositarsi su di essa. La probabilità di trasmissione dell’infezione con modalità airborne reale risulta pertanto molto più bassa se confrontata con la modalità droplet, mediante goccioline di dimensioni maggiori che si trasferiscono alla superficie bersaglio con meccanismi di intercettazione o di impatto, determinando così un trasferimento di virioni significativo sia per numero che per concentrazione.

5.   Considerazioni sulle modalità di risposta del sistema difensivo umano in caso di trasmissione airborne o droplet

Sulla base di quanto sopra esposto, partendo dalla minore concentrazione virale della modalità di trasmissione airborne rispetto al caso di trasmissione droplet, si può ipotizzare che la probabilità di contagio per trasmissione di tipo airborne possa risultare nulla o trascurabile. Per giustificare questa ipotesi si consideri il concetto di resilienza, ovvero di resistenza alla velocità di cambiamento, e lo si applichi al sistema immunitario umano. L’interazione fra carica virale e superficie polmonare determina una reazione del sistema immunitario che si oppone alla replicazione virale, intesa come formazione di nuove particelle virali nelle cellule infettate dal virus e responsabile di un cambiamento dello stato di salute dell’organismo. Chi scrive ritiene che l’evoluzione del fenomeno, ovvero la capacità del sistema immunitario di contrastare la replicazione virale, dipenda non solo dalla velocità di intervento di questo, ma anche dalla modalità di trasporto del contagio, ovvero airborne o droplet. Si faccia riferimento ai due casi riportati schematicamente in figura 8 e relativi, rispettivamente, al caso di trasporto airborne (CASO 1) e trasporto droplet (CASO 2).

Una schematizzazione di tipo qualitativo della possibile evoluzione nel tempo della carica virale, una volta penetrata nel soggetto suscettibile, per i due casi è riportata in figura 9. Pur essendo ragionevole ipotizzare che, per esempio, la risposta difensiva vada a saturazione dopo un certo periodo di tempo, si suppone, per semplicità, che i fenomeni di aggressione virale e di risposta siano di tipo lineare, quanto meno nelle fasi iniziali del contagio. In entrambi i casi 1 e 2, condizione necessaria per l’arresto della replicazione virale è che la derivata rispetto al tempo della risposta difensiva dell’individuo, ovvero la velocità alla quale il sistema stesso riesce a contrastare il contagio, sia maggiore rispetto alla velocità di replicazione virale. Con riferimento alla figura, condizione geometrica necessaria è che l’angolo αimmunitario sia maggiore degli angoli αcaso 1 e αcaso 2.

Si analizzi il CASO 1. Sulla base delle considerazioni precedenti, la carica virale iniziale nei polmoni è tale da permettere al sistema di difesa di reagire, dopo un certo “tempo morto” che rappresenta il tempo di attivazione del sistema immunitario, con velocità relativamente alta rispetto a quella di propagazione del contagio e, così, di interrompere all’istante t = t1 la replicazione virale e, di conseguenza, la persistenza del virus nel soggetto.

Nel CASO 2, invece, il sistema di difesa paga lo scotto di una elevata carica virale iniziale e, dunque, potrebbe intercettare la curva di crescita della carica virale nel soggetto infettato dopo un tempo t molto maggiore rispetto al caso airborne (CASO 1), ovvero non intercettarla mai. Quest’ultima condizione corrisponde al decesso dell’individuo.

Pertanto, l’analisi proposta permette di effettuare una valutazione di tipo previsionale rispetto alle fasi iniziali dello sviluppo del contagio, una volta nota la carica virale di partenza del soggetto infetto e la modalità di trasferimento del virus al bersaglio (droplet o airborne). In particolare, se l’intersezione tra risposta del sistema immunitario e diffusione del virus avviene all’insorgenza dell’attacco virale, probabilmente, il soggetto bersaglio mostrerà una risposta di tipo asintomatica.

Sulla base delle considerazioni precedenti, l’angolo αcaso1 ,caso2 rappresenta la velocità di replicazione virale e, nel modello matematico presentato sembrerebbe essere funzione della concentrazione virale con la quale il soggetto target viene a contatto. Di conseguenza, a parità di tempi di risposta del sistema difensivo umano all’aumentare della concentrazione virale corrisponderebbe una maggiore velocità di replicazione virale. Dunque, tenuto conto del tempo di attivazione della risposta difensiva, all’aumentare della concentrazione virale, in soggetti con stessa risposta difensiva (stesso αimmunitario), corrisponderebbe una dilagazione dell’infezione virale maggiore. Pertanto, a parità di numero di virioni trasportati, le goccioline che a seguito di evaporazione vedono diminuire il loro volume e, al contrario, aumentare la propria concentrazione virale sono caratterizzate da una maggiore pericolosità in termini di capacità di trasmissione del contagio da SARS- CoV-2. In Tabella 2 si introduce una scala qualitativa di pericolosità delle modalità di trasmissione del virus SARS-CoV-2.

 

Sulla base delle considerazioni sin qui esposte risulta evidente l’importanza di studiare, quando si parli di trasmissione droplet, le goccioline all’atto dell’emissione per poi seguirne l’evoluzione fino all’eventuale contatto con il soggetto ricevente. In realtà le goccioline che raggiungono il bersaglio con diametro inferiore o uguale a 10 μm hanno, in un ambiente ad umidità controllata, un diametro ben maggiore all’emissione e, dunque, una concentrazione virale maggiore di quella che è presente nel soggetto infetto fonte di contagio. Le considerazioni proposte danno ragione alla classificazione di trasporto airborne e droplet inizialmente suggerita e ci consentono di affermare che il virus che “nasce” droplet, droplet deve rimanere per conservare la propria capacità infettiva.

6.   Distribuzione dimensionale e concentrazione virale delle goccioline emesse con atto fonatorio e tosse da un soggetto infetto

Si consideri ora l’emissione di goccioline da parte di un soggetto infetto: per arrivare ad identificare la distanza di sicurezza, così come definita precedenza, ci si chiede quante delle goccioline emesse riescano a raggiungere il bersaglio e con quale concentrazione virale. Diviene quindi indispensabile effettuare delle valutazioni in merito alla distribuzione dimensionale (numero e dimensione) delle goccioline emesse, così come al loro contenuto di virioni.

Rispetto al primo punto, si assuma che le goccioline siano emesse per colpo di tosse e per attività fonatoria. Non sono quindi considerate, nel caso di studio, le emissioni di goccioline conseguenti, per esempio, a starnuti o durante la respirazione. Nella letteratura scientifica, sebbene siano stati effettuati numerosi studi al riguardo, si evidenzia come “i risultati siano fra di loro inconsistenti in virtù delle differenti metodologie e strumentazione utilizzata per lo scopo” (Han et al., 2015) come dimostrato dalla review di Rawlinson et al. (2010). Chi scrive, allo stato dell’arte, non ha strumenti ed informazioni tali da poter validare o confutare i dati proposti da vari autori e riportati in tabella 3 per attività fonatoria e in tabella 4 per colpo di tosse. Per esempio, con riferimento alle due tabelle Xie et al. (2009) identificano come intervallo predominante per fonazione e colpo di tosse l’intervallo dimensionale compreso fra [50 μm, 75 μm] mentre altri ricercatori, fra cui quelli del gruppo di Morawska et al. (2008), identificano tale intervallo per valori inferiori a 10 μm. Sulla base di tale inconsistenza, si ritiene necessario identificare un protocollo di prova standardizzato, rigoroso volto ad identificare univocamente la distribuzione dimensionale di goccioline di saliva/secrezioni emesse dall’essere umano durante le varie attività.

 

Dbouk & Drikakis, (2020) hanno interpolato i dati di Xie et al. (2009) relativi alla distribuzione dimensionale delle goccioline emesse per fonazione come riportati in Figura 10. In particolare, l’articolo citato stima pari a 760 il numero totale di gocce mediamente emesse per attività fonatoria da un soggetto che conta da 1 a 100 (quindi un’attività fonatoria continua di durata pari a circa un minuto e mezzo), rilevando il numero di gocce emesse sperimentalmente senza l’utilizzo di coloranti alimentari. L’articolo, tuttavia, riporta per alcuni soggetti un valore massimo di gocce pari a 2749.

Volendo rappresentare i dati di Figura 10 con il diagramma di Pareto3, con riferimento ai dati di Xie et al., (2009), circa il 79% (=51.1+19.3+8.3) delle gocce emesse risulterebbe compreso nell’intervallo [50 µm, 125 µm] come risulta dai dati riportati in Figura 11.

Relativamente al colpo di tosse si riporta in Figura 12 l’elaborazione dei dati come riportati da Xie et al. (2009). Rispetto all’atto fonatorio, l’articolo citato stima pari a 800 il numero totale di gocce mediamente emesse da un soggetto che tossisce 20 volte. L’articolo, tuttavia, riporta per alcuni soggetti un valore massimo pari a 1331 gocce. Anche in questo caso, i dati si riferiscono a prove in assenza di coloranti alimentari per la rilevazione delle gocce. Rispetto al caso di atto fonatorio, le goccioline emesse hanno dimensione, mediamente, più grande, come si può osservare dal confronto riportato in Figura 13.

Volendo rappresentare i dati di Figura 12 con il diagramma di Pareto, con riferimento ai dati di Xie et al., (2009), circa il 77% (=30.8+23.4+15.0+7.4) delle gocce emesse risulterebbe compreso nell’intervallo [50 µm, 200 µm] come risulta dai dati riportati in Figura 14.

 

Il secondo parametro da tenere in considerazione per le valutazioni sulla distanza di sicurezza è la concentrazione virale nella secrezione liquida costituente le gocce emesse dal soggetto infetto. Tale valore presenta un’elevata variabilità rendendo quindi necessario, sulla base delle informazioni allo stato dell’arte, identificare un intervallo di valori. In particolare, Carlos Cordon-Cardo et al. (2020) riportano un valore medio misurato nei soggetti positivi pari a 105.6 virioni/mL mentre Kleiboeker et al. (2020), su un campione di 4428 soggetti risultati positivi al SARS-CoV-2, indicano come valore massimo e valore minimo di concentrazione virale rispettivamente pari a 1010.42 e 100.91 virioni /mL. A questo proposito occorre però sottolineare che le cariche virali presenti nelle secrezioni variano da soggetto a soggetto e in particolare nelle varie fasi di malattia, a partire dal periodo pre-sintomatico (Sethuraman at al., 2020). Per quanto riguarda i soggetti asintomatici e sintomatici, un altro lavoro molto recente di ricercatori italiani riferito alla esperienza di Vo’ Euganeo e pubblicato su Nature (Lavezzo et al., 2020) ha dimostrato che la carica virale è simile e dipendente dal tempo trascorso dall’inizio dell’infezione.

7.   Valutazioni quantitative per l’identificazione della distanza di sicurezza dal punto di emissione

Per valutare la distanza di sicurezza al fine di minimizzare il rischio di contagio occorre considerare la gittata delle gocce emesse, ovvero la distanza alla quale queste possono arrivare una volta emesse da un individuo (Figura 15). L’elemento chiave per valutare la gittata è il tempo di persistenza della gocciolina emessa da un soggetto infetto nell’ambiente. Infatti, teoricamente, dopo un certo tempo, che dipende anche dalle dimensioni iniziali, la gocciolina sarà completamente evaporata oppure caduta al suolo prima di essere evaporata. Il tempo di permanenza in aria, dunque, è correlato alla traiettoria percorsa dalla gocciolina dopo essere stata emessa dal soggetto infetto. Tuttavia, al di fuori di condizioni controllate come quelle di laboratorio, non è semplice determinare nei casi reali sia il tempo di permanenza in aria che la distanza percorsa dalle goccioline.

Assumendo valori per l’umidità relativa negli ambienti compresa fra RH=50% e RH=90%, in Figura 16 si sono calcolati i tempi necessari per la completa evaporazione delle goccioline con diametro iniziale compreso fra [50 µm, 125 µm], ovvero l’intervallo dimensionale predominante come supposto da Xie et al. (2009). Si ritiene che il valore di RH minimo pari al 50% sia ragionevole poiché scendendo al di sotto di tale limite si potrebbero verificare condizioni di discomfort termoigrometrico per gli occupanti dei locali.

Per utile comparazione del tempo di evaporazione ottenuto considerando l’intervallo predominante come indicato da Xie et al. (2007), si riportano in Figura 17 i tempi di completa evaporazione per goccioline di dimensione compresa fra [1µm, 10µm], ovvero il range di dimensioni che risulterebbe predominante così come ipotizzato da Morawska et al. (2009), Chao et al. (2009), Morawska et al. (2011). Come riportato in figura 17, i tempi di evaporazione risultano inferiori a 2.5 s, valore massimo calcolato nel caso di gocciolina di diametro iniziale pari a 10 μm e umidità ambiente pari al 90%. Pertanto nelle valutazioni seguenti, in virtù dell’inconsistenza dei risultati sulla granulometria delle gocce riportata in letteratura, a beneficio di sicurezza si considera il caso di distribuzione dimensionale per le gocce emesse in accordo a Xie et al. (2009).

Valutare la gittata teorica è comunque fondamentale per identificare un riferimento oggettivo, utile per identificare un valore della distanza di sicurezza oltre alla quale è possibile ritenere improbabile il rischio di contagio. Per determinare la gittata teorica di goccioline non soggette a moti browniani occorre impostarne l’equazione del moto e, dunque, effettuare il bilancio delle forze che agiscono su di essa: i) forza di gravità (Fgrav), ii) forza di galleggiamento o spinta idrostatica (Flift) e iii) forza resistente del fluido (cioè l’aria) che si oppone al moto della particella (Fres). Assumendo la gocciolina come una sfera di diametro all’emissione dg, valgono le equazioni vettoriali 8, 9 e 10:

Dove ρgoccia e ρfluido sono, rispettivamente, la densità della gocciolina e del fluido all’interno del quale si muove la gocciolina (kg/m3), g è l’accelerazione di gravità pari a 9.81 m/s2, Cr è un coefficiente adimensionale che dipende dal parametro Res (Reynolds del solido/liquido), u è la velocità relativa della particella rispetto al fluido in  cui si  muove  (m/s),  mentre  𝑢̂  è  il versore  del  vettore  velocità. Il  parametro adimensionale  Res  è calcolato in accordo all’equazione 11:

dove μfluido è la viscosità dinamica del fluido in cui si muove la gocciolina (Pa s).

La legge del moto della gocciolina si scrive in accordo all’equazione 12, dove mgoccia è la massa della gocciolina ed 𝑎→ è il vettore accelerazione della gocciolina.

Inoltre, la risoluzione della legge del moto deve tener conto del processo di evaporazione che determina una variazione del volume della gocciolina, quindi del diametro, nel tempo in funzione delle condizioni termoigrometriche dell’ambiente, quali i) temperatura e ii) umidità relativa.

Data la complessità legata alla risoluzione del problema, si assume, in accordo al modello proposto da Xie et al. (2007), che i) l’emissione di goccioline avvenga assieme all’emissione di una corrente di aria che si suppone alla stessa velocità assiale (orizzontale) delle goccioline e che ii) tale emissione possa essere schematizzata come un jet non-isotermo. In particolare, il jet può essere definito come il cono il cui vertice ed il cui asse di simmetria coincidono, rispettivamente, con il punto e con la direzione di emissione e la cui equazione parametrica è definita in accordo alla metodologia proposta nell’articolo citato.

Le considerazioni seguenti saranno valide per il caso di colpo di tosse. In particolare, da Figura 18 in avanti la superficie esterna del jet, calcolato per velocità di lancio delle goccioline pari a 10 m/s, ovvero tipiche di un colpo di tosse, è evidenziata in blu. Inoltre, le valutazioni fanno riferimento alle seguenti condizioni ambientali: temperatura dell’aria pari a 20 °C e umidità dell’aria pari a RH=50%. Analizzando la Figura 18, si deduce che:

  • Le gocce che vengono emesse con diametro uguale o maggiore di 100 µm non evaporano completamente prima di aver raggiunto il In particolare, una volta che la goccia sia fuoriuscita dal jet la componente di moto orizzontale è praticamente nulla;
  • Le gocce che vengono emesse con diametro pari a 40 µm sono quelle che percorrono la distanza orizzontale maggiore prima di scomparire per evaporazione (a circa 2.2 m dal punto di emissione) e che permangono ad altezza elevata.

Partendo dai risultati riportati in Figura 18, per le valutazioni seguenti si assume:

  • L’emissione delle goccioline per colpo di tosse può essere descritta con la distribuzione dimensionale proposta da Xie et (2009) e mostrata in Figura 12. Si ricorda che la distribuzione dimensionale utilizzata per le valutazioni seguenti è riferita a 20 colpi di tosse.
  • La concentrazione virale della secrezione liquida è considerata come riportato nel precedente
  • Il volume di aria all’interno del cono di emissione di altezza pari a 2 m e raggio di base 0.5 m (volume in blu nella Figura 18) risulta pari a 5.8 x 105 mL.
  • Le goccioline di diametro all’emissione superiore a 60 µm fuoriescono dal cono di emissione prima di essere completamente evaporate. Pertanto, i virioni in esse contenuti, qualora rilasciati prima di aver raggiunto il suolo, non contribuiscono all’aumento della concentrazione virale all’interno del cono di

Si valutano allora i tre casi seguenti:

CASO 1. La secrezione liquida emessa dal soggetto infetto ha concentrazione virale  media pari a 106 virioni/mL:

  • Trasmissione droplet. Rielaborando i dati di Xie at al. (2009) relativi alla distribuzione dimensionale delle gocce emesse risulta che il 2% del totale, quindi circa 50 gocce su 800, ha diametro compreso fra [40 µm, 50 µm]. Tali gocce, come mostrato in Figura 18, sono quelle caratterizzate dalla maggiore gittata e, dunque, sono potenzialmente le più pericolose. Sulla base della concentrazione virale assunta all’emissione, le gocce emesse con diametro iniziale pari a 40 µm possono veicolare 0.034 virioni/goccia. Pertanto, su 30 gocce emesse, in media solamente una goccia contiene un virione. Le gocce emesse con diametro iniziale pari a 60 µm, invece, possono veicolare 0.113 virioni/goccia, ovvero su 9 gocce emesse, mediamente, solo una contiene un virione. Viceversa, le gocce che all’emissione presentano un diametro compreso fra [60 µm, 125 µm] costituiscono il 62.6% del totale, quindi 476 gocce su un totale di 800. Sulla base della concentrazione virale all’emissione, le gocce emesse con diametro iniziale pari a 125 µm possono veicolare 1.02 virioni/goccia, ovvero ogni goccia emessa contiene in media un virione.
  • Trasmissione airborne. I virioni rilasciati a seguito di evaporazione delle goccioline e soggetti a moti browniani si diffondono in tutto il volume di controllo. In particolare, il numero di virioni rilasciato a seguito di evaporazione delle gocce all’interno del volume di controllo è pari a 2.5 virioni nel caso di emissione di 800 goccioline. La concentrazione virale veicolata in modalità airborne all’interno del cono di controllo (che, giova ricordare, ha volume pari a 8 x 105 mL) risulta pari a 4.3 x 10-6 virioni/mL.

Rispetto all’ultimo punto occorre sottolineare che il basso indice di pericolosità per la modalità di trasmissione airborne, come proposto in tabella 2, è giustificabile in quanto:

  1. i virioni, soggetti a moti browniani, si diffondono in tutto il volume di controllo dando luogo a concentrazioni virali relativamente basse rispetto al caso di trasporto Infatti, nonostante sia ragionevole pensare che solo una parte delle goccioline emesse dal soggetto infetto raggiunga il soggetto suscettibile, la probabilità di contagio tramite droplet è maggiore in virtù dei meccanismi di urto o impatto con le superfici respiratorie come precedentemente descritto.
  2. proprio grazie ai moti browniani, la probabilità di deposizione sulle superfici interne dell’organismo dei virioni veicolati in modalità airborne è ulteriormente diminuita dal momento che si può supporre come solo una piccola parte di virioni si vada a depositare nelle vie aeree del soggetto ricevente.

CASO 2. La secrezione liquida emessa dal soggetto infetto ha concentrazione virale massima nell’intervallo considerato, ovvero pari a 1011 virioni/mL:

  • Trasmissione droplet. Sulla base della concentrazione virale all’emissione, il numero di virioni mediamente veicolato per singola goccia di diametro iniziale pari a 40 µm risulta circa 3351 virioni/goccia, raggiungendo il valore di 11310 virioni/goccia per gocce di diametro pari a 60 µm.
  • Trasmissione airborne. Sulla base delle ipotesi precedenti, il numero di virioni rilasciato a seguito di evaporazione delle gocce all’interno del volume di controllo è pari a 247.433 virioni nel caso di emissione di 800 goccioline. La concentrazione virale all’interno del cono di emissione, nel caso di concentrazione virale all’emissione massima, risulta 43 virioni/mL, ovvero 1 virione ogni 2.3 mL.

CASO 3. La secrezione liquida emessa dal soggetto infetto ha concentrazione virale minima, ovvero pari a 101 virioni/mL:

  • Trasmissione droplet. Sulla base della concentrazione virale all’emissione, il numero di virioni mediamente veicolato per singola goccia di diametro iniziale pari a 40 µm risulta circa 35 x 10-7 virioni/goccia, ovvero su 2.985.075 gocce emesse, mediamente solo una contiene un virione. Nel caso di diametro iniziale pari a 60 µm risulta un valore pari a 1.13 x 10-6 virioni/goccia, ovvero su 884.956 gocce solo una contiene un virione. Nel caso di diametro iniziale di 125 µm è calcolato un valore di 1.02 x 10-5 virioni/goccia, ovvero su 98.039 gocce, statisticamente, solo una contiene un virione.
  • Trasmissione airborne. Sulla base delle ipotesi precedenti, il numero di virioni rilasciato nel volume di controllo a seguito di evaporazione delle gocce emesse per tosse, così come descritto dal protocollo di Xie et (2009), risulterebbe pari a 2.47 x 10-5 virioni nel caso di emissione di 800 goccioline. La concentrazione virale all’interno del cono di emissione, nel caso di concentrazione virale all’emissione minima, risulta 4.3 x 10-11 virioni/mL, ovvero 1 virione ogni 23.256 m3.

Si sintetizzano in tabella 5 e in tabella 6 i risultati ottenuti combinando le due modalità di trasporto del virus con tre differenti cariche virali del soggetto infetto nel caso di tosse.

Sulla base delle considerazioni sin qui esposte, possiamo ulteriormente avvalorare il modello già noto nelle modalità di trasmissione delle malattie infettive che vede in gioco una triade: il microrganismo (vie di eliminazione da parte del soggetto infetto e modalità di ingresso nel soggetto suscettibile, carica infettante, capacità replicativa, etc.); il soggetto target (caratteristiche del soggetto, età, genere, stato del sistema immunitario, patologie concomitanti, etc.) e ambiente (caratteristiche fisico-chimiche, etc.) (Rothman, 1976). In particolare, il soggetto infetto da SARS-CoV-2 la cui secrezione orale è caratterizzata dalla concentrazione virale massima, ovvero 1011 virioni/mL potrebbe avere un elevato potenziale infettante rispetto ad un soggetto suscettibile posto ad una distanza inferiore alla distanza di sicurezza. Le caratteristiche del soggetto bersaglio nonché le caratteristiche ambientali, devono comunque essere tenute in considerazione, Dalla combinazione di questi fattori possiamo cercare di capire come si diffonda nelle comunità l’infezione con vari gradi di severità. Pujadas et al. (2020), per esempio, dimostra come la carica virale sia un predittore di mortalità nei pazienti gravi e ospedalizzati. Il modello di diffusione di SARS-CoV-2 in realtà non è un modello deterministico, ma risponde a logiche probabilistiche e gli stessi input non producono sempre gli stessi output. Queste modalità sono evidenziate anche da numerosi casi di studio empirici che mettono in evidenza come nei confronti di SARS-CoV-2 possano esistere individui “superspreader” e eventi “superspreading” a differenza che per altre malattie virali, quali l’influenza, che seguono modelli più di tipo deterministico. Questa modalità di diffusione attraverso cluster è già stata descritta per MERS e SARS-CoV-1, ma sembra ancora più evidente per SARS-CoV-2. Numerose modellizzazioni matematiche affiancate da dati empirici, mostrano come l’80% dei casi secondari dipenda da meno del 20% dei soggetti infetti (Endo et al., 2020). La carica virale e le modalità comportamentali del soggetto infetto e del soggetto target, nonché le loro caratteristiche individuali, potrebbero spiegare perché un soggetto si comporta diversamente da un altro, ma le situazioni ambientali, comprese le distanze fra gli individui, le condizioni termo-igrometriche soprattutto in ambienti confinati potrebbero rendere ragione della restante parte della diffusione per gruppi. La maggior parte dei casi di cluster riportati in letteratura è avvenuta in ambienti indoor, scarsamente ventilati, in cui un gran numero di persone si è radunato per un periodo di tempo prolungato, come per esempio nel caso di cerimonie religiose, palestre, ristoranti, ambienti di lavoro confinati e senza distanziamento sociale (esempio il caso relativo ad un call center a Seul) (Jeong et al., 2020) (Kupferschmidt, 2020). In particolare, alcuni setting sono stati collegati con maggiore frequenza a eventi di superspreading, tra i quali dormitori e impianti di processazione della carne in USA e Nord Westfalia-Germania (bassa temperatura, alta umidità relativa e sovraffollamento) (). Inoltre, alcune attività sono state evidenziate come a più alto rischio, quali parlare ad alta voce (tifosi negli stadi) o cantare (come ad esempio nel caso dei cori (Hamner et al., 2020)). Qui vale la pena di sottolineare come a tutte le situazioni descritte corrisponda una condizione ambientale ad altissimo grado igrometrico RH.

D’altro canto invece, per quanto riguarda sia la concentrazione virale minima che quella media misurata in soggetti positivi al SARS-CoV-2, ovvero 101 virioni/mL e 106 virioni/mL, rispettivamente, sulla base dei risultati sopra esposti è lecito esprimere qualche dubbio sulla reale capacità di trasmissione del contagio, così come sull’impatto del virus sul soggetto eventualmente contagiato. Come già detto, ed in accordo con il modello rappresentato in Figura 9, le basse concentrazioni virali dovrebbero permettere al sistema immunitario di reagire con velocità relativamente alta rispetto a quella di propagazione del contagio, interrompendo in tal modo la replicazione virale in tempi brevi. Questo fenomeno trova spiegazione nel fatto che una maggiore concentrazione virale porta a ridurre la distanza media fra cellula e virione, e quindi i contatti, a parità di velocità del moto del virione che incontra la cellula, avvengono in tempi più brevi e, verosimilmente, inversamente proporzionali alla concentrazione stessa.

Sulla base delle precedenti considerazioni ed evidenze da casi di studio si può giustificare la presenza di sia di eventi superspreading sia di soggetti “Super- Spreader”, ovvero di soggetti positivi al SARS-CoV-2 in grado di infettare un numero elevato di soggetti suscettibili come ad esempio riportato nello studio di Zheng et al. (2020) in cui, in condizioni favorevoli, un solo soggetto sembrerebbe aver infettato il 33% delle persone con cui era venuto a contatto, una percentuale circa 5 volte superiore all’indice di trasmissione medio riscontrato nella stessa città.

Con riferimento alla Figura 18, la distanza per evitare la diffusione del contagio fra soggetto infetto e soggetto ricevente nel caso di colpo di tosse dovrebbe essere assunta almeno pari a 2.2 metri. La distanza di sicurezza così definita si riferisce a specifiche condizioni termoigrometriche, ovvero temperatura dell’aria pari a 20 °C e umidità relativa RH pari al 50%. Dalle considerazioni sul tempo di evaporazione al variare del grado igrometrico discende in maniera molto chiara come il controllo del grado igrometrico RH assuma un ruolo decisivo nel calcolo della distanza assiale che le goccioline riescono a percorrere, e quindi della determinazione della distanza di sicurezza. Si riportano in Figura 19 i casi calcolati da Xie et al. (2007) per goccioline da 20 µm e 40 µm per tre diversi valori del grado igrometrico in ambiente. Il risultato conferma come, con particolare riferimento alle goccioline di 20 µm, il controllo dell’umidità relativa in ambiente garantisca una minore distanza percorsa dalla gocciolina prima della sua completa evaporazione, ovvero al passaggio da trasmissione droplet ad airborne.

Sulla base del fatto che la relazione fra gittata di una goccia evaporante, temperatura ambiente, umidità relativa ambiente e velocità di lancio non è lineare, ma dipende dalla risoluzione dall’equazione di equilibrio delle forze e di quelle di trasferimento di massa e di energia, la metodologia proposta consente di determinare la distanza di sicurezza in differenti condizioni termoigrometriche ovvero in differenti modalità di emissione delle gocce, per esempio nel caso di fonazione.

8.   Conclusioni

 Controllare la diffusione del virus SARS-CoV-2 in ambienti confinati quali, per esempio, uffici, aule scolastiche o mezzi di trasporto, è fondamentale per garantire lo svolgimento in sicurezza di tutte quelle attività che richiedono interazione e permanenza di più persone in luoghi chiusi.

In mancanza di una terminologia rigorosa e univocamente accettata come quella proposta dallo studio per le modalità di diffusione del virus SARS-CoV-2 e, in particolare, per quelle cosiddette “airborne” e “droplet”, non sarebbe possibile identificare le modalità di trasmissione che determinano la maggior probabilità di contagio, ovvero attuare le contromisure più efficaci alla minimizzazione del rischio.

Sulla base di tale terminologia, lo studio dimostra che ciò che nasce droplet muore droplet, ovvero che la trasmissione per via diretta può avvenire efficacemente solo attraverso goccioline comunque emesse da un soggetto infetto.

Pertanto, l’analisi della modalità di trasmissione del virus SARS-CoV-2 da persona a persona in ambiente confinato può essere limitata a valutare la capacità delle goccioline emesse di raggiungere una determinata distanza in funzione della dimensione (massa), della velocità iniziale con cui sono emesse dal soggetto infetto, e delle condizioni termo-igrometriche (ovvero temperatura e grado di umidità) e fluidodinamiche (correnti convettive, dovute a differenze di temperatura, o forzate, dovute a ventilatori, areazione tramite l’apertura di finestre in presenza di vento) dell’aria nell’ambiente in cui la gocciolina viene emessa.

La definizione stessa di una “distanza di sicurezza”, pertanto, non deve e non può basarsi esclusivamente su considerazioni di tipo aerodinamico (massa, velocità della gocciolina, resistenza in aria, ecc.), ma deve ricomprendere anche una valutazione sull’influenza che può avere il grado di umidità dell’aria ambiente nel favorire o sfavorire la permanenza della gocciolina infetta nell’ambiente.

Come riportato, le goccioline emesse sono caratterizzate da una distribuzione dimensionale che è funzione della modalità con cui vengono emesse, ovvero con atto fonatorio, colpo di tosse, starnuti o semplice respiro. In riferimento al caso di studio riportato, si osserva che:

  • Le goccioline emesse di dimensioni maggiori, ovvero nell’ordine dei 100 micron, tendono a cadere al suolo prima di essere evaporate ad una distanza inferiore al metro e In condizioni termoigrometriche favorevoli, ovvero di elevata umidità, tali goccioline potrebbero permanere sulla superficie di arrivo per molto tempo. Al ridursi dell’umidità nell’aria ambiente, viceversa, la goccia, evaporando, tenderebbe a ridurre progressivamente il proprio volume lungo la traiettoria aumentando la propria concentrazione virale sino a scomparire con rilascio dei virioni contenuti. Questi, i virioni,inizierebbero un trasporto cosiddetto “airborne”, ovvero di particelle solide trasportate per via aerea. In tal caso, le bassissime concentrazioni virali e la probabilità dei virioni di depositarsi sulla superficie di contatto in conseguenza al moto casuale browniano che li caratterizza, dà ragione di un rischio di diffusione del contagio trascurabile rispetto al caso droplet.
  • Le goccioline più piccole presentano potenzialmente una maggiore capacità di diffusione ad ampio raggio (sino a 2 metri per goccioline di 40 micron nel caso di studio proposto), ma minore carica virale (numero di virioni contenuti a parità di concentrazione dell’emittente). In condizioni termoigrometriche sfavorevoli, potrebbero neutralizzarsi, vaporizzandosi completamente, una volta espulsa dal soggetto infetto, nel giro di qualche secondo. Per diametri più piccoli il tempo necessario può essere calcolato in frazioni di secondo, e comunque molto più rapidamente delle goccioline di dimensione maggiore sopra citate. D’altro canto, se le condizioni termo-igrometriche fossero favorevoli, la gocciolina, in particolare quella di minore dimensione, potrebbe permanere “in sospensione” nell’ambiente, costituendo un pericoloso veicolo di contagio.
  • Una goccia che parte con un diametro relativamente grande ed evapora, lungo la traiettoria, potrebbe arrivare al “bersaglio” con la stessa carica virale (qualora essa non venisse dispersa in ambiente), ma con concentrazione assai più elevata proprio in ragione della diminuzione del volume della gocciolina. Tale condizione, come osservato dallo studio, rappresenta quella di maggior rischio in quanto, a parità di tempo morto e velocità di risposta del sistema di difesa umano, all’aumentare della concentrazione virale corrisponderebbe un dilagare dell’infezione maggiore.

Pertanto, sulla base di tali osservazioni, si può affermare che il tempo di persistenza della goccia, ovvero la “distanza di sicurezza”, è funzione del grado igrometrico nell’aria ambiente.

Pertanto, qualora si voglia dare significato al concetto di distanza di sicurezza occorre controllare il grado igrometrico. Infatti, in un ambiente confinato in cui è presente almeno un individuo, le condizioni termoigrometriche dell’aria ambiente non sono costanti nel tempo.

Quindi, ritenersi in sicurezza rispettando la distanza interpersonale in un ambiente confinato implica la necessità di adottare soluzioni tecniche atte a controllare il grado igrometrico. In assenza di ciò, se, per esempio, l’emissione di vapore d’acqua nell’ambiente fosse tale da raggiungere le condizioni di saturazione, a quel punto, il concetto di distanza di sicurezza crollerebbe in conseguenza della persistenza in sospensione delle goccioline di minore dimensione per un tempo teoricamente infinito.

Il controllo del grado igrometrico è dunque l’unico elemento che garantisce il significato e l’efficacia del concetto di “distanza di sicurezza” in contrasto alla diffusione del contagio di SARS-CoV-2. La sola aerazione ciclica dei locali, in assenza di dispositivi per il controllo dell’umidità (deumidificatori), potrebbe comportare, in taluni casi, un peggioramento delle condizioni termoigrometriche nell’ambiente confinato qualora fossimo in presenza, ad esempio, di alta umidità nell’aria esterna, per effetto della pioggia o per la presenza di nebbia o per la diminuzione della temperatura ambiente fino a raggiungere e superare la temperatura del punto di rugiada, ovvero se l’apertura della finestra comportasse una robusta e repentina ventilazione per la presenza di vento che aiuterebbe, senza dubbio, la trasmissione delle gocce nell’ambiente confinato.

Pertanto, sotto certe condizioni termo-igrometriche ambientali, occorre ammettere che l’ambiente interno di un locale ad uso pubblico, correttamente condizionato, è da preferirsi rispetto a quello esterno in riferimento alla diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

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Bibliografia

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I media, il coronavirus e i diritti dell’uomo

27 Gennaio 2022 - di Andrea Miconi

In primo pianoSocietà

(1) Oggi, quello che siamo

     Amnesty International è riconosciuta, in modo curiosamente unanime, come la più importante istituzione al mondo nel campo dei diritti umani[1]; e la stampa italiana, per parte sua, è sempre stata d’accordo. Il Corriere della Sera la descrive come una “organizzazione non governativa internazionale a tutela di libertà, verità, giustizia e dignità”[2], niente meno; La Stampa usa toni simili[3]; Il Sole 24 Ore ne cita anche la nota di aprile 2021 sui rischi dovuti alle misure governative anti-Covid[4]; mentre La Repubblica ha prodotto, tra le altre cose, un’arringa sulla “promozione dei diritti umani” su cui l’Italia “è in prima linea”, con tanto di discorso di Mattarella nel giorno in cui Amnesty “pubblica il rapporto mondiale sui diritti umani”[5] (che mette i brividi, a leggerla oggi).

     Anche a livello quantitativo, come si vede dalla sommaria ricerca sintetizzata nella tabella 1, il riferimento ad Amnesty International negli ultimi anni è rimasto costante, nei news media italiani (in modo particolare nei casi della Repubblica e di Avvenire, presumibilmente per una certa convergenza tra laici e cattolici sul tema dell’immigrazione). In più Amnesty è stata usata non solo come fonte per tematizzare le violazioni dei diritti nei paesi lontani, ma anche a sostegno delle posizioni progressiste su fatti a noi più vicini: come il sequestro della Sea Watch, l’assassinio di Giulio Regeni, o la prigionia di Patrick Zaki.

 

Tabella 1. Articoli che menzionano Amnesty International in alcuni news media selezionati

Testata Fonte Numero di menzioni Periodo
Ansa www.ansa.it 284 1/1/2019-15/1/2022
Avvenire www.avvenire.it 536 1/1/2019-15/1/2022
Corriere della Sera www.corriere.it 269 1/1/2019-15/1/2022
Il Giornale www.ilgiornale.it 54 1/1/2019-15/1/2022
Open www.openline.it 182 1/1/2019-15/1/2022
La Repubblica www.repubblica.it 921 1/1/2019-15/1/2022
Il Resto del Carlino www.ilrestodelcarlino.it 250 1/1/2019-15/1/2022
Il Sole 24 Ore www.ilsole24ore.com 102 1/1/2019-15/1/2022
TgCom24 www.tgcom24.mediaset.it 92 1/1/2019-15/1/2022

Fonte: mia elaborazione

 

     È dunque singolare che nei nostri media, così sensibili ai diritti dell’uomo, non sia nemmeno affiorata la denuncia pubblicata da Amnesty International il 14 gennaio 2022, che, “con riferimento al contesto italiano, […] continua a sollecitare il governo ad ancorare i propri interventi a principi di legalità, legittimità, necessità, proporzionalità e non discriminazione”. In breve, Amnesty individua quattro problemi, che mettono a rischio i diritti umani in Italia, e che rimandano alla durata abnorme dello stato di emergenza; all’esclusione dei non vaccinati dal lavoro e dai servizi essenziali; alla scadenza imprecisata del Green Pass; e infine al divieto di manifestare contro il governo[6]. Ora, una presa di posizione di tale portata – la più grande organizzazione per i diritti civili che mette sotto accusa il Paese – dovrebbe ragionevolmente meritare grande spazio, negli organi di informazione. E infatti, puntualmente, è stata ripresa in modo sommario e sbrigativo solo da tre testate tutt’altro che egemoni – L’Indipendente[7], Il Tempo[8] e L’Arena[9] – e per il resto sfacciatamente ignorata.

     D’altronde non c’è praticamente nulla, ma davvero nulla, su cui i media non abbiano mentito: sulla scientificità del lockdown; sul fantomatico modello italiano; sull’accordo nella comunità scientifica; sulla temporaneità delle misure, che tanto temporanee non erano; sui protocolli di cura; sull’eresia dei medici che usavano anti-infiammatori e monoclonali (e che, si scopre oggi, avevano ragione); sulla contagiosità dei vaccinati; sullo scopo del Green Pass – perché se fosse la limitazione del contagio sarebbe stato ritirato, proprio per il motivo di cui sopra. Ora, sappiamo come funzionano queste cose: col tempo le carte verranno rimescolate, le proporzioni diventeranno sfocate, ogni sostenitore del lockdown negherà di esserlo mai stato, e verrà messa a regime la più banale delle morali – che ci si basava sulle conoscenze del momento; che non c’erano alternative a quello che è stato fatto; e che allora la pensavamo tutti alla stessa maniera. Ma dato che così non è, e così non è mai stato, tenere a mente quello che è successo è un passaggio necessario, se speriamo di ricondurre la nostra esistenza collettiva a qualche residuo di civiltà. E per questo, il primo sforzo richiesto è quello di chiamare le cose col loro nome, come visto con Amnesty: violazioni dei diritti dell’uomo.

 

(2) Ieri, quello che si poteva fare

     Come tutti gli studiosi di grande fama scientifica – a partire da John Ioannidis – Harvey Risch, epidemiologo di Yale, è del tutto sconosciuto al pubblico italiano, a cui i media hanno presentato come esperti un grottesco carrozzone di studiosi di basso profilo, tutti specializzati in ben altro. Non a caso, Ioannidis ha pubblicato diverse ricerche che indicano l’inutilità delle misure di contenimento di massa[10], e Risch, per parte sua, ha assunto una posizione ben più critica: che il Sars-Cov-2 metta in pericolo solo alcune fasce di popolazione lo abbiamo capito subito, ha detto, ma i media e i governi lo hanno usato impropriamente per generare un clima di allarme generale[11] .

     Che le chiusure non abbiano utilità per il contenimento del contagio, peraltro, è una tesi sostenuta da un gran numero di scienziati. Ne è un esempio la Great Barrington Declaration, scritta il 4 ottobre 2020 da tre epidemiologi di buona fama: Martin Kulldorff, di Harvard; Jayanta Bhattacharya, di Stanford; e Sunetra Gupta, di Oxford[12]. La loro proposta è quella di concentrare l’attenzione sulla popolazione a rischio, dedicando a loro le risorse per le cure e l’assistenza domiciliare – la cosiddetta “protezione focalizzata” – lasciando che chi corre statisticamente pochi rischi faccia quello che ha sempre fatto, così da immunizzarsi attraverso il contagio naturale, ed evitare le catastrofiche conseguenze di misure come il lockdown.

     Ad oggi, la Dichiarazione di Great Barrington è stata firmata da oltre 46000 medici e più di 15600 scienziati, tra cui Alexander Walker e Sylvia Fogel di Harvard; Laura Lazzeroni e Michael Levitt di Stanford; Udi Qimron, Motti Gerlic, Ariel Munitz ed Eitan Friedman della Tel Aviv University; Jonas Ludvigsson della Örebro University; Tom Nicholson di Duke; David Katz di Yale; Lisa White di Oxford (insomma, poteva andare peggio). Non stupitevi se non avete mai sentito parlare, però: perché i media italiani hanno fatto tutto il possibile per tenere nascosta la cosa, come mostra la tabella 2.

 

Tabella 2. Menzioni della GBD nei news media italiani [i sette Tg generalisti di prime time e i primi venti quotidiani per diffusione]

Testata Periodo considerato Numero di edizioni Numero di menzioni
Tg1 5/10/20-27/2/2021 145 0
Tg2 5/10/20-27/2/2021 145 0
Tg3 nazionale 5/10/20-27/2/2021 145 0
Tg4 5/10/20-27/2/2021 145 0
Tg5 5/10/20-27/2/2021 145 0
Studio Aperto 5/10/20-27/2/2021 145 0
Tg La7 5/10/20-27/2/2021 145 0
Avvenire 5/10/20-16/1/2022 468 1
Corriere della Sera 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Fatto Quotidiano 5/10/20-16/1/2022 468 4
Il Gazzettino 5/10/20-16/1/2022 468 0
Il Giornale 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Giornale di Sicilia 5/10/20-16/1/2022 468 0
Il Giorno 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Mattino 5/10/20-16/1/2022 468 0
Il Messaggero 5/10/20-16/1/2022 468 0
Il Piccolo 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Resto del Carlino 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Secolo XIX 5/10/20-16/1/2022 468 0
Il Sole 24 Ore 5/10/20-16/1/2022 468 1
Il Tempo 5/10/20-16/1/2022 468 0
Italia Oggi 5/10/20-16/1/2022 468 1
La Nazione 5/10/20-16/1/2022 468 1
La Repubblica 5/10/20-16/1/2022 468 3
La Stampa 5/10/20-16/1/2022 468 1
Libero 5/10/20-16/1/2022 468 0
L’Unione Sarda 5/10/20-16/1/2022 468 0

 

Totale   10375 17

Fonte: elaborazione su dati dell’Università IULM e dell’Osservatorio di Pavia

     Il numero totale di menzioni, diciassette, è risibile ma perfino sovradimensionato, dato che le tre testate di Quotidiano Nazionale rimandano allo stesso editoriale – così di articoli che ne parlano ce ne sono in effetti quindici. Né, già che ci siamo, i contenuti di questi articoli sono particolarmente leali: Avvenire scrive di un documento promosso da una fondazione di studi economici, dimenticando di dire – ma che volete che sia – che gli autori sono tre epidemiologi[13]; e La Stampa stigmatizza l’idea di protezione focalizzata come un “inquietante apartheid anagrafico”[14] (mentre non si tratterà di apartheid anagrafico, chissà perché, nel caso dell’obbligo vaccinale per gli over 50).

     Non si tratta qui di discutere del merito della GBD, su cui ognuno la pensa come vuole: ma di prendere atto del regime di menzogne e mistificazione costruito dai media, in Italia come in alcuni altri paesi. Semplicemente, non è vero che la comunità scientifica fosse concorde sull’utilità del lockdown; e non è vero che non esistessero alternative. Non stupisce nemmeno troppo, allora, il contenuto delle e-mail di Anthony Fauci e Francis Collins, i due uomini a capo della sanità degli Stati Uniti, pubblicate grazie al Freedom of Information Act (una di quelle cose che dovremmo semplicemente copiare, anziché vantarci di avere inventato il diritto). Dato che la Dichiarazione sta “guadagnando una certa notorietà” dopo la firma di Mike Levitt – scrive Collins a Fauci – è necessario organizzare una “campagna veloce e devastante” di delegittimazione[15]. Pochi giorni dopo, Collins detterà la linea del potere alla stampa, citando la stessa espressione – “fringe epidemiologists”, nulla più di una frangia marginale – che aveva usato nelle e-mail private. Ora, che gli epidemiologi degli atenei più accreditati del mondo siano fringe è semplicemente assurdo, ed emerge qui la natura tutta politica del colpo di mano che alcune istituzioni hanno operato: censurando le voci alternative, oscurando il dibattito scientifico, prendendo possesso dei media, e definanziando gli studiosi non allineati. Lo ha riconosciuto infine, ma tardivamente, il Wall Street Journal, accusando Fauci di avere “intenzionalmente vilipeso e cestinato” la Great Barrington Declaration, per nessun altro scopo che il proprio potere.

Anziché tentare di manipolare l’opinione pubblica, il lavoro degli ufficiali sanitari è offrire la loro migliore consulenza scientifica. Non dovrebbero comportarsi come politici o censori, e quando lo fanno, dilapidano la fiducia del pubblico[16].

     Due degli autori della GBD, Bhattacharya e Kulldorff, hanno preso la parola a loro volta, per commentare la “rapida e devastante rimozione” della loro tesi concordata da Fauci e Collins[17]. La campagna di delegittimazione ha certamente coinvolto alcune autorità sanitarie inglesi – in particolare Jeremy Farrar e Domenic Cummings – che hanno contribuito ad organizzare “un’aggressiva campagna di stampa contro coloro che stanno dietro la Dichiarazione di Great Barrington e altri contrari alle restrizioni generali del COVID-19”[18]. Il breve scritto di Kulldorff e Bhattacharya vale il tempo della lettura, comunque, per la chiarezza con cui illustra la natura arbitraria, classista ed anti-scientifica del lockdown e della chiusura delle scuole; ma anche per come denuncia il peso dei grandi finanziatori sulla libertà e sulla dignità della ricerca. Non è un caso che gli scienziati che si sono prestati ad andare in televisione – e non solo in Italia, come mostrato da un’agile ricerca di Ioannidis[19] – non siano mai quelli più accreditati nella comunità accademica, che hanno dalla loro un’autonomia ed un onore da difendere. Ed è chiaro che con i responsabili di tutto questo – nei media come nella comunità scientifica – dovremo fare i conti a lungo.

 

(3) I conti col dissenso

     Nel frattempo, la strategia dei media è stata aggiornata. Forse perché nascondere il dissenso è diventato impossibile; forse perché bisogna vendere agli inserzionisti una porzione di audience in più – come che sia, la presenza di voci critiche contro il Green Pass è diventata costante nei talk show, molto più di quanto fosse quella degli oppositori del lockdown, del coprifuoco e delle zone rosse, che di fatto non sono mai stati rappresentati. Ma anziché allargare il raggio della discussione, questo ha prodotto una nuova situazione drammatica, e perfino una nuova forma simbolica: la messa in scena della punizione dei dissidenti.

     Non è un caso, temo, che di spazio per le voci critiche ce ne sia molto poco nei quotidiani: dove un punto di vista, per quanto marginalizzato e confinato in un taglio basso all’interno, mantiene la propria autonomia e compiutezza. È invece nei talk show che i contrari al lasciapassare sono invitati spesso: proprio con lo scopo di attaccarli, offenderli, metterli all’angolo, per mezzo di un’aggressione di gruppo che assume nel migliore di casi i toni del bullismo, se non quelli dello squadrismo. Così Maddalena Loy – un raro esempio di giornalista non sottomessa al governo – è stata derisa da Bianca Berlinguer e Bruno Vespa per aver affermato che i vaccinati si contagiano: cioè quello che di lì a breve sarebbe stato riconosciuto da tutti. Un medico ed un giornalista (Matteo Bassetti e Luca Telese) avevano fatto lo stesso contro Mariano Amici, trattandolo letteralmente come un pazzo. Alberto Contri è stato provocato con una raffica di offese e attacchi personali che sarebbero inqualificabili in una lite al ginnasio. Francesco Borgonovo è stato assalito mentre cercava di venire a capo di una questione tremenda – che i giornalisti fanno finta di non vedere – quale l’esclusione dei non vaccinati dalle cure ospedaliere. Giovanni Frajese viene regolarmente invitato e regolarmente sepolto da accuse pretestuose; per quanto mostri una surreale capacità di autocontrollo. A Paolo Gibilisco, un matematico con cui condivido la mozione contro il green pass nelle università[20], il vice-ministro Sileri ha detto che il governo gli sta rendendo la vita impossibile – sì, ha detto proprio così, senza essere costretto alle dimissioni – perché chi non rispetta le regole è pericoloso.

     Si potrebbe continuare all’infinito con gli esempi, ma è più interessante ragionare sulla funzione di questo script: mettere in scena l’aggressione alla minoranza; mostrare a tutti cosa succede – in piccolo, negli studi televisivi; in grande, nell’Italia del 2022 – a chi non si allinea alle volontà del governo. Sono ormai caduti, infatti, tutti gli orpelli e gli argomenti di facciata, inclusi quelli medici, e siamo arrivati infine alla radice del discorso, all’osso del problema – al potere quale “segreta, inquietante, ultima cosa”, volendo citare Carl Schmitt[21]. Tutto qua, nudo e semplice, depurato della sua poco plausibile legittimazione medica, il discorso dei media: esistono due cose e due cose soltanto, l’obbedienza oppure la persecuzione. Intendiamoci, la cosa non riguarda soltanto i media, e anzi in tutti gli ambiti del mondo sociale è caduto l’ultimo velo, quello della presunzione di legittimità formale: tanto che i parlamentari positivi al Sars-Cov-2 – che dovrebbero essere in quarantena – vanno a votare per l’elezione del Presidente della Repubblica, mentre non possono farlo i parlamentari non vaccinati. E il mondo intellettuale non sta tanto meglio, vista la moderata reazione del Presidente della Conferenza dei Rettori alla nostra raccolta di firme contro il Green Pass: l’università italiana ha soltanto una linea, ed è quella del governo[22] (che è una frase quintessenzialmente fascista, al di là del fatto che la CRUI non ha alcun titolo per parlare a nome dell’università). Quello che pochi di noi hanno intravisto da subito[23], è ormai conclamato ed evidente – e più chiaro di così, non potrebbe essere. Se ci sono ancora donne e uomini liberi, là fuori, è tempo che si facciano sentire; iniziando a chiamare le cose col loro nome.

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[1] Ad esempio R. Takhur, Human Rights: Amnesty International and the United Nations, “Journal of Peace Research”, 31, 2, 1994, 143-160.

[2] Dodici mesi di buone notizie, Amnesty International e le battaglie vinte, “Corriere della Sera”, 1 gennaio 2022.

[3] M. Tagliano, In piazza Martiri a Cervo una pianta per i sessant’anni di Amnesty International, “La Stampa”, 7 dicembre 2021.

[4] R. Bongiorni, Rapporto Amnesty: quando la Pandemia travolge gli ultimi diventa un’alleata dei regimi, “Il Sole 24 Ore”, 7 aprile 2021.

[5] Mattarella, “Promozione dei diritti umani imperativo etico. Italia in prima linea”, “la Repubblica”, 10 dicembre 2018.

[6] Amnesty International, Posizione di Amnesty International Italia sulle misure adottate dal governo per combattere il covid-19, 14 gennaio 2022, https://www.amnesty.it/posizione-di-amnesty-international-italia-sulle-misure-adottate-dal-governo-per-combattere-il-covid-19/.

[7] Amnesty all’Italia: emergenza deve finire, non discriminare i non vaccinati, “L’Indipendente”, 15 gennaio 2022.

[8] Vaccino, green pass e stato d’emergenza: anche Amnesty International denuncia discriminazioni, “Il Tempo”, 14 gennaio 2022.

[9] Amnesty: “Spingere sui vaccini, ma obbligo ultima risorsa. No a Super Green Pass per lavoro e trasporti”, “L’Arena”, 15 gennaio 2022.

[10] Ad esempio V. Chin, J. Ioannidis & altri, Effects of non-pharmaceutical intervention on COVID-19: A Tale of Three Models, “MedRxiv”, 10 dicembre 2020, doi.org/10.1101/2020.07.22.20160341; E. Bendavid, J. Ioannidis & altri, Assessing mandatory stay-at-home and business closure effects on the spread of COVID-19, “European Journal of Clinical Investigation”, 51, 4, 2021.

[11] I. van Brugen & J. Jekielek, COVID-19 a Pandemic of Fear “Manufactured” by Authorities: Yale Epidemiologist, “The Epohc Times”, 5 dicembre 2021.

[12] https://gbdeclaration.org. Corretto precisare che ho firmato anche io la GBD, ovviamente a titolo personale.

[13] R. Colombo, Contenere il coronavirus senza ampliare le disparità, “Avvenire”, 21 ottobre 2020.

[14] E. Tognotti, L’inquietante apartheid anagrafico, “La Stampa”, 30 ottobre 2020.

[15] Jay Bhattacharya su Twitter, 18 dicembre 2021, https://twitter.com/DrJBhattacharya/status/1471986453823459330.

[16] How Fauci and Collins Shut Down Covid Debate, “Wall Street Journal”, 21 dicembre 2021.

[17] J. Bhattacharya e M. Kulldorff, The Collins and Fauci Attack on Traditional Public Health, “The Epoch Times, 2 gennaio 2022.

[18] M. Kulldorff e J. Bhattacharya, The smear campaign against the Great Barrington Declaration, “Spiked Online”, 2 agosto 2021.

[19] J. Ioannidis, A. Tezel e R. Jagsi, Overall and COVID-19 specific citation impact of highly visible COVID-19 media experts: bibliometric analysis, “British Medical Journal”, 2021, doi:10.1136/ bmjopen-2021-052856.

[20] https://nogreenpassdocenti.wordpress.com.

[21] C. Schmitt, Nomos, presa di possesso, nome [1959], in Stato, grande spazio, nomos, Milano, Adelphi, 2015, p. 339.

[22] C. Caruso, “L’università sta con il governo. No ai manifesti anti green pass”. Parla il capo dei rettori, “Il Foglio”, 8 settembre 2021.

[23] A. Miconi, Epidemie e controllo sociale, Roma, manifestolibri, 2020.

Istituzionalismo, contrattualismo, storia

25 Gennaio 2022 - di Marco Ricolfi

DirittoIn primo piano

Sommario: 1. L’antinomia. – 2. Il perimetro dell’antinomia. – 3. Il contrattualismo trionfante (1978-2007): fra shareholder value ed egemonia della finanza. – 4. Un passo indietro: contrattualismo e istituzionalismo nell’epoca del capitalismo industriale (1919-1978). – 5. Un passo avanti: istituzionalismo redux? (2008-oggi). – 6. Piattaforme digitali e responsabilità sociale: verso uno “statuto speciale”? – 7. Quasi una conclusione. –

  1. L’antinomia. – “La contrapposizione tra contrattualismo e istituzionalismo può dirsi oggi un’antinomia superata?”[1]. Su questo quesito, ricorrente nel diritto dell’impresa e delle società, non solo italiano ed europeo ma anche nordamericano, l’Onorato è ritornato con frequenza, in particolare in anni recenti[2]. In questo interrogarsi, si è trovato in ottima compagnia: infatti l’attenzione per il tema è ricorrente e non può dirsi sopita ma anzi risulta rinfocolata dall’evoluzione, normativa ma anche economico-sociale, degli ultimi quindici anni [3].

Nel dibattito l’Onorato assume, come è noto, una posizione “centrale”, che forse si può cogliere più accuratamente impiegando la nozione di “sintesi”, come del resto suggerisce il titolo stesso del suo scritto più impegnato sul tema[4], piuttosto che, come pure è stato detto, di neutralità o di relativismo[5]. Dove la centralità si definisce in rapporto alla difesa del contrattualismo come chiave di lettura del diritto societario, ancor oggi propugnata con veemenza da alcuni studiosi[6], da un lato, e dall’altro lato, all’opposto e simmetrico sforzo di adeguamento ai cambiamenti di scenario operato da altri studiosi [7]: posizione che si colloca in una linea di continuità ideale rispetto alle prese di posizione, anch’esse ‘centrali’ di un Maestro del diritto commerciale [8].

Vi sono infiniti modi per rivisitare quello che spesso è caratterizzato come “l’eterno dilemma” fra contrattualismo e istituzionalismo nel diritto dell’impresa e delle società. Ci si può domandare se, in un dibattito così articolato e ulteriormente arricchito anche dallo sfondo comparatistico in cui questo suole essere collocato, possa conseguirsi qualche guadagno conoscitivo privilegiando una prospettiva storica, la quale, si può supporre, può presentare il vantaggio di suggerire qualche riflessione particolarmente utile in tempi in cui la velocità del cambiamento si è rivelata esponenziale. Dove, conviene soggiungere, se per storia molto spesso si intende storia delle idee; qui invece, per comprendere quali idee abbiano forza di incidere sulla realtà, quando e con quali “gambe”, appare assai più utile esplorare i nessi fra le forze in campo e le idee che esse portano all’affermazione o espellono dal discorso, piuttosto che attardarsi a ricostruire la genealogia dei pensieri disincarnati nella loro concatenazione e consecuzione ideale. Per questa ragione qui si cercherà, nei limiti del possibile, di indagare sui rapporti concreti fra pensiero ed azione piuttosto che inseguire il filo labile del rapporto fra pensiero e pensiero.

Entro questa visuale, pare che si possano considerare tre ipotesi collegate fra di loro: a) che di una vera e propria antinomia o “dilemma” si sia potuto parlare solo in una prima fase, anzi, entro un limitato periodo di quella prima fase, del capitalismo “industriale”, che, secondo la periodizzazione consueta, volge alla fine al termine degli anni ’70 del secolo scorso; b) che il medesimo dilemma abbia perso molto del suo mordente nella fase successiva, di egemonia tutta dispiegata del capitale finanziario, nella quale si è assistito ad un vero e proprio trionfo di un termine della dicotomia, il contrattualismo, rispetto al suo opposto, l’istituzionalismo; ed infine, c) che nella fase presente, inaugurata, per così dire, nel 2007-2008 dalla più grande crisi economica vissuta dalle nostre società dopo la Grande Crisi del 1929, si stia assistendo ad un vero e proprio rovesciamento di fronte, che ripropone con forza istanze e priorità vicine alle impostazioni istituzionalistiche che nei decenni precedenti parevano dimenticate. Non ci si potrà infine sottrarre al compito di domandarsi se la prepotente affermazione dei giganti dell’informazione, le piattaforme digitali [9], non sia destinata ad incidere sulla rilevanza stessa del dilemma, relegandolo ad un’area molto più ristretta e circoscritta di quanto non siamo stati abituati ad assumere.

Prima di provarci a dar corpo e sostanza a questa – certamente molto discutibile – periodizzazione del dilemma, o, meglio, dei termini in cui esso si pone, occorre però spendere qualche parola per definire il perimetro delle questioni che, nel presente contesto, vengono, nel diritto commerciale, designate con i termini qui impiegati di contrattualismo e di istituzionalismo.

  1. Il perimetro dell’antinomia. – Solitamente (e con la dovuta approssimazione necessaria quando si affronta un tema multi-giurisdizionale) il discrimen fra istituzionalismo e contrattualismo nel diritto societario sta nella rilevanza degli “interessi altri” nelle decisioni sociali [10]. Nella visione dell’istituzionalismo, ai diversi livelli in cui si formano le decisioni dell’ente sociale, possono e talora debbono prendersi in considerazione interessi diversi da quelli dei soci e degli altri contraenti dell’ente; secondo questa impostazione si danno anche situazioni nelle quali gli “interessi altri” debbono addirittura prevalere su quelli dei soci. Secondo le impostazioni contrattualistiche, invece, nelle decisioni concernenti la vita della società, come anche nell’interpretazione ed applicazione delle norme di riferimento. avrebbe legittimazione solo la considerazione degli interessi dei soci e dei terzi contraenti con la società medesima; interessi questi, si sottolinea spesso, da intendersi con tutta la dovuta latitudine e quindi non solo di breve periodo, rivolti al conseguimento di utili ed alla loro divisione, ma anche di medio e lungo periodo, ad es. preordinati alla valorizzazione del patrimonio aziendale; non solo dei soci ma anche dei diversi tipi di terzi contraenti con la società, dai lavoratori al pubblico ai fornitori di risorse produttive e mezzi finanziari, in quanto, si precisa però giustamente[11], congruenti e complementari a quelli dei soci, senza trascurare, si aggiunge opportunamente, la dovuta considerazione degli interessi sottesi ai diversi interventi pubblici e statuali, ivi inclusi quelli risultanti dalle norme imperative cui la società soggiace [12]. Non avrebbe però ingresso l’interesse dell’istituzione medesima, la società, in quanto tale ed a prescindere dai suoi soci[13]; l’interesse di terzi che abbia titolo autonomo rispetto a vincoli obbligatori della società[14] e tantomeno interessi pubblici, collettivi o generali, che non abbiano trovato espressione in un vincolo contrattuale o in una norma imperativa di legge.

Se la divaricazione nei presupposti delle due concezioni è, come si è visto, assai netta, ancor più lo è la divergenza nelle loro conseguenze e nei rispettivi esiti applicativi. Come è stato costantemente osservato, la legittimazione di “interessi altri” nella sfera decisionale delle società non restringe affatto, ma piuttosto amplia i poteri discrezionali degli amministratori e degli organi decisionali, lasciandoli arbitri di ponderare fra i diversi – e normalmente divergenti – interessi che di volta in volta vengono in considerazione.

Meno ovvia, e tuttavia non meno interessante e degna di considerazione, è una prospettiva che è stata introdotta nel dibattito solo di recente [15]. Nella specifica prospettiva del nostro diritto, si è argomentato che, allontanandosi da un approccio rigidamente contrattualistico, diverrebbe possibile intendere i poteri degli organi sociali come poteri funzionali, rivolti anche al perseguimento di interessi diversi e sovraordinati rispetto agli interessi individuali dei soci e dei contraenti con la società[16]. Correlativamente si potrebbe immaginare di assoggettare l’esercizio di quei poteri ad un sindacato non solo basato sullo strumentario generalcivilistico ordinario, imperniato sugli obblighi di buona fede e sul divieto di abuso di potere, ma anche integrato analogicamente dal ricorso alle norme “più evolute, riguardanti il sindacato di legittimità degli atti del potere pubblico”[17]. In questa prospettiva, che il suo Autore ha efficacemente descritto come “neo-istituzionalismo debole”, l’avvicinamento ad un’impostazione istituzionalista comporterebbe non tanto (e comunque non solo) un ampliamento dei poteri discrezionali degli organi decisori delle società ma anche un allargamento ed un’espansione dei contrappesi a questi poteri decisionali, in modo da collocare nell’architettura societaria più efficaci strumenti di contestazione (voice) al fine di “contrastare le scelte gestionali dissipatorie o inefficienti”[18].

  1. Il contrattualismo trionfante (1978-2007): fra shareholder value ed egemonia della finanza. – Anche se questa scelta può suonare controintuitiva, vi sono buone ragioni di ordine concettuale, oltre che espositivo, che suggeriscono di prendere le mosse da quella che, nella periodizzazione proposta, risulta la seconda fase della vicenda in cui si è dipanato il tormentato rapporto fra i termini della dicotomia. Infatti, nel periodo preso in considerazione il contrattualismo si presenta in forma così pura, rispetto alle molteplici e cangianti declinazioni e combinazioni che caratterizzano le altre fasi, da consentire una messa a punto particolarmente univoca e nitida.

Dunque: per circa trent’anni, che vanno dall’ascesa al potere di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti alla grande crisi economica di questo millennio, la stella polare del diritto societario è stata recisamente contrattualistica. L’interesse sociale viene risolutamente fatto coincidere con la massimizzazione dei profitti degli azionisti, obiettivo assolutizzato con riferimento all’imperativo dello shareholder value. In presenza di mercati capitali efficienti, il cui buon funzionamento sarebbe garantito dall’operare della efficient capital markets hypothesis (ECMH), la disciplina imposta dal mercato per il controllo delle società (il market for corporate control) sulle scelte gestionali garantirebbe contegni ottimali degli amministratori, impegnati nel perseguimento degli interessi dei loro mandanti, i soci, e, a seconda dei casi, destinati ad essere premiati in caso di successo e rimpiazzati a seguito di scalate ostili in caso di cattiva gestione. Questi comportamenti sarebbero d’altro canto anche conformi ai canoni dell’efficienza produttiva ed allocativa e quindi contribuirebbero in senso positivo non solo ai profitti sociali ma anche alla massimizzazione del benessere collettivo, rendendo così ridondante ed anzi controproducente la considerazione di “interessi altri” nella gestione delle società.

Contemplando in retrospettiva questi trent’anni, non necessariamente ‘gloriosi’, ci si avvede che essi, come anche il trionfo del contrattualismo che li accompagna, sono la risultanza di quattro vettori.

Il primo vettore è ideologico. Il lavoro di lunga lena iniziato dalla Mount Pèlerin Society nel primo dopoguerra (1947) prima e canonizzato dall’opera di Milton Friedman dopo[19], offre un contributo essenziale per argomentare a favore della primazia dell’iniziativa economica privata e al libero dispiegarsi dell’economica di mercato e contro qualsiasi forma di intervento dello Stato nell’economia. Alla fine degli anni Settanta i tempi sono maturi perché l’ideologia neoliberale divenga egemonica in tutto l’occidente [20].

Il secondo vettore rappresenta la prosecuzione del precedente sul piano della teoria economica. È infatti a partire dalla riconferma del paradigma economico neoclassico che prendono piede sia la Scuola di Chicago, sia il collegato movimento dell’analisi economica del diritto[21]. È qui che vengono forgiati gli argomenti per tornare a sostenere, in una versione riveduta e corretta del pensiero classico di Adam Smith (e, prima, della bella favola delle api del signor De Mandeville), che è l’egoismo dei protagonisti del mercato, protesi alla massimizzazione del profitto, ad assicurare l’ottimizzazione non solo dei valori reddituali e patrimoniali di azionisti (ed amministratori) ma anche del benessere sociale. Ciò, era sottinteso, in presenza di mercati dei capitali efficienti in conformità all’ECMH: basterebbe la struttura concorrenziale a rimediare all’eventualità di fallimenti di mercato in quanto l’asimmetria informativa di cui soffrono i singoli investitori sarebbe colmata dal meccanismo dei prezzi dei titoli, che in ogni momento incorpora in tempo reale in sé tutte le informazioni disponibili al mercato[22].

Anche nel caso, frequente, in cui il possesso dei titoli sia disperso fra una moltitudine di risparmiatori, passivi e poco informati, il rischio di comportamenti degli amministrator non in linea con gli interessi dei loro mandanti – il c.d. agent/principal problem – troverebbe agevole soluzione nei soprarichiamati meccanismi spontanei del mercato (il market for corporate control) e nell’operare dei doveri fiduciari che incombono sugli amministratori [23].

Quanto poi al mantenimento della struttura concorrenziale dei diversi mercati rilevanti (e quindi non solo di quello finanziario), secondo le impostazioni propugnate dalla Scuola di Chicago l’intervento dell’antitrust dovrebbe a sua volta restare confinato ad “un limitato intervento” dei pubblici poteri “in processi economici liberi e privati allo scopo di consentire a tali processi di rimanere liberi”[24]. Guai a calcare la mano con l’antitrust, secondo l’opinione di uno dei più influenti studiosi chicagoan, posto che “Antitrust, after all, is a massive introduction of public force into an area of private activity which is valuable both to the actors as an aspect of their freedom and to the society as a source of its wealth” [25].

È però il terzo vettore, quello politico, che è il più potente, tant’è che potrebbe essere appropriatamente descritto come il motore di tutto il processo. Stiamo parlando dei decenni inaugurati dalle nette vittorie di Thatcher e di Reagan, che danno slancio e forza ad una svolta duramente neoliberista, preparata dalle nette sconfitte sindacali degli anni immediatamente antecedenti [26]. Il libero dispiegarsi delle forze di mercato e la libertà di movimento dei capitali diventavano parte integrante del Washington consensus.

Infine, il vettore giuridico-regolatorio. Deregolamentazione, liberalizzazioni, in primis del mercato dei capitali e privatizzazioni (in particolare dove c’erano imprese pubbliche o a partecipazione pubblica): questi erano i corollari, logici ed inevitabili, una volta accettato l’assunto del primato delle libere forze di mercato e delle sue virtù autoregolatorie.

Tutti e quattro questi fattori si intrecciano strettamente con il contrattualismo e lo innervano. Il capitalismo finanziario, issato il vessillo dello shareholder value, trasforma la struttura portante dei mercati segnando la fine dei grandi conglomerati che caratterizzavano il periodo precedente attraverso ondate successive di fusioni ed acquisizioni, il più delle volte realizzate nella forma di offerte pubbliche di acquisto. Certo i protagonisti delle scalate non si preoccupano del loro impatto né sull’occupazione, vae victis!, esattamente come i regolatori si disinteressano delle implicazioni concorrenziali salvo nei casi più macroscopici, hands off!, a patto, si intende, che gli azionisti, i finanziatori e soprattutto gli amministratori possano dichiararsi soddisfatti. Certo, l’evoluzione incontra resistenze, soprattutto nei sistemi, come quello europeo-continentale e giapponese[27], nei quali il finanziamento dell’impresa avviene lungo il percorso lungo risparmio, intermediari, impresa, invece del percorso breve risparmio-impresa garantito dalla presenza di mercati borsistici ampi e liquidi.

Si è a questo proposito suggerito sovente che le due impostazioni, contrattualista ed istituzionalista, abbiano “convissuto”[28]. Affermazione questa che è forse condivisibile, a condizione che si abbia ben chiaro che nel periodo di riferimento il primo approccio ha tutte le caratteristiche di un tratto dominante, mentre il secondo sopravvive nei limiti di un tratto recessivo. Il che è perfettamente logico, se si pensi che il contrattualismo volava sulle ali del Zeitgeist e dei poteri che lo innervavano, come qui si è cercato di suggerire, mentre la residua adesione a visioni più comunitarie ed aperte ad interessi “terzi” si collocava in quell’area che gli studiosi delle grandi trasformazioni assegnano ai fenomeni di resistenza[29].

  1. Un passo indietro: contrattualismo e istituzionalismo nell’epoca del capitalismo industriale (1919-1978). – Facciamo un passo indietro. Un quadro assai diverso, assai più movimentato e contradditorio, ci si presenta se si fa un passo indietro e si mette a fuoco le modalità con le quali si presenta la medesima antinomia (o dilemma) nel periodo precedente.

Con riguardo a questo periodo, due sono le osservazioni che si impongono. In primo luogo, qui l’alternativa contrattualistica non è del tutto assente; e tuttavia inizia a profilarsi con una certa nettezza solo alla fine del periodo. In precedenza, a tenere il campo è stato soprattutto l’approccio istituzionalista. In secondo luogo, e conseguentemente, per un lungo tratto di questo periodo non si profila ancora appieno il dilemma fra istituzionalismo e contrattualismo, e neppure l’alternativa fra affermazione e negazione dell’istituzionalismo, ma la scelta fra varianti, declinazioni e versioni dell’istituzionalismo, peraltro assai divergenti fra di loro. A seconda dei contesti e delle costellazioni di potere di volta in volta date, l’istituzionalismo può presentarsi in veste autoritaria e gerarchica, o, in alcuni casi, francamente repressiva (si pensi, al Führerprinzip nazista, che trasla il verticismo dalla sfera politica a quella aziendale), oppure in veste comunitaria, conciliativa e soft.

In effetti, come è stato osservato da molti[30], non esiste affatto un rapporto biunivoco fra i regimi politici sperimentati in questo lungo lasso di tempo e il versante istituzionalistico del “dilemma costante” presentato dal diritto societario. In Germania, l’istituzionalismo è servito sia alla visione progressiva di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese di un grande imprenditore, studioso e politico socialdemocratico come Walter Rathenau sia alla minacciosa concezione nazista dell’Unternehmen an sich chiamato a concretizzare il Führerprinzip. D’altro canto, negli Stati Uniti studiosi di grande calibro e di sicura fede democratica come Berle e Means concludevano la loro innovativa visione della public corporation e della separazione fra proprietà e gestione con un’esaltazione dell’impresa come istituzione, guidata dalla mano salda della tecnostruttura al di sopra ed al di là degli interessi dispersi degli azionisti. A sua volta la vicenda italiana è troppo nota perché valga qui la pena di ripercorrerla, se non per ricordare come l’istituzionalismo, pur sempre – ed inevitabilmente – legato al corporativismo ed al fascismo, abbia sovente assunto tratti gentili e certo non illiberali non solo in studiosi giuscommercialisti come Asquini, Greco e Lorenzo Mossa ma anche nelle sistemazioni di più ampio respiro di filosofi notevoli, e generosi, come Ugo Spirito [31].

Insomma, le concezioni istituzionalistiche del diritto societario sono, in questi primi decenni, caratterizzate da un’accentuata anfibologicità. Quale sia la ragione di questa dualità di significati non è facile dire; e certo le spiegazioni al riguardo non sono mancate.

Qui si può aggiungere un’ipotesi. Si può intanto osservare che in questo periodo il capitalismo ha ancora veste prevalentemente industriale, anziché quella spintamente finanziaria che assumerà nella fase successiva (su cui già ci si è soffermati al precedente § 3). I profitti sono ancora generati prevalentemente dalla manifattura, e quindi dalla produzione e dallo scambio di beni e servizi; non dalle operazioni finanziarie. Ma la fabbrica nel frattempo sta divenendo, o è divenuta, fabbrica fordista e occupa masse crescenti di forza lavoro. Altre concentrazioni di manodopera si addensano in tutti i distretti minerari; e va ricordato che questi sono ancora un fenomeno fondante della struttura industriale: la progressiva chiusura delle miniere di carbone inizia solo molti decenni dopo, con le due crisi petrolifere degli anni ’70. A partire da queste premesse, la strutturale contrapposizione fra capitale e lavoro tende a porsi come la principale questione politico-sociale del tempo; e, come è noto, essa trova una sua composizione in soluzioni, a seconda dei casi, autoritarie o democratico-partecipative. Si potrebbe pensare, dunque, che sia questa la variabile macro che determina la configurazione, sul piano cruciale degli assetti dell’impresa, delle diverse varianti di istituzionalismo che tengono il campo in questo periodo.

Il quadro cambia nettamente dopo la Seconda guerra mondiale. Ritornando all’osservazione formulata all’inizio di questo paragrafo, va considerato che almeno fino agli anni del secondo dopoguerra è assai più difficile discorrere di chiari influssi contrattualistici nel diritto societario. Mancava ancora, soprattutto in Europa ed in Italia, un’adesione incondizionata ai valori dell’autonomia dei privati e della libertà di iniziativa economica. Questa sarebbe arrivata nel nostro diritto societario con le prese di posizione di Ascarelli, di Mengoni e di Mignoli, sullo slancio prima della Carta Costituzionale e poi dell’opzione filoconcorrenziale espressa dall’adesione al Trattato di Roma (1958). Ma anche negli Stati Uniti si sarebbe dovuto attendere fino agli anni ‘Cinquanta del secolo scorso perché la struttura della società venisse stabilmente concettualizzata con la potente formula del nexus of contracts.

Naturalmente le impostazioni contrattualistiche prendono più facilmente il sopravvento là dove il finanziamento dell’impresa è prevalentemente affidato al percorso breve che, attraverso i mercati borsistici, va dal risparmio alle imprese; mentre ha slancio e cogenza minore laddove continua ad essere dominante il percorso lungo dai risparmiatori agli intermediari e dagli intermediari alle imprese [32], anche se, alla fine del periodo, anche i sistemi europeo-continentali accorciano il distacco rispetto a quelli anglosassoni. E tuttavia, non essendo ancor stato portato a compimento questo processo, qui non di rado si assiste a ritorni di fiamma di impostazioni istituzionalistiche[33], che confermano come sia questo primo periodo l’unico in cui si è assistito con una certa frequenza alla effettiva compresenza dei due termini del dilemma nello stesso sistema e nello stesso periodo storico.

***

Il quadro fin qui trattato si presenta, dunque, con una certa nitidezza. Il capitalismo industriale (§ 4) in un primo tempo esibisce varianti assai diversificate fra di loro della concezione istituzionalistica del diritto societario; poi, nel periodo postbellico, si assiste all’emersione del paradigma alternativo del contrattualismo. È nella fase successiva, di consolidata egemonia del capitalismo finanziario, che il contrattualismo celebra i suoi trionfi come concezione del diritto societario dominante e perfettamente congruente a tutti i tratti caratteristici della Weltanschauung dominante nell’Occidente (o, meglio, nel Nord) del mondo. Questo fino a tempi recenti: poi la débâcle della crisi iniziata nel 2007-2008 incrina le certezze del periodo precedente e dà nuovo vigore alle impostazioni che, anche nella fase anteriore, ancor avevano insistito sulla necessità di includere nel calcolo economico gli interessi di stakeholder esterni al perimetro societario e di richiamare la grande impresa a principi di responsabilità sociale. Se oggi si assista ad una svolta in senso istituzionalista o, forse, come si è precisato [34], “neo-istituzionalista”, non è facile dire. Certo è che le coordinate del mutamento, ancor in atto, sono molto meno nitide e decifrabili di quelle rilevante con riguardo alle due fasi precedenti. Ad esse sono dedicate le notazioni che seguono.

  1. Un passo avanti: istituzionalismo redux? (2008-oggi). – Forse, in effetti, negli ultimi tre lustri, si è nuovamente prodotto un rovesciamento di fronte nelle coordinate che reggono l’alternativa fra contrattualismo ed istituzionalismo. I fattori che fanno pensare che si stia assistendo ad un ritorno di fiamma di concezioni istituzionalistiche del diritto societario sono molteplici. Intanto la crisi economica, iniziata nel 2007-2008 e continuata con modalità ed intensità diverse nel decennio successivo, sembra avere profondamente minato le basi ideologiche su cui si reggeva la fase precedente (1978-2007: v. § 3), mettendo in discussione la legittimazione dell’egemonia del capitale finanziario e le stesse ideologie neoliberali che avevano sorretto i decenni precedenti.

Ulteriori conferme, ed importanti, all’ipotesi che si stia assistendo ad un rovesciamento di fronte provengono altresì da due altri sviluppi altrettanto significativi, che paiono operare nella stessa direzione: l’accresciuta percezione dell’urgenza di misure di contrasto della crisi ambientale e, da ultimo, della pandemia [35].

L’operare congiunto di questi tre fattori ha avuto un impatto sicuro sul secondo e sul quarto fra i vettori che nel periodo precedente avevano sorretto la spinta verso il contrattualismo.

Sul versante economico la maggior parte degli studiosi sta ripensando profondamente le categorie concettuali impiegate in passato [36]. Si revoca in dubbio la validità del parametro della massimizzazione dell’efficienza delle scelte, rilevando che i modelli di equilibrio prevalenti nell’arco che va da David Ricardo a Paul Samuelson semplicemente ignorano la dimensione del tempo e quindi vanno integrati con nozioni, come quella di sostenibilità, idonee a prendere adeguatamente atto della circostanza, ovvia ma trascurata dagli economisti neoclassici, che il futuro non è esclusivamente funzione del passato. D’altro canto questa critica, o, in alcuni casi, autocritica, si incontra con ripensamenti già in atto da tempo, fra cui una sempre più frequente presa di distanza dall’analisi economica del diritto, la cui credibilità è in effetti stata messa in dubbio da tempo.

Sul versante giuridico-regolatorio si assiste ad una vera e propria inversione di rotta. Su uno sfondo nel quale tutte le politiche pubbliche nazionali ed internazionali rinnegano, in particolare per contrastare la pandemia, i rigori dell’austerità predicati e praticati nel ventennio precedente [37], ed assicurano un flusso costante di liquidità agli operatori attraverso il c.d. quantitative easing, l’immissione di risorse monetarie attraverso l’acquisto di titoli di Stato “tossici”, l’intervento di sostegno dello Stato e delle istituzioni pubbliche assume in tempi brevi dimensioni ingenti [38]. Anche a livello micro, alle politiche di privatizzazione del trentennio precedente si sostituiscono forme di intervento pubblico diretto nell’economia che ricordano da vicino le modalità e le dimensioni attestate dopo la Grande Crisi del ’29 del secolo scorso [39].

Se, almeno per chi scrive, è molto più difficile esprimere valutazioni sia sugli effetti della tripletta di fattori di crisi sul piano sia ideologico sia politico, è tuttavia già a questo punto facile comprendere come sviluppi come quelli ora inventariati paiono aprire molteplici punti di ingresso per argomentare la doverosità, ai vari livelli di decisioni nella vita delle società, della presa in considerazione di interessi “altri” rispetto a quelli tradizionali e riassunti dalla formula fortunata del “nexus of contracts”.

Gli stimoli in questa direzione sono molteplici.

Alcuni provengono dal diritto dell’Unione europea. Il riferimento è qui alla disciplina delle “dichiarazioni non finanziarie”, che, introdotta dalla direttiva 2014/95 e da noi attuata mediante il d.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254[40], prevede per le società maggiori l’obbligo di fornire informazioni in materia di «temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani» e costituisce, come ha puntualmente osservato l’Onorato, “un tassello normativo rilevante per l’esplorazione del tema degli interessi degli stakeholder e dei fattori Environment, Social and Governance (ESG)”. Il passo successivo è rappresentato dalla direttiva (UE) 2017/828, c.d. Shareholders’ Rights II, da noi attuata con il d.lgs. 10 maggio n. 49, che prevede l’inserimento nella Relazione sulla politica di remunerazione e sui compensi corrisposti di indicazioni sugli «interessi a lungo termi­ne» e sulla «sostenibilità della società» [41].

Altri stimoli sono forniti dai diritti interni nazionali: tralasciando il nostro ordinamento, che comunque, come si è visto, ha dato attuazione a queste direttive, particolarmente notevole è la modifica all’art. 1883 del Code Civil apportata dalla c.d. “Loi Pacte”, la quale ha aggiunto un comma che sancisce che l’interesse sociale va perseguito tenendo “en consideration” le sfide sociali ed ambientali [42].

Conferme significative a queste impostazioni provengono anche dal mondo anglosassone: così la Sec. 172 del Companies Act, che impone agli amministratori di “have regard” degli interessi dei lavoratori, fornitori e clienti, della comunità di riferimento e dell’ambiente, il tutto in una prospettiva di lungo periodo[43].

Misure come queste, che tutte si collocano sul piano legislativo, si trovano a convergere con iniziative radicate nell’autonomia privata: dove assumono rilievo le innovazioni introdotte dal Codice di Corporate governance 2020 di Borsa Italiana, che a sua volta spezza una lancia perché l’organo di amministrazione persegua un “successo sostenibile” tenendo conto anche degli interessi altri, ed in particolare “degli altri stakeholder rilevanti per la società[44].

Sempre dalla sfera dei privati provengono altre spinte importanti, che sembrano trovare le proprie radici in trasformazioni strutturali dei mercati dei capitali. Così, è stato convincentemente mostrato come la concentrazione dei titoli nelle mani di un numero molto piccolo di index fund providers, fra i quali negli USA spiccano i Big Three, Vanguard, Black Rock e State Street, abbia portato a dare priorità al dibattito generale su issues e policies piuttosto che a specifiche questioni gestionali [45]. Una notevole risonanza anche mediatica hanno avuto le prese di posizione attente ai fattori ESG della Business Roundtable nordamericana del 2019 e la “lista nera” di Black Rock, che sancisce la proscrizione dei titoli contrari ai valori ESG [46].

Né potrà trascurarsi l’espansione, davvero ragguardevole, della presenza pubblica nell’economia; la quale, per quanto specificamente concerne il nostro ordinamento, si auspica sia informata ad obiettivi di sostenibilità ed a comportamenti coerenti con la prospettiva ESG [47].

Nella prospettiva qui prescelta, quel che più rileva è che il mutamento di accenti e di priorità, registrato da queste innovazioni normative ed operative, non manca di riflettersi sul nodo cruciale della definizione (e talora ri-definizione) del perimetro degli interessi che assumono rilievo nelle decisioni sociali. Talora questa ri-definizione è espressamente legittimata, ed in qualche misura imposta, dalla modifica del dato normativo, come indicano le recenti modifiche normative in Gran Bretagna e Francia sopra menzionate. Altre volte il dato normativo relativo al profilo causale del contratto di società e al perimetro degli interessi rilevanti ai fini delle diverse decisioni sociali non ha conosciuto variazioni in occasione dei round di innovazioni legislative che si sono menzionate: ed allora diviene compito dell’interprete ricostruire se si siano venuti aprendo spazi, e quali, per l’emersione di interessi “altri” ai diversi livelli dell’azione sociale. Compito che, come è facile comprendere, ripropone per l’appunto l’eterno dilemma fra istituzionalismo e contrattualismo, magari nei termini riveduti e corretti proposti da chi suggerisce attenzione verso forme di “neoistituzionalismo debole”[48].

Certo, in prima approssimazione, si dovrà assolvere il compito tenendo conto di segnali importanti. Dopo la crisi del 2007-2008 si sono moltiplicati i dati normativi che stanno ad indicare ad una crescente attenzione per finalità che trascendono la stretta osservanza del precetto dello shareholder value, come declinato nella precedente fase che va dal 1978 al 2007 (v. § 3) e che ora, come si è visto, assegnano un ruolo normativo significativo, e talora sovraordinato, a valori connessi ad interessi “terzi”, degli stakeholder che si collocano al di fuori del perimetro del nexus of contracts, alla responsabilità sociale della grande impresa e all’adesione alla prospettiva ESG.

Né si potrà trascurare, nell’esaminare la questione, che gli stessi fautori più convinti del contrattualismo si soffermano ora a segnalare quali e quanti nodi siano venuti al pettine che “minano la tenuta di questo modo di impostare i problemi” [49].

Non si può tuttavia tacere che possono permanere molti dubbi sull’idoneità dell’innovazione normativa societaria post-2007 di cui si è detto a riorientare complessivamente le coordinate di vertice del sistema fino a toccare, ancora una volta, i termini dell’“eterno dilemma”. Ci si può domandare intanto se ed in quale misura alcune fra le previsioni inventariate posseggano davvero la capacità di incidere sulla scala di valori di questo segmento del diritto oppure abbiano una valenza prevalentemente cosmetica; dubbio questo che è destinato a permanere fin quando la declamazione della ricerca della sostenibilità del sistema socioeconomico eluda nodi che intrinsecamente ne fanno parte come l’equità della tassazione e della distribuzione del reddito. In assenza di interventi coerenti in queste aree, una prospettiva come quella suggerita dall’ESG rischia di essere retrocessa al rango minore di una ricerca di ri-legittimazione di un sistema che quella legittimazione pare avere perduto.

Lo stesso vale per la ripulsa delle pregresse scelte di austerità fiscale e per il favor di interventi correttivi dell’economia pubblica. Si può pensare che questi dati normativi possano contribuire a far sistema solo quando ne venisse chiarito l’orizzonte temporale. Ed al momento essi sembrano potere essere revocati dall’oggi al domani, o viceversa resi permanenti; ma allora sulla base di fattori che, verosimilmente, più dipendono dall’evoluzione del confronto fra gli USA e la Cina[50] che dalla ricerca di modalità di gestione dell’impresa in linea con i valori fondamentali.

Vi è però una ragione ancor più radicale per dubitare che si stia davvero esistendo ad una riproposizione dell’“eterno dilemma” nei termini in cui lo conosciamo; ma, siccome quest’ultima ragione di dubbio dipende dal rapporto che si sta instaurando fra le piattaforme digitali ed il resto dell’economia, conviene fissare il tema con alcune notazioni provvisorie.

  1. Piattaforme digitali e responsabilità sociale: verso uno “statuto speciale”? – A ben vedere, il dubbio che i termini della dicotomia contrattualismo/istituzionalismo siano da ridefinire profondamente nell’epoca delle piattaforme digitali è suggerito dalla circostanza che il passaggio dall’analogico al digitale sta trasformando (o ha già trasformato) le categorie di base dell’economia capitalistica, dalla finanza alla proprietà intellettuale [51]; e sarebbe in qualche misura sorprendente se dovessimo registrare che invece il digitale non cambia i termini di una questione che è risultata così centrale per tanto tempo.

Ciò tanto più se si registri il consenso che si è formato sia sulle premesse sia sulle conseguenze del potere esorbitante delle piattaforme digitali. Così come, sul piano delle premesse, è troppo noto perché valga la pena soffermarvisi che la base della posizione di dominio dei giganti dell’informazione sta nell’assenza di costi di produzione e di distribuzione marginali e nell’esistenza di forti esternalità di rete [52], sul piano delle conseguenze si sta diffondendo sempre più la percezione dei molteplici livelli a cui si manifesta il dominio delle piattaforme. Il loro potere di mercato è meglio compreso se esaminato sul versante dell’acquisizione dei dati, tant’è che, non a torto si è proposto di considerarle “monopsonisti” dei dati [53]; ciò che spiega le consecutive “invasioni di campo” delle piattaforme in ambiti come la stampa e l’editoria, la musica, la pubblicità[54], destinate ad estendersi, progressivamente, a (quasi) tutti i settori dell’economia [55]. E soprattutto fa intuire, e talora rivela in piena luce, i rischi che le piattaforme digitali pongono in ambiti assolutamente cruciali per le nostre società: la riscossione delle tasse, la composizione della domanda aggregata, l’occupazione e la distribuzione del reddito ma anche le determinanti essenziali per la formazione non distorta della pubblica opinione e del dibattito pubblico e, in parallelo, il rispetto dei diritti fondamentali, dalla protezione dei dati alla libertà di espressione.

Si dice spesso che la velocità del cambiamento ha “spiazzato” le istituzioni di governo; ma ciò che interessa ai fini di queste note è che i decisori pubblici su entrambi i lati dell’Atlantico (come anche, per la verità, in Cina) sembrano ora intenzionati a correre ai ripari e ad apprestare forme di regolazione.

Alle spalle delle proposte oggi sul tappeto sta, per la verità, un lavoro di lunga lena degli studiosi, dei gruppi della società civile e delle istituzioni, nazionali ma ancor più internazionali [56]. Il dibattito si riallaccia per più profili ai termini delle discussioni oggetto di questo scritto, spesso concettualizzando gli obblighi delle piattaforme nei confronti dei singoli e delle comunità proprio nei termini della corporate social responsibility [57]. Uno fra i lavori più influenti in materia[58] raggruppa la responsabilità sociali delle piattaforme in tre segmenti, l’uno attinente all’organizzazione ed accesso ai contenuti caricati dagli utenti, l’altro alla libertà di espressione e l’ultimo alla privacy; e spezza una lancia per considerare le piattaforme come destinatari di obblighi sotto ciascuno di questi profili cruciali per la convivenza democratica, ad onta della circostanza che si tratti di entità private e quindi per altro verso sottratte ad obblighi “costituzionali” che sono prerogativa delle entità pubblicistiche [59]. Impostazioni come questa hanno trovato riscontri importanti non solo in ambienti accademici ma anche nei documenti di policy internazionali [60].

Dal dibattito si sta ora passando alle iniziative legislative. Lasciando da parte i termini della questione negli USA[61], val la pena volgere lo sguardo alle iniziative europee, che, in effetti si moltiplicano, anche se non sempre in un quadro armonico. Da un lato si segnalano le iniziative esplicitamente rivolte a contenere ed indirizzare il potere esorbitante delle piattaforme, come le due proposte di regolamento che compongono il “pacchetto digitale” propugnato dalla Commissione UE: il “Digital Services Act” (DSA) e il “Digital Markets Act[62], cui si accompagnano testi normativi talora più polivalenti [63], talaltra rivolti in direzione, parrebbe, opposta [64].

Per quanto qui interessa, sono fondamentali tre profili della disciplina dei servizi digitali contenuta nel DSA.

In primo luogo, si tratta di una regolazione “a piramide”, che, prendendo le mosse da una disciplina base (nel Capo II e nella Sez. 1 del Capo III) della responsabilità dei service providers per le loro attività di mere conduit, caching e hosting e dei loro obblighi di diligenza “per un ambiente online sicuro e trasparente”, si specifica (alle Sez. 2 e 3 del Capo III) in disposizioni particolari per le piattaforme online che disseminano tra il pubblico il contenuto caricato dagli utilizzatori per culminare (alla Sez. 4) nelle “ulteriori obbligazioni facenti capo alle “Piattaforme online molto grandi”, che raggiungano più di 45 milioni di utenti (par. 1 dell’art. 25). Dove, va notato, ai sensi dell’art. 40 gli Stati membri dell’UE hanno giurisdizione anche su piattaforme che non abbiano né uno “stabilimento principale” nell’Unione (par. 1) né ivi nominato un rappresentante legale (parr. 2 e 3).

In secondo luogo, fra gli obiettivi del regolamento proposto è indicato, al par. 2 dell’art. 1, oltre allo scontato fine di “a) contribuire al corretto funzionamento del mercato interno dei servizi intermediari”, quello assai più mirato ed impegnativo, di “b) stabilire norme uniformi per un ambiente online sicuro, prevedibile e affidabile, in cui i diritti fondamentali sanciti dalla Carta” dei Diritti Fondamentali[65] “siano tutelati in modo effettivo”. Questa finalità è illustrata in modo assai esplicito in alcuni Considerando, fra cui vanno menzionati il 56, il 58 e il 59. Secondo il Considerando 56 “Le piattaforme online di dimensioni molto grandi sono utilizzate in un modo che influenza fortemente la sicurezza online, la definizione del dibattito e dell’opinione pubblica nonché il commercio online. La modalità di progettazione dei loro servizi è generalmente ottimizzata a vantaggio dei loro modelli aziendali spesso basati sulla pubblicità e può destare preoccupazioni sociali. In assenza di regolamentazione ed esecuzione efficaci, esse possono stabilire le regole del gioco, senza di fatto individuare e attenuare i rischi e i danni sociali ed economici che possono causare. Ai sensi del presente regolamento le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero pertanto valutare i rischi sistemici derivanti dal funzionamento e dall’uso dei loro servizi, nonché dai potenziali abusi da parte dei destinatari dei servizi, e adottare opportune misure di attenuazione.” A sua volta il Considerando 58 recita: “Le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero porre in essere le misure necessarie per attenuare con diligenza i rischi sistemici individuati nella valutazione del rischio. Nell’ambito di tali misure di attenuazione le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero prendere in considerazione, ad esempio, la possibilità di rafforzare o altrimenti adeguare la progettazione e il funzionamento delle loro attività di moderazione dei contenuti, dei loro sistemi algoritmici di raccomandazione e delle loro interfacce online, così da scoraggiare e limitare la diffusione di contenuti illegali, oppure l’adeguamento dei loro processi decisionali o delle loro condizioni generali. Esse possono inoltre includere misure correttive, quali la soppressione degli introiti pubblicitari per specifici contenuti, o altre azioni, quali il miglioramento della visibilità delle fonti di informazione autorevoli”. Ed infine il Considerando 59: “Ove opportuno, le piattaforme online di dimensioni molto grandi dovrebbero svolgere le proprie valutazioni dei rischi e mettere a punto le proprie misure di attenuazione dei rischi con il coinvolgimento di rappresentanti dei destinatari del servizio, rappresentanti dei gruppi potenzialmente interessati dai loro servizi, esperti indipendenti e organizzazioni della società civile”.

Ora, se si vogliono ancora una volta inforcare le lenti degli “interessi terzi”, ci troviamo qui al cospetto di una massiccia irruzione di interessi terzi: non si deve pensare solo alla violazione dei diritti di proprietà intellettuale o alla pedopornografia, ma a tutti quei processi dei social media che possono portare (o, forse sarebbe meglio dire, portano) alla perversione del dibattito democratico e alla coartazione della libertà di espressione. I quali “interessi terzi” non vengono, dalla proposta di regolamento, presi in considerazione come norme imperative la cui violazione è proibita, ma come valori che devono essere incorporati dall’interno nel processo decisionale delle piattaforme online di dimensioni molto grandi. Tant’è che le norme impongono una “mitigazione dei rischi” sopra delineati, art. 27 della proposta di DSA; una “valutazione del rischio”, art. 26; degli audit indipendenti, art. 28; degli obblighi di comunicazione trasparente, art. 33, nominando anche compliance officers indipendenti chiamati a monitorare l’osservanza delle prescrizioni del Regolamento, art. 32; i quali, si noti, devono riferire “direttamente al più alto livello dirigenziale della piattaforma”, par. 6 dell’art. 32. Ciò che è perfettamente logico se si consideri che quel più alto livello dirigenziale, normalmente il Board, è quello che è chiamato ad un vero e proprio bilanciamento fra l’interesse degli azionisti alla massimizzazione dei profitti e le obbligazioni di rispetto fattivo degli “interessi terzi” fatti propri dal DSA.

Non va trascurato che, almeno allo stato, i poteri sanzionatori, che sono saldamente in pugno non delle autorità nazionali ma, centralmente, della Commissione UE, possono arrivare al 6% del fatturato totale della piattaforma interessata.

Pare dunque che si stia delineando uno “statuto speciale” delle piattaforme digitali, in particolare di quelle molto grandi, che presenta tre caratteristiche. L’obbligo di contemperamento fra gli interessi sociali e gli “interessi terzi” deriva non da un’opzione ricostruttiva di vertice fra istituzionalismo e contrattualismo ma da norme di legge. Si tratta poi di legge euro-unitaria; la quale potrà avere riflessi sul piano dei diritti nazionali applicabili secondo la lex societatis (e, quindi, verosimilmente del diritto nordamericano, visto che stiamo parlando dei c.d. GAFAM ed in particolare di Google, nella sua declinazione You Tube, e Facebook, con le sue controllate Instagram e WhatsApp) che restano assai incerti e tutti da esplorare [66]. Cosicché si potrebbe, infine, immaginare che il diritto delle piattaforme digitali stia portando alla ribalta una nuova forma di istituzionalismo, per un verso “imposto”, che fa entrare gli “interessi terzi” per la porta maestra di norme che impongono il bilanciamento a tutti i livelli delle decisioni societarie, e per altro verso “separato”, in quanto toccherebbe solo le società che rientrano nei presupposti delineati dalla norma.

Se così fosse, l’“eterno dilemma” fra contrattualismo ed istituzionalismo potrebbe continuare a porsi; ma solo per quelle società, a tutti gli effetti ormai minori, che non sono protagoniste dell’era digitale.

  1. Quasi una conclusione. – Quindi, impiegando una prospettiva storica come quella qui adottata, risulta da accogliere la conclusione cui perviene l’Onorato, quando scrive che “La contrapposizione tra contrattualismo e istituzionalismo può dirsi oggi un’antinomia superata?” [67]. La risposta è affermativa; ma solo in parte e comunque richiede qualche qualificazione.

Secondo la ricostruzione qui proposta, solo nella fase finale del capitalismo industriale (§ 4) il dilemma si è posto davvero e in termini netti. In precedenza avevano dominato varietà anche molto diverse fra di loro di istituzionalismo, senza lasciare spazi al secondo termine dell’alternativa. Successivamente, nell’era del capitalismo finanziario (§ 3), la situazione si è capovolta: il contrattualismo ha trionfato fino al punto di oscurare l’alternativa istituzionalista (anche se, come è naturale, ogni epoca ammette in qualche misura voci dissenzienti).

È per il periodo post-crisi che nasce qualche dubbio sulla cogenza delle conclusioni dell’Onorato, in due direzioni. La prima, come si è visto, deriva da tutti i rovesciamenti di fronte che sono arrivati con la crisi del 2007-2008, il disastro ambientale e la pandemia. Qui mi pare scorgere i segni di una chiara débâcle del contrattualismo; ma non è immediato immaginare che questo comporti un univoco ritorno all’istituzionalismo, anche se, per quanto mi concerne, la proposta di prendere in considerazione una variante “debole” di neo-istituzionalismo mi pare molto azzeccata.

È la seconda direzione che però indica una deviazione più netta perché coinvolge i termini stessi di un dilemma che, forse, è stato eterno ma ora probabilmente sta perdendo molta della sua rilevanza. Infatti, con l’avvento delle piattaforme digitali, si sta delineando una forma inedita di istituzionalismo, per un verso imposto (dall’Unione europea) e per altro verso separato (perché vale solo per le piattaforme più grandi). Se le iniziative sul tappeto avranno un seguito, è probabile che esse inneschino una partita geopolitica assai più interessante dell’“eterno dilemma”.

Torino, 24-1-2022

[ Saggio destinato agli Studi in onore di Paolo Montalenti ]

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[1] P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, in Riv. soc., 2018, 303 ss., 305.

[2] Oltre all’appena citato scritto L’interesse sociale v. P. Montalenti, La nuova società quotata: quali prospettive? in La nuova società quotata. Tutela degli stakeholder, sostenibilità e nuova governance, Giuffrè, Milano, 2021, §§ 2 e 13; L’Università e il diritto commerciale, oggi. L’evoluzione della società per azioni: quali prospettive? in Orizzonti del diritto commerciale, 2021; La nuova società quotata: profili generali, in AA.VV., Disciplina delle società e legislazione bancaria. Studi in onore di Gustavo Visentini (a cura di A. Nuzzo e A. Palazzolo), Vol. I, Principi e metodo, società e organizzazione, Roma, 2020, 169 ss., §§ 5 e 12; ma v. già Conflitto di interesse nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Giur. comm., 1995, I, 710 ss., 718 ss.

[3] Emblematici di orientamenti anche molto diversi fra di loro sono scritti come quelli di F. Denozza, Logica dello scambio e “contrattualità”: la società per azioni di fronte alla crisi, in Giur. comm., 2015, I, 5 ss.; di M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società. Un commento a Francesco Denozza, in difesa dello “istituzionalismo debole” in www.orizzontideldirittocommerciale.it e in Giur. comm., 2014, I, 669 ss. ed Economia sociale di mercato e responsabilità sociale di impresa, in V. Di Cataldo e P.M. Sanfilippo (a cura di), La responsabilità sociale dell’impresa. In ricordo di Giuseppe Auletta, Giappichelli, Torino, 2013, 9 ss., di R. Costi, Banca etica e responsabilità sociale delle banche, anch’esso in La responsabilità sociale dell’impresa, cit., 119 ss. e di G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo (variazioni sul tema da uno spunto di Giorgio Oppo), in Riv. soc., 2005, 693 ss. L’illustrazione della dicotomia fra contrattualismo ed istituzionalismo trova spazio anche nelle trattazioni manualistiche: v. da ultimo G. Presti-M. Rescigno, Corso di diritto commerciale, Vol. I, Impresa – Contratti – Titoli di credito – fallimento Vol. II, Società, Zanichelli, Bologna, 202110, 395-396.

            Sul ruolo dell’istituzionalismo nella teoria dell’ordinamento da Durkheim ad oggi è nel pregevole lavoro di F. Pallante, Il neoistituzionalismo nel pensiero giuridico contemporaneo, Jovene, Napoli, 2008.

[4] P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, cit.

[5] In questo senso F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 11 (a nota 21).

[6] In particolare F. Denozza, Logica dello scambio, cit

[7] Fra cui, per l’appunto, M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[8] Il riferimento, come è ovvio, è a G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit.

[9] Su cui v., di recente, D. Coyle, Cogs and Monsters: What Economics is, and What it should be, Princeton University Press, 2021 e, sul versante delle diverse ipotesi regolatorie, J. Balkin, How to Regulate (and Not Regulate) Social Media, in 1 Journal of Free Speech Law 2021, 71 ss. e M. Lemley, The Contradictions of Platform Regulation, ivi, 303 ss. entrambi disponibili a https://www.journaloffreespeechlaw.org/.

[10] G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit., 709 e P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, cit., 314.

[11] R. Costi, Banca etica, cit., 130.

[12] Ivi incluse quelle a tutela di interessi extracontrattuali, ivi include le previsioni preordinate a promuovere il c.d. gender balance (così anche F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 7 ss.).

[13] Così, con grande nettezza, F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 13.

[14] Così, con molta chiarezza, R. Costi, Banca etica, cit., 131.

[15] Da M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[16] M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit., 692 ss., 694.

[17] M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit., 688 ss. ove il riferimento alla tutela di annullamento si estende all’eccesso di potere e alla considerazione degli oneri procedimentali e di motivazione (691) assistiti da facoltà di accesso agli atti (692).

[18] M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit., 688.

[19] Capitalism and freedom, Chicago, University of Chicago Press, è del 1962.

[20] In argomento Q. Slobodian, Globalists: The End of Empire and the Birth of Neoliberalism
Harvard University Press, 2018.

[21] Le cui origini e sviluppi sono stati di recente rivisitati dall’importante scritto di R. Van Horn, Reinventing Monopoly and the Role of Corporations. The Root of Chicago Law and Economics, in Ph. Mirowski e D. Pleheve (a cura di), The Road from Mont Pèlerin. The Making of the Naoliberal Thought Collective, Harvard University Press, Cambridge, Mass., London, 2009, 204 ss.

[22] È questa, naturalmente, la tesi popolarizzata da F. Easterbrook-D.R. Fischel, The Economic Structure of Corporate Law, Harvard University Press, 1996. Ma la fragilità delle basi teoriche di queste impostazioni era già all’epoca piuttosto evidente (in argomento si consentito rinviare alla mia voce “SEC (Securities Exchange Commission)”, in Digesto, 1997, IV, vol. XIII, pp. 284 ss., a 289-291).

[23] Per un’esposizione recente di queste teorie nella prospettiva del diritto nordamericano v. J.C. Coates, The future of Corporate Governance Part I: The Problem of Twelve, (September 20, 2018). Harvard Public Law Working Paper No. 19-07, 4, disponibile a SSRN: https://ssrn.com/abstract=3247337 o http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3247337 o https://corpgov.law.harvard.edu/wp-content/uploads/2019/11/John-Coates.pdf

[24] R. Bork, The Antitrust Paradox. A Policy at War with Itself, Basic Books, New York, 1978, 418.

[25] R. Bork, The Antitrust Paradox, cit., 417.

[26] Sull’impatto delle durissime politiche antiinflazionistiche adottate, già sul finire della presidenza di Carter, dalla Federal Reserve capeggiata da Paul Volker, al fine di “stabilize prices, crush labour, discipline the South” (del mondo), è tornato di recente C. Durand, 1979 in Reverse, in New Left Review 1° giugno 2021, https://newleftreview.org/sidecar/posts/1979-in-reverse.

[27] Così, con grande chiarezza, R. Chernow, The Death of the Banker: the Decline and Fall of the Great Financial Dynasties and the Triumph of the Small Investor, Vintage Books, Random House, New York, 1997, 50 ss. e 59 ss. rispettivamente; per la Germania v., con particolare riferimento all’ostacolo all’allargamento dei mercati dei valori mobiliari costituito della normativa sulla cogestione, M.J. Roe, German Codetermination and German Securities Markets, in 5 Columbia J. Eur. Law, 1999, 199 ss. Va detto che non sono mancate resistenze a questo modo di pensare neppure negli Stati Uniti, ben rappresentate dalla posizione difesa a spada tratta da M. Lipton, Takeover Bids in the Target’s Boardroom, in 35 The Business Lawyer, 1979, 101 ss. e quindi da un giurista pratico cui viene ascritto il merito (o il demerito, a seconda dei punti di vista) di avere inventato le c.d. poison pills (e anche su questo tema si possono ancor oggi rileggere con profitto le pagine, preveggenti, scritte dall’Onorato: P. Montalenti, Il leveraged buy-out, Milano, 1991, specie 35 ss. e 38, ove alla nota 122 un richiamo allo studio di Lipton sopra citato).

[28] Così M. Libertini, Economia sociale di mercato, cit., che per la verità contrappone al contrattualismo la teoria della Corporate Social Responsibility (CSR).

[29] K. Polanyi, The Great Transformation. The Political and Economic Origins of our Time, 1944 (Beacon Press, 1957).

[30] E con particolare efficacia da G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit., 698 ss.

[31] Sugli uni e sull’altro v. di nuovo le nitide pagine di G. Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit., 699 ss. e, con riguardo a Lorenzo Mossa e Ugo Spirito, il ricordo simpatetico di P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Giuffrè, Milano, 2000, 197 ss.

[32] R. Chernow, The Death of the Banker, cit.

[33] Mi sia consentito rinviare a questo riguardo al mio L’impresa e il mercato, in L. Nivarra (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato, Giuffrè, Milano, 2008, 199 ss.

[34] E v. M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[35] Sulle conseguenze della pandemia sui “competing regulatory systems” dei poteri pubblici v. U. Pagallo, Sovereigns, Viruses, and the Law. The Normative Challenges of Pandemic in Today’s Information Societies, in 37 Law in Context, 2020, disponibile a SSRN: https://ssrn.com/abstract=3600038 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3600038.

[36] V. in particolare le considerazioni di R. Skidelsky, The End of Efficiency, in Project Syndicate 17 dicembre 2020, in

https://www.project-syndicate.org/commentary/economic-thought-efficiency-versus-sustainability-by-robert-skidelsky-2020-12, qui di seguito riassunte. E v. altresì S. Keen, The New Economics: A Manifesto, Polity Press, Cambridge, 2021.

[37] Con specifico riferimento all’Unione Monetaria Europea v., tra i molti, J. Halevi, From the EMS to the EMU and … to China, in https://www.ineteconomics.org/uploads/papers/WP_102-Halevi.pdf.

[38] Questo rovesciamento di visuale è particolarmente appariscente nelle azioni pubbliche attuate dal nostro attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi, il quale, dopo avere, in un discorso tenuto il 2 giugno 1992 agli investitori internazionali sul panfilo Britannia (ora rievocato dal Fatto quotidiano del 22 gennaio 2020, p. 15), come Direttore generale del Tesoro annunciato privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazione, vent’anni dopo, nel luglio del 2012, ha proclamato, questa volta come Direttore della Banca Centrale Europea (BCE), di essere pronto a interventi non convenzionali di sostegno dell’euro “whatever it takes” ed infine, il 25 marzo 2020, cessato il suo incarico alla BCE, ha caldeggiato una risposta ai guasti economici provocati dalla pandemia di amplissimo raggio ed estesa alla remissione (cancellation) dei debiti accesi per l’occasione.

[39] Uno spaccato estremamente significativo della massiccia ripresa dell’intervento pubblico è offerto da un intervento recente dell’Onorato: P. Montalenti, Intervento, in AA.VV., Le imprese pubbliche nel Rapporto Barca e il diritto azionario italiano, in Giur. comm., I, 2021, p. 538 ss.

[40] Che concerne le relazioni di carattere non finanziario e sulla diversità da parte delle imprese di maggiori dimensioni: v. P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 4.

[41] Sul tema v. in particolare P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., §§ 6-7 che sottolinea la rilevanza nella prospettiva di cui al testo, dell’“obbligo degli investitori istituzionali e dei gestori di attivi di comunicare al pubblico la «politica di impegno», in particolare sui «risultati non finanziari» e «sull’impatto sociale e ambientale» (art. 124-quinquies, comma 1, t.u.f.), assistiti da un apposito apparato sanzionatorio (cfr. d.lgs. n. 49/2019, art. 4).

[42] In argomento v. P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 8.

[43] In argomento v. nuovamente P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 8.

[44] P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 9.

[45] J.C. Coates, The future of Corporate Governance, 13 ss.

[46] Per in necessari riferimenti v. P. Montalenti, L’Università e il diritto commerciale, oggi, cit., § 8, ove, al § 10, notizie sulla nuova proposta di direttiva europea. Sulla presa di posizione della Business Roundtable si legge utilmente altresì G. Tett, Capitalism – a new dawn? in FT 7-8 settembre 2019, Life & Arts, 1-2.

[47] Sul punto v. di nuovo P. Montalenti, Intervento, in AA.VV., Le imprese pubbliche, cit., 541-543.

[48] Il riferimento è, evidentemente, a M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società, cit.

[49] F. Denozza, Logica dello scambio, cit., 39-41.

[50] E dalle scelte di politica industriale che questa comporta: v. E. Colby, The Strategy of Denial: American Defense in Age of Great Power Conflict, Yale University Press, 2021.

[51] A quest’ultimo riguardo sia consentito rinviare al mio Il futuro della proprietà intellettuale nella società algoritmica, in Giur. it., Supplemento 2019, 10-36 e, già molto prima, allo scritto Le nuove frontiere della proprietà intellettuale. Da Chicago al ciberspazio, in G. Clerico e S. Rizzello (a cura di), Diritto ed economia della proprietà intellettuale, Cedam, Padova, 1998, 83 ss., che aveva esplorato l’ampiezza dell’impatto dell’epoca digitale sulle categorie fondamentali di analisi dell’economia, a partire della ivi rilevata “fine della fabbrica”.

[52] V. già M.A. Lemley-D. McGowan, Legal Implications of Network Economic Effects, in 86 Cal. L. Rev., 1998, 479 ss.

[53] O, forse più correttamente, oligopsonisti: e v. M. Lemley, The Contradictions of Platform Regulation, cit., 313.

[54] Per qualche dato sia consentito rinviare al mio La tutela delle pubblicazioni giornalistiche in caso di uso online, in AIDA 2019, 33-67.

[55] Per un’efficace esposizione giornalistica v. S. Quintarelli, Capitalismo immateriale. Le tecnologie digitali e il nuovo conflitto sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 2019.

[56] Per un’analisi accurata del dibattito v. G. Frosio, Why Keep a Dog and Bark Yourself? Intermediary Liability to Responsibility, in 25 Oxford Int’l J. of Law and Information Technology, 2017, 1 ss., a 7 ss.

[57] V. G. Frosio, Why Keep a Dog and Bark Yourself? cit., 8.

[58] M. Taddeo-L. Floridi (a cura di), The Responsibilities of Online Service Providers, Springer, 2017.

[59] Un’ampia ricognizione delle iniziative in materia dal 1999 al 2015 è in L. Gill-D. Redeker-U. Gasser, Towards Digital Constitutionalism? Mapping Attempts to Craft an Internet Bill of Rights, Berkman Center Research publication No 2015-15, 9 novembre 2015.

[60] Completi richiami in G. Frosio, Why Keep a Dog and Bark Yourself? cit., 7, n. 30 e 9.

[61] Per i quali v., su versanti opposti, riflessioni di grande livello come quelle rispettivamente proposte da J. Balkin, How to Regulate (and Not Regulate) Social Media, e M. Lemley, The Contradictions of Platform Regulation, citt.

[62] Rispettivamente Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo a un mercato unico dei servizi digitali (legge sui servizi digitali) e che modifica la direttiva 2000/31/CE, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/en/TXT/?uri=COM%3A2020%3A825%3AFIN e Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale (legge sui mercati digitali), disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52020PC0842&from=en.

[63] V. il c.d. Data Governance Act (Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla governance europea dei dati (Atto sulla governance dei dati) (Testo rilevante ai fini del SEE), Commissione europea, Bruxelles, 25.11.2020 COM (2020)767final, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020PC0767&from=EN) e la c.d. AI Regulation (Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (Legge sull’intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell’Unione{SEC(2021) 167 final} – {SWD(2021) 84 final} – {SWD(2021) 85 final).

[64] È il caso del Regolamento (UE) 2021/1232 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 luglio 2021 relativo a una deroga temporanea a talune disposizioni della direttiva 2002/58/CE per quanto riguarda l’uso di tecnologie da parte dei fornitori di servizi di comunicazione interpersonale indipendenti dal numero per il trattamento di dati personali e di altro tipo ai fini della lotta contro gli abusi sessuali online sui minori, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX%3A32021R1232 e del Regolamento (UE) 2021/784 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 29 aprile 2021 relativo al contrasto della diffusione di contenuti terroristici online, disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32021R0784&from=EN, che incrementano, anziché ridurre, le facoltà di accesso dei prestatori alle comunicazioni online fra privati.

[65] La vincolatività della Carta dei diritti fondamentali è stata sancita dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009. Sulla Carta v. R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza e O. Razzolin (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Giuffrè, Milano, 2017 e S. Peers, T. Hervey, J. Kenner e A. Ward (a cura di), The EU Charter of Fundamental Rights, Hart, Oxford and Portland (Oregon), 2014.

[66] M. Leistner, The Commission’s vision for Europe’s Digital Future: Proposals for the Data Governance Act, the Digital Markets Actand the Digital Services Act – A critical primer (February 23, 2021), a SSRN: https://ssrn.com/abstract=3789041 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3789041.

[67] P. Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, cit., 305.

Il martello o la danza: rileggere Pueyo alla luce dei fatti

20 Gennaio 2022 - di Paolo Musso

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Le vicende dei paesi del Pacifico, così ben documentate su questo sito dagli articoli di Silvia Milone, richiedono a mio avviso un ripensamento, almeno parziale, del giudizio sugli articoli di Tomas Pueyo, che sono da molti ritenuti il miglior “manuale di istruzioni” per la gestione del Covid-19.

Pueyo, che non è né un medico né un biologo, ma sostanzialmente un esperto di informatica, anche se ha studiato un po’ di tutto, si è imposto all’attenzione generale con un articolo intitolato Coronavirus: Why you must act now (Coronavirus: perché dobbiamo agire adesso, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-act-today-or-people-will-die-f4d3d9cd99ca). Apparso il 10 marzo 2020 sulla piattaforma digitale Medium, in soli 9 giorni l’articolo ha avuto oltre 40 milioni di visualizzazioni e 53 traduzioni spontanee fatte dagli utenti di Internet per un totale di ben 42 lingue (43 contando l’inglese dell’originale), risultando ancor oggi l’articolo sul Covid più letto in assoluto.

Nonostante l’articolo, lungo ben 31 pagine, contenesse decine di grafici e tabelle, il concetto che intendeva comunicare era fondamentalmente uno solo e anche abbastanza semplice, benché della massima importanza: le epidemie presentano una crescita di tipo esponenziale, per cui bisogna agire con la massima decisione il più presto possibile, anche se la situazione non sembra ancora così grave da giustificare misure drastiche, perché guadagnare anche solo pochi giorni può fare un’enorme differenza.

Purtroppo, al grande interesse teorico per l’articolo di Pueyo non fece seguito una sua coerente traduzione in pratica, perché, come più volte è stato spiegato su questo sito da me e da altri, a cominciare da Ricolfi, i governi occidentali, seguendo il (pessimo) esempio di quello italiano guidato da Giuseppe Conte, fecero esattamente il contrario, rincorrendo l’andamento dell’epidemia anziché anticiparlo. Così ben presto ci si ritrovò con un livello elevatissimo di contagi, proprio come Pueyo aveva previsto.

Nel frattempo, però, appena 9 giorni dopo, il 19 marzo, Pueyo aveva già pubblicato il suo secondo articolo, The hammer and the dance (Il martello e la danza, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-hammer-and-the-dance-be9337092b56), in cui intendeva spiegare come dovevano comportarsi quei paesi (tra cui l’Italia) nei quali il virus si era ormai diffuso su vasta scala. L’idea di base era anche qui abbastanza semplice: in un primo tempo occorre usare il “martello”, cioè delle misure restrittive molto dure per abbattere i contagi, dato che se questi sono troppo numerosi nessun metodo di contenimento può funzionare, per poi passare non appena possibile alla “danza”, cioè, appunto, a un metodo di contenimento, che per Pueyo, come vedremo fra poco, coincide di fatto con il metodo coreano.

Il 2 aprile uscì Out of many, one (Dai molti, uno, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-out-of-many-one-36b886af37e9), dedicato specificamente alla situazione degli Stati Uniti (il titolo dell’articolo riprende infatti il motto “E pluribus unum” che compare nel loro stemma), che perciò non considererò, se non per notare che anche qui la sua stella polare continua ad essere la Corea del Sud e che per la prima volta Pueyo afferma chiaramente e dimostra persuasivamente che la strategia eliminativa è non solo più efficace, ma anche meno costosa di quella che punta alla sola mitigazione («a Suppression strategy would likely be less costly than a Mitigation strategy», p. 26): un concetto, questo, che i governi occidentali sembrano non aver mai capito, neppure ora, dopo quasi due anni di pandemia.

Il 20 aprile uscì A dancing masterclass (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-learning-how-to-dance-b8420170203e), scritto in collaborazione con decine di esperti di varie discipline e paesi, prima parte di Learning how to dance (Imparare a danzare), un lavoro monumentale (forse anche troppo, visto che è rimasto incompiuto) in cui Pueyo intendeva tradurre in analisi e istruzioni dettagliate le idee-guida descritte nelle loro linee fondamentali in Il martello e la danza.

A questo articolo seguirono: il 23 aprile il secondo capitolo, The basic dance steps everybody can follow (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-basic-dance-steps-everybody-can-follow-b3d216daa343); il 28 aprile il terzo, How to do testing and contact tracing (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-how-to-do-testing-and-contact-tracing-bde85b64072e); e infine il 13 maggio il quinto, Prevent seeding and spreading (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-prevent-seeding-and-spreading-e84ed405e37d), che fu anche l’ultimo.

Il quarto capitolo, infatti, pur annunciato, non è ancora stato pubblicato (così come, di conseguenza, la sintesi finale) e verosimilmente non lo sarà mai. Il motivo non è mai stato spiegato dall’autore, ma non si può fare a meno di notare la progressiva perdita di interesse da parte del pubblico. I suoi primi tre articoli, infatti, hanno avuto complessivamente oltre 60 milioni di visualizzazioni, più di 40 dei quali, però, dovute al primo. Considerando che Out of many, one aveva interesse solo per gli USA e confrontando il numero di like e commenti (rispettivamente 8.100 e 50 contro 106.000 e 526), si può dire che con ogni probabilità Il martello e la danza ha avuto oltre il 90% degli altri 20 milioni di visualizzazioni, cioè più di 18 milioni, mentre Out of many, one ne ha avute meno di 2 milioni.

Pueyo non ha mai fornito dati sulle visualizzazioni degli articoli successivi (il che già di per sé è un segnale negativo), ma non devono essere state molte, dato che all’inizio del suo ultimo articolo, The Swiss cheese strategy (La strategia del groviera, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-swiss-cheese-strategy-d6332b5939de), uscito l’8 novembre 2020, continuava a riportare lo stesso dato («Our Coronavirus articles have been read more than 60 million times»). Ciò è inoltre confermato dal crollo verticale sia dei like e dei commenti, sia (dato ancor più significativo) delle lingue in cui gli articoli sono stati tradotti dagli utenti: rispettivamente 18, 15, 13 e 8 per i quattro capitoli pubblicati di Imparare a danzare.

Dopo altri tre articoli dedicati a temi più specifici e sempre di basso impatto, Pueyo concluse provvisoriamente la sua opera sul Covid l’8 novembre 2020 con l’appena menzionato La strategia del groviera, scritto di nuovo da solo e molto più vicino allo stile dei primi due, dopodiché se ne disinteressò per quasi un anno. Ci è ritornato solo il 15 settembre 2021 con The most alarming problem about Long COVID, un articolo sugli effetti di lungo periodo del Covid (https://tomaspueyo.medium.com/the-most-alarming-problem-about-long-covid-9929af7fabb9) che però è sostanzialmente caduto nel nulla, anche perché si tratta di un tema specificamente medico, campo cui lui non ha alcuna competenza e in cui non basta l’abilità nell’analizzare i dati per dire qualcosa di significativo.

Quindi Pueyo si è dedicato ad altri temi, ma anche qui senza mai avvicinarsi nemmeno lontanamente allo sfolgorante e probabilmente irripetibile successo degli inizi: basti dire che l’articolo più recente da lui pubblicato su Medium, How to fight ocean plastic (https://tomaspueyo.medium.com/?p=3dfd38edd824), al 31 dicembre 2021 aveva ottenuto appena 178 like e 5 commenti, contro i 247.000 like e i 902 commenti del suo primo articolo.

Che dobbiamo pensare di tutto ciò? Si potrebbe semplicemente dire che “sic transit gloria mundi” e soprattutto quella del mondo di Internet, ma credo che stavolta ci sia qualcosa di più.

Infatti, mentre Perché dobbiamo agire adesso è ancor oggi condivisibile quasi al 100%, lo stesso non si può dire di Il martello e la danza, cioè il lavoro di Pueyo che ha avuto le maggiori probabilità di influire sulle decisioni reali dei governi (anche se è praticamente impossibile dire in che misura l’abbia fatto davvero). Esso è infatti uscito proprio nel momento in cui i principali paesi occidentali cominciavano a adottare le prime vere misure di contenimento, venendo subito tradotto in ben 39 lingue (40 con l’originale inglese) e, soprattutto, potendo sfruttare l’effetto di trascinamento prodotto dal successo planetario del primo articolo.

Purtroppo, però, a differenza di quest’ultimo, qui c’è veramente tutto e il contrario di tutto, sicché, insieme a molte idee sicuramente giuste (peraltro quasi tutte riconducibili al “dobbiamo agire subito” del primo articolo), vi ritroviamo anche tutti i principali errori che abbiamo commesso: dall’eccessiva insistenza sul lavaggio delle mani e sull’uso delle mascherine alla mancanza della prevenzione del contagio via aerosol, dalla sottovalutazione dei contagi negli uffici e nelle fabbriche all’eccessiva insistenza sugli assembramenti all’aperto, fino alla valutazione positiva del coprifuoco (la misura più stupida di tutte e, in certo senso, la sintesi di tutti i nostri errori, dato che unisce tutte le idee sbagliate appena elencate al “linguaggio di guerra” irresponsabilmente adottato dai governi occidentali).

Questa tendenza si è ulteriormente accentuata nelle varie parti di Imparare a danzare, che per di più sono state scritte col contributo di così tante persone che è impossibile perfino dire esattamente quante. Questo ricorda da vicino gli errori commessi dai nostri governi anche dal punto di vista del metodo, dato che essi sono stati (e continuano purtroppo ad essere) il frutto di una babele di opinioni che si intrecciano freneticamente, senza una chiara idea di fondo che le unifichi e soprattutto senza una guida autorevole che si prenda la responsabilità di indicarla, col risultato che le decisioni vengono prese sostanzialmente a caso, in base a chi grida più forte o sulla spinta dell’emotività. Non è dunque tanto strano che l’interesse dei lettori di Pueyo sia rapidamente scemato, visto che è altrettanto rapidamente scemata anche la qualità dei suoi articoli.

Questo, però, non è tutto. È proprio l’idea di fondo che lascia a dir poco perplessi, secondo me già allora, ma in ogni caso di certo almeno oggi, alla luce dei fatti successivi. Infatti, se si può capire che all’inizio dell’epidemia si possa preferire la “danza” al “martello” in quanto meno traumatica, quello che invece appare del tutto incomprensibile è perché mai, una volta che (per necessità o per scelta) si sia optato per la “martellata”, non si dovrebbe poi tirarla fino in fondo, cioè fino alla totale eliminazione del virus. E ciò suona ancora più strano considerando che poco prima Pueyo aveva affermato in modo inequivocabile che la strategia che punta all’eliminazione del virus non solo è la migliore, ma è l’unica accettabile («Everybody should follow the Suppression Strategy»).

Eppure, poco oltre non solo Pueyo afferma che una volta che il tasso di trasmissione (il famoso R) sia sceso sotto 1 si deve fermare il “martello” per passare alla “danza”, cioè al contenimento, ma addirittura sostiene che quest’ultimo dovrebbe essere calibrato in modo tale che R resti sempre il più possibile vicino a 1, anche se in media sempre al di sotto di esso («during the Dance of the R period, they want to hover as close to 1 as possible, while staying below it over the long term term», The hammer and the dance, p. 28).

Ora, questo non è solo concettualmente sbagliato, ma è un’autentica follia, perché significa auto-costringerci a vivere perennemente sul filo del rasoio, con il rischio continuo (che alla lunga inevitabilmente si realizzerà) che la situazione ci sfugga di mano e si debba tornare al “martello”. E, di fatto, questo è esattamente ciò che è accaduto (e continua tuttora ad accadere) in Italia e un po’ in tutto l’Occidente, con i catastrofici risultati che ben conosciamo.

La spiegazione che dà Pueyo di questa clamorosa contraddizione è che ciò permetterebbe di eliminare le misure più pesanti, che alla lunga risulterebbero troppo onerose («That prevents a new outbreak, while eliminating the most drastic measures», The hammer and the dance, p. 28). Ma questo è falso (cfr. Luca Ricolfi, La notte delle ninfee, La Nave di Teseo, Milano 2021) e la cosa più sconcertante è che, come abbiamo detto prima, in Out of many, one, uscito appena due settimane dopo, Pueyo stesso dimostrerà che in realtà sono proprio le misure più drastiche ad essere le meno costose. Anche ammettendo che al momento della pubblicazione di Il martello e la danza non l’avesse ancora capito, perché non correggerlo successivamente, trattandosi di un articolo online pubblicato in un suo spazio personale e quindi modificabile in qualsiasi momento?

A questo punto, come suol dirsi, la domanda sorge spontanea: da dove vengono queste apparentemente inspiegabili incongruenze all’interno di un’analisi che per tanti altri aspetti è invece così precisa?

In realtà una spiegazione c’è, ed è che per Pueyo sembra esistere un unico modello di successo, cioè quello della Corea del Sud. Ciò si spiega col fatto che all’inizio della pandemia la Corea era sembrata per qualche tempo il paese messo peggio al mondo dopo la Cina e poi quello che si era ripreso più rapidamente, sempre dopo la Cina. Così, lasciata da parte quest’ultima, che, essendo una dittatura, non poteva costituire un modello per i paesi democratici, Pueyo si è concentrato sulla Corea e non ha mai considerato seriamente nessun’altra strategia,

Ciò si vede chiaramente dal fatto che ogni volta che parla di qualcuno degli altri paesi che hanno avuto successo nella lotta al virus tende invariabilmente ad assimilare la loro strategia a quella coreana (senza rendersi conto delle differenze) oppure a sottovalutarla (senza rendersi conto dei risultati). Per esempio, in Il martello e la danza Pueyo equipara sbrigativamente i sistemi di Taiwan e Singapore a quello coreano. Inoltre, nella nota finale a tutte le 4 parti pubblicate di Imparare a danzare scrive esplicitamente che i suoi modelli sono «Taiwan, Singapore, Cina e Corea del Sud» («In Part 1, we discuss best practices from Taiwan, Singapore, China and South Korea»), nemmeno menzionando Australia e Nuova Zelanda.

Peraltro, contraddittoriamente, Pueyo conclude la nota suddetta scrivendo che «la maggior parte dei paesi non stanno approcciando bene il tracciamento dei contatti» e che «continuando così faranno la fine di Singapore» («Most countries are not approaching contact tracing right. If they continue their current path, they will end up like Singapore»), il che non solo è contrario a quanto lui stesso aveva scritto poche righe prima, ma anche e soprattutto ai fatti, visto che Singapore è uno dei paesi che meglio hanno gestito l’epidemia, benché non abbia mai adottato il tracciamento elettronico in stile coreano (cfr. Silvia Milone, Il successo del sistema misto di Singapore, https://www.fondazionehume.it/societa/il-successo-del-sistema-misto-di-singapore/).

È vero che tra i primi di aprile e la fine di maggio del 2020, cioè esattamente nel periodo in cui sono uscite le quattro parti di Imparare a danzare, a Singapore c’era stata un’improvvisa impennata dei contagi nei dormitori destinati ai lavoratori stranieri. È altrettanto vero, però, che si era trattato di un focolaio grande ma isolato e che il numero di contagi poteva essere considerato alto solo in relazione a quello, bassissimo, dei mesi precedenti, mentre il numero dei decessi (20 in due mesi, cioè uno ogni 3 giorni) era stato bassissimo in qualsiasi modo lo si volesse considerare. Forse all’epoca questo non era ancora così evidente, ma, di nuovo, perché non correggere questa affermazione nemmeno successivamente, quando è diventato chiaro che era clamorosamente sbagliata?

Certo, su questa indisponibilità a modificare il suo punto di vista e sulla sua apparente indifferenza verso le contraddizioni suddette ha probabilmente influito anche l’inatteso successo planetario del primo articolo, che ha spinto Pueyo a scrivere tutti gli altri nel giro di appena due mesi (a parte l’ultimo, che infatti è molto più coerente). Con ritmi del genere e con una così grande quantità di tematiche, non c’è da stupirsi che non abbia avuto il tempo (né, probabilmente, la voglia) di rimettere in discussione la sua stella polare, su cui si basava tutta la sua impostazione teorica e a cui doveva tutta la sua fortuna.

Se però questa può essere la spiegazione del suo comportamento, non può esserne anche la giustificazione, soprattutto considerando che, come si è detto, Pueyo non ha modificato le sue convinzioni neanche successivamente, quando i limiti del modello coreano sul lungo periodo sono diventati sempre più evidenti, così come la maggiore efficacia di altri modelli, soprattutto quello della Nuova Zelanda. Ma la Nuova Zelanda è esattamente l’unico paese di cui Pueyo non parla mai: in tutti i suoi articoli a parte l’ultimo la nomina in tutto due volte e sempre di sfuggita, il che è davvero incredibile, ma certamente niente affatto casuale.

L’unico articolo in cui ne ha parlato (e anche qui brevemente) è stato La strategia del groviera, non a caso molto meno ambizioso, ma sicuramente molto più utile di Imparare a danzare. In esso Pueyo auspica l’uso contemporaneo di diverse strategie di difesa, in modo tale che se il virus ne supera una venga bloccato da un’altra, proprio come accade in una serie di fette di groviera sovrapposte: ciascuna di esse ha dei buchi che la attraversano da parte a parte, ma se le fette sono abbastanza numerose nessun buco riuscirà ad attraversarle tutte.

Qui Pueyo ha dedicato un breve paragrafo anche alla Nuova Zelanda e all’Australia, ma senza coglierne la specificità e minimizzando i successi da loro ottenuti (che a quel punto, a novembre del 2020, erano veramente clamorosi, anche rispetto agli altri paesi del Pacifico) con il solito ritornello per cui essi sarebbero dovuti essenzialmente al fatto di essere isole con una densità di popolazione molto bassa. Ma questa è una considerazione superficiale e fuorviante, che stupisce molto in un autore che certamente superficiale non è.

Infatti, la bassa densità di popolazione dei due paesi oceanici è un mero dato statistico, del tutto irrilevante ai nostri fini, dato che si deve essenzialmente al fatto che gran parte del loro territorio è disabitato. Tuttavia, nella parte abitata la loro densità di popolazione è sostanzialmente la stessa dei paesi europei: oltre il 60% dei neozelandesi vivono infatti in due sole città, Auckland e Wellington, entrambe più grandi di Milano, mentre gli australiani stanno quasi tutti sulle strette fasce costiere orientali e meridionali, lasciando l’immenso Outback desertico ai canguri e ai pochi aborigeni sopravvissuti, nonché ad alcuni gruppi di coloni sparpagliati in qualche migliaio di chilometri quadrati intorno ad Alice Springs.

Di conseguenza, i problemi che hanno dovuto affrontare sono stati del tutto simili ai nostri, ma i loro risultati sono stati enormemente migliori. E questo si deve, evidentemente, alla loro strategia, che è molto diversa da quella coreana, ma non meno efficace: anzi, sul lungo periodo si è addirittura rivelata più efficace, così come anche quella di Singapore, altro paese poco capito da Pueyo.

Ma c’è di più. Infatti, non solo l’alternanza martello-danza è chiaramente insensata, ma la stessa idea della “danza”, cioè del contenimento del virus in stile coreano messa in atto fin dal principio, appare oggi assai più discutibile, alla luce di quanto accaduto negli ultimi mesi. Infatti, rispetto al 13 maggio 2020, quando Pueyo pubblicava l’ultima parte di Imparare a danzare, la Corea del Sud ha avuto uno dei peggiori incrementi di mortalità al mondo: ben 21 volte, mentre in Italia, per esempio, nello stesso periodo la mortalità è cresciuta “solo” di circa 5 volte.

Certo, questo si deve al fatto che allora la sua mortalità era bassissima (centinaia di volte più bassa della nostra), per cui è bastato un piccolo numero di morti per farla crescere moltissimo in termini relativi, benché in termini assoluti sia tuttora enormemente inferiore alla nostra. Ma questo vale anche per la Nuova Zelanda, la cui mortalità è invece cresciuta di appena 2 volte. E ciò dipende dal fatto che, diversamente da quelle di Nuova Zelanda, la strategia coreana non è realmente eliminativa: è anch’essa una strategia di convivenza con il virus, che si differenzia dalla nostra solo per il fatto di essere molto più efficiente e, di conseguenza, “a bassa intensità”.

Questo spiega anche perché Pueyo abbia sempre detto che il lockdown non può eliminare completamente il virus. Infatti, il lockdown coreano è molto più simile (benché molto più efficiente) al semi-lockdown all’italiana che non al vero lockdown in stile neozelandese, che invece, come i fatti hanno dimostrato, è in grado di azzerare il contagio (cfr. Paolo Musso, Jacinda forever: perché il metodo neozelandese è migliore di quello coreano, https://www.fondazionehume.it/societa/jacinda-forever-perche-il-metodo-neozelandese-e-migliore-di-quello-coreano/).

Insomma, a conti fatti non sarei così sicuro che Pueyo in Occidente non sia stato ascoltato. Non lo è stato di certo (purtroppo) per quanto riguarda il suo primo articolo, che era anche il più importante, ma per il resto quello che abbiamo fatto non è stato poi così diverso da ciò che lui auspicava, anche se di sicuro non lo abbiamo fatto (neanche lontanamente) con l’efficienza che lui auspicava. Ma l’esempio della Corea ci dimostra che sul breve periodo la “danza” può funzionare, ma sul lungo periodo non è la strategia migliore, neanche se eseguita con il massimo di efficienza umanamente possibile. Quindi, anche se avessimo seguito alla lettera tutti i suggerimenti di Pueyo le cose sarebbero andate sicuramente meglio di come sono andate, ma probabilmente non tanto quanto lui e i suoi ammiratori ritengono.

Concludendo, ciò che si può ricavare da una rilettura delle teorie di Pueyo alla luce dei fatti successivi è innanzitutto la necessità di agire sempre e comunque il più rapidamente possibile. Quanto alla strategia da scegliere, se un’epidemia viene presa per tempo e se ci si può ragionevolmente aspettare che non duri troppo a lungo, allora la “danza”, cioè il metodo coreano, può andar bene, perché certamente crea meno traumi. Ma se così non è, allora è meglio passare subito al “martello” (ovvero al lockdown alla neozelandese) e usarlo fino in fondo, il che, se fatto con sufficiente decisione e rapidità in tutto il mondo, potrebbe addirittura stroncare l’epidemia sul nascere e impedirle di trasformarsi in pandemia. La “strategia del groviera” può essere usata come “rinforzo” del “martello” oppure come suo sostituto se per una qualsiasi ragione esso non dovesse avere successo (come è purtroppo accaduto da noi): anche in questo caso, però, bisognerebbe sempre puntare alla eliminazione del virus e non alla convivenza con esso, perché è ormai chiaro che sul lungo periodo quest’ultima non funziona.

Se questi sono dunque i principali insegnamenti di Pueyo, il suo principale errore si può invece riassumere tutto in una congiunzione: infatti non è “il martello e la danza”, ma “il martello o la danza”. E tutti i nostri guai sono nati non dal dover scegliere tra le due alternative, ma dal non aver saputo (o voluto) farlo.

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