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No, l’unicità dell’Olocausto è innegabile

17 Febbraio 2022 - di Dino Cofrancesco

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Il Giornale del Piemonte e della Liguria

8 febbraio 2022

Un autorevole politologo mi scrive che i tanti discorsi e commemorazioni dell’olocausto, gli ricordano ”Leonardo Sciascia e la sua polemica contro la cultura dell’antimafia. Ho cioè l’impressione che gli ebrei |…|abbiano deciso che nessuna persecuzione contro altri sia paragonabile all’antisemitismo. |..| Come gli ‘antimafiosi’ riducevano ogni ‘categoria dello spirito’ al dichiararsi ‘antimafiosi’|…| così gli ebrei hanno deciso che l’antisionismo sia il Male Assoluto e che chiunque si azzardi–non dico a negarlo – ma solo a dire ‘ci sono altri che vengono discriminati’, ecco che gli ebrei insorgono e accusano”, di antisemitismo “Infatti, puntualmente Whoopi Goldberg è stata travolta da accuse di antisemitismo, e tanti prima di lei per posizioni relativiste analoghe.”  Condivido l’insofferenza del collega. Tempo fa un esponente dell’ebraismo italiano chiese che da un documento ufficiale fosse eliminato il riferimento a Martin Heidegger, in quanto il filosofo, tra i maggiori del secolo, era stato nazista. Di questo passo, non sentiremo più Richard Wagner che non fece a tempo a conoscere il Fuhrer (l’amato ‘zio Wolf’ dei suoi figli) ma che sarebbe divenuto un’icona del Terzo Reich (si ricordi la battuta di Woody Allen:”quando ascolto la ‘Cavalcata delle Walchirie’ provo un bisogno irresistibile di invadere la Polonia!”).

 E tuttavia l’unicità dell’olocausto mi sembra fuori questione. Per la prima volta nella storia, infatti, un gruppo sociale veniva sterminato non per la sua religione, non per il suo ruolo sociale, non per la sua cultura ma per una qualità indelebile—la razza– che ne faceva un mortale agente patogeno. La pulizia etnica è altra cosa: certi popoli vengono espulsi da un territorio per renderlo culturalmente omogeneo, le violenze vengono erogate in quantità industriale ma una volta cacciati gli intrusi, la partita è chiusa. Ciò che dell’antisemitismo nazista sconvolge, invece, è il suo ‘universalismo’: i tedeschi si sentivano incaricati dal Genere Umano di sterminare la classe abietta ovunque si trovasse, senza tener conto dei passaporti statali che avrebbero impedito di purificare il pianeta. Per essi le frontiere nazionali non esistevano più: chi più antisovranisti di loro?

 

Sui meccanismi di trasmissione di SARS-COV-2 (osservazioni critiche sull’articolo del prof. Saccani)

10 Febbraio 2022 - di Giorgio Buonanno

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Con riferimento all’articolo dal titolo ”Analisi della trasmissione di SARS-CoV-2: influenza delle condizioni termoigrometriche rispetto al rischio di diffusione del contagio” di C. Saccani et al., avrei piacere di condividere alcune osservazioni che limiterò, per motivi di tempo, alla parte iniziale.

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Lo studio prende le mosse dalla constatazione che, allo stato dell’arte, manca una terminologia rigorosa e univocamente accettata nella letteratura tecnico-scientifica con riferimento alle modalità con cui può avvenire la trasmissione del contagio di SARS-CoV-2 e, in particolare, alle modalità di trasporto cosiddette “droplet” e “airborne”.

La trasmissione di agenti patogeni respiratori è una tematica dibattuta dai tempi degli antichi filosofi (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3904176) ma da quasi 100 anni (si vedano il lavori di Wells del 1934) è nota per esperti di aerosol e ingegneri ambientali la dinamica delle goccioline emesse da un soggetto durante una attività metabolica e respiratoria. Non è accettabile (perché non è vero) affermare che non esiste una terminologia rigorosa a riguardo.

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Partendo dalla definizione di una terminologia rigorosa ed univoca, attraverso l’applicazione un nuovo modello per lo studio della propagazione del contagio, lo studio, sulla base di valutazioni fisico-matematiche, dà ragione di come il contagio avvenga solo mediante goccioline, sole a poter veicolare efficacemente il virus.

E’ curioso che gli autori prima parlino di assenza di terminologia rigorosa e poi affermano che il contagio avvenga solo mediante goccioline. Cosa intendono per goccioline? Per gli studiosi di aerosol le goccioline altro non sono che particelle liquide, indipendentemente dalla loro dimensione. Per l’OMS, in una definizione sbagliata ormai corretta sulla base delle interazioni con la comunità scientifica degli studiosi dell’aerosol e degli ingegneri, le goccioline erano particelle con traiettoria balistica, soggette alla gravità, con dinamiche non dipendenti dall’ambienti circostante e con diametro > 5 µm.

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Infatti, la gittata di una goccia emessa da un soggetto infetto, ovvero la distanza di sicurezza da mantenere per minimizzare il rischio di contagio, dipende da numerosi parametri fra i quali, di notevole importanza, il grado igrometrico dell’ambiente in cui questa, la goccia, si trova: da esso, infatti, dipende la velocità di evaporazione e, quindi, la sussistenza della goccia.

Pertanto, lo studio dimostra che il controllo del trasporto del contagio non può essere affrontato in assenza di controllo del grado igrometrico dell’ambiente in cui la goccia si muove: infatti, la definizione stessa di distanza di sicurezza perderebbe di significato in quanto la gocciolina potrebbe “sopravvivere” nell’ambiente con elevata umidità, anche per tempi lunghi e realizzando percorsi casuali, qualora le goccioline fossero al di sotto di certe dimensioni.

Come proposto da W. Wells quasi 100 anni fa, nel continuum di diametri delle particelle emesse è possibile ipotizzare due comportamenti differenti (in realtà il problema è molto più complesso perché viene emessa una nuvola di gas turbolento multifase e non singole particelle). Le goccioline più piccole (diametri inferiori a 100 µm), anche a seguito della rapidissima evaporazione tenderanno a galleggiare e a “riempire” l’ambiente chiuso circostante seguendo i moti convettivi dell’ambiente e percorrendo distanze non prevedibili solo sulla base della velocità di emissione. Le goccioline più grandi invece saranno soggette alla gravità (con scarsa influenza della evaporazione) e cadranno al suolo in prossimità del soggetto emettitore. Detto questo, trovo il testo completamente errato.

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A conclusione dello studio, è riportato un caso di studio che dimostra non solo la correlazione fra grado igrometrico e distanza di sicurezza ma anche che la trasmissione del contagio di tipo airborne, ovvero tramite virioni rilasciati a seguito di evaporazione della goccia, in virtù della loro bassissima concentrazione e del moto di tipo browniano che li caratterizza, abbia una probabilità del tutto trascurabile rispetto alla trasmissione dell’infezione da SARS-CoV-2.

 Ci sono una serie di errori condensati in queste poche righe. Il caso di studio non può dimostrare nulla perché parte da ipotesi sbagliate (al massimo è coerente con le ipotesi), non può esistere concettualmente una correlazione tra umidità (che vale per goccioline piccole, aerosol) e distanza di sicurezza per goccioline grandi (quelle definite dall’OMS come droplets), non esiste una dinamica dei virioni “nudi” con particelle di dimensioni ultrafini ma il risultato finale dell’evaporazione porta ai cosiddetti droplet nuclei con diametri attorno a 1-4 µm, non si capisce da dove viene la bassissima concentrazione e i moti browniani e soprattutto la presunzione che il contagio non dipenda dall’aerosol.

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Modalità di trasporto cosiddetta airborne: definita come quella modalità di trasporto in cui la particella solida che ospita il virione risulti aerotrasportata, ovvero, il cui movimento sia conseguente al moto della corrente fluida che la trasporta.

La massa virale è parte del nucleo di una particella liquida (gocciolina) che conserva anche a seguito della evaporazione dimensioni micrometriche. Non si capisce quale sarebbe la particella solida che trasporta il virione.

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Trasmissione del contagio attraverso aerosol, in accordo alla definizione fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): “Aerosol transmission refers to the possibility that fine aerosol particles,…., which are generally considered to be particles <5μm in diameter, remain airborne for prolonged periods and be transmitted to others over distances greater than 1 m” (OMS, 2020).

Dalle due definizioni non è chiaro se ci si riferisca a particelle così fini da rimanere in sospensione in aria calma come conseguenza di moti Browniani, ovvero senza componente di moto del fluido di trasporto, oppure se le definizioni includano anche particelle di dimensioni più grandi ed in movimento in sospensione fluida come conseguenza della velocità di trascinamento della corrente che le trasporta.

La definizione dell’OMS era sicuramente errata (si veda quanto riportato in https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3904176) ma l’errore storico è stato quello di associare la condizione di trasmissione aerea a quella di maggiore efficacia di deposizione nella zona tracheo-bronchiale (5 µm). I moti Browniani non sono parte di questo discorso.

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Chi scrive ritiene che la terminologia migliore, in quanto rigorosa, univoca e più adatta allo studio dei modelli che si riferiscono alla propagazione ambientale delle particelle, sia la seguente:

Airborne: si definisce come tale il trasporto di particelle solide in sospensione fluida nell’ambiente considerato, comunque esse siano trasportate, ossia indipendentemente dalla velocità di trasporto della corrente fluida che le contiene, comprendendo quindi anche il trasporto di particelle ultrafini soggette a moti browniani;

Droplet: si definisce come tale il trasporto di goccioline nell’ambiente esaminato, indipendentemente dalla dimensione e comunque esse siano

Per aerosol si intende una sospensione metastabile di particelle solide o liquide disperse in un fluido. Droplet è una particella liquida. Queste sono definizione rigorose ed accettate ed autori non del settore non possono pensare di proporre definizioni (queste si) senza senso.

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Si fa presente che molta della letteratura scientifica attuale, in particolare per la trasmissione del virus SARS-CoV-2, fa riferimento alla modalità cosiddetta “airborne” anche per indicare emissione da parte dei soggetti infetti di goccioline di secrezioni ultrafini (dimensioni <5 micron) (come ad esempio nella lettera firmata da 239 ricercatori indirizzata alla WHO) (Morawska et al. 2020) [239 ricercatori]. Ciò provocherebbe confusione quando ci si addentrasse nell’analisi termo fluidodinamica che segue in quanto la gocciolina rappresenta una massa potenzialmente variabile, in funzione delle caratteristiche ambientali, mentre non è così per la particella solida.

Devo dire che ho fatto fatica a capire quanto riportato, nonostante sia stato uno dei 36 studiosi che ha scritto la lettera poi firmata da 239 studiosi. Facciamo riferimento alla trasmissione aerea perché questa è la modalità di trasmissione. Riguarda particelle in emissione fino a diametri di circa 100 µm (e non 5 µm come per l’OMS). E la nostra lettera ha provocato talmente confusione (!?!) che l’OMS ha cambiato approccio in modo epocale e ha riconosciuto la trasmissione aerea.

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La classificazione che individua la trasmissione droplet indipendentemente dalla dimensione delle goccioline, esclude in maniera chiara e univoca il particolato solido come vettore di potenziale contagio (Bontempi, 2020; Domingo et al., 2020).

Qui ho capito le mie difficoltà di comprensione e concludo i miei commenti. Gli autori fanno riferimento al fantomatico trasporto del virus con il particolato, ovvero quella dinamica cavalcata in modo speculativo dalla SIMA (Società Italiana Medici dell’Ambiente) e da altri autori che ipotizzava, senza alcuna competenza della materia, il contagio all’aperto su grandi distanze (https://www.scienzainrete.it/articolo/inquinamento-e-covid-due-vaghi-indizi-non-fanno-prova/stefano-caserini-cinzia-perrino). Una sorta di ritorno alla teoria dei miasmi…

In conclusione ritengo che l’articolo pubblicato sul sito della Fondazione Hume non abbia basi scientifiche e presenti numerosi errori logici e scientifici.

Prof. Giorgio Buonanno

Università di Cassino e del Lazio Meridionale

Queensland University of Technology, Brisbane, Australia

Se 400 morti vi sembran pochi

10 Febbraio 2022 - di Luca Ricolfi

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Archiviata l’ingloriosa contesa sul Quirinale, nel giro di pochissimi giorni un nuovo clima sembra essersi installato in Italia. Un clima fatto di riaperture, soprattutto riservate ai vaccinati, e di progressiva smobilitazione dell’apparato di gestione della pandemia. In questo clima di quasi-euforia, si ipotizza la fine dello stato di emergenza (era ora), ma anche lo scioglimento del Comitato tecnico-scientifico (Cts). E questo non già per i troppi errori commessi, ma perché staremmo rapidissimamente uscendo dalla pandemia. Fra gli esperti-sempre-in tv c’è chi trova che 1500 pazienti Covid in terapia intensiva non siano un’emergenza (con buona pace delle migliaia di malati cui è stato rimandato un intervento chirurgico). Quanto al Cts, un suo membro si spinge ad affermare: “Le condizioni per guardare lontano ci sono tutte. Aspettiamo ancora qualche settimana per essere certi di poter saltare di gioia”.

Ieri, a suggellare la realtà di questo cambio di fase, l’intervista rilasciata a “Repubblica” dal generale Figliuolo mette gli ultimi puntini sulle i: i ricoveri stanno diminuendo, gli ospedali possono ricominciare a occuparsi dei malati normali, la campagna vaccinale è molto avanti, difficilmente dovremo sottoporre tutta la popolazione a una quarta dose, in ogni caso il sistema è flessibile, all’occorrenza la rete degli hub è in condizione di riattivarsi rapidamente.

In effetti i dati gli dànno ragione. La percentuale di vaccinati è molto alta, sopra la media europea. I casi giornalieri stanno diminuendo, e così i ricoveri, sia in medicina generale sia in terapia intensiva. Inoltre, è molto confortante il fatto che, in Italia come nella maggior parte dei paesi europei, il tasso di letalità del Covid mostri chiarissimi segni di declino.

C’è solo un’ombra: il numero di morti, circa 400 al giorno. E’ vero che i decessi riflettono l’andamento dell’epidemia un paio di settimane prima, e che – con la diminuzione dei casi attualmente in corso – anch’essi sono destinati a ridursi nelle prossime settimane. Ma il problema resta.

A farcelo notare è Guido Rasi (ex direttore dell’EMA e consigliere del generale Figliuolo), una delle poche voci che, pur sottolineando i miglioramenti in corso, ha ritenuto doveroso porre un piccolo freno ai nostri entusiasmi.  Il consigliere del generale fa notare che “400 decessi al giorno sono veramente tanti”, e che il fatto che siamo un paese anziano “non basta a giustificarli”.

Anche lui ha ragione. Se guardiamo ai paesi europei, sono pochissimi quelli che, in questo momento, hanno più morti per abitante di noi. Tutti i grandi paesi, Regno Unito Germania, Francia, Spagna, Polonia, ne hanno di meno, qualche volta molti di meno (in Germania, un paese anziano come l’Italia, i decessi sono meno di 1/3 dei nostri).

Il prof. Rasi suggerisce cautamente che qualcosa non abbia funzionato, e continui a non funzionare, nell’assistenza sanitaria: cure domiciliari, tempi di ricovero e di trasferimento in terapia intensiva, uso degli anticorpi monoclonali e dei nuovi farmaci antivirali.

E’ verosimile che sia così, ma – quale che sia la ragione per cui abbiamo tanti morti – resterebbe un’altra domanda: come mai ce ne importa così poco? come mai un anno fa 100 morti al giorno ci sembravano tantissimi, e oggi 400 morti non ci turbano più di tanto? Come abbiamo fatto ad abituarci?

Facendo questa domanda non mi riferisco tanto ai politici, quanto a noi cittadini. Perché se, negli ultimi 3 mesi, la politica ha potuto ignorare i segnali di allarme che venivano dai bollettini quotidiani dell’epidemia, e ha potuto permettere che i decessi salissero ininterrottamente dai 40 al giorno di ottobre ai 400 di oggi, è innanzitutto perché in noi qualcosa è cambiato.

Dunque, che cosa è cambiato, e perché?

Credo che i cambiamenti più importanti siano due. Il primo è che, grazie alla progressiva sostituzione della variante delta con la variante omicron (molto meno letale), l’esplosione del numero di contagi non ha comportato un intasamento degli ospedali comparabile a quello delle prime tre ondate. La pressione sugli ospedali registrata allora ci ha convolti tutti, perché arrivava tutte le sere sulle nostre tv, in modo continuativo e martellante, mentre negli ultimi mesi il messaggio fisso, altrettanto martellante, è stato un altro: le terapie intensive sono piene di non vaccinati, i vaccinati ci arrivano molto di rado.

Il secondo cambiamento è stato il mero trascorrere del tempo: ieri eravamo disposti a fare imponenti sacrifici per salvare vite umane, oggi non lo siamo più semplicemente perché sono passati due anni, e troviamo intollerabile l’idea che i nostri sacrifici siano a tempo indeterminato, senza una luce in fondo al tunnel. A un certo punto, noi abbiamo deciso che la pandemia stava finendo. E’ questo che ha permesso a Draghi di gestire le cose con molta meno prudenza del suo predecessore, fino al punto di considerare 400 morti al giorno come un tributo accettabile. E’ questo che oggi ci rende indulgenti, se non indifferenti, di fronte ai numeri che scorrono ogni sera davanti ai nostri occhi.

Ma perché siamo diventati così?

Credo sia tempo di prendere atto che, nella nostra cultura (e probabilmente in tutte le culture), i morti assumono significati differenti a seconda della carica simbolica di cui sono circonfusi. Per suscitare la nostra pietà o la nostra indignazione non basta che siano tanti. Devono connettersi a qualche porzione del nostro inconscio, o del nostro immaginario, in cui assumano un significato forte. Se devono turbarci, non possono essere prosaici, devono avere una carica emotiva. E, requisito fondamentale, occorre che siano pensabili come qualcosa contro cui possiamo combattere, riducendone drasticamente la portata.

E’ per questo che 3 morti al giorno sul lavoro ci colpiscono, e 9 morti al giorno di incidente stradale no. E’ per questo che 100 femminicidi l’anno ci fanno impressione, e 5000 donne morte in incidenti domestici no. Ed è di nuovo per il medesimo motivo che, nella primavera del 2020, 600 morti di Covid al giorno ci parevano un’enormità, e 600 morti per malattie cardiache no: quei morti di Covid pensavamo di poterli ridurre drasticamente anche mediante i nostri comportamenti (come in effetti abbiamo fatto), mentre per i morti di cuore sapevamo di poter fare ben poco.

Ora i 400 morti di Covid al giorno abbiamo imparato a considerarli come i morti di infarto, di ictus, di cancro. Come numeri, insomma. Forse è logico, e persino giusto. Ma lascia un retrogusto amaro, che getta un’ombra sui proclami che annunciano le riaperture e sul fiume di retorica che accompagna il “ritorno alla normalità”.

L’utopia limitata degli homeschooler in Italia

7 Febbraio 2022 - di Paolo Di Motoli

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Per homeschooling o istruzione parentale si intende l’amministrazione di un programma di istruzione offerto in casa invece che in una scuola pubblica o privata; una situazione di insegnamento dove i bambini imparano in casa invece che nelle scuole convenzionali. In tale contesto i genitori o i parenti assumono la diretta responsabilità dell’educazione dei bambini (Murphy 2012).

Il fenomeno, assai minoritario nel nostro paese sta lentamente assumendo dimensioni più rilevanti per una serie di cause che andremo ad analizzare ma gli ultimi anni di pandemia ne hanno probabilmente accelerato la crescita.

Secondo i dati dell’Anagrafe Nazionale degli studenti nell’anno scolastico 2017-2018 gli alunni in istruzione parentale erano 4.169, divisi tra scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. Nell’anno successivo, il 2018-2019 sono saliti a 5126 e secondo i dati pubblicati di recente dal MIUR e ripresi dall’agenzia Adnkronos sarebbero passati a 15.361 nell’ultimo anno (2020-2021).

La pandemia ha moltiplicato la tendenza dei genitori a istruire i figli in casa per ragioni che potremmo definire pragmatiche.

Tra gli homeschooler, anche in Italia, è possibile includere i genitori che seguono il programma ministeriale e quelli che praticano l’unschooling. Il termine venne coniato negli anni Ottanta da John Holt, insegnante statunitense, che lo usò nella sua rivista-newsletter Growing without schooling per indicare la possibilità di imparare senza andare a scuola. Le prime vittorie legali di famiglie che volevano praticare l’homeschooling fecero notizia negli Stati Uniti e il settimanale “Time” dedicò degli articoli al tema. Holt partecipò anche al “Phil Donahue Show” e pur dovendo fronteggiare un pubblico di persone ostili alla pratica ottenne un successo notevole, che moltiplicò la platea di padri e madri pronte a lanciarsi nella pratica della scuola. Presto i gruppi religiosi protestanti grazie alla maggiore organizzazione e forza economica soppiantarono numericamente i gruppi di genitori libertari e progressisti che sull’onda dei movimenti di contestazione degli anni Sessanta avevano iniziato a educare i figli fuori dai tradizionali circuiti scolastici.

Oggi il termine homeschooling (auto)definisce le famiglie che intendono lasciare i figli liberi di decidere cosa imparare, dove farlo e in che modo eludendo se possibile gli obblighi di esami di idoneità annuali resi obbligatori dalla cosiddetta legge 107 sulla Buona scuola del 2017.

Statofobia, puerocentrismo e neoliberalismo

L’indagine sulle motivazioni dei genitori che compiono questa scelta è un tema che ha prodotto una notevole quantità di studi nel mondo accademico (Van Galen 1991; Steven 2001; Morton 2010: Gaither 2017).

In un saggio dedicato alle ricerche quantitative sulle famiglie di homeschooler negli Stati Uniti, Eric Isenberg ha sottolineato la differenza tra gli approcci etnografici e quelli che si limitano a prendere in esame i dati raccolti da varie organizzazioni pubbliche e private. Secondo Isenberg, uno dei limiti degli approcci quantitativi è il fatto di non essere spesso in grado di cogliere le motivazioni profonde che spingono le famiglie verso questa pratica educativa, a differenza di quanto avviene nel caso dei lavori di taglio etnografico (Isenberg 2007). Un approccio qualitativo mira quindi ad approfondire il tema proprio sul piano delle motivazioni.

In una recente ricerca svolta sotto la supervisione del Dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di Padova è emersa, almeno nel mondo dei genitori che compiono la scelta per ragioni “ideali” e non pragmatiche (che pure sono interessanti come la presenza di handicap, bullismo o più di recente il timore del contagio) la prevalenza di quella che il filosofo Michel Foucault chiamava “fobia di stato” affiancata a un atteggiamento da parte dei genitori che si è chiamato “puerocentrico” (Di Motoli 2020).

Fare scuola in casa sarebbe secondo alcuni di questi genitori l’espressione più coerente della libertà parentale di scelta. Questi rivendicano il diritto di decidere cosa è veramente meglio per i loro figli sostituendo al paternalismo “artificiale” dello Stato quello “naturale” della famiglia. Per molti genitori si tratta di costruire in casa una sorta di mondo perfetto più adatto per i propri figli, che non impone orari, non impone programmi scolastici e non reprime le istanze dei piccoli in una specie di utopia limitata alle mura domestiche che conserva echi dei testi di Herbert Marcuse.

I gruppi denominati “Stato fobici” hanno diffidenza verso le strutture istituzionali, tendono a definirsi libertari o anarchici e la spinta prevalente che li muove è un individualismo che li porta a non riconoscere o a criticare fortemente il ruolo dei mediatori pubblici e privati siano questi insegnanti, medici o amministratori. Non respingono forme di cooperazione ma rifiutano la sfera pubblica così come organizzata dallo Stato.

I “puerocentristi” sono coloro che pongono il bambino e i suoi interessi al centro del progetto educativo, sull’onda delle teorie pedagogiche attiviste à la John Dewey o à la Maria Montessori. È un tema che emerge spesso nei discorsi di questa categoria di homeschooler, a volte slegato da solidi riferimenti teorici.

Una nuova/vecchia ideologia

Quello che la pandemia ha per certi versi reso più evidente (pensiamo ai dibattiti sulle restrizioni e sul tema dei vaccini) è una sorta di nuova ideologia. Questa linea di pensiero mette insieme istanze tipicamente neoliberali di repulsione verso le istituzioni e il controllo dello stato su questioni educative, sanitarie ed economiche (di destra liberale? di liberalismo prevalentemente negativo?) con atteggiamenti di critica della società e dei dispositivi di legittimazione delle sue strutture tipiche di un pensiero (di sinistra? progressista?) che trova proprio in Michel Foucault il suo fondatore.

Va ricordato che nel caso dei bambini si sostituisce il paternalismo dello Stato a un paternalismo ancora più forte come quello della famiglia e dei genitori che inevitabilmente limitano la possibilità per i loro figli di venire in contatto con realtà, figure e idee differenti rispetto a quelle del gruppo di appartenenza. Qui ci pare che il cortocircuito sia evidente. Per sottrarre il bambino al paternalismo dello stato lo si sottopone ad un paternalismo ancora più forte e invasivo come quello della famiglia.

Fulcro dell’individualismo liberale è, come noto, il principio secondo cui i diritti e le libertà individuali devono essere protetti anzitutto dall’ingerenza dello Stato. Scrive Friedrich von Hayek nel suo testo sul liberalismo: “La concezione liberale della libertà è stata spesso, e con ragione, definita come una concezione puramente negativa” (Von Hayek 2012: 43).

Coloro che ricollegano la pratica dello homeschooling a tale tradizione, come fanno per esempio Romualdo Portela de Oliveira e Luciane Muniz Ribeiro Barbosa (Portela de Oliveira, Muniz Ribeiro Barbosa, 2017), sottolineano come essa rappresenti la declinazione, in ambito educativo, delle teorie dello “Stato minimo” o “ultraminimo” che, sorte già con il liberalismo ottocentesco, hanno influenzato soprattutto la tradizione liberale del secolo scorso.

Nel corso delle ricerche per individuare le ragioni dei genitori homeschooler sono emersi discorsi che denotano una serie di temi che appaiono oggi quelli di una possibile piattaforma politica:

1) resistenza alla cultura dominante

2) sospetto verso le istituzioni, la scuola e i mediatori

3) opposizione alle politiche sanitarie (obbligo vaccinale)

4) attenzione particolare alle istanze dei figli

5) esigenza di controllo dei figli

6) centralità dei valori familiari

7) centralità dei valori religiosi

8) sospetto verso tematiche legate al genere e al contrasto delle discriminazioni

9) riferimento a teorici o particolari educatori

10) definizione del rapporto con la libertà prevalentemente negativo (“libertà da” come la intendeva Isaiah Berlin).

Alla luce di tutto questo non è da escludere che anche nel nostro paese si presenti prima o poi la necessità di un dibattito più ampio sul tema che in Francia ha già prodotto nel luglio del 2021 una legge che ha drasticamente limitato per molte famiglie (erano circa 50mila nel 2020) di praticare l’istruzione parentale. Lo spirito che animava la legge era quello di ostacolare il settarismo che nell’esagono ha prodotto i terribili attentati islamisti degli ultimi anni.

Riferimenti bibliografici

  1. Berlin, Due concetti di libertà, Feltrinelli 2000.
  2. Damele, P. Di Motoli, Homeschooling. Appunti su una pratica educativa al confine tra comunitarismo e individualismo libertarian, in Meridiana n. 94, 2019, pp. 195-2014.
  3. Di Motoli, Fuori dalla scuola. L’homeschooling in Italia, Studium 2020.
  4. DeKoven, Utopia Limited: The Sixties and the Emergence of the Postmodern, Duke University Press, 2004.
  5. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli 2005.
  6. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli 1997.
  7. Gaither, Homeschool an American History, Palgrave Mc Millan 2017.
  8. Holt, Come apprendono i bambini, Bompiani 2020.
  9. Isenberg, What Have We Learned About Homeschooling?, in Peabody Journal of Education, V. 82 n. 2-3, 2007, pp. 387-409.
  10. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi 1967.
  11. S. Merry, S. Karstein, Restricted Liberty, Parental Choice and Homeschooling, in Journal of Philosophy of Education, V. 44, n. 4, 2010.
  12. Morton, Home Education: Constructions of Choice in International Electronic Journal of Elementary Education 3, no. 1, October 2010.
  13. Murphy, Homeschooling in America: Capturing and Assessing the Movement, Corwin, SAGE 2012.
  14. Portela de Oliveira, L. Muniz Ribeiro Barbosa, Neoliberal as one of the Foundation of Homeschooling, in Pro-Posições, V. 28, n.2, 2017, pp.193-212.
  15. Stevens, Kingdom of Children. Culture and Contreversity in the Homeschooler Movement, Princeton University Press 2001.
  16. Von Hayek, Liberalismo, Rubbettino 2012.

Donne e politica: non serve parità, ma differenza

3 Febbraio 2022 - di Marina Terragni

In primo pianoPolitica

(lettera al Direttore di Repubblica)

Caro Direttore, seguo con attenzione il dibattito aperto da Luca Ricolfi sul tema della leadership femminile in politica e delle differenze tra destra e sinistra.

Interessante, per cominciare, il fatto che per una volta non è una donna a esprimere doléances ma un uomo che a quanto pare sente questa carenza di protagoniste come una perdita per sé e per la convivenza civile.

Ogni uomo fa esperienza della forza e della competenza femminile a cominciare dalla propria madre e vi fa molto conto nel proprio privato, luogo in cui si consente dipendenza e fragilità, salvo dimenticarsene al momento del patto che dà vita alla fratria pubblica della democrazia. Democrazia nata -teniamolo presente- fra uomini, lasciando le donne a custodire quello che la vita politica tiene fuori dai propri ambiti. Questo è tanto più vero in un Paese come il nostro, che non smette di venerare la Madre pur rendendo la vita difficilissima alle madri in carne e ossa, sempre più trascurate dalla politica.

E ogni uomo sa in cuor suo che buona parte delle storture di questo mondo ha a che vedere con il fatto che la differenza femminile è stata tenuta fuori dal governo della convivenza umana.

L’inclusione delle donne nella politica e nei partiti a seguito di molte lotte femminili è un fatto storicamente molto recente. E salvo rarissimi casi continua a richiedere che le incluse rinuncino al più del proprio sguardo differente, “neutralizzandosi” e adattandosi a modi, tempi, agende e linguaggio della politica maschile.

Sulla forbice tra destra e sinistra Ricolfi ha ragione, anche se va onestamente riconosciuto che quelle eminenti donne politiche di destra (che non si dicono femministe) non avrebbero potuto nemmeno immaginare di dare corso alle proprie ambizioni se un femminismo storicamente benché dialetticamente legato alla sinistra non avesse aperto la strada anche per loro.

A maggior ragione, come si spiega che la destra consenta protagonismi femminili che a sinistra non si vedono?

La sinistra ha senz’altro assunto per prima la cosiddetta “questione femminile”, ma il rullo compressore della parità con i suoi dispositivi -quote, azioni “inclusive”, cooptazioni- ha spesso schiacciato le singolarità in un ingiusto “una vale una”, svalorizzando ogni possibile disparità e maestria, scatenando la competizione tra donne divise dagli steccati delle rispettive correnti e poco capaci di unirsi tra loro in un’azione efficace per il bene di tutte.

Conta anche che la sinistra, qui come in ogni altro posto dell’Occidente, tende oggi a scaricare le donne come soggetti ormai vecchi e obsoleti in favore di nuovi e postmoderni clientes nell’orizzonte della fluidità sessuale, procedendo a inclusioni più up to date: valga per tutti l’esempio di Jeremy Corbyn, già leader laburista inglese, che chiamò la giovanissima trans Lily Madigan a guidare la sezione femminile del partito. O il fatto che nelle istituzioni gli uffici pari opportunità sono prevalentemente dedicati ai diritti Lgbtq+.

Cambio di orizzonte che non riguarda le destre dove oltretutto, come osserva Ricolfi, le leader politiche si sono fatte le ossa nella competizione diretta con gli uomini, avanzando solo per meriti propri e non in forza di quote o azioni positive.

Vale anche il fatto che nella cultura della destra storica, non paritaria e non laicista, si conserva il principio della differenza a radice materna che può nutrire l’idea di una sacra sovranità femminile, eccezione alla regola del dominio maschile. Ed ecco il caso sorprendente di Giorgia Meloni, che può ricordare anche fisicamente la piccola regina Danaerys del Trono di Spade.

Marina Terragni

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