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Che cos’è un’emergenza?

7 Febbraio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Sono molti a pensare che la stampa, e più in generale gli organi di informazione, denunciando ingiustizie di ogni tipo e sollecitando la politica ad intervenire, svolgano una attività meritoria.

Spesso è così. Ci sono drammi, iniquità, angherie che mai verrebbero alla luce se non vi fosse un organo di informazione che le porta all’attenzione dell’opinione pubblica. Nello stesso tempo, però, può accadere che il ruolo dei media sia fortemente distorsivo, o quantomeno arbitrario. Per capire perché, dobbiamo partire da una premessa: non solo il budget del governo, ma anche lo stock di attenzione dei governanti, è una grandezza finita. Nemmeno il più sensibile capo dello stato, presidente del consiglio, ministro, è in grado di stare dietro a tutte le innumerevoli questioni di cui, in linea di principio, dovrebbe occuparsi attivamente, a maggior ragione in un paese come l’Italia, in cui quasi nulla funziona come dovrebbe. Di qui una conseguenza cruciale: non potendo occuparsi di tutto, la politica cerca sì – come è naturale – di attuare le misure programmatiche che considera prioritarie, ma sul resto, sulla porzione altamente discrezionale dei suoi interventi, è in balia delle campagne di stampa. Le quali, proprio per questo, hanno un enorme potere di selezione dei temi su cui – alla ricerca del consenso – finirà per attivarsi l’azione dei governanti.

E’ ben usato questo potere?

Impossibile dirlo in generale, ma è facile notarne l’aleatorietà, l’arbitrarietà, e la volatilità. Prendiamo il caso della piccola Kata, la bambina peruviana di 5 anni scomparsa il giugno scorso. Il suo caso ha suscitato un enorme interesse nei primi tempi, e ora è quasi completamente dimenticato. Ma perché tanta attenzione e tante risorse investigative proprio su Kata? Pochi lo sanno, ma i minori scomparsi sono circa 50 al giorno, di cui la metà non vengono mai rintracciati. Chi si occupa degli altri 10 mila minori scomparsi da allora? Perché Kata ha goduto del (per ora inutile) privilegio di essere cercata assiduamente, e gli altri 9999 bambini e bambine no?

Un discorso analogo, con risvolti paradossali, si potrebbe fare sul caso di Ilaria Salis. Gli italiani detenuti all’estero sono più di 2000, non di rado in condizioni critiche. Ma, anche qui, la possibilità di ricevere la dovuta attenzione è altamente soggetta al caso. Se non avesse avuto la “fortuna” di essere ripresa in catene in un’aula giudiziaria, Ilaria Salis non beneficerebbe dell’attenzione che i media le stanno riservando. E possiamo pure star certi che, dopo che due o tre casi analoghi saranno stati portati all’attenzione, degli altri 2000 italiani all’estero non parlerà più nessun giornale nazionale e non si occuperà nessun politico in vista.

Ho fatto questi esempi per illustrare l’enorme potere dei media nel selezionare le questioni di cui, volente o nolente, il potere politico sarà costretto ad occuparsi, sottraendo attenzione ed energie ad altre questioni, magari ancora più rilevanti o drammatiche. Ecco perché ha senso chiedersi come i media usano la loro discrezionalità.

La mia impressione è che la esercitino più secondo le leggi dello spettacolo che secondo quelle della ragione. Spesso i temi portati all’attenzione sono semplicemente quelli capaci di suscitare le emozioni più forti, dall’odio alla compassione alla paura, con poco riguardo alla rilevanza sociale, o alla effettiva possibilità di intervento da parte della politica. Soprattutto, sono temi volatili, fondati sulla definizione di “emergenze” immancabilmente destinate a scomparire dalla scena nel giro di pochi giorni.

Eppure non dovrebbe essere difficile riconoscere una vera emergenza, e distinguerla dalle emergenze puramente mediatiche. Per far questo, dovremmo almeno imparare a individuare e distinguere gli ingredienti essenziali di una vera emergenza. Che sono almeno tre: la presenza di un interesse pubblico, un improvviso peggioramento della situazione, la possibilità di intervenire per modificare il corso delle cose.

Per fare un esempio provocatorio: i morti sul lavoro sono una cosa bruttissima, sarebbe opportuno intervenire per ridurli, ma tecnicamente non sono un’emergenza, perché sono stazionari (anzi in lieve diminuzione, secondo gli ultimi dati). I suicidi in carcere, al contrario, sono una vera emergenza, perché stanno aumentando a un ritmo mai visto in passato, e sono ben note le misure che potrebbero frenare il fenomeno. Eppure, se contate gli articoli di stampa o i moniti dei capi dello stato degli ultimi anni, vi sembrerà che la vera emergenza sia la prima e non la seconda.

Bilanci pandemici – di Lorenzo Morri (insegnante, “Presidio primaverile per una Scuola a scuola”) e Sara Gandini (epidemiologa e biostatistica, Istituto Europeo di Oncologia, Milano)

25 Luglio 2023 - di Lorenzo Morri

In primo pianoSocietà

L’annuncio, ai primi di maggio, da parte del direttore generale dell’OMS, Tedros Ghebreyesus, sulla fine dell’emergenza pandemica da Covid-19 ha rafforzato l’impressione che sia giunta finalmente l’ora di un bilancio. Dopo tre anni, ciò che in mezzo al succedersi imprevedibile delle ondate poteva sembrare un esercizio prematuro, diventa oggi del tutto legittimo, anzi doveroso. Tirare le somme su ciò che ha o non ha funzionato nelle strategie di sanità pubblica è necessario innanzitutto ad attrezzarsi meglio per il futuro, ma è anche un imperativo morale. Soprattutto a fronte dell’inconfessata quanto costante tendenza della politica a sottrarsi a qualunque redde rationem, prima in nome della logica delle “scelte obbligate”, adesso in ragione delle emergenze nuove (la guerra e i suoi spettri nucleari, l’inflazione) e meno nuove (le emigrazioni, il cambiamento climatico) da affrontare.

Invitato a redigere un primo bilancio degli anni della pandemia (“Corriere della Sera”, 6 maggio), Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto farmacologico “Mario Negri”, non ha avuto esitazioni a registrare nella colonna di ciò che ha funzionato il contributo della ricerca internazionale sui vaccini, così come la centralità del Servizio Sanitario Nazionale, ancorché penalizzato dallo stato di abbandono in cui versa la “medicina del territorio”. Nella colonna di ciò che non ha funzionato, invece, Remuzzi colloca al primo posto uno dei pilastri della politica anti-Covid dei governi italiani. Con una affermazione secca, nettissima, “le scuole sono state chiuse più del necessario”, sottolinea una pesante verità che ora comincia a farsi strada. Perché quel “più del necessario” significa non solo che un errore è stato compiuto, ma che un danno è stato causato, alle persone e alla società.

Dopo il lockdown del marzo-maggio 2020, l’Italia nell’autunno 2020 serrò le porte degli istituti ottenendo il record europeo di giorni senza scuola, in particolare per le elementari e per il Sud. Persino il “New York Times” se ne accorse, commentando che, nonostante gli alti tassi di dispersione, l’Italia aveva preferito chiudere le sue scuole nel primo anno della pandemia tre volte più a lungo della Francia e più della Spagna e della Germania. In uno studio epidemiologico pubblicato già nel marzo 2021 su The Lancet – Regional Health e ripreso dal sito dell’OMS si mostrava invece come ciò fosse “non necessario”, perché i contagi accadevano a scuola con un’incidenza non maggiore che in ogni altro luogo.

Che restrizioni così prolungate avrebbero avuto conseguenze severe sia sul piano formativo, sia su quello psicologico era prevedibile fin dall’inizio. Una vasta meta-analisi di 53 studi uscita su “Jama Pediatrics” ha concluso che il malessere e addirittura i disturbi (depressione, ansia, ideazione suicidaria) sono sensibilmente aumentati tra i giovani durante e dopo la pandemia. A soffrirne di più, in particolare, le ragazze e, in generale, chi appartiene alle classi sociali più abbienti, probabilmente per la maggior disponibilità di accesso all’uso dei dispositivi digitali, incentivato dalla riduzione delle occasioni di socializzazione faccia a faccia e dall’adozione della didattica a distanza. Dai primi dati di “Eucare”, una ricerca attualmente in corso nelle scuole italiane e finanziata dalla comunità europea, si evince che il 53% dei bambini della scuola primaria riferisce di essere arrabbiato per l’uso di mascherine e il 42% di sentirsi triste nel doverle portare.

Risulta così sempre più evidente che l’enfatizzazione, a nostro avviso infondata, del rischio di contagio nelle scuole e la disattenzione della politica verso i minori hanno fatto sì che questi ultimi diventassero le vittime silenziose della pandemia. Per paradosso, proprio il gruppo di età più resistente al virus è stato chiamato a pagare un alto prezzo, “non necessario”. Tutti devono saperlo. Per questo abbiamo scritto L’onda lunga. Gli effetti psicologici e sociali della pandemia sul mondo non-adulto (Erickson, 2023), libro a cura del “Presidio primaverile per una Scuola a scuola”*.

*Il “Presidio primaverile per una Scuola a scuola” è un gruppo informale di studio e azione attivo dal 2021 presso il Liceo “Leonardo da Vinci” di Casalecchio di Reno (BO)

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