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Il cambio di paradigma epocale dell’OMS nella trasmissione degli agenti patogeni respiratori.

20 Aprile 2024 - di Giorgio Buonanno

In primo pianoSocietà

Tutte le verità passano attraverso tre stadi. Primo, vengono ridicolizzate. Secondo, vengono violentemente contestate. Terzo, vengono accettate dandole come evidenti. (Arthur Schopenhauer)

All’inizio del turbolento 2020, l’umanità si è trovata a fronteggiare un nemico nuovo, un virus sconosciuto che ha scatenato il panico globale. Nelle prime fasi della pandemia da SARS-CoV-2, ci si è concentrati sui metodi tradizionali di igiene personale e disinfezione delle superfici, nell’illusione che queste pratiche potessero arrestare la diffusione del virus. Eppure, il vero veicolo di contagio si nascondeva nell’aria che respiravamo. La comunità scientifica, guidata da un gruppo di 36 scienziati, ha impiegato mesi per avere dall’OMS una timida apertura sull’importanza cruciale della trasmissione per via aerea nell’epidemiologia del COVID-19. Ma da noi in Italia, le nostre autorità sanitarie hanno continuato inutilmente per oltre due anni (nonostante qualche avvertimento dell’OMS) a sanificare superfici, ad imporre con ritardo l’uso delle mascherine (senza distinzione tra filtri facciali e mascherine chirurgiche), ad applicare unicamente il distanziamento ed il famoso Green Pass come misura preventiva negli ambienti chiusi. La risultante di tutti questi interventi era (ed è) di gran lunga inferiore agli interventi ingegneristici da attuare se avessero accettato la via aerea di trasmissione del COVID-19. Il nostro Comitato Tecnico Scientifico irresponsabilmente non ha applicato il principio di precauzione (che impone misure protettive anche nella semplice ipotesi – non prova – di rischi per la popolazione o l’ambiente) causando decine di migliaia di casi, ricoveri e morti in più, con un sovraccosto economico enorme nella gestione della pandemia. La recente pubblicazione dell’OMS dal titolo “Global technical consultation report on a proposed descriptive framework for the approach to pathogens that transmit through the air” sancisce un cambio di paradigma epocale all’interno della comunità medica: sotto la guida di una ventina di esperti mondiali con competenze multidisciplinari (quelle negate nei tre anni del CTS che ha visto la partecipazione di membri appartenenti alla sola comunità medica e addirittura sbeffeggiate dai nostri virologi) è stata sancita la trasmissione aerea (il famoso vecchio aerosol) come via primaria di trasmissione per tutti gli agenti patogeni respiratori, dal SARS-CoV-2 all’influenza, dal morbillo alla varicella. Questa revisione ha portato alla accettazione da parte dell’OMS del concetto di particelle infettive respiratorie (IRPs), eliminando la vecchia distinzione tra “aerosol” e “droplets” e mettendo in luce l’importanza della ventilazione degli ambienti chiusi nella prevenzione delle malattie respiratorie. Per aiutare questa nuova comprensione della trasmissione virale, l’OMS ha inoltre pubblicato ARIA (Indoor Airborne Risk Assessment), una web app basata su un tool pubblicato dall’Università di Cassino nel 2020 (AIRC, Airborne Infection Risk Calculator), che consente di valutare il rischio di contagio da COVID-19 in base a diversi fattori ambientali e comportamentali. Grazie alla collaborazione interdisciplinare tra esperti di diversa provenienza, è stato possibile integrare i fattori fisiologici, virali ed ambientali ed ogni responsabile di spazi pubblici potrà quantificare il rischio di infezione e identificare le misure ingegneristiche preventive più efficaci per garantire una effettiva protezione dal contagio.  Il riconoscimento dell’OMS della trasmissione aerea come modalità principale di contagio rappresenta un importante progresso nella lotta contro le malattie respiratorie, anche se è fondamentale comprendere che non tutti gli agenti patogeni si trasmettono allo stesso modo e che le misure preventive devono essere adattate di conseguenza. Purtroppo, nonostante ci fosse consapevolezza nella comunità scientifica, poco è stato fatto per migliorare la qualità dell’aria negli ambienti chiusi. La maggior parte delle persone continua a trascorrere gran parte del tempo in ambienti con ventilazione insufficiente, esponendosi così a rischi per la salute non solo legati al COVID-19, ma anche ad altre patologie respiratorie e al degrado delle capacità cognitive. Per affrontare questa sfida, è necessario un impegno politico e finanziario, oltre a normative internazionali e nazionali per garantire standard minimi di qualità dell’aria negli ambienti chiusi. Così come abbiamo ottenuto progressi significativi nella sicurezza dell’acqua e nella riduzione dell’inquinamento atmosferico all’aperto, dobbiamo ora concentrarci sul miglioramento della qualità dell’aria negli ambienti chiusi, riconoscendo che questa è una delle sfide più urgenti per la salute pubblica del nostro tempo. La scienza è stata soffocata fin troppo da un dogma delle nostre autorità sanitarie cristallizzato dalla fine dell’800 (i famosi droplets). E nel nome di questo dogma non abbiamo affrontato i rischi degli ambienti chiusi, il vero tallone d’Achille delle nostre società, là dove trascorriamo il 90% del nostro tempo ed avviene la quasi totalità delle infezioni. Ma con l’ostinazione e le motivazioni di chi si sente supportato dal sapere scientifico e dall’esempio di chi ci ha preceduto, la nostra comunità scientifica non ha mai interrotto il tentativo di diffondere e condividere il sapere riuscendo in un risultato fondamentale per affrontare le future pandemie.

[Prof. Giorgio Buonanno Università di Cassino e del Lazio Meridionale Queensland University of Technology, Brisbane, Australia]

Bilanci pandemici – di Lorenzo Morri (insegnante, “Presidio primaverile per una Scuola a scuola”) e Sara Gandini (epidemiologa e biostatistica, Istituto Europeo di Oncologia, Milano)

25 Luglio 2023 - di Lorenzo Morri

In primo pianoSocietà

L’annuncio, ai primi di maggio, da parte del direttore generale dell’OMS, Tedros Ghebreyesus, sulla fine dell’emergenza pandemica da Covid-19 ha rafforzato l’impressione che sia giunta finalmente l’ora di un bilancio. Dopo tre anni, ciò che in mezzo al succedersi imprevedibile delle ondate poteva sembrare un esercizio prematuro, diventa oggi del tutto legittimo, anzi doveroso. Tirare le somme su ciò che ha o non ha funzionato nelle strategie di sanità pubblica è necessario innanzitutto ad attrezzarsi meglio per il futuro, ma è anche un imperativo morale. Soprattutto a fronte dell’inconfessata quanto costante tendenza della politica a sottrarsi a qualunque redde rationem, prima in nome della logica delle “scelte obbligate”, adesso in ragione delle emergenze nuove (la guerra e i suoi spettri nucleari, l’inflazione) e meno nuove (le emigrazioni, il cambiamento climatico) da affrontare.

Invitato a redigere un primo bilancio degli anni della pandemia (“Corriere della Sera”, 6 maggio), Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto farmacologico “Mario Negri”, non ha avuto esitazioni a registrare nella colonna di ciò che ha funzionato il contributo della ricerca internazionale sui vaccini, così come la centralità del Servizio Sanitario Nazionale, ancorché penalizzato dallo stato di abbandono in cui versa la “medicina del territorio”. Nella colonna di ciò che non ha funzionato, invece, Remuzzi colloca al primo posto uno dei pilastri della politica anti-Covid dei governi italiani. Con una affermazione secca, nettissima, “le scuole sono state chiuse più del necessario”, sottolinea una pesante verità che ora comincia a farsi strada. Perché quel “più del necessario” significa non solo che un errore è stato compiuto, ma che un danno è stato causato, alle persone e alla società.

Dopo il lockdown del marzo-maggio 2020, l’Italia nell’autunno 2020 serrò le porte degli istituti ottenendo il record europeo di giorni senza scuola, in particolare per le elementari e per il Sud. Persino il “New York Times” se ne accorse, commentando che, nonostante gli alti tassi di dispersione, l’Italia aveva preferito chiudere le sue scuole nel primo anno della pandemia tre volte più a lungo della Francia e più della Spagna e della Germania. In uno studio epidemiologico pubblicato già nel marzo 2021 su The Lancet – Regional Health e ripreso dal sito dell’OMS si mostrava invece come ciò fosse “non necessario”, perché i contagi accadevano a scuola con un’incidenza non maggiore che in ogni altro luogo.

Che restrizioni così prolungate avrebbero avuto conseguenze severe sia sul piano formativo, sia su quello psicologico era prevedibile fin dall’inizio. Una vasta meta-analisi di 53 studi uscita su “Jama Pediatrics” ha concluso che il malessere e addirittura i disturbi (depressione, ansia, ideazione suicidaria) sono sensibilmente aumentati tra i giovani durante e dopo la pandemia. A soffrirne di più, in particolare, le ragazze e, in generale, chi appartiene alle classi sociali più abbienti, probabilmente per la maggior disponibilità di accesso all’uso dei dispositivi digitali, incentivato dalla riduzione delle occasioni di socializzazione faccia a faccia e dall’adozione della didattica a distanza. Dai primi dati di “Eucare”, una ricerca attualmente in corso nelle scuole italiane e finanziata dalla comunità europea, si evince che il 53% dei bambini della scuola primaria riferisce di essere arrabbiato per l’uso di mascherine e il 42% di sentirsi triste nel doverle portare.

Risulta così sempre più evidente che l’enfatizzazione, a nostro avviso infondata, del rischio di contagio nelle scuole e la disattenzione della politica verso i minori hanno fatto sì che questi ultimi diventassero le vittime silenziose della pandemia. Per paradosso, proprio il gruppo di età più resistente al virus è stato chiamato a pagare un alto prezzo, “non necessario”. Tutti devono saperlo. Per questo abbiamo scritto L’onda lunga. Gli effetti psicologici e sociali della pandemia sul mondo non-adulto (Erickson, 2023), libro a cura del “Presidio primaverile per una Scuola a scuola”*.

*Il “Presidio primaverile per una Scuola a scuola” è un gruppo informale di studio e azione attivo dal 2021 presso il Liceo “Leonardo da Vinci” di Casalecchio di Reno (BO)

L’Ucraina e le tre destre

6 Marzo 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Di effetti sul nostro paese, la guerra in Ucraina ne sta producendo parecchi, e molti altri e più grandi ne produrrà in futuro. C’è un effetto minore, però, cui non mi pare sia stato ancora assegnato il giusto rilievo: la ristrutturazione dell’immagine della destra.

Fino a ieri la percezione dei tre partiti di destra obbediva a due canovacci elementari. Il primo, congeniale agli osservatori più schierati: Berlusconi buono (perché moderato ed europeista), Salvini & Meloni cattivi (perché sovranisti e anti-immigrati). Il secondo, congeniale ai più convinti sostenitori del governo Draghi: Berlusconi & Salvini buoni (perché al governo), Meloni cattiva (perché all’opposizione).

Nel breve volgere di pochi giorni tutto questo è saltato. Giorgia Meloni ha preso risolutamente una posizione atlantista e pro-Ucraina, Salvini e Berlusconi lo hanno fatto obtorto collo, con l’imbarazzo di chi in passato si è sbilanciato innumerevoli volte a favore di Putin, lodandolo come politico, e sostenendone le scelte strategico-militari più discutibili, come l’annessione della Crimea nel 2014.

Così molti schemi traballano, e il tentativo di riproporre quelli vecchi si infrange contro la nuova realtà. Nel nuovo clima anti-russo, suona strano pensare Berlusconi e Salvini, fino a ieri i migliori alleati di Putin, come moderati e ragionevoli. Così come stona, nel momento in cui parliamo con ammirazione degli ucraini che corrono in patria a sostenere la resistenza, dileggiare Giorgia Meloni per il suo definisti una “patriota”.

Si potrebbe commentare tutto questo dicendo che la politica internazionale costringe a riconoscere che ci sono in Italia tre destre molto diverse fra loro, e che non è detto che la destra più accettabile sia quella che ci piace definire moderata, o di governo. Ma ci si potrebbe anche spingere più in là. Forse è venuto il tempo di guardare in modo più concreto al mondo della destra, deponendo lo schema estremisti/moderati non solo quando si ragiona di politica internazionale, ma anche quando si ragiona di politica interna. Perché, anche quando si parla di tasse, di politiche sociali, di sanità, le destre sono almeno tre, e non è affatto chiaro chi sono i moderati e chi sono gli estremisti. Prendiamo la politica fiscale, ad esempio. Forza Italia e la Lega sono per la flat tax, ma Berlusconi guarda soprattutto alle famiglie, Salvini alle partite Iva. Quanto a Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni è sostanzialmente contraria alla flat tax, e fin dal 2015 difende politiche che si potrebbero definire pseudo-keynesiane: premiare con meno tasse le imprese che creano nuovi posti di lavoro. Ha senso chiedersi chi è il moderato e chi è l’estremista? Se metti la flat tax sei moderato, ma se le tasse le abbassi solo a chi crea posti di lavoro sei estremista?

Fatico a seguire il ragionamento. A me sembrano solo tre modi, profondamente diversi, di ridurre la pressione fiscale.

Lo stesso discorso si può fare per la politica sanitaria. Anche qui la destra è stata, e resta, profondamente divisa. Forza Italia ha aderito senza riserve all’ortodossia vaccinale. La Lega e Fratelli d’Italia, sia pure con tempi e accenti diversi, hanno sempre sollevato riserve su vaccinazione di massa, green pass, chiusure.  Con una differenza, però: Fratelli d’Italia si è battuta (invano) per introdurre la ventilazione meccanica controllata (Vmc) nelle scuole, e lo ha fatto fin da un anno fa, ben prima che l’Oms riconoscesse la sua cruciale importanza per il contrasto del virus, specie nella stagione fredda.

Di nuovo, mi pare che distinguere fra una destra moderata e una destra estrema sia poco utile, se non fuorviante. La realtà è che né sulla politica internazionale, né sulla politica economica, né sulla gestione dell’epidemia i modi di vedere di Berlusconi, Salvini e Meloni collimano. Classificare tali modi di vedere come più o meno estremisti, più o meno moderati, più o meno europeisti può essere comodo per i conduttori di talk show (e per gli osservatori più ideologizzati), ma non è utile agli elettori. I quali avrebbero diritto, semmai, di capire le differenze che, quasi in ogni ambito, ormai intercorrono fra i tre principali partiti di destra.

Le elezioni politiche si terranno fra un anno, se non prima. La destra ha il dovere di non nascondere le sue divisioni e, se ne è capace, di ricomporle prima del voto. Possibilmente senza indulgere in vecchie e astratte contrapposizioni, figlie di un’epoca che sta tramontando.

Luca Ricolfi

(www.fondazionehume.it)

Il “ricalcolo” dei morti in Perù certifica la disfatta dell’Occidente

12 Luglio 2021 - di Paolo Musso

In primo pianoSocietà

Quando ero bambino, tra i più famosi cartoni animati dell’epoca c’era quello dei Barbapapà, una famiglia di simpatici esseri gommosi che erano in grado di cambiare forma e dimensioni a piacimento, cosa che in genere facevano allo scopo di aiutare il prossimo e prevenire disastri. Ogni trasformazione era accompagnata dalla mitica frase, entrata anche nell’uso comune fra i bambini di allora, “Resta di stucco, è un barbatrucco!”   Leggi di più

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