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La frattura tra ragione e realtà 5 / Il Grande Spauracchio – Parte seconda: il nucleare civile

8 Dicembre 2023 - di Paolo Musso

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Nel precedente articolo ho cercato di dissipare le numerosissime “leggende nere” che riguardano le armi nucleari, per riportare la discussione sui rischi che esse comportano alla loro reale dimensione. Stavolta parlerò invece del nucleare nel suo uso civile, cioè finalizzato alla produzione di energia elettrica, dove le leggende nere sono, se possibile, ancor più abbondanti, benché i termini della questione siano molto più semplici (e tuttavia altrettanto gravemente fraintesi).

L’ambiguo “ritorno” al nucleare

Se le idee sballate circa le armi nucleari sono già notevoli, quelle sull’uso pacifico del nucleare per produrre energia lo sono ancor di più. Anche se (forse) qualcosa sta iniziando a cambiare, paradossalmente a causa di un clamoroso “autogol” degli ecologisti, che hanno enfatizzato a tal punto il problema del cambiamento climatico che ormai la gente pretende delle soluzioni efficaci. E, nel momento in cui hanno dovuto passare dai proclami ideologici alla realtà, i governi hanno cominciato ad accorgersi che le soluzioni che avevano fin qui sbandierato non funzionano.

Un chiaro segnale di questa controtendenza è il coraggioso documentario di Oliver Stone, Nuclear now (Nucleare subito), appena uscito e trasmesso in anteprima da LA7 lo scorso mercoledì 6 dicembre, che consiglio a tutti di guardare e far guardare il più possibile.

Ancor più importante, proprio in questi giorni alla COP 28, cioè l’annuale conferenza sul clima che fin qui aveva prodotto tante liste di obiettivi (che chiunque è capace a scrivere) e pochissime di mezzi adeguati per raggiungerli (che invece sono la cosa importante, ma anche difficile), si è finalmente preso atto di ciò che era da sempre evidente, ma che nessuno voleva prendersi la responsabilità di dire: e cioè che una riduzione delle emissioni dell’entità (enorme) che si ritiene necessaria è impossibile senza un massiccio uso del nucleare civile.

Problema risolto, allora? Niente affatto, perché il modo in cui lo si è fin qui detto è molto ambiguo, il che potrebbe causare seri problemi. Infatti, la giustificazione che viene data da tutti gli esperti è che le preoccupazioni del passato non sono più giustificate perché il “nuovo” nucleare è molto più economico e molto più sicuro. Ora, questo è certamente vero, ma, detto così, lascia intendere che il nucleare tradizionale fosse troppo caro e/o troppo pericoloso, il che invece è assolutamente falso, come gli esperti sanno benissimo.

Perché allora non lo dicono? La ragione è che in questo modo sperano di riuscire a superare le obiezioni (che sono tuttora fortissime e anzi negli ultimi anni sono perfino aumentate) aggirandole anziché affrontandole, cosa che l’esperienza ha dimostrato essere estremamente difficile, perché alla loro base c’è una paura viscerale che è più forte di qualsiasi argomento razionale.

Tuttavia, per quanto comprensibile, questa tattica comporta un grosso rischio. Il nucleare “buono”, infatti, quello cosiddetto “di quarta generazione”, per ora esiste solo in forma di progetti e (pochi) prototipi, per cui ci vorranno grandi sforzi e molti soldi perché diventi realtà in tempi brevi. Il pericolo è quindi che nel frattempo i movimenti ecologisti e i tantissimi intellettuali e politici che accettano acriticamente tutte le loro tesi pretendano che esso venga usato non solo come risorsa aggiuntiva, ma anche per sostituire le centrali già esistenti, il che renderebbe l’impresa impossibile.

E questo, in realtà, è esattamente ciò che vogliono, perché gli ecologisti hanno una devozione quasi fanatica per le rinnovabili, in particolare l’eolico e il solare. E non solo per ragioni tecnologiche, ma anche politiche, perché le considerano un modo di produrre energia più “democratico”, anche se in realtà queste tecnologie non sono certo prodotte da gruppi di attivisti che lavorano nel garage di casa, ma da grandi e potenti multinazionali, che agiscono per fare profitti e non a scopi umanitari (ma questo per un certo tipo di cultura, oggi dominante in Occidente, non ha importanza: vedi il mio articolo https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti/). Pertanto, quasi tutti gli ecologisti vedono come il fumo negli occhi qualsiasi soluzione alternativa e, in particolare, l’odiato nucleare, compreso quello “nuovo”, di cui non si fidano affatto, anche quando non lo dicono apertamente.

Di conseguenza, se si vorrà davvero seguire questa strada (che, ripeto, è l’unica possibile, come subito spiegherò), prima o poi si dovrà comunque fare chiarezza anche sul nucleare tradizionale. Tanto vale, quindi, cominciare subito.

Una fonte energetica a basso costo

Quanto al presunto costo eccessivo, la questione è presto risolta. Anzitutto, va detto che nel valutare i costi del nucleare si tiene sempre conto di tutti i costi, non solo di costruzione, ma anche di gestione, manutenzione e smantellamento, cosa in sé giusta, ma che non viene mai fatta per nessun’altra fonte energetica, a cominciare (ovviamente) dalle rinnovabili. Come se non bastasse, questi costi sono molto superiori a quelli che dovrebbero essere, perché per la paura delle radiazioni (del tutto irrazionale, come subito vedremo) si chiedono misure di sicurezza assolutamente esagerate. Eppure, nonostante tutto ciò, in Italia, che ha abolito il nucleare nel 1988, cioè 35 anni fa, l’energia elettrica costa il 50% in più rispetto alla Francia, che è il nostro “gemello” energetico, in quanto ha all’incirca il nostro stesso livello tecnologico, la stessa popolazione e la stessa (ridotta) quantità di fonti energetiche naturali, ma produce col nucleare oltre il 70% della sua elettricità.

È davvero strano (o forse no…) che questo fattore non venga mai preso in considerazione in nessuna analisi sul nostro declino economico, che, guarda caso, è iniziato proprio pochi anni dopo che l’Italia, unico paese avanzato al mondo, ha deciso di rinunciare al nucleare. Inoltre, per aggiungere ai danni le beffe (nonché altri danni), va considerato che allora il nucleare italiano era il migliore al mondo, un pelo sopra la Francia e almeno due spanne sopra gli USA. Non per nulla, in quel momento l’Ansaldo Energia aveva commesse per costruire centrali nucleari in vari paesi esteri per ben 4000 miliardi di lire (circa 5 miliardi di euro odierni).

Se avessimo proseguito su quella strada, oggi potremmo guidare il processo di ritorno al nucleare, con enormi vantaggi in termini economici e anche di peso politico. Invece, per come ci siamo ridotti (con le nostre stesse mani: qui la “cattiva” Europa non c’entra proprio niente), siamo ormai il fanalino di coda del mondo progredito e, se non vorremo rimanerlo per decenni, finiremo col dover importare dall’estero gran parte delle tecnologie necessarie a metterci al passo con gli altri, anziché essere noi a vendergliele. Insomma, un vero capolavoro di stupidità.

Una garanzia di indipendenza

In secondo  luogo, il nucleare non rischia di creare pericolose dipendenze, come il gas e il petrolio, ma anche i pannelli fotovoltaici e le mitiche auto elettriche (a cui dedicherò un articolo a parte, perché qui siamo nel campo della follia pura). Infatti, i materiali necessari per la loro costruzione sono altamente tossici e quindi difficili da estrarre (e ancor più da smaltire) in modo non inquinante. Inoltre, da noi sono quasi assenti, mentre abbondano in paesi retti da feroci dittature, come la Cina e l’Afghanistan, oppure con situazioni  molto instabili, come per esempio il Congo, dove l’estrazione del cobalto sta causando continui massacri dovuti alle guerre tra le bande che se ne contendono il monopolio. Il rischio, quindi, è di cadere dalla padella nella brace, eliminando la dipendenza dalla Russia solo per andarci a cacciare in una ancor più pericolosa dipendenza da questi paesi, che non sono certo più affidabili.

I più grandi giacimenti di uranio, invece, si trovano in paesi solidamente democratici, a cominciare dall’Australia, che possiede oltre il 30% delle riserve mondiali, il che basta e avanza per rifornire tutto l’Occidente. Se poi ci aggiungiamo Canada, USA e Germania arriviamo a sfiorare il 50%. Inoltre e soprattutto, non c’è necessità di rinnovare continuamente le scorte, dato che, una volta acquisito, un quantitativo relativamente piccolo di uranio può produrre energia in grandi quantità per decenni, il che consente di programmarne l’acquisto con calma e cercando le migliori condizioni, anche economiche.

Un fattore di stabilità

Ma il nucleare non ha solo una convenienza relativa rispetto ai combustibili fossili, ma anche una convenienza intrinseca, che, come dicevo, lo rende non solo utile, ma addirittura indispensabile se si vuole tentare seriamente di superare l’attuale sistema di produzione di energia. Infatti, al di là di altre questioni più specifiche di cui parleremo più diffusamente un’altra volta, eolico e solare presentano un problema di fondo che rende pura utopia ogni tentativo di basarsi solo su di essi: a parte alcuni luoghi molto particolari, dove vento e sole sono sempre presenti, la loro produzione è inevitabilmente incostante e difficilmente prevedibile con esattezza.

E a complicare ulteriormente le cose c’è il fatto che, se continuerà l’attuale tendenza verso la tropicalizzazione del clima alle nostre latitudini, con forte riduzione dei ghiacciai e lunghi periodi di siccità, anche l’idroelettrico, che a oggi è di gran lunga la più diffusa e la più affidabile delle rinnovabili, tenderà a produrre meno energia e con minore regolarità. Ma, ahimè, una rete elettrica ha bisogno di una grandissima stabilità, perché in ogni istante la quantità di energia in circolazione non deve mai essere inferiore a quella richiesta dal sistema, altrimenti si genera immediatamente un blackout. E i blackout nel nostro mondo non sono più solo un fastidio, ma una vera e propria minaccia.

Qualche decennio fa la mancanza di elettricità causava solo la mancanza di illuminazione notturna e il blocco di alcuni sistemi di comunicazione e di trasporto (treni, semafori, ascensori, radio, televisione e poco altro) e ciononostante già un blackout di poche ore causava seri problemi di ordine pubblico. Oggi, invece, si bloccherebbe quasi tutto (e anche il “quasi” sparirà ben presto), con effetti devastanti. Il blocco pressoché totale delle comunicazioni, impedendo alle autorità di spiegare cosa sta realmente succedendo, moltiplicherebbe in modo esponenziale il panico, sicché subito si scatenerebbe l’assalto ai negozi, per la paura di restare senza cibo, il che a sua volta innescherebbe una spirale di violenza diffusa e incontrollabile, essendo impossibile coordinare le forze dell’ordine e i soccorsi.

Un blackout su scala nazionale, anche di un solo giorno, provocherebbe effetti analoghi a quelli di una sommossa. Se dovesse prolungarsi per qualche giorno i danni sarebbero simili a quelli di una guerra. Per una durata superiore, diciamo da una settimana in su, rischieremmo il collasso dell’intero sistema sociale. Se a qualcuno sembra che stia esagerando, provi a riflettere su cosa implicherebbe una situazione del genere per lui e la sua famiglia e cambierà subito idea.

Ora, il problema è che l’affidabilità necessaria per evitare tutto questo è molto superiore a quella che istintivamente potremmo pensare. Come spiega Vaclav Smil, il più grande storico vivente dell’energia, «un sistema […] con elettricità disponibile per il 99,99% del tempo può sembrare altamente affidabile, ma l’interruzione totale annuale sarebbe di quasi 53 minuti». Per eliminare pressoché totalmente il rischio di blackout occorrerebbe un’affidabilità del 99,9999%, che porterebbe a una carenza di energia di appena 32 secondi all’anno, mentre «l’attuale performance statunitense è di circa il 99,98%», che, per quanto elevatissima, espone già al rischio di vasti blackout della durata di alcune ore, che in effetti in questi anni si sono puntualmente verificati (cfr. Energia e civiltà. Una storia, Hoepli 2017, p. 335).

Ciò significa dunque che non possiamo permetterci di diminuire l’affidabilità delle nostre reti elettriche nemmeno di una minima percentuale. Anzi, dovremmo addirittura cercare di aumentarla, soprattutto se continuerà l’attuale tendenza (la cui assurdità a questo punto dovrebbe essere palese) a elettrificare qualsiasi attività umana. E ciò non sarà assolutamente possibile se pretenderemo di basarci esclusivamente su fonti per loro natura incostanti come le rinnovabili.

Beh, ma che problema c’è?, obietterà forse qualcuno. Certo, in un sistema incostante ci saranno periodi con una produzione inferiore a quella necessaria, ma anche periodi con una produzione superiore: basterà quindi immagazzinare l’elettricità in eccesso prodotta durante questi periodi di vacche grasse per poi usarla nei momenti di scarsità. Ma purtroppo il problema c’è.

L’elettricità, infatti, è molto facile da produrre, ma molto difficile da immagazzinare, almeno in grandi quantità. Batterie capaci di contenere riserve sufficienti per un paese moderno come l’Italia o un qualsiasi altro paese europeo dovrebbero essere di dimensioni quasi inimmaginabili, oltre a presentare gli stessi problemi relativi alle materie prime che affliggono i pannelli solari e le batterie delle auto elettriche.

Ciononostante, centrali di raccolta di questo tipo si stanno già progettando, insieme ad altre dove l’energia verrà immagazzinata sotto forma di energia potenziale (per esempio usando l’elettricità in eccesso per pompare acqua in bacini posti in zone elevate o per sollevare grandi pesi in cima ad apposite torri), che poi potrà nuovamente essere trasformata in energia elettrica sfruttando l’energia cinetica liberata durante la loro caduta verso il basso.

Tuttavia la costruzione di questi impianti richiederà uno sforzo tecnologico ed economico gigantesco e la loro gestione rischia di essere molto complicata, anche a causa dei cambiamenti climatici (la siccità prolungata può prosciugare anche questi bacini e i forti venti possono far cadere i pesi al momento sbagliato). Senza contare i terremoti, che potrebbero farli crollare, mentre nessun terremoto ha mai danneggiato seriamente una centrale nucleare, nemmeno quella di Fukushima, dove l’incidente non è stato provocato dal terremoto in sé, pur essendo stato uno dei più forti della storia, ma dall’acqua penetrata a causa del successivo tsunami.

Inoltre, se l’instabilità del sistema diventasse troppo grande potrebbe essere molto difficile calibrare esattamente l’entrata in funzione degli impianti di emergenza, dato il ridottissimo margine che abbiamo per evitare disastrosi black out seriali. Infine e soprattutto, per quanto accuratamente possiamo tentare di stimare quante riserve ci potranno servire, nel momento in cui tutta o quasi tutta la nostra energia dipendesse da un sistema intrinsecamente imprevedibile su tempi lunghi come il clima non potremo mai essere certi di averne abbastanza.

Nei sistemi classici, infatti, l’improbabilità di un qualsiasi evento è direttamente proporzionale alla sua grandezza, sicché oltre un certo limite essi sono di fatto impossibili. Ma ciò non è più vero nei sistemi non lineari, detti anche “caotici” o “complessi” (in questo senso tecnico, che non coincide con la semplice “complicazione”), come è appunto il clima (ma anche la Borsa: ne parleremo presto). Un periodo di siccità o un cambiamento nell’intensità dei venti o la nascita di un microclima con cielo costantemente nuvoloso (come per esempio succede a Lima in inverno) hanno sempre una probabilità non trascurabile di verificarsi, indipendentemente dalla loro entità. E questo è un rischio che non possiamo assolutamente permetterci, perché, come abbiamo visto, anche un blackout di pochi giorni avrebbe conseguenze devastanti.

Che, nonostante tutto ciò, queste centrali di emergenza si stiano comunque progettando significa che, al di là dei proclami ideologici, gli addetti ai lavori sono coscienti che una rete elettrica troppo basata sulle rinnovabili sarebbe insostenibile. E questa è una buona notizia. Che però lo si stia facendo in forma quasi clandestina (alzi la mano chi ha assistito a un solo dibattito televisivo dedicato a questo problema) significa che non si vuole far sapere all’opinione pubblica che anche le mitiche rinnovabili non sono quella bacchetta magica che si crede. E questa, invece, è una pessima notizia, soprattutto perché non è limitata a questo specifico problema, ma è una tendenza generale, quando si tratta di questioni ecologiche.

Le radici del pregiudizio antinucleare

Uno dei motivi di tale reticenza è proprio la paura che il nucleare possa essere preso in considerazione come integrazione o, peggio ancora, come alternativa alle fonti rinnovabili, una volta compreso che garantirebbe un flusso costante e regolare di energia, a basso costo, senza produrre emissioni nocive e senza metterci nelle mani di cinesi, talebani e tagliagole assortiti. Ma se il nucleare è così conveniente, allora da dove nasce questa violenta ostilità nei suoi confronti?

In parte si tratta di un atteggiamento puramente ideologico. I movimenti ecologisti, infatti, hanno certamente il merito di avere denunciato con molto anticipo dei problemi reali ed estremamente seri, della cui gravità ci stiamo rendendo conto solo adesso. Tuttavia, essendo figli del Sessantotto e della sua rivolta contro ogni tipo di autorità, compresa quella degli scienziati, hanno sempre avuto la tendenza a incolpare dei danni inflitti all’ambiente la scienza e la tecnologia in quanto tali e non solo il cattivo uso che spesso (ma non sempre) ne facciamo.

Negli ultimi anni questo atteggiamento almeno in parte è cambiato, perché proprio il fatto che finalmente si sia iniziato a prendere sul serio i problemi ecologici ha reso evidente che non sarà possibile risolverli senza il contributo essenziale della scienza. Anzi, semmai ora si esagera nel senso opposto, aspettandosi che la soluzione possa venire solo dalla scienza, senza bisogno di cambiare davvero il nostro modo di vivere (i cambiamenti nei comportamenti individuali che ci vengono continuamente suggeriti sono in realtà molto superficiali e hanno un’utilità inversamente proporzionale all’ossessività con cui ci vengono proposti e ai grandi disagi che causerebbero: anche di questo riparleremo presto).

Ciononostante, come ormai un po’ dovunque, anche in questo campo si tende a ragionare per categorie ideologiche stabilite a priori in modo del tutto irrazionale, per cui ci sono delle tecnologie che sono considerate per definizione “buone” e altre “cattive”. L’idroelettrico, l’eolico e il fotovoltaico appartengono alle prime, perché usano forze della natura come l’acqua, il vento e il sole, che ci sono familiari e sono chiaramente utili alla nostra vita. Il nucleare, invece, è classificato tra le seconde, benché la radioattività giochi anch’essa un ruolo fondamentale a favore della vita, perché senza di essa il nucleo terrestre non sarebbe fluido e quindi non avremmo la tettonica a placche e, di conseguenza, la terraferma, ma un unico oceano che ricoprirebbe tutto il pianeta, per di più perennemente ghiacciato, perché la temperatura della Terra sarebbe più bassa di una quindicina di gradi.

Ma questi influssi benefici della radioattività sono troppo indiretti e non abbastanza visibili per rendercela “simpatica”, considerando che il “biglietto da visita” (questo sì visibilissimo) con cui essa si è presentata al mondo è purtroppo rappresentato dalle atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Per questo anche molte persone che riconoscono i vantaggi del nucleare civile lo considerano troppo pericoloso. Tuttavia, come ora vedremo, non solo esso non ha nulla a che vedere con la bomba atomica, ma è anzi una delle tecnologie più sicure che siano mai state create, sicuramente molto più sicura dell’idroelettrico, di cui nessuno si sogna di chiedere l’abolizione.

Nucleare e metodo scientifico

Prima di discutere il merito del problema sarà però utile una premessa metodologica. Come cerco sempre di spiegare (temo con non troppo successo), non esiste “la” scienza, ma “le” scienze. Infatti, anche se tutte le scienze naturali usano lo stesso metodo, quello sperimentale, genialmente scoperto e magistralmente definito da Galileo Galilei quattro secoli fa, la sua efficacia può variare di molto a seconda del tipo di oggetti a cui viene applicato.

Senza entrare in troppi dettagli tecnici (a chi volesse approfondire consiglio sempre il mio La scienza e l’idea di ragione, 2a ed. ampliata, Mimesis 2019), il punto fondamentale del metodo galileiano, che lo ha reso così efficace, è l’idea di studiare i fenomeni naturali non nella loro globalità, bensì un pezzetto alla volta, il che è fra l’altro determinante perché gli esperimenti siano ripetibili e quindi controllabili da tutti. Infatti, se consideriamo tutti i fattori in gioco nessunfenomeno naturale si ripete mai perfettamente identico, mentre ciò diventa possibile se di esso consideriamo solo alcune proprietà.

Ciò però significa che l’efficacia di questo metodo dipende in maniera cruciale dalla possibilità di isolare le proprietà che intendiamo studiare senza che ciò le alteri in modo significativo. Ora, da qualche decennio sappiamo che ciò è possibile solo per alcuni fenomeni, quelli cosiddetti “lineari”, mentre per i fenomeni non lineari, a cui ho già accennato prima, il metodo funziona solo entro certi limiti, che sono estremamente variabili a seconda dell’oggetto. Di conseguenza, le varie scienze non differiscono solo per il diverso modo di “incarnare” in strumenti ed esperimenti specifici i principi generali del metodo galileiano, ma anche per il diverso grado di certezza che possono raggiungere, non solo in pratica, ma anche in linea di principio.

La scienza naturale che ha, in media, il grado più basso di certezza è senza dubbio la medicina. È per questo che ho giudicato molto grave l’ingiustificata e irresponsabile sicumera con cui all’epoca del Covid molti esperti hanno presentato come verità indiscutibili quelle che erano semplici ipotesi ancora tutte da verificare, quando non addirittura teorie palesemente sbagliate, come quella del contagio attraverso le superfici infette o la necessità delle mascherine all’aperto.

All’estremo opposto sta invece proprio la fisica nucleare, che ha ormai raggiunto una precisione quasi disumana, con un margine di errore di circa una parte su un miliardo, di fatto coincidente, a tutti gli effetti pratici, con quella della matematica pura. Così stando le cose, diversamente da quanto accade in medicina e in molte altre scienze, in fisica nucleare contestare la validità di quanto affermato dagli esperti non ha molto più senso che sostenere che 2+2 potrebbe anche non fare 4. E questo è ancor più vero se consideriamo che le leggi fisiche rilevanti per il problema della sicurezza degli impianti nucleari sono estremamente semplici.

Il nucleare è (almeno) cento volte più sicuro dell’idroelettrico

Anzitutto, le centrali nucleari non producono nessun aumento significativo della radioattività al loro esterno. Per capire che questo è impossibile non occorrono studi complessi: basta riflettere sulla legge fondamentale della radioattività, che dice che essa si attenua in proporzione al quadrato della distanza. Ciò significa infatti che, se appena fuori dalla centrale, cioè a una distanza suppergiù di un chilometro dal reattore (dato che si tratta di impianti di grandi dimensioni), vi fosse una radioattività abbastanza forte da poter causare danni significativi alla salute, a 100 metri dal reattore la radioattività sarebbe 100 volte maggiore e a 10 metri 10.000 volte maggiore, cosicché i tecnici che ci lavorano morirebbero tutti nel giro di poche ore. Poiché ciò non accade, è inevitabile concludere che la presenza di una centrale nucleare non è pericolosa per la nostra salute.

In secondo luogo, le centrali nucleari non esplodono, per la semplice ragione che non sono bombe. Sia le bombe che le centrali hanno infatti bisogno di un particolare isotopo dell’uranio, l’uranio 235, che in natura è sempre mescolato con l’uranio 238 (e a tracce insignificanti del rarissimo 234) nella percentuale di appena lo 0,7%, che non è sufficiente a innescare la reazione a catena (come è logico, altrimenti tutti i giacimenti di uranio del mondo si sarebbero già autodistrutti non appena formatisi). Per entrambi gli usi è quindi necessario aumentare la percentuale di uranio 235, attraverso un processo piuttosto complesso detto “arricchimento”. Tuttavia, per le centrali nucleari, che devono produrre una reazione a catena controllata, cioè non esplosiva, la percentuale necessaria va dal 3% al 5%, mentre per le bombe atomiche dev’essere molto superiore, tra il 90% e il 97%. Se così non fosse, del resto, l’accordo con l’Iran sul nucleare civile non avrebbe avuto alcun senso.

Con questo non sto dicendo che sia stato una buona idea, perché è sempre possibile aumentare ulteriormente la percentuale di uranio 235 contenuto nel combustibile delle centrali nucleari in modo da poterlo poi usare per farci delle bombe atomiche. Pertanto, aver permesso all’Iran di costruire liberamente le prime l’ha avvicinato anche alla costruzione delle seconde (che è palesemente il suo vero obiettivo, perché delle centrali nucleari l’Iran non ha alcun bisogno, dato che naviga su un mare di petrolio). Ma questo è un problema politico, non tecnologico. La trasformazione dell’uranio per uso civile in quello necessario per una bomba, infatti, non può assolutamente verificarsi spontaneamente: occorre prima tirar fuori l’uranio dalla centrale e poi sottoporlo di nuovo al processo di arricchimento in un apposito impianto. Quindi, che una centrale nucleare esploda non è solo improbabile: è proprio fisicamente impossibile.

Tra parentesi, questo dimostra quanto assurde fossero le affermazioni fatte dai russi nella prima fase della guerra (e scelleratamente prese sul serio anche da alcuni commentatori occidentali) secondo cui avrebbero occupato le centrali nucleari ucraine perché in esse si stava usando il loro uranio per costruire bombe atomiche. Peccato solo che degli impianti necessari a eseguire una tale trasformazione in Ucraina non vi sia traccia e che in ogni caso, se anche esistessero, non si troverebbero certo nelle centrali nucleari, che non sono state costruite a tale scopo e quindi non hanno al loro interno né gli spazi né gli strumenti che servirebbero. Dunque, non è per questo che i russi le hanno occupate, ma (ovviamente) per avere il controllo dell’energia elettrica da esse prodotta.

Ma, obietterà qualcuno, la centrale di Chernobyl non è forse esplosa? Ebbene, mi spiace deludervi, ma la risposta è no: quello che è esploso a Chernobyl è stato solo il sistema di raffreddamento della centrale, costituito da un impianto di tubature che riversano costantemente acqua sul nocciolo di uranio per evitare che si scaldi troppo e portano via il gas che si forma quando l’acqua evapora per il contatto con l’uranio rovente. Quando, nella notte del 26 aprile 1986, per un difetto congenito di progettazione seguito da un’incredibile serie di errori umani, la pressione salì troppo, i tubi esplosero e il vapore si disperse nell’atmosfera. Ovviamente ho un po’ semplificato, ma la sostanza è questa. Non si trattò quindi affatto di un’esplosione atomica, tant’è vero che in essa morirono appena due persone.

Naturalmente, a causa dei ripetuti passaggi sul nucleo di uranio il vapor d’acqua era fortemente radioattivo e a peggiorare le cose si aggiunse il fatto che l’esplosione fece crollare il tetto del reattore, lasciando quindi allo scoperto il nocciolo. Ciò provocò un’ulteriore dispersione di polveri radioattive che si mescolarono al vapore generando la mitica “nube di Chernobyl”, che era certamente pericolosa, ma neanche lontanamente quanto lo sarebbe stato se si fosse trattato del “fungo” prodotto da una vera esplosione atomica.

E infatti i decessi che si possono collegare con certezza al disastro di Chernobyl sono appena qualche decina (65 secondo il calcolo più pessimistico). Altre 4000 persone si stima siano morte in seguito a causa di tumori causati dalla nube, ma tutte si trovavano nelle immediate vicinanze dell’epicentro. Che la nube di Chernobyl abbia contaminato l’intera Europa, causando decine di migliaia o addirittura milioni di morti, è una pura e semplice idiozia, che oggi in tutto il mondo è sostenuta, con ostinazione degna di miglior causa, esclusivamente da Greenpace, un’organizzazione che da sempre promuove un ecologismo molto radicale e ideologico.

A dare una parvenza di verosimiglianza a questa assurda teoria c’è il fatto che Chernobyl causò effettivamente morti accertate in ben tre nazioni: Ucraina (dove il reattore era ubicato), Russia e Bielorussia. Ma questo fu dovuto al fatto che il sito era (ed è tuttora) molto vicino al confine tra l’Ucraina e i due paesi suddetti, che anch’essi furono colpiti solo nella zona vicina all’epicentro, mentre la gran parte del loro territorio non riportò alcun danno.

In realtà, come ho spiegato nell’articolo precedente (https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/), nemmeno la più potente bomba nucleare del mondo potrebbe causare un significativo aumento di radioattività a più di un centinaio di chilometri di distanza. E, di fatto, nessuna delle oltre 600 esplosioni nucleari effettuate nell’atmosfera come test dal 1945 a oggi ha mai causato danni significativi alla salute della popolazione mondiale. L’idea che possa averlo fatto l’esplosione di Chernobyl, che era molto ma molto meno potente e meno radioattiva perfino della più debole di esse, è quindi puro delirio.

E puro delirio è anche il timore che un disastro nella centrale nucleare di Zaporizhzhia possa “contaminare l’intero continente”, come abbiamo sentito ripetere ossessivamente soprattutto nelle prime fasi del conflitto (ma anche adesso, ogni volta che se ne parla, il ritornello ricomincia). Si può capire e perdonare che lo facciano gli ucraini, che hanno bisogno di attaccarsi a tutto per tenere desta l’attenzione dei loro distratti e indolenti alleati europei. Non si può invece capire e meno ancora perdonare che continuino a ripetere questa scemenza anche i nostri commentatori.

Un altro fattore che contribuisce molto a confondere le idee è l’uso di parole che istintivamente impressionano, senza che nessuno spieghi cosa significano in realtà. Per esempio, chiedetevi se sareste disposti a tuffarvi in una piscina in cui sia stata versata una tonnellata d’acqua marina prelevata davanti a Fukushima subito dopo l’incidente, quando aveva un livello di radioattività circa mille volte superiore a quello naturale. Detto così fa impressione ed è facile prevedere che rispondereste tutti di no. Ma proviamo a ragionare.

Un litro d’acqua (ce l’hanno insegnato a scuola) pesa un chilo e ha un volume di un decimetro cubo, per cui una tonnellata d’acqua equivale a un metro cubo. Detto così fa già meno impressione, non è vero? Eppure è esattamente la stessa cosa! Ma la parola “tonnellata” ci dà istintivamente la sensazione di una cosa enorme, mentre la parola “metro” (ancorché cubo) ci dà invece l’impressione di una cosa relativamente piccola. Il motivo, però, è esclusivamente psicologico: tutti, infatti, siamo più alti di un metro, mentre nessuno di noi si avvicina neanche lontanamente a pesare una tonnellata.

E ora proseguiamo. Secondo le norme FINA, una piscina olimpionica è lunga 50 metri, larga 25 e profonda non meno di 2: contiene dunque almeno 2500 metri cubi, ovvero 2500 tonnellate, di acqua non radioattiva (essendo di origine piovana non contiene infatti uranio disciolto, come quella marina). Di conseguenza, la tonnellata d’acqua radioattiva risulta diluita a tal punto che nell’insieme la piscina ha un livello di radioattività addirittura 2,5 volte inferiore a quello del mare della vostra località balneare preferita. Ciononostante, credo di non sbagliare se dico che anche dopo questa spiegazione nessuno di voi sarebbe disposto a tuffarcisi: tanto può la forza della paura suscitata dalle parole usate male.

Per dare l’idea del livello di mistificazione che spesso si raggiunge sul nucleare farò solo un altro esempio, ma particolarmente significativo, poiché si riferisce a un giornalista che molti (non io) ritenevano serio e affidabile, ovvero Andrea Purgatori, da poco deceduto. Ebbene, durante una puntata del suo programma Atlantide su LA7 (credo quella del 29 marzo 2022, ma non sono sicuro), Purgatori ha prima trasmesso un documentario in cui si ripeteva per ben due volte l’assurda affermazione che a Chernobyl si era verificata un’esplosione atomica e poi, come conclusione della puntata, ha fatto un elenco di tutti i disastri nucleari della storia.

Ora, a parte che erano in tutto e per tutto appena quattro (Chernobyl, ovviamente, poi Three Mile Islands, Fukushima e un altro di minore entità che ora non ricordo), Purgatori si è ben guardato dal dire quante persone erano morte in ciascuno di essi. E comprensibilmente, anche se disonestamente. Se l’avesse detto, infatti, la gente avrebbe scoperto che, a parte Chernobyl, il numero di morti per ciascuno dei suddetti “disastri” era zero. Sì, avete capito bene: a parte Chernobyl, di nucleare fino ad oggi non è mai morto nessuno.

E oltretutto Chernobyl è stato un caso più unico che raro: basti dire che l’incidente è classificato allo stesso livello di gravità di quello di Fukushima, in cui non è morta neanche una persona. Come è possibile, allora, che a Chernobyl siano morti così in tanti? La risposta è che la stragrande maggioranza dei decessi furono dovuti all’ostinato rifiuto del regime sovietico di ammettere l’incidente e, quindi, di evacuare immediatamente la popolazione, nonché alla totale impreparazione tecnica per un’emergenza simile.

Tra l’altro, il difetto di progettazione era stato notato già nel 1971 durante un congresso internazionale da un gruppo di ingegneri italiani, tra cui mio padre, che diresse il piano nucleare italiano da allora fino al 1988, quando venne sciaguratamente chiuso. Ma il loro aiuto per sistemare le cose, che i tecnici russi avevano volentieri accettato, venne sprezzantemente rifiutato dal regime sovietico, che poi respinse allo stesso modo anche le offerte di aiuto dell’Occidente successive al disastro. Non è quindi esagerato dire che a Chernobyl più che di nucleare si morì di comunismo.

Eppure niente: tutti continuano imperterriti a parlare di “disastri nucleari”, non solo per Chernobyl, ma anche per gli altri, che semplicemente non furono disastri, in nessun senso sensato della parola “disastro”. Addirittura, pur di addossare qualche cadavere all’atomo, qualche bello spirito è arrivato a inventarsi il concetto di “morte per stress da evacuazione”, sostenendo che l’incidente di Fukushima ne avrebbe causate circa 400.

Non mi soffermo a commentare questa assurdità priva di qualsiasi fondamento scientifico e di cui in ogni caso non sarebbe responsabile il nucleare, ma semmai la cattiva gestione dell’evacuazione. Vorrei invece far notare che il terremoto di Fukushima fu uno dei più terribili della storia, eppure la centrale nucleare rimase in piedi (in effetti, fu l’unica cosa che rimase in piedi) e non uccise nessuno, mentre 400 persone rimasero vittime del crollo della diga di un vicino impianto idroelettrico. Eppure, nessuno parla mai di queste autentiche morti, mentre tutti continuano a parlare e straparlare di quelle immaginarie di Fukushima.

Ma non è tutto. Questo, infatti, non è per nulla un caso isolato. Solo il disastro del Vajont, come ben sappiamo, ha causato 1917 morti: circa la metà di quelli attribuiti a Chernobyl. Ma già nel 1923 erano morte 356 persone nel crollo della diga del Gleno e altre 115 morirono nel 1935 nel crollo della diga del Molare, col che siamo già a 2388. E questo solo in Italia.

Ho cercato insistentemente notizie relative alla situazione a livello mondiale, ma anche sui siti di statistiche più noti e affidabili sembra impossibile trovare dati completi e ancor più difficile è distinguere tra i crolli di dighe di impianti idroelettrici e quelli di dighe destinati ad altri usi (principalmente irrigazione e attività mineraria). Perfino il loro numero è incerto, perché molti studi considerano solo dighe superiori a una certa altezza, che, essendo scelta arbitrariamente, ogni volta porta a risultati diversi. Calcolandole tutte, è probabile che il numero di dighe di qualsiasi altezza e destinazione d’uso già costruite o in fase di costruzione in tutto il mondo sia vicino al milione. Ma alla fine non ha molta importanza.

Se si pensa infatti che solo nel crollo della diga della centrale idroelettrica di Banqiao, situata 300 km a nord-ovest di Shangai e distrutta nel 1975 dal tifone Nina, morirono 171.000 persone e che nell’insieme i crolli di dighe nell’ultimo secolo hanno sicuramente ucciso centinaia di migliaia di persone, forse addirittura milioni, anche se il numero esatto non è determinabile e non tutte le dighe crollate erano destinate alla produzione di elettricità, è comunque evidente che la “buona” energia idroelettrica è in realtà almeno cento volte più pericolosa della “cattiva” energia nucleare.

E in futuro la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente, sia per l’invecchiamento delle dighe (secondo alcune stime, senza urgenti interventi di manutenzione, per cui spesso non ci sono i soldi, oltre il 50% sarebbe già ora a rischio), sia per l’aumentare della violenza delle piogge. Senza contare poi l’impatto ambientale, spesso molto pesante, dei grandi bacini idroelettrici e l’enorme numero di persone (sicuramente alcune decine di milioni) che per permetterne la costruzione sono state costrette a lasciare per sempre le loro case, destinate a finire sommerse dall’acqua.

Eppure, nessuno si sogna di chiedere la chiusura degli impianti idroelettrici. E giustamente, perché farlo causerebbe conseguenze ben peggiori. Ma allora perché rifiutare il nucleare, che è (letteralmente) cento volte più sicuro?

Il falso problema delle scorie

Beh, un momento, mi direte: hai dimenticato il problema delle scorie. Non vorrai mica dirci che neanche quello è così grave come sembra? Ebbene, non ve lo dico, ma solo perché il problema delle scorie semplicemente non esiste: il problema delle scorie, infatti è stato creato dalla paura del problema delle scorie.

Cominciamo da un dato di fatto incontestabile: a oggi, nessuna persona al mondo ha riportato danni a causa delle scorie delle centrali nucleari, mentre le scorie di praticamente qualsiasi altra industria almeno qualche morto l’hanno causato e in molti casi anche più di qualcuno.

Di fatto, per neutralizzarle completamente basta seppellirle a qualche decina di metri di profondità, come si sta facendo attualmente. Che questo sia sicuro è provato dal fatto che vivere sopra un giacimento di uranio non comporta nessun rischio significativo per la salute. Se così non fosse, le compagnie minerarie userebbero le statistiche sul cancro per rintracciare i giacimenti, invece di ricorrere a complicate e costosissime tecnologie di prospezione.

Ma per stare del tutto tranquilli si potrebbe ricorrere a una delle tante miniere abbandonate: a un migliaio di metri di profondità, infatti, perfino se un terremoto dovesse aprire in due la miniera la quantità di radiazioni che riuscirebbe a raggiungere la superficie sarebbe trascurabile (a parte poi che dopo un terremoto di quella potenza questo sarebbe l’ultimo dei nostri problemi, in quanto non resterebbe più nessuno in grado di preoccuparsene).

Ma la soluzione più efficace sarebbe semplicemente affondarle in mare, purché ovviamente a profondità adeguata e non sotto costa, ma nelle grandi fosse oceaniche. Siccome già sento gli strilli inorriditi dei più davanti a questa proposta, vorrei far presente a chi non lo sapesse che, come ho accennato prima, l’acqua di mare è radioattiva già di suo, giacché contiene uranio nella percentuale di 3,4 tonnellate per chilometro cubo: eppure uno può andare al mare anche tutti i giorni senza subirne il minimo danno.

Ora, negli oceani del mondo ci sono circa 1400 milioni di chilometri cubi d’acqua, il che significa che in totale essi contengono la bellezza di quasi 5 miliardi di tonnellate di uranio. E poiché il totale delle scorie prodotte finora (in circa 50 anni) è stimato intorno alle 250.000 tonnellate, cioè 5000 all’anno, ne segue che anche buttandole in mare così come sono ci vorrebbe un milione di anni solo per raddoppiare la radioattività naturale degli oceani, il che a prima vista può sembrare una prospettiva spaventosa, ma in realtà non avrebbe la minima conseguenza pratica. Se così non fosse, infatti, uno che va al mare il doppio di un altro dovrebbe avere una probabilità doppia di prendersi il cancro, per non parlare di uno che ci vive stabilmente, che dovrebbe beccarselo con certezza matematica nel giro di pochi mesi.

La realtà dei fatti è che raddoppiare la radioattività naturale dei mari comporterebbe meno rischi per la nostra salute che farci una banale radiografia. Ancora una volta, siamo vittime dell’illusione delle parole: 5 miliardi di tonnellate di uranio ci sembrano infatti una quantità enorme, e di per sé lo sono, ma il fatto è che non ci rendiamo conto di quanto grande sia il mare, per cui anche una quantità del genere risulta in realtà irrisoria (in effetti, equivale a meno di 4 milionesimi di grammo per metro cubo). Il vero rischio di prenderci il cancro quando andiamo al mare sta nel passare troppo tempo al sole ad abbronzarci, che è molto ma molto più pericoloso che vivere vicino a un deposito di scorie nucleari: eppure, di questo non ci preoccupiamo minimamente.

Peraltro, si tratta di un’ipotesi puramente teorica, giacché le scorte di uranio esistenti nel mondo possono bastare al massimo per qualche migliaio di anni (durante i quali si spera che avremo trovato altre soluzioni, per esempio la fusione nucleare). Quindi anche se tutte le scorie di tutte le centrali nucleari passate, presenti e future della storia dell’umanità venissero buttate in mare così come sono, l’irrisorio livello di radioattività naturale degli oceani verrebbe aumentato al massimo di un ancor più irrisorio 1%. E non basta, perché in realtà nessuno ha mai pensato di buttarle davvero così come sono.

Le scorie, infatti, vengono prima inglobate nel vetro fuso e poi l’impasto viene versato in contenitori di acciaio e cemento a tenuta stagna, che affonderebbero ben presto nel fango dei fondali oceanici, per decine o anche centinaia di metri, col che l’impatto ambientale sarebbe nullo a tutti gli effetti pratici. Infine, non dimentichiamo che, contrariamente a ciò che sempre si dice, solo una minima percentuale delle scorie nucleari conserva una forte radioattività per diverse migliaia di anni, mentre la maggior parte diventa innocua nel giro di qualche decennio.

Conoscere la realtà per non temerla

L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa.

(Franklin Delano Roosevelt)

Ma queste soluzioni, perfettamente sicure, ragionevoli e a basso costo, non sono mai state adottate, perché la gente le rifiuta in nome dell’assurda pretesa del “rischio zero”, di cui ho già più volte parlato su questo sito (si veda in particolare https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta/), a cui in questo caso si aggiunge una paura viscerale più forte di qualsiasi ragionamento, dovuta al ricordo delle atomiche di Hiroshima e Nagasaki, peraltro anch’esso in gran parte mitizzato e che in ogni caso col nucleare civile non c’entra nulla.

Di conseguenza, per compiacere gli elettori i vari governi hanno adottato standard di sicurezza così irragionevolmente esigenti che è diventato impossibile trovare un qualsiasi luogo sulla Terra che li soddisfi, col paradossale risultato che continuiamo a tenere le scorie radioattive in depositi in teoria “provvisori”, ma che stanno di fatto diventando definitivi, benché siano molto più costosi e molto meno sicuri di quelli che potremmo usare senza problemi se solo la smettessimo di aver paura.

Ma per non aver paura della realtà bisogna innanzitutto conoscerla. E questo oggi non sembra uno sport molto di moda.

Perché per quest’autunno-inverno si prospetta un “lockdown energetico” ed i rischi per l’Italia

12 Settembre 2022 - di Mario Menichella

EconomiaIn primo pianoSocietàSpeciale

 “Nei momenti di pericolo, non esiste peccato più grave dell’inerzia”.

Dan Brown

L’invasione russa dell’Ucraina ha sconvolto i mercati energetici globali, generando il più grande aumento dei prezzi del petrolio dagli anni ’70. Parallelamente, i prezzi del carbone e del gas hanno tutti raggiunto i massimi storici in termini nominali. In termini reali, tuttavia, solo i prezzi europei del gas naturale hanno raggiunto i massimi storici e rimangono notevolmente al di sopra del picco precedente del 2008. Le conseguenze di tutto ciò per la crescita mondiale saranno significative: è probabile che l’aumento dei prezzi dell’energia, da solo, riduca la produzione globale di quasi l’1% entro la fine del 2023, come suggerisce una recente analisi della Banca Mondiale [1]. Ma per l’Europa – e in particolare per l’Italia – l’impennata dei prezzi del gas e dell’energia elettrica, e quindi delle relative bollette, verosimilmente imporrà la necessità di una sorta di “lockdown energetico” nel prossimo autunno-inverno. Le conseguenze di questo nuovo lockdown sono difficili da stimare, ma poiché l’aumento dei prezzi dell’energia ha un impatto sproporzionato sulle attività imprenditoriali più energivore e sulle famiglie con i redditi più bassi, qualora si superassero determinate soglie critiche si potrebbe lacerare in modo irreparabile il tessuto economico e sociale, innescando una spirale di effetti a catena difficile da arginare e con effetti potenzialmente sistemici. In questo articolo cercherò di illustrare tali rischi alla luce dei nuovi dati oggi disponibili, evidenziando in particolare alcune questioni chiave largamente sottovalutate dal Governo italiano.

I motivi geopolitici della recente impennata dei prezzi dell’energia in Europa

Già prima dell’inizio della guerra, i prezzi del petrolio greggio sono aumentati notevolmente a causa della ripresa economica dalla crisi del Covid, mentre l’offerta non era tornata del tutto al livello pre-crisi. La guerra ha rafforzato questo movimento al rialzo dei prezzi, poiché l’offerta russa è diminuita prima a causa delle difficoltà di trasporto e di pagamento in relazione alle sanzioni, poi per la parziale “chiusura dei rubinetti” da parte di Gazprom, che è controllata dalla Federazione Russa.

Prima della guerra, il prezzo all’esportazione della Russia seguiva da vicino il prezzo del mercato globale per il petrolio Brent, indice di alta sostituibilità di questa materia prima [8]. Dato che la Russia è solo uno dei molti fornitori di petrolio dell’Unione Europea (l’incidenza delle importazioni dalla Russia era del 12,5% per l’Italia, del 22,8% per la UE [34]), il petrolio mancante per le importazioni dell’UE dalla Russia venute meno può essere sostituito da importazioni fatte da altrove; mentre, per la Russia, le mancate esportazioni di petrolio verso l’Occidente possono essere in parte compensate dagli acquisti di India e Cina.

A differenza del petrolio, il mercato del gas è regionale. Esistono, a grandi linee, tre grandi mercati del gas a livello globale: Europa, Nord America e Asia. I prezzi su questi mercati normalmente sono correlati, poiché il gas naturale liquefatto (GNL) può essere spedito a ognuno di essi, tuttavia possono differire fra loro in modo significativo. A partire dal 2021, l’elevata domanda in Asia ha portato a una crescita importante della divergenza tra il prezzo del gas nordamericano (più basso) ed i prezzi in Asia ed Europa (più alti).

Il caso del gas si differenzia da quello del petrolio perché le importazioni europee vengono consegnate principalmente tramite gasdotti: a causa dei vincoli di trasporto, il mercato del gas non è globale (cioè con prezzi allineati fra loro a livello mondiale), ed i prezzi dei 3 mercati regionali non sono unificati, come si può vedere molto bene dalla figura seguente. In essa risulta evidente come l’impennata dei prezzi del gas sia un problema prettamente europeo, non riguarda aree lontane come USA, Giappone, etc.

Il prezzo del gas naturale (espresso in dollari USA) in diverse zone del mondo. Si noti come solo in Europa si sia avuta un’abnorme impennata del prezzo. 20 mmbtu sono equivalenti a circa 6 MWh. (fonte: World Bank and IEA) 

I prezzi del gas sono fortemente aumentati in Europa già a partire dal 2021, poiché il forte aumento della domanda legato alla ripresa economica ha incontrato un’offerta meno dinamica da parte di Paesi Bassi e Russia, con quest’ultima che a seguito delle note vicende belliche ha gradualmente smesso di servire i mercati a breve termine (onorando per un certo tempo solo i suoi contratti a lungo termine già firmati, per poi ridurre ulteriormente i flussi di gas con motivazioni di comodo). E, come succede in questi casi, il prezzo della materia prima che scarseggia si è letteralmente impennato.

Nel 2020 la Russia ha prodotto il 22% del gas mondiale, mentre l’Europa ha consumato il 13% del gas naturale prodotto nel mondo (dati Enerdata). Poiché la Russia rappresenta circa il 40% del gas consumato in Europa (e per l’Italia il 43%), la totale scomparsa di questa fornitura rappresenterebbe uno shock del 13% x 40% = 5% a livello mondiale ma molto di più a livello regionale, poiché la fornitura alternativa è limitata dalla capacità di trasporto e di rigassificazione del Gas Naturale Liquefatto importato (GNL), che oggi rappresenta soltanto il 20% della fornitura europea di gas (secondo i dati forniti da Bruegel).

Sostituire interamente le importazioni russe di gas con GNL significherebbe triplicare le forniture europee di GNL, cosa che nel breve termine non è né tecnicamente possibile (per l’offerta limitata sul mercato mondiale, e per la bassa capacità di rigassificazione aggiuntiva in Europa) né economicamente fattibile (l’Europa è in concorrenza con l’Asia sul mercato del GNL e il reindirizzamento dei flussi verso l’Europa è costoso) [7]. L’AIE prevede quindi la sostituzione con GNL solo del 13% del gas russo mancante.

Per questo, a partire dal 2021, il prezzo del gas è aumentato molto di più del prezzo del petrolio per i Paesi europei: circa +60% a marzo 2022 rispetto a febbraio; e di ben 5 volte ad aprile 2022 rispetto ad aprile 2021. Ed è per tale ragione che, specie in caso di rilevante o totale interruzione delle forniture di gas russo, gli esperti prevedono per quest’autunno-inverno un prezzo estremamente alto della materia prima (e delle relative bollette), o addirittura un razionamento quantitativo di gas e luce sul suolo europeo.

D’altra parte, l’Unione Europea non può, nel corso di quest’anno e del prossimo, sostituire del tutto le importazioni di gas naturale russo [23]. Quindi, nel breve periodo la domanda di gas dell’UE è relativamente anelastica.  In regime di monopolio, un’elasticità così bassa porterebbe la Russia a fissare un prezzo molto alto, anche in assenza di guerra. Il motivo per cui la Russia non l’ha fatto in passato è che l’elasticità sul lungo periodo è sicuramente assicurata, e quindi deve affrontare un compromesso intertemporale: un prezzo molto alto aumenta i ricavi nel breve termine, ma li diminuisce nel lungo termine.

La guerra, tuttavia, ha due effetti evidenti e importanti su questo tipo di calcolo. Il primo è un’esigenza ancora maggiore di maggiori entrate oggi, portando ad un aumento del prezzo. La seconda è che la permanenza futura o l’inasprimento delle sanzioni, nonché la chiara decisione dell’Unione Europea di svezzarsi dalle importazioni di gas russo, riducono gli effetti di un aumento del prezzo sui ricavi futuri, portando ancora una volta la Russia ad aumentare il prezzo mentre la domanda è ancora lì.

In breve, ignorando le sanzioni, la Russia potrebbe voler aumentare le entrate delle esportazioni di energia. Ma mentre per il petrolio ciò implicherebbe un aumento del volume delle esportazioni (dato il prezzo mondiale), per il gas comporterebbe un aumento dei prezzi (e quindi volumi di esportazione in diminuzione) [8]. I veri contratti di gas a lungo termine normalmente precludono tale comportamento, in quanto specificano l’indicizzazione dei prezzi sul petrolio o sulla borsa del gas olandese (TTF). Ma la Russia ha una certa flessibilità per spostare parte della sua offerta dalle consegne nell’ambito di contratti esistenti a vendite sul mercato non regolamentato. In altre parole, i contratti possono essere rivisti o interrotti.

Per cercare di rimpiazzare una parte del gas russo, il Governo italiano si è mosso rapidamente, attraverso gli accordi con Algeria, Angola e Congo, ma il grosso delle forniture aggiuntive non arriverà fino al 2023. L’import di gas annuale dalla Russia verso l’UE prima della guerra era di circa 155 miliardi di metri cubi. È possibile rimpiazzarne poco meno della metà attraverso maggiori forniture da Stati Uniti, Norvegia, Africa. L’Italia può inoltre contare sulla riattivazione di alcune centrali a carbone. Di conseguenza, quest’inverno il deficit di gas per il nostro paese dovrebbe arrivare, al più, al 13-18% del fabbisogno pre-crisi.

Altri shock per l’Europa collegati alla situazione attuale

Oltre al greggio e al gas naturale, la Russia esporta carbone (che viene trasportato via nave, il che lo rende altamente sostituibile con altri fornitori) e prodotti petroliferi raffinati (in particolare il gasolio), dai quali l’Europa occidentale è particolarmente dipendente poiché le capacità di raffinazione sono specifiche e difficili da sostituire a breve termine. La Russia esporta anche metalli rari (nichel, palladio, di cui è il primo produttore mondiale) per i quali la sostituzione è invece delicata, e altri prodotti (fertilizzanti, grano, legno, etc.) che vengono scambiati su un mercato mondiale.

Oltre a questi shock dell’offerta e dei relativi prezzi, gli europei devono aggiungere la perdita di mercati in Russia a causa delle restrizioni alle esportazioni, che a maggio è arrivata a raggiungere circa il 60% dei volumi esportati in quel paese nel 2021, ovvero circa lo 0,4% del PIL europeo. Inoltre, secondo l’interessante analisi di Blanchard & Pisani-Ferry [8], relativa alle implicazioni della guerra Russia-Ucraina per la politica economica dell’Unione Europea, il ritiro delle grandi aziende europee dal territorio russo rappresenterebbe da solo una perdita di circa l’1 per cento del PIL per l’economia europea.

Infine, l’invasione dell’Ucraina potrebbe innescare comportamenti precauzionali da parte di famiglie e imprese in Europa, portandole a rivedere al ribasso i propri investimenti, a risparmiare di più ed a indirizzare i propri risparmi verso asset a basso rischio. Potrebbe anche aumentare l’incertezza sui mercati finanziari, nonché accrescere ulteriormente il deprezzamento dell’euro (che nei confronti del dollaro USA è stato di quasi il 20% nell’ultimo anno), il che potrebbe sostenere le esportazioni extra-UE nel breve termine, aumentando però al contempo le pressioni inflazionistiche.

In realtà, gli shock dei prezzi dell’energia influenzano l’attività economica e l’inflazione attraverso una varietà di canali, con effetti diretti e indiretti sulle economie importatrici ed esportatrici di energia. Gli effetti indiretti possono verificarsi attraverso il commercio e altri mercati delle materie prime, attraverso le risposte di politica monetaria e fiscale e attraverso l’incertezza degli investimenti. Attraverso questi canali, i prezzi dell’energia possono anche avere ripercussioni immediate sui saldi fiscali ed esterni [1].

In Italia, l’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni ha spinto l’inflazione fino al +8,4% di agosto, ed essa è per quasi l’80% dovuta proprio all’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche. Tali valori sono ben al di sopra dell’obiettivo del 2% che la Banca Centrale Europea si era a suo tempo posta. È probabile che i prezzi aumentino più velocemente del reddito per molte persone. Ciò significa che il costo della vita per un gran numero di italiani sta pesando fortemente sul budget personale e familiare.

L’inflazione in Italia, arrivata in poco tempo a livelli record che non si raggiungevano da 37 anni. (fonte: La Verità)

I prezzi più elevati per i beni che acquistiamo dall’estero sono uno dei motivi principali di ciò. Poiché le restrizioni Covid si sono allentate in molti paesi, le persone hanno iniziato a comprare più cose, avendo accumulato livelli record di risparmi nel corso della pandemia. Ciò ha generato un’impennata della domanda globale di beni di consumo durevoli e non durevoli, portando a carenze sul mercato di alcuni semilavorati e prodotti finali, a “colli di bottiglia” senza precedenti nella produzione e nel commercio, e di conseguenza a prezzi più elevati, in particolare per le merci importate dall’estero.

Anche l’aumento dei prezzi dell’energia ha svolto un ruolo importante. I forti aumenti dei prezzi del petrolio e del gas hanno spinto verso l’alto i prezzi della benzina e le bollette dell’energia, e questi aumenti sono iniziati ben prima dello scoppio della guerra fra Russia e Ucraina. Poiché i prezzi dell’energia verosimilmente continueranno a crescere sul breve termine (e potenzialmente anche sul medio termine, specie se i paesi dell’UE non adottassero misure adeguate o il conflitto nel frattempo si estendesse ad altri paesi), ci si aspetta che l’inflazione salga ulteriormente quest’anno e che l’economia rallenti.

Infine, l’invasione russa dell’Ucraina ha portato ad aumenti assai più accelerati e più consistenti del prezzo di cose come energia e cibo. Come se non bastasse, sia la guerra che i lockdown per Covid in Cina stanno rendendo più difficile importare cose, oltre ad allungare i tempi di consegna. È probabile che ciò faccia in futuro aumentare ulteriormente i prezzi di alcuni beni. Come risultato di questi fattori, prevediamo un aumento dell’inflazione, che potrebbe far addirittura rimpiangere i valori attuali.

A questo quadro, va aggiunto lo “shock” legato al fenomeno dell’immigrazione irregolare, che, dal punto di vista dell’impatto negativo sul tessuto sociale dovuto alla male gestio dello stesso, riguarda principalmente l’Italia, e che è tale soprattutto per i numeri assoluti e senza precedenti che si vanno raggiungendo. Gli immigrati clandestini rappresentano ormai una vera e propria “quinta colonna” in Italia, per questo in qualsiasi paese occidentale serio (Australia, Giappone, Stati Uniti, etc.) tale problema viene considerato una questione di sicurezza nazionale ed è affrontato con metodi assai decisi e risolutivi.

Nei primi 8 mesi di quest’anno, secondo i dati del Viminale [20], sono sbarcati in Italia circa 57.000 migranti (principalmente di nazionalità egiziana, bengalese, tunisina, afghana e siriana), cioè ben tre volte quanti ne erano sbarcati – nello stesso periodo – due anni prima, cioè nel 2020; e potrebbero sfiorare i 100.000 entro la fine dell’anno, da confrontarsi con gli appena 11.500 del 2018 [21]. Inoltre, secondo i dati Istat relativi al 2021, gli stranieri che in Italia vivono in povertà assoluta sono oltre 1.600.000, con un’incidenza pari al 32,4%, oltre quattro volte superiore a quella degli italiani in stato di povertà assoluta (7,2%).

L’impatto dello shock energetico sull’economia di un Paese: i modelli

Una volta definiti gli shock, occorre guardare alle loro conseguenze. Ci limitiamo qui al versante energetico, cominciando dalle conseguenze dell’aumento del prezzo del petrolio sulle famiglie e sulle aziende e passando poi ad analizzare quelle dell’aumento dei prezzi del gas naturale. Ricordo che i prodotti petroliferi possono essere trovati in qualsiasi cosa: dai dispositivi di protezione individuale, plastica, prodotti chimici e fertilizzanti fino all’aspirina, vestiti, carburante per il trasporto e persino pannelli solari.

Per un paese importatore netto, un aumento del prezzo del petrolio porta a un trasferimento di reddito al resto del mondo, e quindi all’impoverimento delle famiglie, in quanto i derivati del petrolio che pesano molto sul budget familiare sono i carburanti per i veicoli e il gasolio da riscaldamento (per chi ha il riscaldamento centralizzato). Se i salari non si adeguano immediatamente all’aumento dei prezzi, il potere d’acquisto e quindi il consumo diminuiranno nel breve termine.

Le aziende, dal canto loro, non possono trasferire immediatamente sui loro prezzi di vendita i maggiori prezzi del petrolio (che incidono sui prezzi dei carburanti, su quelli del trasporto e quindi sui costi di approvvigionamento delle materie prime e di distribuzione dei prodotti finiti o semi-lavorati). Quindi i loro margini si riducono, a scapito degli investimenti. D’altra parte, quando le aziende aumentano i prezzi, preservano i loro margini ma perdono quote di mercato.

Le 5 componenti di prezzo di un prodotto. Gli aumenti di prezzo in atto stanno agendo su ben 3 di essi, riducendo di conseguenza in misura notevole il margine di guadagno per l’imprenditore. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Inoltre, il calo dei redditi in altri paesi europei importatori di petrolio riduce meccanicamente la domanda estera e quindi le esportazioni del nostro Paese verso di essi. Tuttavia, l’aumento dei prezzi del petrolio, a differenza di quello del gas, è uno shock globale. Poiché tutte le aziende devono far fronte a costi più elevati, gli effetti sulla competitività delle nostre aziende sono relativamente limitati.

Veniamo ora invece all’impatto dei prezzi del gas naturale. Nei modelli macroeconometrici standard, il gas non è identificato come tale e si presume che il suo prezzo segua quello del petrolio [7]. A fortiori, un’interruzione della fornitura di gas è difficile da simulare. In questi modelli, la produzione di beni e servizi dipende dal lavoro, dal capitale e da una cosiddetta “Produttività Totale dei Fattori” (PTF) esogena, definibile come la parte residua di output eccedente gli input di lavoro e capitale.

Un’interruzione nella fornitura di gas importato potrebbe essere vista come una diminuzione esogena della PTF. Tuttavia, in questi modelli keynesiani, la PTF è rilevante solo a lungo termine. Nel breve periodo, il PIL è determinato dalla domanda, sebbene i prezzi rispondano agli shock dell’offerta. Pertanto, un modello macroeconometrico standard non è in grado di tenere adeguatamente conto dell’interruzione delle catene del valore (non c’è solo il problema gas: si pensi ad es. alla scarsità di microchip, etc.).

Pertanto, si deve invece utilizzare un modello di equilibrio generale che descriva come lo shock colpisce non solo le industrie che utilizzano direttamente la materia prima che viene meno – in questo caso il gas – ma anche le industrie a valle (chimica, vetro, etc.); e come il relativo impatto sulla filiera può essere attutito dalle sostituzioni e dall’uso delle importazioni a tutti i livelli delle catene del valore. A seconda delle assunzioni del modello, si può arrivare così a stimare un determinato calo del PIL.

Tuttavia, in un’economia rigida, il riequilibrio dei mercati dopo un forte shock implica altrettanto forti variazioni dei prezzi relativi, e quindi un costo economico significativo quando alcuni prezzi si adeguano solo con ritardo. Ad esempio, le aziende del settore del vetro e ceramica, ma anche le fonderie, le cartiere, alcune aziende del settore chimico e alimentare – o comunque molte delle aziende energivore – non riescono a trasferire i costi più elevati sui propri clienti e alcune interrompono la produzione, il che si ripercuote, a cascata, su altre aziende energivore e non che utilizzavano i loro prodotti.

Perciò, è necessaria una combinazione di approcci diversi per arrivare a una stima realistica degli effetti della crisi energetica. Si possono poi aggiungere altri elementi: calo delle esportazioni verso la Russia, deprezzamento di alcuni beni, comportamenti precauzionali, politiche pubbliche, ecc. Data la complessità di queste stime, dubito che l’Europa abbia deciso di rinunciare al gas e al petrolio russo dopo aver fatto – come invece avrebbe dovuto – opportune analisi del rapporto rischi-benefici.

Blanchard & Pisani-Ferry [8] hanno stimato il drenaggio dei redditi europei dovuto a un aumento del 25% del prezzo del petrolio e del gas importato a circa 1 punto di PIL. L’aumento anno su anno del prezzo del gas è stato però assai più alto: circa 5 volte, pari al 500%, per cui l’impatto sul PIL si preannuncia assai elevato. Questa cifra costituisce una forma di costo economico sottovalutato della guerra per gli europei, un costo che potrebbe aumentare a causa di: ulteriori interruzioni dell’offerta, ricadute internazionali sfavorevoli, chiusure di imprese chiave o di intere filiere e/o “fallimenti” di massa delle famiglie più povere.

L’aumento impressionante del prezzo del gas in Italia negli ultimi mesi, all’interno di un arco di quasi 3 anni a cui il grafico si riferisce. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice della Borsa italiana del gas, ovvero del PSV (che sta per “Punto di Scambio Virtuale”). Il prezzo del gas è aumentato di quasi 10 volte rispetto ai livelli pre-crisi. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

L’impatto teorico del caro-energia sui consumi e sul potere d’acquisto

La politica può – e deve – affrontare lo squilibrio tra domanda e offerta di gas e di petrolio. I responsabili politici devono dare priorità alle politiche che incoraggino una maggiore efficienza energetica e accelerino la transizione verso fonti energetiche a basse emissioni di carbonio, come il fotovoltaico e l’eolico (in particolare quello off-shore) [1]. Il conseguente miglioramento dell’equilibrio tra domanda e offerta di energia può aiutare a ridurre il rischio di stagflazione e superare i venti contrari alla crescita.

Poiché la domanda di energia è – come si dice in gergo – “anelastica” nel breve periodo, i forti aumenti di prezzo dell’energia implicano un calo significativo del potere d’acquisto delle famiglie, che dovrà essere assorbito attraverso: (i) un consumo ridotto di beni e servizi non energetici, (ii) una riduzione del risparmio o (iii) un aumento di reddito [9].Sul breve termine, per attutire gli effetti negativi delle famiglie, il sostegno temporaneo mirato ai gruppi vulnerabili può quindi avere la priorità rispetto ai sussidi energetici che potrebbero ritardare la transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio.

Ma in realtà la partita è assai più grossa. La crisi energetica, come scritto dal Financial Times, è una delle principali cause che hanno portato gli hedge fund a realizzare la più grande scommessa contro il debito italiano dal 2008. Secondo Gianclaudio Torlizzi, fondatore della società di consulenza finanziaria T-Commodity, “il prossimo governo, pur rimanendo all’interno della cornice delle regole europee, dovrà agire per ottenere le necessarie compensazioni per far fronte agli inevitabili razionamenti energetici. I prezzi dei beni energetici sono infatti destinati a rimanere estremi per molto tempo” [10].

In effetti, le variazioni del prezzo del petrolio e del gas possono riflettere sia gli shock dell’offerta di materia prima che quelli della domanda globale. L’aumento dei prezzi dell’energia non sempre porta a una contrazione dei consumi: infatti, possono anche essere una conseguenza di un aumento dei consumi a livello globale. Tuttavia, l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas trasferisce ricchezza dai paesi importatori di tali materie prime ai paesi esportatori e quell’effetto ricchezza, a sua volta, ha un impatto negativo sul consumo nei paesi importatori come il nostro, attraverso effetti moltiplicatori.

Secondo un’analisi pubblicata dalla Banca Centrale Europea (a cui hanno contribuito due italiani), “l’impatto economico di una variazione del prezzo del petrolio causata da uno shock imprevisto della domanda globale aggregata è molto diverso da quello di un aumento del prezzo del petrolio causato da una carenza imprevista nella produzione di petrolio. Pertanto, è importante comprendere fino a che punto gli aumenti del prezzo del petrolio sono guidati da diversi tipi di shock prima di formulare risposte politiche” [9].

Quando, ad esempio, i prezzi del petrolio salgono a causa di un aumento della domanda aggregata, aumentano anche i salari e la politica monetaria dovrà diventare più restrittiva. Al contrario, se i prezzi del petrolio aumentano a causa di interruzioni nell’offerta di petrolio e non ci sono effetti di secondo impatto sui salari, la politica monetaria non ha bisogno di inasprirsi per stabilizzare l’inflazione. Tuttavia, è difficile pensare che un’inflazione galoppante non contribuisca a creare un mix socialmente esplosivo.

Infatti, come osservano gli autori dello studio in questione, “poiché spendono una percentuale relativamente elevata del loro reddito per l’energia, le famiglie povere sono particolarmente colpite in termini di inflazione quando i prezzi dell’energia aumentano. In caso di un forte shock dei prezzi dell’energia, l’impatto negativo su alcune famiglie potrebbe essere così ampio da superare facilmente qualsiasi impatto positivo visto attraverso i canali macroeconomici (ad es. l’occupazione)”.

Inoltre, va sottolineato che secondo la teoria economica i prezzi dell’energia più elevati incidono sui consumi privati ​​attraverso canali sia diretti che indiretti. Un aumento dei prezzi dell’energia incide direttamente sul potere d’acquisto delle famiglie attraverso l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici (elettricità, gas, benzina, olio combustibile, ecc.). Nell’area dell’euro, circa il 30% di tutto il consumo di energia assume la forma del consumo finale da parte dei consumatori. Il resto riguarda invece l’energia utilizzata nella produzione di beni e servizi non energetici (cioè i “consumi intermedi”).

Al tempo stesso, un aumento dei prezzi dell’energia comporta un aumento dei costi di produzione dei settori non energetici e, nella misura in cui i produttori di beni e servizi non energetici adeguano i loro prezzi finali, un’ulteriore riduzione diretta del potere d’acquisto delle famiglie (l’effetto è dunque, in questo caso, indiretto). Infatti, se tali costi non possono essere trasferiti sui prezzi finali dei beni in questione, ci sarà inevitabilmente un impatto sul potere d’acquisto delle famiglie, poiché i produttori nei settori interessati taglieranno i salari o avranno minori profitti da distribuire.

Non è facile contrastare l’aumento dell’inflazione, che è determinato da molti fattori diversi: dall’aumento dei costi energetici derivanti dagli sviluppi geopolitici, dagli effetti temporanei delle formazioni dei prezzi non supportate dai fondamentali economici, dai forti shock negativi dell’offerta causati dall’aumento dei prezzi globali dell’energia (che incidono sui prezzi alla produzione e sul trasporto di materie prime e prodotti finiti), ma anche dei generi alimentari e delle materie prime agricole e non, dalle continue interruzioni nelle catene di approvvigionamento, etc.

Di fronte a questi problemi e rischi crescenti, secondo gli economisti la politica fiscale di un paese deve essere flessibile e pronta a fornire maggiore sostegno alle famiglie vulnerabili via via che la situazione peggiora. In un grave scenario al ribasso con carenza di gas e costi in aumento per i consumatori di gas, potrebbe essere necessario posticipare il ritorno alla regola europea del freno all’indebitamento affinché i governi nazionali possano assumere ulteriori prestiti per sostenere l’economia [12].

L’impatto reale su famiglie ed imprese e sul tessuto economico

I modelli macroeconometrici, per quanto sofisticati possano essere, non sono in grado di simulare in modo realistico una situazione così complessa come quella fin qui illustrata, in cui per l’Italia si sommano una serie di shock, non ultimo quello da cui siamo appena usciti, legato ai lockdown prima fisici e poi “virtuali” imposti nell’emergenza pandemica, che rappresentano peraltro solo due dei 10 grandi fattori che hanno impoverito imprese e famiglie durante la pandemia (si veda la mia analisi [3]).

Sebbene l’aumento dell’inflazione – e quindi del costo della vita – impatti apparentemente sull’intera popolazione, l’aumento dei prezzi dell’energia, in realtà, ha un impatto sproporzionato sulle attività imprenditoriali più energivore e sulle famiglie con i redditi più bassi. In altre parole, la spesa per gas ed elettricità in proporzione al reddito disponibile è più alta per le famiglie più povere, e rappresenta un fattore crescente nella compressione dei bilanci delle famiglie, e non solo di quelle italiane [2].

Nell’UE, i prezzi dell’energia per le abitazioni colpiscono il 20% più povero delle famiglie più di quanto non colpiscano le famiglie a reddito più elevato. Per quanto riguarda i costi di trasporto, invece, il loro aumento colpisce più le famiglie ad alto reddito che le famiglie a basso reddito in diversi paesi. In effetti, in un terzo dei paesi europei, le famiglie a reddito più elevato spendono quote maggiori del proprio reddito per la guida della propria auto rispetto alle famiglie a reddito più basso, il che riflette generalmente il possesso di un’auto che è meno comune e si concentra tra le famiglie a reddito più alto in questi paesi [13].

Il grafico mostra il rapporto tra il reddito speso per il trasporto dal 20% delle famiglie di reddito più alto e il 20% delle famiglie con il reddito più basso. 100 indica che entrambi i gruppi spendono parti uguali dei loro budget. Ad esempio, in Bulgaria, la quota di reddito dedicata ai costi di trasporto dal 20% delle famiglie più ricche è del 280% la quota del 20% delle famiglie con i redditi più bassi. Fonte: Indagine sul bilancio delle famiglie (2015) [13].

Nel nostro Paese, però, l’impatto dell’aumento dei costi di energia elettrica, gas e carburanti è stato molto più alto che in altri Paesi europei per una serie di ragioni: (1) non abbiamo l’energia nucleare e l’eolico off-shore nel mix delle fonti energetiche; (2) eravamo già prima della pandemia uno dei Paesi dell’UE che paga di più l’elettricità e il gas (si veda la mia analisi sul tema [4]); (3) le misure di mitigazione prese dal Governo negli scorsi mesi sono state largamente insufficienti e, in parte, mal concepite.

Non deve quindi stupire il fatto che la cronaca ci racconti una realtà del tutto diversa da quella fredda, edulcorata e spesso fatta di semplici “medie” dei modelli macroeconometrici. Non c’è giorno che a un gran numero di aziende italiane arrivino bollette “monstre” che le costringono – nel migliore dei casi – a fare a meno di qualche dipendente e, nel peggiore, a chiudere i battenti temporaneamente (come ad es. nel caso di alcuni hotel o di attività più energivore) oppure per sempre. Ripeto, per sempre.

Non è facile quantificare, al momento, l’impatto del caro-bollette sulle aziende in termine di “sofferenze” e di cessate attività. Tuttavia, quest’estate gli aumenti raggiunti dagli importi delle bollette luce e gas sono stati così elevati (da 3 a 5 volte più alti, se non addirittura di più, rispetto ai livelli dell’anno precedente) che non solo i settori industriali più energivori, ma anche la filiera della ristorazione, il settore alberghiero, gli allevamenti di bestiame e perfino la vendita al dettaglio ne sono stati fortemente colpiti.

Secondo un’analisi effettuata ad agosto da Confcommercio-Imprese, già solo per l’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche e per l’inflazione, “di qui ai primi mesi del 2023 in Italia potrebbero “saltare” ben 120.000 aziende del terziario di mercato e 370.000 posti di lavoro” [6]. Complessivamente, la spesa in energia per i comparti del terziario nel 2022 ammonterà a 33 miliardi di euro, il triplo rispetto al 2021 (11 miliardi) e più del doppio rispetto al 2019 (14,9 miliardi).

Tra i settori più esposti, il commercio al dettaglio – in particolare la media e grande distribuzione alimentare, che a luglio ha visto quintuplicare le bollette di luce e gas – la ristorazione e gli alberghi, i trasporti (che oltre al caro carburanti, si trovano ora a dover fermare i mezzi a gas metano per i rincari della materia prima); ma sono colpiti anche i liberi professionisti, le agenzie di viaggio, le attività artistiche e sportive, i servizi di supporto alle imprese e il comparto dell’abbigliamento. E le aziende manifatturiere non possono far lievitare i prezzi dei loro prodotti per non perdere competitività rispetto a quelle estere.

“Intere filiere produttive, fra cui quella del legno-arredo, saranno costrette a fermare la produzione, a mettere i lavoratori in cassa integrazione ed a perdere competitività sui mercati. In pratica, già ad ottobre ci sarà il ‘black out’ della nostra filiera” [16]. È questo il grido d’allarme lanciato da Claudio Feltrin, presidente di FederlegnoArredo, che rappresenta una delle filiere più importanti del made in Italy nel mondo. Non è difficile prevedere, quindi che nei prossimi mesi la richiesta di cassa integrazione avrà un “boom”.

Ciò succederà perché – i politici sembrano ignorare questo aspetto – lo stop delle aziende energivore si ripercuoterà a cascata sull’intera filiera. E un discorso del tutto analogo si potrebbe fare per le filiere della chimica, dell’alimentare e di tanti altri settori merceologici. Quindi, se si fermano le aziende energivore, che sono il “canarino del minatore”, non si ferma solo la percentuale di aziende interessate direttamente dal caro-bolletta, ma anche l’indotto, per cui vi è una sorta di inquietante “effetto moltiplicatore”. E questo effetto sembra essere del tutto ignorato anche dagli studi degli organismi statali preposti!

Come raccontato a fine agosto da Piero Scandellari, presidente del Centergross di Bologna (la più grande area commerciale B2B europea della Moda Pronta italiana e dell’ingrosso), “abbiamo al nostro interno 680 aziende e già il 15 per cento di queste ci ha chiesto di staccare loro il gas. Sicuramente, molte devono ancora riaprire e siamo già a queste percentuali destinate a crescere. Ci aspettiamo sicuramente un intervento del Governo, ma è certo che il gas non ci sarà per tutti”.

Questi numeri rappresentano, però, solo la classica “punta dell’iceberg”, se si considera il fatto che per il prossimo autunno-inverno si presenta sempre più concretamente la necessità di un “lockdown energetico”, del quale peraltro poco trapela dal Governo, per quanto riguarda i dettagli operativi per famiglie e aziende, con una mancanza di programmazione, di comunicazione e, in generale, con una mala gestio che ricorda maledettamente quella della pandemia, già portata alla luce dal prof. Ricolfi nel suo saggio La notte delle ninfee e dal sottoscritto nelle analisi pubblicate dalla Fondazione Hume.

Inoltre, a causa degli insoluti di molte aziende, sempre più gli stessi fornitori di luce e gas o si rifiutano tout court di contrattualizzarle – nel qual caso finiscono alimentate, con sovraprezzi notevoli, dal cosiddetto “fornitore di ultima istanza” – oppure richiedono al cliente una fideiussione a garanzia, come racconta il già citato Scandellari: “l’ENI ci ha chiesto una fideiussione sulla metà di quelli che sono i nostri consumi medi annui, cioè 2,5 miliardi di metri cubi. E la vogliono nel giro di una settimana!” [5].

L’impennata dei prezzi del gas colpisce soprattutto chi compra a spot, “ma sono saltate anche fonderie che avevano contratti fissi, per il fallimento di fornitori”, spiega Dario Zanardi di Assofond [24]. In questa tempesta, il rischio di fermo produttivo è reale: “Dipende da tre variabili: non ci fermiamo se la domanda tiene, se i clienti accetteranno gli aumenti e se non saranno imposti razionamenti. Siamo in balia degli eventi e rischiamo molto, proviamo una grande frustrazione, in nostro potere non c’è nulla”. Insomma, è sempre più chiaro che il tessuto economico italiano questa volta rischia davvero di saltare.

Il “lockdown energetico” atteso per aziende, famiglie e Comuni

I siti di stoccaggio del gas quasi pieni consentono un qualche margine di sicurezza per i mesi invernali ma non sono risolutivi. Il Governo Draghi sta perciò preparando un piano su tre livelli di emergenza a seconda dell’aggravarsi della situazione [10] e, come altri paesi europei, si prepara al razionamento dell’energia, che verrebbe attuato sotto forma di una sorta di “lockdown energetico”, volto (si spera) a scongiurare l’incubo di blackout prolungati, che provocherebbero danni economici e sociali ancor maggiori.

Tra le misure del piano già scattate, c’è la riduzione della temperatura negli uffici pubblici, che non potrà essere superiore ai 19°C in inverno e inferiore ai 27°C in estate, cui si aggiungerà il taglio di un’ora nella durata di esercizio degli impianti ma, in caso di peggioramento della situazione, i tagli dovrebbero essere più drastici. Tuttavia, il contributo effettivo di tali misure è del tutto marginale, poiché è ben noto (fonte DOE [15]) che a una riduzione di 1°C sul termostato corrisponde un risparmio di appena l’1%!

Il piano potrebbe poi introdurre una riduzione di 2°C della temperatura nelle case limitando l’orario di accensione del riscaldamento in inverno (una misura nella pratica assai difficile da far rispettare, se non nei condomini dotati di riscaldamento centralizzato) e chiedendo ai Comuni di ridurre l’illuminazione pubblica nelle strade e sui monumenti fino al 40% dei consumi totali (anche in questo caso il contributo effettivo di questa misura è relativamente ridotto, e limitato praticamente ai soli orari notturni).

Al tempo stesso, gli uffici pubblici potrebbero chiudere in anticipo e anche ai negozi potrebbe essere chiesto di chiudere entro le 19 mentre i locali non dovrebbero rimanere aperti oltre le 23. In questo caso, quindi, si tratterebbe di un vero e proprio “lockdown” che non avrebbe nulla da invidiare a quello messo in atto durante la pandemia e che economicamente tanto male ha fatto a tutte le attività imprenditoriali. Reiterarlo, quindi, rende più facile immaginare il possibile disastro che si va prospettando. E tutto ciò potrebbe essere perfino insufficiente, in caso di chiusura totale del flusso di gas russo.

I rischi maggiori, tuttavia, riguarderebbero le industrie energivore, con la possibilità di subire un’interruzione della fornitura per un periodo limitato di tempo. Infatti l’Italia – come del resto altri paesi europei e non – ha da tempo implementato dei sistemi di incentivazione per aziende con grandissimi consumi, che accettano l’attivazione di un sistema transitorio di “interrompibilità energia elettrica” e “interrompibilità gas”. A fronte dell’eventualità di un’interruzione dell’approvvigionamento di energia elettrica e gas, l’azienda riceve dal Ministero un rimborso proporzionale al consumo.

L’esistenza di un piano siffatto, però, non vuol dire che le aziende e le famiglie, il prossimo autunno-inverno, siano al sicuro da guai ancora peggiori. Infatti, oltre al previsto ulteriore raddoppio degli importi delle bollette e al razionamento dell’energia, vi è comunque il rischio di possibili blackout elettrici improvvisi o imprevisti. Questo perché le reti di distribuzione sono complesse e non facili da gestire, sia per quanto riguarda l’interrompibilità (del gas) sia per quanto riguarda il distacco e il ripristino (dell’elettricità), in caso di squilibrio fra la potenza elettrica richiesta e quella disponibile in un dato momento.

Di recente, la premier francese Elisabeth Borne, intervistata dal canale tv TMC, ha avvertito che, se l’inverno sarà molto freddo, sarà necessario staccare la corrente a rotazione – per periodi di “non più di due ore” – alle abitazioni [19]. E, se ciò è quanto succederebbe in un Paese dotato di decine di centrali nucleari (dalle quali dipende per la produzione di circa il 67% della propria elettricità, mentre dal gas dipende appena per il 7%, da confrontarsi con il circa 40% dell’Italia), non è difficile immaginare per il nostro Paese uno scenario di blackout programmati del tutto simile o potenzialmente ben peggiore.

L’aumento impressionante del prezzo dell’elettricità in Italia negli ultimi mesi, all’interno di un arco di 3 anni (in alto) e degli ultimi 12 anni (in basso), a cui i due grafici si riferiscono. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice Ipex della Borsa elettrica italiana Si noti come anche in questo caso, come per il gas, l’aumento sia stato di quasi 10 volte rispetto ai livelli pre-crisi. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

In Kosovo, uno dei paesi più poveri d’Europa, i blackout programmati sono già una realtà: la corrente si interrompe per 120 minuti (ovvero 2 ore) ogni 6 ore, risparmiando solo infrastrutture critiche come ospedali e alcune industrie [22]. Ciò potrebbe rivelarsi un preludio di quanto accadrà in seguito per le zone più ricche d’Europa. “Mantenere le luci accese quest’inverno sarà molto più impegnativo di quanto i governi europei ammettano”, ha dichiarato di recente un esperto. Chi è coinvolto nel settore sa che purtroppo ormai “è questione di quando, e non se, si verificherà un’escalation della crisi”.

“Il gestore della rete finlandese, in un raro esempio del tipo di trasparenza di cui c’è assolutamente bisogno, già ad agosto ha detto ai cittadini di prepararsi alle carenze quest’inverno. I governi europei hanno il dovere di chiarire con i loro elettori l’entità della crisi in arrivo. Ridurre al minimo la portata del problema o, peggio, fingere che non ci sia un problema, non manterrà la corrente in funzione questo inverno”, osserva Javier Blas, che scrive di energia e materie prime per Bloomberg.

Tuttavia, non è detto che in Italia si arrivi al razionamento ed ai blackout programmati. Questa potrebbe sembrare una buona notizia, ma non lo è, perché probabilmente significherebbe che siamo finiti nello scenario peggiore: quello per cui un grande numero di aziende, oltre a quelle più energivore, sono costrette a chiudere i battenti per sempre o, quanto meno, a fermare la produzione per alcuni mesi, con tutto quello che ciò comporta. Insomma, paradossalmente, il conseguente calo dei consumi di gas e di elettricità, insieme a quello delle famiglie costrette a consumare meno, potrebbe forse evitarci il lockdown. Non è fantasia: già a luglio, in Italia i consumi elettrici industriali sono crollati del 12% [42].

Nelle proiezioni macroeconomiche per l’economia italiana fornite a giugno dalla Banca d’Italia [14], le conseguenze per le attività economiche, nello scenario della sospensione della fornitura del gas dalla Russia a partire dai mesi estivi, sono esaminate nello “scenario avverso”. Poiché per l’Italia tale sospensione sarebbe solo parzialmente compensata ricorrendo ad altre fonti, nel documento si assumono inoltre le seguenti ipotesi: un impatto diretto di tale interruzione, in particolare sulle attività manifatturiere più energivore; un significativo aumento dei prezzi delle materie prime energetiche.

Ebbene, in queste ipotesi, per il PIL la Banca d’Italia prevede una crescita media praticamente nulla nel 2022, ed in calo di oltre 1 punto percentuale nel 2023. E probabilmente – come vedremo fra poco – queste stime sono perfino ottimistiche, poiché verosimilmente non tengono conto di tutta una serie di fattori, alcuni dei quali accennati nel presente articolo. È chiaro che più si riuscirà a limitare l’impiego di gas e più si riuscirà a contenere anche l’ascesa dei prezzi, ma nel frattempo le aziende rischiano di andare gambe all’aria una dopo l’altra, come in un domino; per cui, altro che -1% di PIL!

Infine – per completare il quadro – il presidente dell’ Anci (Associazione nazionale Comuni italiani), Decaro, e quello dell’Upi (Unione province italiane), De Pascale, hanno affermato in una dichiarazione congiunta che “è indispensabile che fra i provvedimenti urgenti del Governo sia compresa una misura di sostegno per i Comuni e le Province, in assenza della quale i bilanci degli enti locali sono destinati a saltare. È necessario uno stanziamento straordinario di almeno altri 350 milioni di euro per compensare l’impennata delle nostre spese energetiche, altrimenti i sindaci saranno costretti a tagli dolorosi dei servizi pubblici” [18].

I rischi socio-economici legati al possibile superamento di “soglie critiche”

La fornitura dell’energia nei 27 paesi dell’Unione Europea (escluso il Regno Unito) dipende essenzialmente da petrolio (33%, praticamente tutto importato), gas (24%, principalmente importato) e carbone (12%, principalmente importato) [8]. Altre fonti includono le rinnovabili (domestico), nucleare (essenzialmente domestico, poiché il combustibile stesso è una piccola parte del costo totale) ed elettricità importata. La Russia è per l’UE un importante fornitore di tutti e tre: petrolio, gas e carbone.

La discussione precedente ha chiarito che, a seconda di molti fattori – sia quelli che influenzano le decisioni russe sia quelli che influenzano la scelta e l’intensità delle sanzioni – vi è una sostanziale incertezza sulla futura evoluzione dei prezzi del gas, del petrolio e, di conseguenza, dei carburanti nell’Unione Europea. Il nostro Paese, però, anche a causa delle pessima gestione della pandemia da parte degli ultimi due Governi (di cui ho analizzato l’impatto sulle imprese in un mio precedente articolo [3]) non può permettersi ulteriori shock economici per aziende e famiglie, perché le prime rischierebbero l’estinzione.

Anzi, ora si rischia sul serio un’“estinzione di massa” come quelle verificatesi in passato sulla Terra, portando alla scomparsa di una frazione rilevante delle specie animali. Ma, nel caso dell’Italia, il danno non si fermerebbe alle estinzioni in sé di imprese e attività commerciali (ed alla perdita di occupazione associata), bensì si accompagnerebbe a maggiori rischi sistemici e ad una maggiore povertà. Infatti, i sussidi del Governo Conte alle imprese hanno comportato un enorme aumento del debito pubblico e, al tempo stesso, i prestiti garantiti dallo Stato hanno prodotto un forte aumento del debito privato.

Attualmente, come osservato da Antonio Patuelli, presidente dell’Associazione bancaria italiana [10], “è in corso un gravissimo terremoto finanziario, perché il prezzo del gas sta continuamente moltiplicandosi, il che rischia presto di creare una grave esplosione dei costi per le imprese, con il conseguente rischio di una spirale di crisi aziendali, quindi finanziarie e occupazionali”. Né più né meno di quanto avevo prospettato già nell’aprile 2021, a un livello di dettaglio molto più spinto, in un altro mio articolo sul “boom dei prezzi” e sulla “tempesta perfetta” per l’Italia [11], al quale rimando dunque il lettore interessato.

Oggi il rischio di fallimenti a catena di imprese e di istituti bancari è tutt’altro che irrealistico, e un ulteriore shockbancario e creditizio sarebbe per l’Italia insostenibile. Il successivo downgrade del rating dei Titoli di Stato italiani potrebbe completare l’opera, poiché sarebbe di fatto come il crollo di una diga. Del resto, già a ottobre 2020, il Governatore della Banca d’Italia Visco metteva in guardia gli Istituti di credito dalla nuova ondata di credi deteriorati [41]. Ed a novembre 2020 la BCE dichiarava: “Probabili fallimenti bancari dopo la pandemia”. Ora, con la crisi energetica, il rischio è rinnovato, ma è anche moltiplicato di entità.

Confronto tra (1) la rapida successione di fasi che ha portato nel 2007-08 dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione e (2) la possibile crisi catastrofica che potrebbe essere innescata da un grande numero di fallimenti fra imprese e soggetti economici privati sommato al downgrade del rating dei Titoli di stato italiani. In questo scenario, si rischierebbe il default di banche sistemiche e il “contagio” (principalmente via derivati) ad altri Paesi, per cui si potrebbe precipitare rapidamente in una situazione da incubo, potendosi attivare la “bomba nucleare” dei derivati a cui farebbero da “detonatore” i precedenti default bancari. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Se il Governo non interviene, le aziende o scaricano i costi sui clienti o sospendono l’attività. Perciò Confcommercio ha chiesto al Governo di potenziare immediatamente il credito d’imposta anche per le imprese non energivore e non gasivore [25]. Un credito d’imposta del 15% per l’energia elettrica non è assolutamente adeguato agli extra-costi che le imprese stanno sostenendo ora. Occorre portarlo al 50%, ma presto, altrimenti si rischia d’innescare anche una spirale inflazionistica destinata a gelare i consumi. Il Governo, però, partorisce solo “pannicelli caldi”, e intanto qualcuno guadagna alle spalle di altri.

Infine, sebbene tutti gli italiani stiano sperimentando un aumento del costo della vita, l’energia rappresenta una quota maggiore dei budget di alcune famiglie rispetto ad altre, quindi lo shock energetico rischia di amplificare le disuguaglianze esistenti. Se a ciò si aggiunge l’aumento della criminalità e del degrado portato dalla mala gestio dell’immigrazione clandestina, è facile capire come il tessuto sociale italiano si avvicini sempre più pericolosamente verso livelli di lacerazione, o “punti di rottura”. E purtroppo nessuno sa dove si collochino esattamente le soglie critiche nei sistemi sociali ed economici.

Peraltro, pochi italiani sanno – perché nessuno glielo dice – che chi è in regola con le bollette elettriche deve oggi pure coprire alcuni buchi lasciati dai morosi: si tratta del cosiddetto “Cmor” o “corrispettivo morosità”. È questo, in sintesi, il contenuto di una delibera, la 50/2018, emanata dall’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (Arera), che il 1° febbraio 2018 ha emanato un provvedimento che assegna ai consumatori – e non ai fornitori dell’energia – l’onere di rifondere i debiti per gli oneri generali di sistema accumulati dai morosi verso le aziende fornitrici a partire dal 1° gennaio 2016.

Gli oneri di sistema, dunque, devono sempre essere pagati dai fornitori di energia elettrica all’Authority che li ha decisi, anche sulle bollette non pagate per morosità o per altri motivi. Per ora, l’ Authority ha deciso di accollare a tutti i consumatori solo una parte degli oneri non pagati, pari a 200 milioni. E quindi, su bollette elettriche già cariche di oneri, da qualche anno si è aggiunto un nuovo prelievo a carico di chi paga regolarmente. Certo, in questi mesi gli oneri di sistema sono stati tagliati dalle bollette elettriche di famiglie e aziende con i decreti del Governo, ma questa misura è solo temporanea.

Già nel 2018, si stimava attorno al miliardo di euro l’insoluto totale delle bollette elettriche non pagate dai morosi [33]. Prima di allora, diverse aziende elettriche erano entrate in crisi, e qualcuna aveva addirittura dovuto chiudere i battenti, per questo il Governo intervenne introducendo il Cmor. D’altra parte, poiché la coperta evidentemente è corta, qualcuno dovrà pur pagare i crescenti insoluti dei clienti: se non i consumatori, le aziende fornitrici di elettricità (sempre più a rischio fallimento, come dimostravano già i numerosi default dello scorso anno in Cina, in Gran Bretagna e in altri paesi) o il Governo.

I leader europei dovrebbero dunque prendere atto del fatto che applicare sanzioni contro la Russia sul gas e sul petrolio è stata una scelta “improvvida”, per usare un gentilissimo eufemismo. L’Europa occidentale ha deciso di suicidarsi, in un senso che appare sempre meno metaforico e sempre più letterale. I nostri politici devono scegliere: o due anni di recessioni e probabili default a catena (forse pure di paesi) o addio sanzioni. E intanto l’Ungheria, membro dell’UE, si accorda con Gazprom [29] per avere 5,8 milioni di metri cubi al giorno in più (poco meno di un terzo di quanti ne riceveva l’Italia a fine agosto!).

Cosa potrebbe succedere e perché vedo il futuro dell’Italia assai “nero”

Credo che a questo punto risulti piuttosto evidente al lettore che, qualora si superassero determinate soglie critiche per il perseverare di scelte improvvide, e nell’incapacità di rimediare in tempi brevi agli errori fatti in precedenza, si potrebbe lacerare in modo irreparabile il tessuto economico e sociale del nostro Paese, innescando una spirale di effetti a catena difficile da arginare e con effetti potenzialmente sistemici. Peccato, però, che l’Italia sia too big to fail, non sia la piccola Grecia condannata da Draghi & Co.!

Le avvisaglie di ciò che nel giro di un anno potrebbe succedere nel nostro Paese in questa situazione sempre più potenzialmente esplosiva all’estero ci sono già. E non mi riferisco al movimento contro il caro-vita Don’t pay UK, nato nel Regno Unito e che spinge affinché le famiglie si rifiutino di pagare le bollette a partire da ottobre [27]. Infatti, il mancato pagamento comporterebbe seri rischi, tra cui l’accumulo di debiti e l’impatto sui punteggi di credito dei clienti; pertanto, un’iniziativa del genere “funzionerebbe” solo se vi aderisse un numero di persone elevato, ben più dei circa 100.000 del Regno Unito.

Lo spread BTP-Bund è in forte risalita, dopo un breve periodo di stabilizzazione su bassi livelli. Che valori raggiungerebbe se si verificassero gli scenari più pessimistici a seguito della crisi energetica o se le famiglie italiane smettessero in massa di pagare le bollette luce e gas per i costi insostenibili? Infine, è da considerarsi un caso che lo spread abbia toccato il minimo degli ultimi 5 anni con il Governo Conte e abbia iniziato un’inversione di tendenza (cioè una salita) da quel minimo proprio in coincidenza con l’insediamento del Governo Draghi?

Penso, piuttosto, alle dimostrazioni di massa e rivolte che ci sono in diversi paesi sudamericani, in Egitto e perfino in Olanda, nel silenzio dei giornali italiani. Ma, come spiegano Becchi & Zibordi [28], “l’esempio più eclatante dell’effetto distruttivo sulle vite umane delle politiche delle élite occidentali lo si è visto nello Sri Lanka, che oggi è nel caos. La ragione dichiarata è che la nazione è in bancarotta, soffrendo la peggiore crisi finanziaria degli ultimi decenni e milioni di persone stanno lottando per trovare cibo, medicine e carburante. La carenza di energia e l’inflazione sono stati i principali fattori alla base della crisi”.

Come raccontano gli autori del pezzo, “i manifestanti hanno fatto irruzione nelle residenze ufficiali del Primo Ministro e del Presidente, che per paura sono fuggiti”. I leader politici del Paese avevano seguito alla lettera le direttive delle élite “verdi” occidentali che chiedevano agricoltura biologica sostenibile, seguendo criteri ambientali, sociali e di governance rivolti a ridurre la CO2 (di cui sono pieni anche i piani dell’UE). Inoltre, là il lockdown dovuto al Covid-19 è stato imposto in modo drastico (vi ricorda qualcosa?), sempre perché i leader del Paese erano allineati con le direttive dell’OMS e degli Stati Uniti.

In pratica, nell’aprile 2021 in Sri Lanka sono stati vietati i fertilizzanti sintetici, usati dal 90% degli agricoltori locali, e così successivamente l’85% di questi ha subito perdite di raccolto, con un crollo nella produzione di riso e un aumento dei prezzi del 50% in sei mesi. Il prezzo di carote e pomodori è aumentato di cinque volte. Alla fine dello scorso agosto, il presidente Rajapaksa aveva dichiarato lo stato di emergenza e, dopo di allora, il caos e la violenza sono aumentati fino a quando i leader sono tutti dovuti scappare e nelle loro ville campeggiano ora i manifestanti. La miccia di tutto? Una scelta politica improvvida.

Come, del resto, improvvide sono le sanzioni attuate nei confronti della Russia dai paesi europei, che non hanno valutato il rapporto rischi-benefici delle singole misure che stavano andando ad applicare, esattamente come – non molti mesi prima – non avevano neppure lontanamente valutato il rapporto rischi-benefici (che oggi sappiamo essere certamente sfavorevole per le persone non anziane e prive di co-morbidità) dei vaccini anti-Covid, di fatto imposti ai cittadini europei ed in particolare a quelli italiani. Insomma, di questa Europa c’è davvero da avere paura quando si tratta di questioni vitali.

Peraltro, la Russia ha guadagnato moltissimo dalle sanzioni dell’UE sul gas e sul petrolio, dato che queste hanno fatto impennare i relativi prezzi di mercato, e di certo gli acquirenti asiatici che possano sostituire in buona parte quelli europei non mancano. Quindi, anche da un punto di vista strettamente logico, perseverare con queste sanzioni dimostra la totale mancanza di buon senso di chi prende queste decisioni. Del resto, la mancanza di buon senso – e un notevole livello di ignoranza – si nota anche nel dibattito della politica su questi temi, il che non fa certo ben sperare nella soluzione dei problemi impellenti.

L’Italia si distingue sempre nel panorama europeo. Ho ancora nella mente un articolo [30] in cui i ristoratori di Lucca esprimono la loro rabbia per il caro-bollette, ma non per l’aumento in sé – o meglio non solo per quello – ma soprattutto per il fatto che, a causa di vincoli della Soprintendenza, viene loro impedito di installare i pannelli fotovoltaici che permetterebbero di salvare le loro attività. Ma è veramente incredibile vedere come in tutti questi mesi il Governo e il Ministro competente in materia non abbiano trovato il modo di rimuovere tali ostacoli, favorendo concretamente la transizione alle rinnovabili.

Ancora una volta, in effetti, si è vista la cecità del Governo nell’affrontare un maxi-problema, già vista con la pandemia. Esattamente come in quel caso si è scelta una gestione una gestione “centralizzata” e in sostanza monotematica – somministrazione di vaccini ignorando praticamente del tutto l’esistenza di farmaci efficaci in fase di prevenzione e di cura, snobbando così le cure domiciliari – oggi con il caro-bollette Governo e Ministero non fanno informazione sulle possibili soluzioni di risparmio energetico, né spingono la popolazione ad adottarle, pensando che siano sufficienti le soluzioni “calate dall’alto”.

Già nel caso del Covid abbiamo visto che puntare solo sulle soluzioni calate dall’alto – vaccini e anticorpi monoclonali, questi ultimi soltanto per Massimo Galli ed i pochi fortunati che hanno potuto usufruirne – non solo non ha evitato un gran numero di morti per Covid e per effetti avversi, ma addirittura si è rivelato un boomerang, se si considera che gli effetti avversi dei vaccini potrebbero essere anche largamente sottostimati perché a lungo termine, se non addirittura trans-generazionali. Con l’energia si sta ripetendo pari pari lo stesso errore, invece di coinvolgere la popolazione per un’azione anche dal basso.

Eppure, basta leggere il mio precedente articolo sul tema [31] per avere già alcuni esempi delle tante cose che le persone potrebbero fare per risparmiare notevolmente sulla spesa energetica (ad es. su quella per il riscaldamento invernale, che ne costituisce la voce principale). Ma se le persone non le si informa, come potranno mai contribuire alla rapida soluzione del problema energetico, che non lascerà a famiglie e ad aziende il tempo per attendere molte delle soluzioni “calate dall’alto”? In tale mancanza di informazione, purtroppo, anche i media hanno un ruolo, poiché sono quasi del tutto latitanti.

I meccanismi di formazione dei prezzi e le soluzioni adottate in altri Paesi

La struttura del mercato del gas può oggi essere vista come costituita da una Russia monopolista di fronte a un gran numero di acquirenti dell’UE che possono acquistare gas da altre fonti, ma solo a un costo in forte aumento. Come detto, anche in assenza di sanzioni, la Russia potrebbe voler aumentare il suo prezzo e ridurre l’offerta. Ciò, però, non spiega perché gli italiani paghino ora delle bollette gas e luce salatissime, quando il gas venduto loro – o usato per produrre elettricità – è stato in buona parte acquistato dai big player con contratti a medio o lungo termine, cioè a prezzi ben più bassi di quelli attuali.

Il gas è utilizzato fondamentalmente nella generazione di elettricità (per circa 1/3), per industria e servizi (circa 1/3) e per famiglie (un po’ meno di 1/3). È molto sostituibile in alcuni dei suoi usi (l’elettricità generata dal gas può essere sostituita da elettricità generata da altre fonti), ma assai meno per alcuni altri (un sistema di riscaldamento a gas non può bruciare petrolio o carbone). In media, Il gas russo rappresenta l’8,4% della fornitura di energia primaria nell’UE, ma ci sono ampie variazioni tra gli Stati: il Portogallo non importa gas dalla Russia, mentre l’Italia nel 2021 ne importava circa il 40% del suo fabbisogno.

Rispetto alla media della UE, il mix energetico italiano nel periodo pre-crisi si contraddistingueva per una quota maggiore di energia prodotta con il gas naturale e un peso minore di quella prodotta con il carbone e altri combustibili fossili solidi, oltre che per l’assenza di energia nucleare. Con particolare riferimento alla generazione elettrica, dal gas naturale si ottiene fino al 50% dell’elettricità prodotta nel Paese, contro il 20% circa dell’UE [35]. Pertanto, il nostro Paese dipende fortemente dal prezzo del gas, ed è interessante capire il meccanismo attraverso il quale esso si ripercuote sulle maxi-bollette di gas e luce.

A Rotterdam, esiste un mercato (il TTF) in cui viene trattata solo una piccola percentuale del gas consumato in Europa: quello che arriva per nave liquefatto (ad es. dagli USA) e che in buona parte non è soggetto a contratti a lungo termine [17]. Questo è un mercato cosiddetto “spot”, cioè dove compri e vendi ogni giorno. È solo il prezzo al TTF che nell’ultimo anno è esploso, ma esso rappresenta una piccola parte del gas totale che ci arriva ed è consumato. Tuttavia, anche tutto il resto del gas (e di conseguenza) l’elettricità venduti all’ingrosso sono esplosi di prezzo seguendo il piccolo mercato olandese. Perché?

Semplice, poiché è in atto una speculazione bella e buona (specie da parte di grossisti e big player), come messo in evidenza sia dal sottoscritto in una lunga e dettagliata analisi [26, 31], sia da Becchi & Zibordi [17], i quali osservano come “il prezzo dell’80 o 90% del gas che ci arriva via gasdotto non sia in realtà variato” (in quanto acquistato anni prima con contratti a medio o lungo termine). Ma è difficile – oltre che del tutto insufficiente per mettere un freno a questo andazzo – ottenere un tetto europeo al prezzo del gas come ha chiesto l’Italia. Le resistenze della Germania e dell’Olanda, infatti, non sembrano superabili.

Nel caso dell’elettricità, a questo effetto speculativo si somma poi il meccanismo di formazione del prezzo sulla Borsa elettrica, che è il cosiddetto criterio del prezzo marginale [4]: le offerte di energia elettrica vengono accettate in ordine di prezzo crescente, fino a quando la loro somma in termini di kWh arriva a soddisfare la domanda, dopodiché il prezzo del kWh dell’ultimo offerente accettato (quindi quello più alto) viene attribuito a tutte le offerte. Questo meccanismo andava bene trent’anni fa, quando le rinnovabili avevano una quota marginale, ma certamente non più oggi; oltretutto, anche i costi di produzione delle centrali idro-elettriche sono ora molto più bassi di quello del gas.

Il perverso criterio del prezzo marginale nella formazione del prezzo giornaliero alla Borsa elettrica, che fa piacere soprattutto ai produttori di elettricità che posseggono grandi impianti a fonti rinnovabili ma molto meno al consumatore finale. (fonte: G.B. Zorzoli / Quale Energia [43])

L’Unione Europea – seppure con grande e colpevole ritardo – sta perciò lavorando al “disaccoppiamento” dei prezzi dell’energia elettrica da quelli del gas, come da tempo richiesto da Spagna, Portogallo (che usano pochissimo gas e molte rinnovabili per produrre energia elettrica), Francia (che usa soprattutto il nucleare), e ora anche dalla Germania [40]. Così si impedirebbe alla Russia di dettare all’Europa i prezzi dell’elettricità con l’interruzione parziale o totale delle forniture di gas, sebbene non ci si potesse certo ingenuamente aspettare che Putin reagisse in modo diverso alle durissime sanzioni inflitte al proprio Paese.

Oltretutto, per le aziende esiste un tema di competitività sia rispetto alle imprese europee che extra-europee, che godono di prezzi energetici inferiori ai nostri. Alcuni Paesi hanno introdotto importanti agevolazioni che noi invece non abbiamo. Ad es. la Bormioli ha uno stabilimento in Spagna che, grazie al tetto al prezzo del gas introdotto dal Governo spagnolo, si rifornisce a prezzi molto più bassi di quelli italiani [32]. L’unica soluzione di rapida attuazione sarebbe quella di introdurre un tetto al prezzo del gas. In assenza di interventi, sia a livello europeo che nazionale, avremo un autunno di forti tensioni sociali.

Sia la Spagna che il Portogallo traggono oggi i frutti di un tetto massimo del costo del gas che è stato di recente introdotto in entrambi i paesi [39]. Il prezzo massimo è stato concordato dalla Commissione Europea (ottenendo nel contempo l’Autorizzazione a disconnettere temporaneamente la Penisola iberica dal mercato elettrico dell’UE) e il prezzo del gas utilizzato per la produzione di energia elettrica è stato fissato a 40 euro per MWh. Tenendo conto degli aumenti in corso, che probabilmente saranno necessari, si prevede che il limite di prezzo raggiungerà una media di 50 € nei prossimi 10 mesi. Il governo spagnolo si è assicurato un accordo sul fatto che rimarrà in vigore fino al 31 maggio 2023.

Spagna e Portogallo occupano una posizione unica all’interno dell’UE, perché non dipendono dalle forniture russe per il loro gas naturale come altre nazioni. La loro posizione geografica significa che importano la maggior parte delle loro forniture di gas dall’Algeria e da altri paesi. Altri vantaggi unici di Spagna e Portogallo sono che la Spagna è il paese con la più grande capacità di stoccaggio e rigassificazione del gas in Europa (ha ben 6 rigassificatori) e che il Portogallo è un leader nel settore delle energie rinnovabili nel mercato europeo. Producono una notevole quantità di energia solare, idraulica ed eolica.

Entrambe le nazioni hanno forniture energetiche incredibilmente autosufficienti. A causa della loro posizione vantaggiosa, si sono definiti un’“isola dell’energia”. Sia il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez che il suo omologo portoghese António Costa hanno utilizzato proprio questo termine. I due paesi rappresentano dunque un esempio virtuoso da seguire (la Spagna, fra l’altro, lo è stato anche nella gestione della pandemia, dove ha avuto molti meno morti e contraccolpi economici non introducendo alcun Green Pass). Dunque, questi due paesi oggi risentono ben poco della crisi energetica.

Anche la Francia si è mossa con intelligenza per risolvere il problema. Ha chiesto alla principale società elettrica di limitare l’aumento dei prezzi al 4% per il 2022 e fino a soddisfare la domanda a quel prezzo, chiedendo così all’azienda di assorbire una buona parte del costo, determinando una forte diminuzione anticipata dei flussi di cassa e una grande diminuzione del valore di mercato [8]. Ciò comporta un’inefficienza, in quanto il prezzo è inferiore al costo marginale, ma consente un aumento ampio del surplus del consumatore, a costo di una maggiore diminuzione del surplus del produttore.

L’Italia, invece, ha scelto strade inadeguate sia rispetto al tipo sia alla portata del problema. Infatti, ha puntato, da una parte, su una sorta di “sussidi” (peraltro non automatici) per le fasce più povere – ma i sussidi non diminuiscono la domanda di energia, contribuendo così a mantenere alti i prezzi dell’energia [8] – e, dall’altra, sulla tassazione del 25% degli “extraprofitti” delle società del settore energetico, rivelatasi un vero e proprio “flop”, con solo 1 miliardo incassato a fronte dei circa 5 previsti. Peraltro, un’aliquota del 25% è ridicolmente bassa. E meno male che quello di Draghi era il Governo dei “migliori”!

Qualche suggerimento non richiesto ai nostri futuri governanti

I rischi per il nostro Paese credo che siano stati ben illustrati in questo mio articolo, e dipenderanno dalle soluzioni attuate o meno nel frattempo. Nel breve periodo, come sottolineato dalla Relazione annuale della Banca d’Italia [34], “la possibilità di ricorrere a fornitori alternativi è limitata ai paesi già collegati attraverso gasdotto (Algeria, Azerbaigian, Libia, Norvegia e Paesi Bassi) e alle importazioni via nave di gas naturale liquefatto, tenendo conto della capacità di rigassificazione degli impianti esistenti. Nel medio periodo, un contributo essenziale potrà derivare da maggiori investimenti in fonti rinnovabili”.

In realtà, gli investimenti e gli investitori nelle rinnovabili in Italia ci sarebbero, ma sono bloccati a livello autorizzativo. La soluzione per aumentare l’indipendenza energetica e ridurre la bolletta elettrica è l’installazione di 60 GW di nuovi impianti da fonti rinnovabili nei prossimi tre anni, come spiegato [36] dal presidente di Elettricità Futura, Agostino Re Rebaudengo, il quale chiede al Governo di “autorizzare 60 GW di nuovi impianti da rinnovabili, pari a solo un terzo delle domande di allaccio già presentate a Terna. Essi faranno risparmiare 15 miliardi di Smc di gas ogni anno, ovvero il 20% del gas importato!”.

Questi 60 GW di nuove installazioni – che, darebbero un contributo oltre 7 volte superiore rispetto a quanto il Governo stima di ottenere con l’aumento dell’estrazione di gas nazionale – potrebbero provenire per 12 GW da eolico, idroelettrico e bioenergie e per 48 GW dal fotovoltaico. Se poi per ipotesi i 48 GW di fotovoltaico fossero tutti realizzati su superficie agricola, si utilizzerebbe appena lo 0,3% della superficie totale, oppure l’1,3% della superficie agricola già oggi abbandonata. Peraltro, gli impianti agrovoltaici previsti non sottrarrebbero neanche un metro quadrato di terreno!

Ciò in attesa degli accumuli elettrici (2025) e dell’eolico off-shore per aumentare la stabilità della rete. I costi di produzione di energia attraverso le rinnovabili, fra l’altro, sono calati moltissimo nell’ultimo decennio [37]: “Tra il 2010 e il 2021 i costi di produzione dell’elettricità degli impianti fotovoltaici si sono ridotti dell’88 %, mentre nello stesso periodo i costi di produzione degli impianti eolici si sono ridotti del 68%. Dati gli elevati costi di produzione dell’energia legati all’aumento del prezzo del gas, in Europa nel 2022 la produzione di energia da fonti rinnovabili è stata nettamente meno costosa”.

Già oggi le aziende che hanno investito per aumentare l’autosufficienza energetica, puntando sull’autoproduzione di energia attraverso il solare, “stanno godendo di un guadagno di competitività clamoroso verso i concorrenti”. Chi menziona il nucleare di nuova generazione come soluzione del problema energetico probabilmente non sa che una centrale nucleare impiega in media circa 14 anni e mezzo per essere costruita [38], dalla fase di progettazione fino alla messa in funzione. Pertanto, occorre puntare forte sulle rinnovabili, rimuovendo soprattutto i vincoli burocratici e amministrativi.

Da gennaio a giugno, invece, in Italia – come spiega un esperto [42] – “sono stati autorizzati grandi impianti per appena 2 GW, mentre avrebbero dovuto essere come minimo 10 volte tanto. Nel nostro Paese c’è ancora un grave problema di iter amministrativo e autorizzazioni. Questo stallo dipende prevalentemente dall’incapacità dello Stato di conciliare lo sviluppo delle rinnovabili con le strutture amministrative regionali e con il Ministero dei beni culturali. La procedura ‘VIA’ nazionale è di fatto bloccata, e le Regioni approvano a macchia di leopardo in maniera umorale. Gli unici impianti eolici di grande taglia sono stati autorizzati direttamente per firma del presidente del Consiglio. Vogliamo affrontare la crisi cosi?”.

Non c’è più spazio per il gas nel nostro sistema energetico verso la neutralità climatica: il gas continuerà a ricoprire un ruolo di accompagnamento della transizione energetica ma dovrà ridursi del 30% entro il 2030, in tutte le tipologie di consumo (per il riscaldamento, per i processi industriali, etc.) ma soprattutto nella generazione elettrica, perché è lì che disponiamo già in abbondanza di una alternativa sicura, efficace ed economica: le fonti rinnovabili, appunto, cui si aggiungeranno in futuro le rinnovabili basate sulle LENR (Low Energy Nuclear Reaction), che sembrano uscite da un libro di fantascienza ma sono reali.

Inoltre, non è pensabile di risolvere il problema energetico italiano agendo su solo uno o due fattori. Come illustrai a suo tempo in un mio lungo articolo [4], esistono ben 10 fattori che già prima della pandemia rendevano le bollette delle aziende e delle famiglie italiane fra le più care dell’Unione Europea. Frutto in molti casi di “favori” alle lobby di turno, negli anni sono state introdotte anche delle riforme che hanno disincentivato il passaggio alle fonti rinnovabili degli utenti. Quindi, se si vuole realmente prendere di petto la questione, occorre studiarsi per bene quelle 10 cause e intervenire sul maggior numero possibile.

Come osservato da Matteo Leonardi, co-fondatore e direttore esecutivo di ECCO, il think tank indipendente per il clima, il Governo Draghi ha tolto gli oneri di sistema dalle bollette elettriche “indipendentemente dai livelli di consumo e anche per le seconde case. Le misure per le famiglie sono quindi generiche e non selettive, mentre quelle per le imprese non sono sufficienti né pensate per soluzioni strutturali, di efficienza e produzione rinnovabile, anche impiegando le risorse del PNRR. Inoltre, il disaccoppiamento del prezzo del gas da quello dell’elettricità ha senso, ma solo se viene fatto non come misura di emergenza ma nell’ottica di una riformulazione complessiva del disegno del mercato elettrico” [42].

Si noti che il lockdown energetico (o “lockdown produttivo”) non si avrebbe solo in caso di futuri blackout programmati, ma si ha già ora per quelle attività produttive i cui costi dell’energia sono tali che esse sono costrette a fermarsi per non lavorare in perdita. Purtroppo, mi è capitato in più occasioni di rendermi conto che il dibattito pubblico su questi argomenti è viziato da una conoscenza della materia generalmente molto scarsa, il che rende difficile ai decisori politici di intervenire in maniera corretta, come abbiamo visto negli scorsi mesi con le misure adottate dal Governo, che non stanno evitando la morìa di imprese.

In più, abbiamo una carta stampata omologata (con poche lodevoli eccezioni), social network con la censura sempre pronta se non sei allineato, politiche sempre più coercitive e restrittive delle libertà, povertà in costante aumento, immigrazione incontrollata che aumenta la criminalità, il degrado delle città ed alimenta lo scontro sociale. Da arma di “distrazione di massa”, le fake news e le veline di regime veicolate dai media mainstream rischiano ora di diventare un’arma di “distruzione di massa” per il nostro Paese. Il tempo stringe, urge un’inversione di rotta, o arriverà presto la fine che tutti temiamo.

Mario Menichella (fisico e divulgatore scientifico) – m.menichella@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Guenette G.D. & Khadan J., “The energy shock could sap global growth for years”, Blog della World Bank, worldbank.org, 22 giugno 2022.

[2]  Office for National Statistics of the United Kingdom, “Energy prices and their effect on households”, ons.gov.uk, 1° febbraio 2022.

[3]  Menichella M., “Gli effetti della pandemia economica in Italia: perché la ‘variante imprese’ rischia di dilagare”, Fondazione David Hume, 10 febbraio 2022.

[4]  Menichella M., “Le 10 cause del caro-bolletta energetica italiano: anatomia di un disastro”, Fondazione David Hume, 10 gennaio 2022.

[5]  Raschi M., “Moltissime aziende ci hanno già chiesto di staccare il gas”, Il Resto del Carlino, 28 agosto 2022.

[6]  Redazione, “Confcommercio: a rischio 120mila imprese e 370mila posti”, askanews.it, 25 agosto 2022.

[7]  Benassy-Quere A., “Energy crisis: Europe by candlelight?”, tresor.economie.gouv.fr, 27 maggio 2022.

[8]  Blanchard O. & Pisani-Ferry J., “Fiscal support and monetary vigilance: Economic policy implications of the Russia-Ukraine war for the European Union”, piie.com, aprile 2022.

[9]  Battistini N. et al., “Energy prices and private consumption: what are the channels?”, European Central Bank, ecb.europa.eu, marzo 2022.

[10]  Giubilei F., “Il prezzo del gas va alle stelle. Verso un inverno con razionamento”, il giornale.it, 26 agosto 2022.

[11]  Menichella M., “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’”, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[12]  Germany Country Team dell’IMF, “Germany Faces Weaker Growth Amid Energy Concerns”, International Monetary Fund, imf.org, 21 luglio 2022.

[13]  Blake H. & Bulman T., “Surging energy prices are hitting everyone, but which households are more exposed?”, Ecoscope, oecdecoscope.blog, 10 maggio 2022.

[14]  Eurosystem Staff Economic Projections, “Macroeconomic Projections for the Italian Economy”, Banca d’Italia, 10 giugno 2022.

[15]  Crank J., “How Much Can You Save By Adjusting Your Thermostat?”, Direct Energy Blog, 10 aprile 2018.

[16]  Redazione, Feltrin “Senza misure contro caro-bollette, a ottobre black out filiera legno-arredo”, Italpress, 31 agosto 2022.

[17]  Becchi P. & Zibordi G., “Cosa c’è (davvero) dietro gli aumenti dell’elettricità”, nicolaporro.it, 26 luglio 2022.

[18]  Redazione ANSA, “Energia: Anci e Upi, altri 350 milioni o tagli ai servizi”, ansa.it, 31 agosto 2022.

[19]  Redazione, “Gazprom ferma il Nord Stream 1. Eni: ‘Consegne di gas ridotte’. La premier francese: ‘In inverno potremmo dover staccare la luce alle case’”, ilfattoquotidiano.it, 31 agosto 2022.

[20]  Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione, “Sbarchi e accoglienza dei migranti: tutti i dati – Cruscotto statistico del 1° settembre 2022”, interno.gov.it, 1° settembre 2022.

[21]  Cadeddu G., “Migranti, gli sbarchi in Italia dal 1997 al 2022: i dati del Viminale”, tg24sky.it, 12 maggio 2022.

[22]  Fotia F., “Escalation della crisi energetica, dai blackout in Kosovo all’allerta della Finlandia”, meteoweb.eu, 27 agosto 2022.

[23]  International Energy Agency, “How Europe can cut natural gas imports from Russia significantly within a year”, iea.org, 3 marzo 2022.

[24]  Giannoni A., “Industrie a rischio stop: ‘Energia, costi impazziti’”, il giornale.it, 1° settembre 2022.

[25]  Redazione, “Emergenza energia, ‘Occorre agire subito’”, confcommercio.it, 26 agosto 2022.

[26]  Menichella M., “Le speculazioni sul gas che stanno creando il caro-bollette. E le Authority stanno a guardare…”, Fondazione David Hume, 4 marzo 2022.

[27]  Allocca A., “’Non pagate più le bollette di gas ed elettricità’: in UK nasce il movimento contro il caro vita, londraitalia.com, 10 agosto 2022.

[28]  Becchi P. & Zibordi G., “Energia, inflazione, follie green: cosa imparare dalle rivolte in Sri Lanka”, nicolaporro.it, 11 luglio 2022.

[29]  Redazione ANSA, “Ungheria firma contratto con Gazprom, +5,8 mln metri cubi”, ansa.it, 31 agosto 2022.

[30]  “Caro bollette, la rabbia dei ristoratori di Lucca: ‘No ai pannelli solari perché l’area è protetta’”, tgcom24.mediaset.it, 30 agosto 2022.

[31]  Menichella M., “Le possibili soluzioni del problema del caro-bollette per evitare il ‘lockdown energetico’”, Fondazione David Hume, 9 maggio 2022.

[32]  Redazione, “Caro energia, il distretto del vetro e delle piastrelle verso il fermo: ‘Forni spenti in attesa che il governo intervenga. Da settembre i dipendenti saranno in cassa’”, ilfattoquotidiano.it, 31 agosto 2022.

[33]  Giliberto J., “Le bollette elettriche non pagate saranno (in parte) a carico degli altri utenti”, ilsole24ore.com, 14 febbraio 2018.

[34]  Redazione, “Gas russo, Bankitalia fa il punto: ‘Fino a oggi il 43% del gas in Italia importato da Mosca’”, globalist.it, 31 maggio 2022.

[35]  I4C – Italy for Climate, “L’Italia produce il 50% dell’elettricità da gas, la più alta in UE”, italyforclimate.org, 10 giugno 2022.

[36]  “Re Rebaudengo (Elettricità Futura) sul caro bollette: ‘Il Governo autorizzi 60 GW di nuovi impianti da FER entro giugno 2022’”, Solare B2B, 28 febbraio 2022.

[37]  “Caro energia, Ref ricerche: ‘Per l’area euro costo di almeno 500 miliardi. I settori energivori ridurranno la produzione a favore dei concorrenti extra Ue’”, ilfattoquotidiano.it, 29 agosto 2022.

[38]  Jacobson M.Z., “Le 7 ragioni per cui l’energia nucleare non è la risposta per risolvere il cambiamento climatico”, greenreport.it, 3 gennaio 2022.

[39]  Redazione, “Spanish Energy Price Cap Introduced Across Spain”, rightcasa.com, 15 luglio 2022.

[40]  De Re G.M., “Bruxelles. La Ue ora si prepara a ‘sganciare’ i prezzi dell’energia da quelli del gas”, avvenire.it, 30 agosto 2022.

[41]  Scorzoni M.T., “Visco: “Covid, shock senza precedenti: farà qualche vittima tra le banche”, First online, 22 ottobre 2020.

[42]  Redazione, “Caro energia, Leonardi (Ecco): ‘Per affrontarlo indispensabile ridurre i consumi. I rigassificatori? Scommessa con rischi a carico dei cittadini’”, ilfattoquotidiano, 3 settembre 2022.

[43]  Zorzoli G.B., “La formazione del prezzo dell’elettricità e le rinnovabili”, qualenergia.it, 18 febbraio 2021.

Le possibili soluzioni del problema del caro-bollette per evitare il “lockdown energetico”

9 Maggio 2022 - di Fondazione David Hume

Dossier HumeIn primo piano

La Fondazione Hume ha pubblicato, da oltre un anno a questa parte, vari articoli che mettevano in guardia su quanto oggi sta succedendo, e cioè una “tempesta perfetta” che rischia di causare una sorta di “estinzione di massa” di interi settori dell’imprenditoria italiana. La principale – sebbene non unica – causa di questa situazione è oggi rappresentata dall’aumento “senza senso” delle bollette di luce e gas. Nelle ultime settimane è finalmente diventato chiaro anche ai non addetti ai lavori che, in Italia, il “motore primo” del caro-bollette di questi mesi è stato il meccanismo di fissazione del prezzo del gas naturale. Infatti, considerato che più del 40% dell’elettricità nel nostro Paese viene prodotta con il gas naturale in centrali a ciclo combinato e che il gas russo è a rischio – per cui si rischia una vero e proprio “lockdown energetico” che metterebbe in ginocchio l’intera nazione – la questione del gas risulta essere cruciale. Si noti che il lockdown energetico (o “lockdown produttivo”) non si avrebbe solo in caso di futuri blackout programmati dovuti, ad esempio, al taglio delle forniture di gas di Putin, ma si ha già ora per quelle attività produttive i cui costi dell’energia sono tali che esse sono costrette a fermarsi per non lavorare in perdita. Purtroppo, ci è capitato in più occasioni di renderci conto che il dibattito pubblico su questi argomenti è viziato da una conoscenza della materia generalmente molto scarsa, il che rende difficile ai decisori politici di intervenire in maniera corretta, come abbiamo visto negli scorsi mesi con le misure palliative adottate dal Governo. Vorremmo quindi qui illustrare in modo assai chiaro i problemi e accennare alle loro possibili soluzioni. Va osservato che, attualmente, l’attenzione del Governo e dei media si è spostata molto sui possibili modi di sostituzione del gas russo, perdendo di vista invece il problema del caro-bollette, che per i prezzi esorbitanti raggiunti è già potenzialmente letale per la maggior delle imprese manifatturiere italiane. L’eventuale rinuncia al gas russo farebbe salire ancor di più i prezzi dell’energia, accelerando il loro fallimento.

Il mercato dell’energia in Italia: contratti a prezzo variabile vs. a prezzo fisso  

In sintesi, come illustrato in dettaglio in un precedente articolo [1], un grande importatore di gas come ENI (che importa quasi metà del gas usato in Italia) acquista circa 2/3 del suo gas a prezzi molto bassi grazie a contratti pluriennali – in alcuni casi perfino trentennali – e solo 1/3 avendo come riferimento il prezzo “spot” (cioè attuale, e oggi altissimo) al PSV (Punto di Scambio Virtuale), la borsa del gas italiana (come vedremo quasi uguale, per prezzi e loro andamento, a quella più grande d’Europa, il TTF olandese).

La sola ENI nel 2020 denunciava a bilancio, tra il 2021 ed i successivi 30 anni, contratti di acquisto di gas a lungo termine per oltre 103 miliardi di euro [7], corrispondenti a circa 472 miliardi di metri cubi di gas, pertanto già contrattualizzati da ENI per gli anni futuri e sostanzialmente tutti del tipo “Take or pay”. Ricordando che annualmente l’Italia importa 70-75 miliardi di metri cubi di gas all’anno, i soli contratti di medio-lungo termine coprirebbero dunque completamente 6-7 anni di fabbisogno nazionale.

I pagamenti futuri dell’ENI a fronte di obbligazioni contrattuali, come rendicontati sinteticamente nel Rapporto sul bilancio annuale 2020 della Società. Si noti come gli impegni di acquisto di gas naturale siano quasi esclusivamente di tipo “take or pay”. (fonte: ENI – Relazione finanziaria annuale 2020 [7])

Invece, i grossisti italiani medi e piccoli che vendono il gas ai clienti finali lo acquistano in gran parte sul PSV da ENI o altri big player, perciò a prezzi legati alle quotazioni sul PSV-TTF. Di conseguenza, molti clienti finali pagano il gas naturale – la componente “materia prima” nella bolletta gas – il prezzo del PSV + uno “spread”, cioè un differenziale che rappresenta il margine di guadagno del venditore.

La stessa cosa succede, peraltro, per le bollette elettriche, dove il prezzo di riferimento è il Prezzo Unico Nazionale (PUN), legato alla Borsa elettrica italiana; per cui il prezzo della componente energia delle bollette elettriche è di solito dato da PUN + spread, e anche in questo caso lo spread varia da venditore a venditore, ed è il parametro spesso confrontato dagli utenti nella scelta di quest’ultimo.

Si noti, però, che questo prezzo di vendita vale solo per i contratti cosiddetti “a prezzo variabile” sottoscritti dai clienti finali, che di solito sono appunto indicizzati ai prezzi dell’energia sulle suddette borse. Una cosa simile succede anche per i mutui a tasso variabile: chi li stipula dovrà infatti rimborsare un tasso fissato con il criterio: Euribor + spread, dove l’Euribor è la componente variabile del tasso.

E come per i mutui esistono, in alternativa, i mutui a tasso fisso, anche per luce e gas esistono pure i contratti “a prezzo fisso” (o bloccato, di solito per 24 mesi), che sono convenienti quando si prevede una crescita dei rispettivi prezzi; e sono del tutto svincolati dal prezzo al PSV-TTF, sia perché i prezzi sono fissi sia poiché ad es. ENI vende a quei sottoscrittori il gas acquistato a basso costo con contratti pluriennali.

Mercato libero e mercato a maggior tutela: differenze e convenienza

Si noti che, nel mondo dell’energia italiano, esiste da una ventina d’anni: (1) il cosiddetto “mercato libero”, in cui il cliente finale può scegliere fra contratti luce e gas a prezzo variabile e contratti a prezzo fisso, e (2) il “mercato a maggior tutela” (in cui si trovano la maggior parte degli italiani), nel quale i contratti sono solo a prezzo variabile, ma il prezzo è fissato dall’Authority per l’energia, Arera, trimestralmente.

Arera fissa per i successivi tre mesi le tariffe di gas e luce – che dovrebbero garantire sul mercato in maggior tutela gli utenti meno esperti (famiglie e imprese piccole per fatturato e numero di dipendenti) – sulla base delle previsioni degli aumenti dei prezzi per i tre mesi seguenti; a questi si aggiungono le variazioni avute nei tre mesi precedenti con le correzioni fra prezzi stimati e prezzi effettivi.

In pratica, mentre i prezzi dei contratti a prezzo variabile di luce e gas sono indicizzati ai prezzi spot (ovvero attuali) sulle rispettive borse nazionali, le tariffe di Arera hanno come riferimento, rispettivamente, i futures (cioè i prezzi attesi fra 3 mesi) sulla Borsa elettrica italiana per l’elettricità e, per il gas, i futures sul TTF di Rotterdam, la principale borsa del gas in Europa, usata perché più liquida di quella italiana (il PSV).

Tuttavia, come si può vedere dalla figura seguente, l’andamento nel tempo del prezzo sulla borsa del gas italiana (PSV) è del tutto analogo a quello sulla borsa olandese (TTF). Di conseguenza, legare il prezzo del gas all’una (come nelle vendite fra grossisti e nei contratti a prezzo variabile con i clienti finali) o all’altra (come nelle tariffe trimestrali fissate da Arera) in pratica non fa granché differenza.

Confronto fra l’andamento del prezzo “spot” (in pratica, attuale) del gas naturale sulla borsa italiana di riferimento (PSV) e su quella olandese (TTF). Si noti come i due prezzi viaggino strettamente “a braccetto”, e quindi indicizzare il prezzo del gas nei contratti all’uno o all’altro sia praticamente indifferente. (fonte: elaborazione degli autori su dati European Gas Spot Index e GME)

Già in un proprio rapporto del 2015 relativo agli anni 2012-13, la stessa Authority per l’energia aveva trovato (e dunque ammesso) che i clienti domestici, le partita Iva e le PMI passate al mercato libero pagavano luce e gas il 15-20% di più rispetto al mercato a maggior tutela. In effetti, le tariffe in regime di maggior tutela risultano di solito più basse di quelle sul mercato libero, ma non sempre.

Infatti, tutto dipende dall’andamento dei prezzi delle materie prime energetiche. Se i prezzi di queste ultime aumentano, un contratto a prezzo fisso (che è disponibile soltanto sul mercato libero) può consentire al sottoscrittore un risparmio rispetto a un utente in regime di maggior tutela. Il viceversa è vero quando i prezzi delle materie prime energetiche scendono, favorendo le bassissime tariffe di Arera.

Le ragioni del caro-gas in Italia: prezzi legati alle borse vs. prezzi “doganali”  

Negli ultimi vent’anni, i prezzi del mercato “spot” TTF (e quindi anche del PSV, che come visto lo replica fedelmente) erano sempre andati di pari passo con i prezzi del gas naturale cosiddetto “doganale” (cioè del gas importato dall’estero tramite metanodotti e metaniere) rilevati al passaggio delle dogane dell’Unione Europea ai fini delle accise da applicare: secondo Arera, la correlazione fra i tre prezzi (spot TTF, metano doganale, gas liquido doganale) era di ben 0,95, ovvero altissima.

Già intorno ad aprile dello scorso anno, il prezzo dei futures del gas naturale sul TTF aveva iniziato a divergere fortemente da quello del gas naturale “2711”, che è quello “destinato alla combustione per usi civili e industriali, nonché all’autotrazione” (e come tale sottoposto ad accisa); ma è alla fine del 2021 che il prezzo del gas sul mercato TTF si separa in maniera davvero eclatante da quello dei gas doganali.

Un grafico che presenta l’evoluzione del prezzo del gas naturale da gennaio 2020 a febbraio 2022. La curva azzurra rappresenta il prezzo sul TTF olandese, la curva rossa il prezzo doganale – cioè effettivamente pagato dagli importatori italiani di gas – mentre la curva verde è un’elaborazione fatta da Arera per fissare trimestralmente il prezzo del gas per i clienti finali in regime di Maggior Tutela. (fonte: Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, mostrato nella trasmissione “Spotlight” di RaiNews24 del 22/4/22)

Si noti come, nella figura qui sopra, la curva rossa relativa al prezzo del gas doganale – ovvero al suo prezzo reale di importazione – sia molto più regolare rispetto alla curva azzurra che mostra, invece, il prezzo del gas sui mercati finanziari e che, da aprile dello scorso anno, è letteralmente “impazzita”. L’area del grafico che sta fra la curva azzurra e quella rossa è dunque quella cosiddetta degli “extra-profitti”.

Quanto si è verificato, in fondo, non stupisce, perché da un lato (quello dei gas “doganali”), vi sono contratti relativi a consegne “fisiche” che coprono periodi anche lunghi di fornitura (pluriennali) ed esigenze reali di vendita od acquisto di gas; dall’altro (mercato spot TTF), si tratta invece di contratti a breve termine guidati da obiettivi di rendimento, in altre parole da pura speculazione finanziaria.

Inoltre, a differenza delle normali borse, il PSV e il TTF non sono borse regolamentate: si tratta infatti di mercati cosiddetti OTC (Over The Counter), in cui le transazioni si effettuano sulla base di contratti bilaterali. Dunque, non possono essere assimilati alla Borsa elettrica o alle borse azionarie, con tutte le conseguenze che ne derivano e che sono ora chiare a tutti (ad es. la possibilità di manipolazione, resa facile soprattutto in periodi di scarsi scambi borsistici in termini di volumi trattati).

In pratica, negli ultimi mesi l’impatto sulle bollette dei clienti finali è stato enorme, poiché a dicembre scorso il prezzo mensile del gas al TTF superava i 100 €/MWh (mentre quello giornaliero è arrivato addirittura a 180 €/MWh), un aumento di circa 10 volte rispetto al prezzo di giugno 2021, cioè di appena 6 mesi prima; e, soprattutto, mentre fino ad aprile 2021 il prezzo al TTF e quello doganale erano quasi uguali, a dicembre il prezzo del gas al TTF risultava quasi triplo rispetto a quello doganale.

Sebbene il prezzo della componente energia incida grosso modo per circa la metà sulle bollette dei clienti domestici, esso impatta in maniera ben più rilevante sulle bollette delle imprese medio-grandi e delle attività più energivore, con il risultato che questi enormi aumenti di prezzo si sono trasferiti in maniera pesante sul “totale a pagare” della loro bolletta, come ben sappiamo dalle cronache.

Un sistema da riformare subito insieme a quello della Borsa elettrica

Nelle scorse settimane, si è discusso molto sulle possibili ragioni di quest’anomalia senza precedenti. Qualcuno ha tirato in ballo un possibile “cartello” fra i principali player del gas europei, ma i principali investitori sul mercato TTF sono normalmente i più grandi trader di materie prime (Vitol, Trafigura, Glencore) e le grandi società finanziarie di Wall Street (Morgan Stanley, Goldman Sachs).

Pertanto, queste entità hanno una potenza economica e “di fuoco” verosimilmente assai maggiore per manipolare – deliberatamente o meno – il mercato, operando di fatto come cosiddette “mani forti”. Il seguente grafico, che mostra i “volumi” trattati sul TTF negli ultimi mesi, fa vedere che i volumi a un certo punto sono crollati, segno che tutti i “big” che volevano investire sul gas l’avevano ormai fatto.

L’andamento del prezzo del gas sul TTF olandese, con i relativi volumi di scambio (le barre verticali verdi rappresentano gli acquisti, mentre le rosse sono le vendite). Si noti come verso la fine di settembre i volumi in questione siano enormemente diminuiti (per tutto il periodo evidenziato dal riquadro marrone che abbiamo aggiunto), per cui il prezzo del gas (usato come riferimento per molti contratti dei clienti finali italiani) era facilmente alterato anche da scambi relativamente modesti.

Quando i volumi di scambio sono piccoli, bastano pochi acquisti per alterare (ad es. far crescere) in maniera significativa i prezzi su un dato mercato, per cui questo potrebbe spiegare l’accaduto senza ipotizzare necessariamente del dolo. Ma, al tempo stesso, ciò mostra che questo meccanismo di formazione del prezzo del gas per il cliente finale è del tutto fuori controllo e dunque va quanto prima cambiato.

ENI impiega il 12% del gas importato per l’autoconsumo (in pratica, per produrre energia elettrica), il 10% lo vende ai propri clienti finali, mentre il grosso – ovvero il restante 78% – lo vende ad altri grossisti italiani sul PSV, cioè a prezzi tipicamente molto più alti di quelli dei contratti pluriennali con cui lo acquista, realizzando così oggi un enorme “extra-gettito” (miliardi di euro in pochi mesi) non giustificato, ed i cui impatti sono evidenti negli utili atipici del 2021 [6].

Nella tabella in alto, sono mostrati gli impieghi di gas di ENI e dei grossisti italiani nel 2020. Si noti come gli operatori più grandi del mercato all’ingrosso vendano soprattutto ad altri operatori più piccoli (sul PSV ai relativi prezzi), mentre gli operatori piccolissimi vendono soprattutto ai clienti finali, come risulta chiaramente se si guarda la tabella in basso, relativa all’approvvigionamento di gas dei grossisti italiani nel 2020. Da questa seconda tabella si vede che ENI si approvvigiona sul PSV per circa il 32% del suo gas, mentre i grossisti grandi e medi per circa l’80%, per cui il loro approvvigionamento tramite importazioni dall’estero è sostanzialmente marginale e di fatto limitato a pochissimi grandi player, come ad es. Enel, Edison, etc. (fonte: ARERA, Relazione annuale – Stato dei servizi 2020)

Come si può scoprire dalle precedenti tabelle, ENI acquista circa 2/3 del gas naturale di cui si approvvigiona con dei contratti pluriennali (dunque a prezzi “bassi”) e 1/3 a prezzi “alti” (sul PSV-TTF). Viceversa, vende a prezzi “alti” (a clienti finali e altri grossisti) circa i 2/3 del totale di gas acquistato, per cui su almeno 1/3 del gas acquistato può lucrare degli extra-profitti enormi (dell’ordine di vari miliardi nel solo 2021).

Purtroppo, distorsioni non meno gravi si verificano sulla Borsa elettrica, dove da circa 20 anni le offerte di energia elettrica vengono accettate in ordine di prezzo crescente, fino a quando la loro somma in termini di kWh arriva a soddisfare la domanda, dopodiché il prezzo del kWh dell’ultimo offerente accettato (quindi quello più alto) viene attribuito a tutte le offerte: è il cosiddetto criterio del marginal price [3].

In pratica, il Prezzo Unico Nazionale (PUN) rilevato sulla Borsa elettrica è il risultato di aste che coprono la richiesta di energia prevista, ora per ora, con l’elettricità offerta da vari operatori (Enel Energia, A2A, Acea, Sorgenia, etc.). Nelle aste si accetta, cioè si “dispaccia”, prima l’offerta più economica e poi, via via, i “pacchetti” più cari, fino a coprire tutto il fabbisogno giornaliero.

Dunque sulla Borsa elettrica – dove nasce il già citato PUN, ovvero il prezzo di circa i 2/3 dell’elettricità venduta in Italia – il prezzo a MWh dipende dalla fonte più cara selezionata (anziché da una media pesata sulle varie fonti selezionate), per cui i produttori di energie rinnovabili (e pulite), già premiati con incentivi appositi del Governo, realizzano un “extra-gettito” anche in questo caso non giustificato.

Perché occorre cambiare subito i meccanismi attuali di formazione del prezzo

Per ogni metro cubo di gas naturale scambiato fisicamente nel mondo reale, oggi sui mercati finanziari ne vengono scambiati almeno 10, attraverso successivi passaggi tra compagnie produttrici-importatrici (o grandissimi importatori internazionali) e grossisti grandi e medi e dettaglianti.

Così le decisioni prese dai grandi investitori influenzano ogni giorno il prezzo del gas – sia per i clienti finali con contratto in regime di Maggior Tutela (in virtù dell’algoritmo usato da Arera per la fissazione della componente Gas naturale) sia per i clienti finali con contratti sul mercato libero del tipo a prezzo variabile – da anni non è più legato a quello dei contratti pluriennali con i Paesi fornitori da cui originano i gasdotti che arrivano in Italia.

La serie storica dimostra che il prezzo del gas “finanziario” è sempre stato prossimo al valore del gas doganale, cioè al valore realmente pagato per il gas. Ma, come abbiamo visto in precedenza, un anno fa è cambiato tutto: il prezzo sul mercato TTF legato alla speculazione finanziaria si è distaccato sempre più dal prezzo doganale – ovvero da quello reale – “impazzendo” e ripercuotendosi sulle nostre bollette [2].

I prezzi mensili del gas naturale in Europa sul mercato “spot” TTF confrontati con i prezzi dei gas “doganali” (importati con metanodotti e metaniere) rilevati al passaggio delle dogane dell’Unione Europea. Qui il picco del gas naturale al TTF è più basso rispetto ai picchi giornalieri perché si tratta di una media mensile, ma è pur sempre un aumento di circa 10 volte rispetto al prezzo di giugno 2020. (figura tratta dall’analisi di Bidoia L., “Le speculazioni che hanno stravolto il mercato del gas europeo”, pricepedia.it, 31 dicembre 2022)

Inoltre, il meccanismo attuale che lega il prezzo del gas – per i clienti finali con contratti in regime di Maggior Tutela (ma di fatto anche per quelli sul mercato libero con contratti a prezzo variabile) – al prezzo sul TTF olandese ci espone a una doppia dipendenza dall’estero: la prima per la materia prima (poiché l’Italia importa attualmente il 97% del gas che utilizza) e la seconda per il prezzo del gas, giacché i prezzi su tale borsa salgono, appunto, per la speculazione degli investitori (in prevalenza stranieri).

Se non si interviene subito cambiando i meccanismi di fissazione del prezzo di gas ed elettricità per i clienti finali, si rischia in tempi brevi una sorta di “estinzione di massa” delle imprese italiane: in particolare di quelle manifatturiere e di tutte le attività più energivore, che non sono necessariamente attività produttive (si pensi ad es. alle lavanderie, ai supermercati con i tanti frigoriferi, etc.).

Infatti, se il costo dell’energia sale al punto da rimanere per un prolungato periodo di tempo al di sopra di una determinata soglia critica (che varia da settore merceologico a settore merceologico e da azienda ad azienda), non ci sono accantonamenti o “spalle forti” che tengano: in molti casi, potrebbero essere sufficienti soli 2-3 mesi oltre soglia per mettere l’attività fuori gioco e portarla al fallimento.

Ciò è ancor più vero per il settore manifatturiero, nel quale il costo dell’energia usata per le lavorazioni è solo una delle 5 componenti del prezzo finale di un prodotto, insieme al costo delle materie prime, al costo dei trasporti per la consegna dei prodotti, al costo della manodopera ed al margine di guadagno. Poiché anche i costi di materie prime e carburanti sono in crescita, il margine di guadagno presto si azzera.

Usando quindi un’efficace metafora, è un po’ come se una città subisse un’inondazione al punto che il livello dell’acqua sommerge sempre più i vari negozi non per 1-2 giorni, bensì per mesi. È evidente che – chi prima e chi dopo – questi negozi a un certo punto chiuderebbero. Le misure prese fin qui dal Governo sono utili quanto delle dighe di cartone contro l’acqua, o come il voler tirar via l’acqua a mano con dei secchi.

Il fatto che le prime a fallire siano le imprese più energivore – di fatto, una sorta di “specie sentinella” che avvisano dell’inizio dell’estinzione di massa – fa sì che il processo sia graduale abbastanza da rischiare di sottovalutarne la gravità, secondo il famoso principio della rana bollita di Noam Chomsky. Un’eventuale rinuncia al gas russo, tuttavia, accelererebbe il processo in modo drammatico e irreversibile.

Qual è la mossa più importante che Draghi e Cingolani dovrebbero fare?

Attualmente ci troviamo in una situazione che negli scacchi si chiama “zugzwang”, cioè “il giocatore è obbligato a muovere sapendo che qualsiasi cosa faccia è costretto a subire lo scacco matto oppure una perdita di materiale, immediata o a breve termine”. Il fatto che tocchi al Governo muovere e che tutte le mosse a disposizione conducano a delle perdite non significa, però, che non vi sia una mossa migliore.

Infatti, come il lettore avrà capito, il problema del caro-bollette (presente e futuro) non si può risolvere – al fine di mitigarne i danni sul tessuto economico – se non si cambia con estrema rapidità i meccanismi di fissazione dei prezzi del gas naturale e dell’elettricità. Tutte le altre mosse portano allo scacco matto ed a perdite ingenti: in altre parole, sono fumo negli occhi, un palliativo che non risolve un bel niente.

Ad esempio l’idea fatta circolare, nelle scorse settimane, da parte del Governo, di porre un tetto europeo ai prezzi del gas – nei confronti del quale Germania e Olanda hanno detto “no” – sarebbe solo una sorta di “lasciapassare” per l’aumento definitivo dei prezzi. Infatti, i prezzi insostenibili di oggi sono 5 volte i prezzi di un anno fa, per cui “i buoi sono già scappati” e porre un tetto a un livello così elevato (od anche intermedio) è del tutto inutile: basti considerare ad es. che i prezzi dei contratti di approvvigionamento di lungo e lunghissimo termine sono assistiti da clausole revisionali.

Qual è dunque la mossa migliore che ha il Governo? Per quanto riguarda il gas, è quella di sostituire l’indicizzazione attualmente basata sulle (imprevedibili e opache) borse del gas con un meccanismo del tutto diverso, legato ai “prezzi doganali” (ovvero reali), cioè a quelli dei contratti pluriennali stipulati dagli importatori italiani (metanodotti) e alle consegne fisiche di gas naturale liquido (GNL).

Il ministro Cingolani ha più volte sottolineato pubblicamente come il fatto che i prezzi dei contratti pluriennali – frutto di accordi bilaterali fra aziende – siano secretati costituisca un ostacolo insormontabile all’attuazione di un meccanismo basato su tali prezzi. Ma in realtà non è così, come ha di recente spiegato Marcello Minenna, direttore generale dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.

Infatti, nella trasmissione “Spotlight” di RaiNews24 del 22 aprile, dal titolo “La stangata”, il giornalista Luca Gaballo ha realizzato uno scoop, perché l’intervistato Minenna ha rivelato come sia oggi possibile passare a un meccanismo di formazione del prezzo del gas basato sui prezzi reali dei flussi fisici di questa materia prima, e non più su quelli di piattaforme finanziarie non regolamentate e per nulla trasparenti.

Marcello Minenna mentre spiega a Luca Gaballo il possibile intervento per ridurre il caro-bollette.

Come osserva Minenna, «nel momento in cui ci sono grandi flussi di liquidità disponibili sui mercati finanziari – e questo è l’effetto dei vari interventi di stabilizzazione dell’economia che si sono svolti per via delle crisi finanziarie globali e anche della pandemia – è chiaro che i mercati finanziari rischiano di incorporare molta più volatilità del mercato reale. Occorre dunque prendere atto di tale situazione».

«Si dovrebbe riorientare il mercato reale verso gli approvvigionamenti reali» è la semplice soluzione che Minenna propone. Semplice perché potrebbe essere implementata proprio grazie all’Agenzia che dirige, e che effettua la registrazione puntuale e verificata degli scambi di gas che avvengono nel mondo fisico. Grazie ai computer e alla digitalizzazione, quindi, oggi per la prima volta questo si può fare.

Implementazione pratica della soluzione di Minenna e chi ne beneficia

Come spiega ancora Minenna [4]: «in passato, anche per limiti dovuti ai sistemi informatici – parliamo di milioni di dichiarazioni doganali – c’erano dei tempi di rilevazione e di elaborazione, correzione del dato tali per cui il dato delle importazioni di gas del 1° di marzo era disponibile, sotto forma di dato medio certificato, magari verso metà aprile. Oggi, con la transizione digitale, questi tempi si sono molto ridotti».

Pertanto, conclude Minenna, «questi dati di approvvigionamento possono essere un punto di riferimento”, ad es. per la formazione del prezzo di vendita del gas naturale ai clienti finali, e in particolare per i contratti indicizzati. A questo punto occorrerebbe, in uno dei prossimi decreti sul caro-bollette, un emendamento che introduca l’ancoraggio del prezzo del gas fissato da Arera al mercato reale, non più al TTF.

Svincolare il prezzo del gas in bolletta dall’indice TTF è anche quanto chiesto dai senatori del Movimento 5 Stelle in una mozione a prima firma Pesco, depositata in Senato il 17 marzo [5]. «In questo momento”, sostengono giustamente i senatori nella mozione, “l’ancoraggio al TTF è l’elemento che più di tutti sta determinando l’aumento delle bollette del gas naturale per gli utenti in regime di maggior tutela».

La cosa interessante, sottolineata da Luca Gaballo, è che per realizzare questo ancoraggio con il metodo suggerito da Minenna «non serve conoscere i dettagli segreti degli accordi commerciali stipulati da ENI o da altri importatori: basta la media delle fatture pagate su cui l’Agenzia delle Dogane calcola l’accisa”. E ricorda che “non è solo una questione di equità: è in ballo la sicurezza energetica del nostro Paese».

Dunque, problema risolto? No, perché i clienti finali in regime di maggior tutela che usufruiscono delle tariffe fissate da Arera sono soltanto la maggior parte delle famiglie italiane e una parte delle imprese con un numero di dipendenti inferiori a 50 e un fatturato annuo inferiore a 10 milioni di euro. E comunque entrambi questi soggetti dovranno passare anch’essi al mercato libero entro il 31 dicembre 2023.

Detto in altre parole, rimangono fuori da questa possibile riforma i clienti del mercato libero che hanno contratti a prezzo variabile sostanzialmente indicizzati al PSV + uno spread, che comprendono – molto verosimilmente – la maggior parte delle piccole, medie e grandi imprese italiane. Nessuna riforma, infatti, è prevista per questo tipo di clienti, che sono proprio quelli più “a rischio estinzione”.

Pare quindi evidente che questo del Parlamento sia l’ennesimo intervento palliativo, che non risolve il problema alla radice e che mostra come i politici ed i legislatori non abbiano capito a fondo né il problema né l’enorme posta in palio. Per comprendere perché oggi siamo in questa situazione, giova probabilmente ripercorrere quello che è successo negli ultimi decenni nel mercato dell’energia.

Un quadro riassuntivo della situazione illustrata nel testo. Come si vede, le proposte di riforma proposte finora si riferiscono solo al meccanismo di fissazione del prezzo del gas nel mercato di maggior tutela, che però non impatta sulle medie e grandi imprese (nonché sulle piccole con più di 50 dipendenti e 10 milioni di fatturato), giacchè tutte queste sono state costrette a passare al mercato libero entro il 31 dicembre 2020. 

Perché occorre ritornare a importare il gas con contratti pluriennali

Prima della liberalizzazione del mercato dell’energia, in Italia vi era un monopolio, con due fornitori pubblici di luce (Enel) e gas (ENI). Quest’ultimo acquistava il gas importato dall’estero con contratti pluriennali. Nel 1999, con il Decreto Bersani che ha liberalizzato il mercato dell’energia, si è voluto smantellare tale monopolio e favorire la nascita della concorrenza, con l’obiettivo di avere prezzi più bassi.

Sono così nate la Borsa elettrica italiana (istituita nel 2004, un anno dopo la nascita del TTF a Rotterdam) e la Borsa del gas (istituita nel 2007 ma partita con il PSV nel 2010), mentre i fornitori di energia ed i grossisti si sono via via moltiplicati di numero, e oggi superano abbondantemente i 200 in entrambi i tipi di fornitura (luce e gas). Ma possiamo dire che ciò ha comportato un risparmio per l’utente finale?

Evidentemente in generale no, dato che sostanzialmente ciò che è successo è che si è passati sempre più dall’acquisto del gas attraverso contratti pluriennali all’acquisto tramite le neonate borse, dove i prezzi ora (da un anno a questa parte) non riflettono più i prezzi doganali (e dunque quelli dei contratti pluriennali), bensì sono molto più alti. Dunque, è necessario porre con urgenza rimedio a questa situazione.

Il modo più logico è, semplicemente, quello di tornare il più possibile indietro, allo status quo ante, per quanto sia ovviamente irrealistico pensare di rimettere il genio nella lampada, ovvero ritornare a un monopolio statale. Il punto chiave è che bisogna tornare a dei prezzi non solo agganciati ai prezzi di importazione reali, ma soprattutto tornare a importare il gas con contratti pluriennali.

Per la verità, ENI (che acquista circa il 47% del gas importato dall’Italia) si approvvigiona già per circa il 60% con importazioni a lungo termine (a basso prezzo), ma gli altri grossisti operanti sul mercato italiano si approvvigionano di gas in buona parte sul PSV (ai relativi prezzi). Quindi non c’è più un ampio uso dei contratti pluriennali, che oggi sono alla portata solo di pochissimi grandi player nostrani.

Il Governo dovrebbe pertanto incentivare l’acquisto del gas con contratti “Take or Pay”, alla stregua di quanto fa da sempre ENI (che è controllata al 30% dallo Stato). L’espressione “take or pay” indica semplicemente una clausola applicata ai contratti di fornitura di lungo periodo, la quale implica un impegno da parte della compagnia acquirente a prelevare un certo quantitativo di gas naturale in un certo lasso di tempo. Se l’acquirente non ritira la quantità di gas concordata, con il Take or Pay la paga ugualmente.

Per poter fare questo, però, vanno parallelamente semplificate le procedure e gli obblighi da parte degli importatori, che molto rischiano nelle transazioni fisiche di import ed export. Per questa ragione, già nel 2012 l’ENI considerava questo tipo di accordi di medio-lungo periodo (con i produttori di gas che assicurano gran parte delle forniture al nostro Paese) troppo onerosi e acquistava parte del suo gas sul PSV (cosa che le consente anche di diminuire i propri rischi e di giustificare la vendita del suo gas a prezzi legati al PSV).

Ma, siccome questi contratti sono strategici per la sicurezza energetica nazionale, ENI pretendeva che a farsene carico fossero lo Stato e i cittadini, attraverso le bollette. L’Authority per l’energia rimandava la questione all’allora Governo Monti, che nel maxi-decreto sulle liberalizzazioni del gennaio 2012 ha stabilito (nell’art. 16) che il prezzo del gas per il mercato a Maggior Tutela debba essere calcolato dall’Authority tenendo conto (pro quota) anche dei mercati spot (cioè giornalieri) del gas e non solo dei contratti pluriennali Take or Pay (agganciati al prezzo del petrolio), come invece accaduto fino ad allora [8].

Ciò all’epoca sembrava sensato, perché in quel periodo il prezzo del gas importato dalla Russia in Italia con contratti di approvvigionamento a lungo termine era di 34 centesimi, mentre quello “spot” in Olanda (sul TTF, il mercato di riferimento) era di soli 21 centesimi [9]. Ma all’epoca era così solo perché c’era la crisi (non a caso, qualcosa di simile – cioè un prezzo di borsa più basso di quello dei contratti pluriennali – si è ripetuto durante la pandemia, quando i prezzi alla borsa del gas sono crollati): per esempio, nel 2004 il prezzo in Italia era di 30 centesimi e quello spot sul TTF era di 70, cioè il prezzo di borsa era più del doppio».

In realtà Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, segnalò subito che il nuovo sistema introdotto dal Governo Monti non avrebbe fatto calare i prezzi nelle bollette [9]: «Il nuovo sistema farà pesare il mercato spot ad es. al 10% e questo in teoria farà calare il prezzo della materia prima, diciamo, da 34 a 32 centesimi. Ma come fa una compagnia a essere obbligata per decreto a vendere a 32 se i contratti con il fornitore sono a 34? Un conto sarebbe dire alle compagnie di fare dei contratti che impongano un X per cento di “spot”, ma mettere solo un parametro di prezzo a posteriori che senso ha?».

Si noti che, dal 2013, il prezzo del gas (inteso come la componente energia in bolletta) per i clienti finali con contratti sul mercato di Maggior Tutela è stato agganciato da Arera interamente al prezzo dei future sul TTF [10], quindi slegandolo del tutto dal prezzo dei contratti pluriennali e ponendo le basi per il disastro attuale a cui ora bisogna cercare – il più rapidamente possibile – di porre rimedio.

E oggi anche le offerte PLACET (cioè “a Prezzo Libero A Condizioni Equiparate di Tutela”) per i clienti finali, che tutti i fornitori sul mercato libero sono (da alcuni anni) obbligati a inserire fra i contratti che il cliente può scegliere, “prevedono un prezzo indicizzato al TTF determinato in ogni trimestre come media aritmetica delle quotazioni forward trimestrali OTC relative al trimestre in questione, presso l’hub TTF, rilevate da ICIS-Heren con riferimento al secondo mese solare antecedente il medesimo trimestre” [11].

Gli altri interventi che occorrerebbe attuare con urgenza sul versante del gas

Fondamentale, per poter abbassare le bollette dei clienti finali italiani rispetto al costo del gas, è anche comprendere che l’Italia non dovrebbe avere solo un grande importatore (ENI), ma occorrerebbe dividere il mercato dell’importazione su decine di operatori, realizzando una vera concorrenza sul fronte degli accordi bilaterali pluriennali (con prezzi a basso costo) e svincolandosi sempre più dalle borse (PSV, TTF). Il tutto tenuto conto di quanto segue.

Di fatto, per far si che si ritorni all’uso generalizzato di contratti pluriennali (che hanno tipicamente prezzi indicizzati al prezzo del petrolio greggio), sarebbe innanzitutto necessario: (1) fissare delle quote massime di importazione di gas per i grandi player non produttori di gas (escluse, quindi, le grandi compagnie del gas che godono di contratti pluriennali solo in virtù dei loro progetti di investimento in ricerca, pompaggio e trasporto del gas), affinché anche altri grossisti possano fare tali contratti; (2) spingere i player italiani (ad esempio, tramite una premialità fiscale) ad aumentare la quota di gas importato con contratti a medio e lungo termine.

Inoltre, poiché in regime di concorrenza niente garantisce che i prezzi di vendita ai clienti finali sarebbero agganciati ai prezzi dei contratti pluriennali – se non forse per i contratti a prezzo fisso – occorrerebbe (3) legare i prezzi dei contratti a prezzo variabile a quelli dei contratti pluriennali, verosimilmente con un meccanismo tipo quello illustrato da Minenna, ma imposto anche al mercato libero.

Ovviamente, sul mercato libero i singoli operatori / grossisti potrebbero poi aggiungere, per i contratti a prezzo variabile, un proprio spread (come avviene già oggi). Quella che cambierebbe sarebbe quindi solo la componente indicizzata del prezzo, che oggi è legata a una borsa e che in un prossimo futuro dovrebbe essere invece legata sostanzialmente ai prezzi di importazione reali della materia prima.

Non dovrebbe sfuggire, quindi, che la soluzione del problema caro-bollette del gas vada cercata in una real politik che tuteli per davvero imprese e famiglie. Non pensiamo proprio che, in questo “nuovo mondo” in cui siamo entrati, ci potrebbe essere spazio per la pura operatività di trading da parte della finanza speculativa. Ciò in quanto potrebbe presto mancare persino la capacità fisica di prodotto, specie nel caso che esca di scena la Russia. In tal caso la pressione sui prezzi salirebbe alle stelle.

In conclusione, solo intervenendo sul meccanismo di fissazione del prezzo di tutti i clienti finali con contratti oggi indicizzati al PSV o al TTF – che nel caso delle imprese sono ormai per la quasi totalità sottoscritti sul mercato libero – ci si può svincolare dai prezzi non reali delle borse del gas. Basti pensare che, già all’indomani dell’apertura della borsa del gas, il costo della materia prima quasi raddoppiò.

Dato però che, realisticamente, è improbabile che un Governo come quello italiano – già dimostratosi inadeguato rispetto ad altri paesi (come ad es. la Spagna e il Regno Unito) nel gestire la pandemia sulla base delle evidenze fornite dalla letteratura scientifica – possa cambiare in poco tempo i meccanismi di fissazione del prezzo del gas nelle bollette, ben venga nel frattempo la tassazione degli extraprofitti realizzati dalle compagnie energetiche, purché non sia fatta certamente alle aliquote attuali (10%) e nemmeno a quella del 25% di cui oggi si vocifera sui media [12], bensì almeno dell’80%, con successiva immediata ridistribuzione fra tutti i clienti finali più colpiti di questi extraprofitti lucrati.

Sulle bollette elettriche si somma un secondo effetto che amplifica il primo

Naturalmente, occorrerebbe intervenire anche sul versante “luce”, cambiando l’attuale meccanismo di fissazione del prezzo sulla Borsa elettrica, che andava bene trent’anni fa, quando le rinnovabili avevano una quota marginale, ma certamente non più oggi. A causa del criterio oggi usato – quello del prezzo marginale illustrato in precedenza – i produttori di energie rinnovabili fanno extra-profitti à gogo.

I prezzi medi mensili dell’indice Ipex (Italian Power Exchange), cioè della Borsa elettrica italiana. Anche il prezzo dell’elettricità è letteralmente “esploso” negli ultimi mesi, essendo salito di 14 volte dai valori di maggio 2020 (21,8 €/MWh). Ciò come inevitabile conseguenza dell’anomala impennata dei prezzi spot TTF del gas naturale, perché circa il 40% dell’elettricità utilizzata in Italia è prodotta con il gas naturale. L’aumento del prezzo del gas è amplificato dal meccanismo di fissazione del prezzo sulla Borsa elettrica, anacronistico ed eticamente ingiusto, che consente ai produttori di energie rinnovabili extra-profitti esagerati che si ripercuotono sulle tasche dei clienti finali. (fonte: elaborazione degli Autori su dati GME)

Si ha così l’evidente assurdo che, perfino se avessimo – in un dato momento – il 99,9% dell’elettricità venduta sulla Borsa elettrica prodotta con fonti rinnovabili (quindi a costo quasi zero), l’“ultimo kWh” prodotto con il gas la farebbe costare tutta come se fosse prodotta con il gas. Una vera presa in giro per gli Italiani che oggi, in una situazione di costi delle bollette alle stelle, non è più tollerabile.

La cosa interessante di cui nessuno sembra essersi reso conto è che il criterio del prezzo marginale attualmente utilizzato per fissare il prezzo del kWh sulla Borsa elettrica amplifica fortemente il caro-bolletta elettrico, che dunque è la somma di due componenti separate: (1) quella dovuta all’anomala impennata dei prezzi sulle borse del gas (PSV e TTF); (2) quella dovuta, appunto, al criterio del prezzo marginale.

Se si osserva la precedente figura relativa al prezzo medio mensile dell’elettricità sulla Borsa elettrica italiana, si vede che esso è aumentato di circa 14 volte da maggio 2020 a marzo 2022, mentre nello stesso periodo di tempo il prezzo medio mensile del gas è aumentato di 6,8 volte (passando dai 19,8 €/MWh di gennaio 2020 ai 135,5 €/MWh di marzo di quest’anno), ovvero quasi esattamente della metà.

Poiché il gas incide per circa il 40% sul mix energetico nazionale per la produzione di energia elettrica, l’aumento atteso delle bollette elettriche in assenza del criterio del prezzo marginale (sostituito da una semplice media pesata come chiediamo) sarebbe stato assai inferiore: verosimilmente, di 3 o 4 volte (anziché di 14 volte), dato che le rinnovabili non sono legate all’acquisto di materie prime energetiche.

Ciò permette di stimare quanto i due diversi contributi hanno inciso sul caro-bolletta elettrica italiano. Infatti, se ipotizziamo che in assenza del criterio del prezzo marginale l’aumento delle componente materia prima nelle bollette elettriche sarebbe stato di 4 volte, questo vuol dire che l’aumento del prezzo del gas è responsabile solo del 28% dell’aumento totale della componente elettricità delle bollette.

Pertanto, il grosso dell’aumento del costo di un kWh elettrico per i clienti finali – in pratica, circa il 72% di esso – è dovuto al criterio del prezzo marginale, che fa pagare uno sproposito anche i kWh prodotti quasi gratuitamente attraverso il sole (fotovoltaico), il vento (eolico) e l’idroelettrico. Donde la necessità, per ritornare a una situazione di prezzi accettabile, di eliminare il criterio del prezzo marginale.

Un quadro riassuntivo relativo ai contratti con i clienti finali per le forniture elettriche. Poiché i prezzi della componente energia sono legati al Prezzo Unico Nazionale (PUN) sulla Borsa elettrica, per i clienti con contratti a prezzo variabile si trasferiscono al cliente gli effetti dei due meccanismi di fissazione del prezzo (quello del gas e quello della luce), che pertanto necessitano di essere entrambi completamente modificati quanto prima per ritornare a una situazione sostenibile per le imprese italiane.

Gli interventi palliativi del Governo non curano le cause della malattia

Purtroppo, il cambiare i meccanismi di fissazione del prezzo (specie del gas per i clienti sul mercato libero) richiede una comprensione del problema e una volontà politica che ad oggi non vediamo. D’altra parte, la questione del caro-bollette non può essere risolta con interventi “tampone” che alleviano soltanto un po’ i sintomi (e solo per certi tipi di clienti finali), rischiando così di essere una sorta di boomerang.

Ad esempio, il dare la possibilità di pagare le bollette di luce e gas a rate (senza l’applicazione di interessi) è solo un trucco contabile, una sorta di maquillage, poiché l’importo annuo pagato dai consumatori non cambierà di un centesimo. E non basta da solo un intervento sulla bolletta che vada a toccare soltanto (e temporaneamente) gli oneri di sistema, così come non basta da sola la transizione alle rinnovabili.

Come abbiamo visto già nella lotta alla pandemia, anche in campo energetico la politica italiana sembra mancare di quella visione e concretezza di altri Paesi dell’UE, e si continuano di fatto a favorire le lobby, non ponendo l’interesse del cittadino al primo posto. In molti casi, poi, si approfitta dell’ignoranza delle persone per gettar loro fumo degli occhi, facendo credere che si stiano risolvendo i problemi.

Per esempio, il Decreto bollette 2022, diventato da poco legge con il via libera definitivo in Senato, ha fra i suoi punti cardine l’utilizzo dei climatizzatori negli edifici pubblici: prevede infatti che, dal 1° maggio, questi non possano portare gli edifici a misurare una temperatura minore di 25 °C d’estate e maggiore di 21 °C d’inverno (tenendo conto del margine di tolleranza di 2 gradi previsto dal decreto stesso).

Peccato, però, che: (1) i valori tollerati siano praticamente gli stessi normalmente usati, per cui si fa finta di cambiare tutto per non cambiare, in realtà, nulla; (2) l’abbassamento di 1 °C del riscaldamento non porti a un risparmio del 6% della spesa come scritto dai media italiani, ma solo dell’1-2%; (3) la platea interessata, quella degli edifici pubblici, sia piccola, per cui il risparmio di gas per il Paese risulta irrisorio: <0,1%.

In conclusione, il proseguire nel curare gli effetti anziché le cause della malattia rischia di portare le imprese produttive e il nostro Paese sull’orlo del baratro. La semplice introduzione di altre misure palliative e di un tetto al prezzo del gas non risolverebbero il problema e, anzi, rischierebbe di essere la pietra tombale al rientro a quotazioni storiche. I veri rimedi sono altri, e forse sarebbe ora che qualcuno si “svegliasse”.

Naturalmente, è a questo punto evidente al lettore che l’eventualità di un’interruzione alle forniture di gas russe non solo provocherebbe blackout e razionamenti, ma anche un’impennata ulteriore dei prezzi di gas e luce. Tutto ciò si sommerebbe agli effetti già tremendi del caro-bollette attuale. Pertanto, verrebbero messi a rischio il tessuto produttivo e la tenuta sociale del nostro Paese, che era già una polveriera per l’impatto economico delle misure adottate dal Governo nella gestione della pandemia.

Occorre tenere infatti presente che, secondo i dati forniti da Snam (la società che gestisce la rete italiana di distribuzione del gas) – relativi al 2018 ma rimasti altamente stabili negli ultimi anni – in Italia la domanda (e quindi il consumo) di gas sono ripartiti come segue: per circa il 40% provengono dal settore residenziale (cioè dalle famiglie), per circa il 32% dal settore termoelettrico e per circa il 25% dal settore industriale. Dunque, poiché la Russia ci fornisce il 40% del nostro fabbisogno di gas, traete voi le conclusioni.

Domanda e consumo di gas naturale in Italia per settore, espressi in miliardi di metri cubi. (fonte: Snam)

Alcune cose che ogni famiglia può fare per minimizzare il caro-bollette

Quest’ultima sezione è dedicata a ciò che le singole persone e le famiglie possono fare per mitigare l’impatto del caro-bollette sulle proprie tasche e quindi, in ultima analisi, sul nostro Paese. Infatti, l’urgenza della situazione è tale che, se si confidasse soltanto sull’azione del Governo, si potrebbe assistere all’eventuale soluzione dei problemi “a babbo morto” o, addirittura, non vederla mai.

Vi sono, essenzialmente, tre versanti su cui tutti noi possiamo agire, che sono: (1) fornitori luce e gas e relativi contratti; (2) risparmio energetico; (3) energie rinnovabili. Sebbene le opportunità e le tecnologie oggi disponibili in questo campo siano troppo numerose per essere qui illustrate tutte, si darà un qualche esempio per far capire come il contributo del singolo nel risolvere il problema sia fondamentale.

Sul fronte delle bollette, l’optare per contratti luce e gas a prezzo fisso fa risparmiare in periodi in cui si prevedono ulteriori aumenti, ma anche la scelta del timing e dell’operatore contano molto. L’ideale sarebbe stipularli quando i prezzi del gas sono più bassi (nei mesi “spalla”, ovvero nelle mezze stagioni) e, nel caso luce, con operatori che producano il 100% della propria energia da fonti rinnovabili, non solo per risparmiare ma anche al fine di incentivare gli operatori che vanno in quella direzione.

Altro risparmio sulle bollette luce e gas si può avere tramite il confronto, con appositi comparatori, fra le offerte di due o più fornitori, che si può fare solo se: (1) le loro offerte hanno lo stesso tipo di indicizzazione (ad es. sono tutte indicizzate al PUN); (2) si conoscono i costi fissi mensili scelti e applicati da ciascuno di essi, poiché non è solo il costo della materia prima a determinare la nostra spesa in bolletta. A questo riguardo, possiamo consigliare l’uso dei comparatori online di Altroconsumo e di Arera.

Sul versante del risparmio energetico, al di là dei consigli banali del web, molto si può fare, a cominciare dall’applicare in casa (l’ideale è a monte dell’interruttore generale) un misuratore di potenza elettrica assorbita, che mostra i consumi dei propri apparecchi elettrici ed elettronici. Si scoprirà così i consumi nascosti degli apparecchi elettrici ed elettronici quando sono in stand-by (ed evitabili con appositi “stand-by killer”), che la pompa di calore consuma molto anche quando pare al minimo grazie all’inverter, etc.

La strada per l’indipendenza energetica di una famiglia poggia su 3 pilastri, su cui vi è poca (e in genere superficiale) informazione da parte dei media, mentre essa sarebbe ora più che mai preziosa. Chi ne ha la possibilità, può puntare direttamente all’obiettivo finale: autoprodursi l’energia utilizzata in casa con le fonti rinnovabili. In alternativa, un mix di interventi ad hoc di vario tipo può portare a un contenimento della bolletta energetica, ma purtroppo questi non sono in genere granché noti al grande pubblico.    

Il principale consumo energetico delle famiglie è il riscaldamento invernale, seguito dal raffrescamento estivo. Tuttavia, chi passa molte ore al PC – o comunque seduto – può ridurre sensibilmente la bolletta elettrica invernale usando sotto i piedi un tappetino riscaldante da pochi watt che può essere acquistato per una manciata di euro sui principali portali di e-commerce (uno di noi ha così dimezzato la bolletta di marzo rispetto all’anno precedente, mentre a molti Italiani questa raddoppiava).

Un’altra tecnologia economica che dovrebbe essere adottata in ogni casa italiana e che si ripaga in pochissimo tempo è la Ventilazione Meccanica Controllata (VMC) effettuata applicando uno o più ventole con accoppiato un estrattore di calore (ceramico) – le si trova in vendita sul web con numerosi marchi (ad es. Ventolino ed altri) – a semplici fori ad hoc nella parete esterna, garantendo così un ricambio d’aria continuo degli ambienti trattenendo però in casa il calore d’inverno e il fresco d’estate.

Con questa semplice tecnologia (che costa dai 300 euro in su e che nulla a che vedere con gli ingombranti e costosi apparecchi di VMC usati per scuole e grandi uffici), è possibile ottenere una serie di benefici: (1) risparmio finanche del 20% sulla climatizzazione della casa; (2) si evita l’uso delle forme di riscaldamento più dispendiose poiché il ricambio d’aria è spalmato su molte ore (fino a 24); (3) si migliora, anzi ottimizza, la qualità dell’aria indoor (poiché si minimizzano la CO2, gli inquinanti e gli eventuali virus presenti).

Sul versante delle rinnovabili, invece, pochi sanno che anche chi non dispone di un tetto può risparmiare con il fotovoltaico sulla bolletta elettrica semplicemente optando per il cosiddetto fotovoltaico plug&play, cioè da balcone o terrazzo: un kit di pannelli removibili (con o senza accumulo in batterie) che si collega a una presa elettrica di casa, e che grazie all’inverter di cui è dotato il kit darà priorità di prelievo da parte degli elettrodomestici della corrente così prodotta / accumulata.

Sebbene il fotovoltaico plug&play in Italia sia limitato agli 800 W di potenza nominale massima, i kit sono economici, e quelli con una potenza nominale fino a 350 W non necessitano né di installazione (per cui non è necessario ricorrere a installatori, che “snobbano” questi kit perché loro non ci guadagnano) né di burocrazia: si comprano e si usano per l’autoconsumo, previo invio solo di una semplice Dichiarazione Unica (il modulo è scaricabile dal sito di Arera) al Distributore locale, senza obblighi o costi ulteriori.

Inoltre, oggi è possibile usufruire del risparmio delle rinnovabili anche in altri modi: ad es. acquistando da ènostra – la prima cooperativa energetica in Italia che produce energia rinnovabile attraverso un modello di partecipazione – una quota (costo unitario 500 euro), o più d’una, di un grande impianto fotovoltaico o eolico sito in un’opportuna zona d’Italia; per cui si avrà in cambio una certa quota annuale di energia elettrica al costo fisso di soli 6 cent/kWh, svincolandosi così del tutto dal prezzo di borsa.

Se invece si vuole andare nella direzione della totale indipendenza energetica della propria casa e/o garantirsi da eventuali blackout, conviene optare per un impianto fotovoltaico “stand-alone” molto sovradimensionato nei pannelli, e soprattutto nell’accumulo (tipicamente a batteria, preferibilmente del tipo litio-ferro-fosfato, ovvero LiFePo4), rispetto a un normale impianto fotovoltaico connesso in rete. E un eventuale generatore diesel o micro-eolico può assicurare un backup, come su un camper.

Una volta che si opti per il FV stand-alone, non solo non ha più senso avere un contratto gas (si cucina e si riscalda l’acqua con l’elettricità gratuita fornita dal Sole) ma, se il sistema ha un accumulo a batteria ben dimensionato per i propri consumi (in questo ci si può aiutare con i numerosi tutorial o simulatori in inglese che si trovano online), in teoria ci si potrebbe staccare dal fornitore luce: temporaneamente si perderà l’“agibilità” della casa, necessaria per affittarla o venderla, ma il risparmio sarà totale.

Se dunque vi fosse una campagna di informazione dell’opinione pubblica da parte del Governo e dei media su tutte le opportunità offerte oggi dal mercato (qui ne abbiamo solo accennate alcune), la si potrebbe coinvolgere nella soluzione del problema, ed in poco tempo abbattere in misura potenzialmente più che significativa il fabbisogno energetico in ambito residenziale. Di questi tempi, non sarebbe poco! Invece, come durante la lotta alla pandemia la comunicazione istituzionale è latitante.

Vorremmo qui esprimere la nostra gratitudine a tutte le persone che hanno indirettamente collaborato alla realizzazione di questo articolo, fornendo materiali, commenti o anche solo utili spunti di riflessione. Un estratto di questo articolo è stato pubblicato su Atlantico Quotidiano il 30 aprile.

Mario Menichella (fisico e divulgatore scientifico) – m.menichella@gmail.com

Alfonso Scarano (analista finanziario indipendente) – scaralfonso2021@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Menichella M., “Le speculazioni sul gas che stanno creando il caro-bollette. E le Authority stanno a guardare…”, Fondazione David Hume, 4 marzo 2022.

[2]  Bidoia L., “Le speculazioni che hanno stravolto il mercato del gas europeo”, pricepedia.it, 31 dicembre 2022.

[3]  Menichella M., “Le 10 cause del caro-bolletta energetica italiano: anatomia di un disastro”, Fondazione David Hume, 10 gennaio 2022.

[4]  Gaballo L., “La stangata”, puntata di Spotlight andata in onda su RaiNews24 il 22 aprile 2022.

[5]  Redazione, “Gas, M5S chiede revisione formula del prezzo tutela”, annotrecentogiorni.com, 18 marzo 2022.

[6]  Bruschi G., “Eni, l’utile 2021 è il più alto degli ultimi 10 anni: pronta la quotazione di Plenitude. Tutti i dati di bilancio”, firstonline.info, 18 febbraio 2022.

[7]  ENI, Rapporto di bilancio della società, pubblicato in “ENI – Relazione finanziaria annuale 2020”, eni.com, 2020.

[8]  Zuliani F., “In difesa della buona politica: la strategia italiana del gas”, ilpost.it, 1° maggio 2013.

[9]  Grassia L., “Più mercato e più trivelle per tagliare i prezzi del gas”, lastampa.it, 22 gennaio 2012.

[10]  Arera, “Mercato del gas naturale – Determinazione delle componenti relative ai costi di approvvigionamento del gas naturale”, arera.it, 5 febbraio 2015.

[11]  Arera, “Offerte standard per i clienti finali – PLACET”, arera.it, 2 maggio 2022.

[12]  Di Cristofaro C., “Aumento della tassa sugli extra-profitti non spaventa gli energetici”, ilsole24ore.com, 3 maggio 2022.

Le 10 cause del caro-bolletta energetica italiano: anatomia di un disastro

10 Gennaio 2022 - di Mario Menichella

EconomiaFact and figuresIn primo piano

Il bordello è l’unica istituzione italiana

dove la competenza è premiata

e il merito riconosciuto”.

                                       Indro Montanelli

Soltanto nelle prossime settimane, quando riceveranno le bollette della luce e del gas relative al picco di consumi e di prezzi invernale, famiglie e imprese italiane avranno piena contezza della tempesta che si sta per abbattere sui loro conti economici, già fortemente colpiti dagli effetti della mala gestio dell’epidemia di Covid. Ma, come cercherò di illustrare dettagliatamente in questo articolo, in Italia il problema energetico è stato gestito addirittura peggio dell’emergenza coronavirus, se si confrontano i risultati ottenuti. Se infatti si vuole fare un discorso serio e non limitarsi a discorsi qualitativi “da bar” come quelli che si sentono in televisione, i dati “cantano”, o meglio contano, perché permettono di confrontarsi con gli altri paesi d’Europa. Vedremo che ci sono almeno 10 cause diverse per il caro-bolletta italiano, che vanno ricercate soprattutto in una serie di leggi, normative, riforme, interventi del Ministero competente e del regolatore. Ma, soprattutto, sarà sorprendente notare – nell’analisi impietosa ma istruttiva che vi sottopongo – le analogie fra alcuni errori marchiani fatti dal nostro Paese nella lotta al Covid e quelli fatti in questi decenni di politica energetica scellerata (e che si perpetuano ancor oggi). Uno di questi è il guardare solo “ai singoli alberi e non alla foresta”, cioè il non avere una visione d’insieme né, tanto meno, a lungo termine. Per non parlare del peso delle lobby, che da sempre affligge le scelte della politica. Capire quali sono tutte le cause del caro-bolletta che hanno più pesato in passato, quali quelle che più pesano oggi e che più peseranno in futuro è il primo passo per poter effettuare i necessari interventi correttivi, poiché non servirà a molto intervenire soltanto su una o due di esse. Ciò è tanto più importante considerato che – al di là di alcuni aspetti contingenti che hanno anticipato ed esacerbato il problema – le ragioni della situazione attuale sono, come vedremo, strutturali e si sommano alla tendenza di fondo dell’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche, che in realtà è dovuto solo in parte alla famosa “transizione energetica”.

Quando politici, media e “virostar” tolgono spazio ai veri problemi    

Sono passati ormai due anni dall’inizio della pandemia – o meglio, da quando l’OMS “se ne è accorta” – e poco meno da quando l’Italia ha realizzato che non era solo un problema di altri Paesi. Questa emergenza non sarebbe però più tale se si fossero adottate le strategie opportune, mentre le scelte sbagliate fatte (unite all’“appecoronamento” dei media al Governo) pongono il virus ancora sulle prime pagine dei giornali e nelle aperture dei telegiornali, distogliendo insieme ai politici e alle “virostar” da salotto l’attenzione degli italiani e delle Autorità da altri problemi diventati nel frattempo più importanti.

Già, perché non è che in questi due anni gli altri problemi siano spariti; anzi, si sono aggravati e ne sono emersi di nuovi. Alcuni di essi riguardano tanti Paesi, ma alcuni sono una peculiarità italiana. Il problema di cui vorrei parlare in questo articolo è quello dell’energia: all’apparenza il nostro Paese è colpito dall’aumento dei prezzi energetici come tanti altri Paesi europei, e quindi si potrebbe pensare il classico “mal comune mezzo gaudio”. Un retropensiero nascosto in tale atteggiamento è che, in fondo, siamo “nella stessa barca” degli altri Paesi europei, e che quindi ce la caveremo o affonderemo, ma tutti insieme.

L’andamento, alla Borsa di New York, dei prezzi dei futures dei tre principali combustibili fossili (petrolio, gas naturale e carbone) negli ultimi 5 anni, fino alla data del 27 dicembre. Si noti come, a salire enormemente rispetto alla media degli anni precedenti, siano stati solo il gas naturale e il carbone se si guardano i picchi massimi toccati, ma tutti e tre se si guardano i trend (retta aggiunta). L’impatto è quindi enorme sia sugli utenti di gas domestici e industriali sia sulla bolletta elettrica di quei Paesi – come purtroppo l’Italia – che d’inverno hanno ancora un contributo modesto da parte delle fonti rinnovabili (fonte: Trading Economics)

Questa analisi iper-semplicistica, che sembra trasparire dal modo superficiale in cui questo argomento viene affrontato sui quotidiani e dai media in generale, è però del tutto errata per le ragioni che cercherò di spiegare quantitativamente in questo articolo. Infatti, come dico sempre: (1) è solo passando da un’analisi qualitativa a un’analisi quantitativa che si può capire la reale portata di un problema; e (2) il diavolo è nei dettagli. Già, perché per capire la situazione reale non solo è necessario, come al solito, cercare di ricostruire il puzzle mettendo insieme le varie tessere, ma bisogna notare i dettagli importanti.

Sono ormai quasi 15 anni che seguo, fra le altre cose, il settore energetico per quanto riguarda le tecnologie green altamente innovative (quelle, per intendersi, che avrebbero una portata più o meno rivoluzionaria ma che non sono ancora sul mercato, e che probabilmente vi arriveranno troppo tardi per poter disinnescare i rischi di cui parlerò) e per la previsione dei prezzi delle materie prime energetiche (petrolio, gas naturale, etc.) ed il loro impatto sui prezzi dell’elettricità e del gas sia per i grandi consumatori (industrie e aziende energivore) sia per piccole e medie imprese (PMI) e famiglie.

Purtroppo, devo dire subito che esiste uno stretto parallelismo fra la mala gestio della pandemia da SARS-CoV-2 in Italia e la pessima gestione della problematica energetica negli ultimi quarant’anni da parte dei Governi che si sono via via succeduti. Il risultato, come vedremo, è che ora il nostro Paese – a differenza di altri – si trova stretto nella morsa di una doppia emergenza, ed entrambe hanno ricadute economiche enormi, potenzialmente molto più grandi di quanto si pensi. Ma, per rendersene conto, sarà necessario affrontare la questione passando ai fatti, ai numeri e immaginando scenari realistici.

La politica energetica italiana: miope come quella sanitaria anti-Covid    

Negli ultimi anni, la politica energetica italiana è stata sostanzialmente – inutile girarci intorno – “senza né capo né coda”. Si sono infatti susseguite tante novità, incentivi, riforme, ma come vedremo il risultato finale è stato, proprio all’opposto dei “desiderata” ufficiali, un aumento: (1) dei costi dell’energia per la famiglia media italiana e per le piccole attività; (2) dell’inquinamento dell’aria, con conseguente crescita dei morti per cancro e per varie patologie respiratorie o cardiache legate alle sostanze tossiche immesse nell’atmosfera dalla combustione del biogas e delle biomasse, i cui impianti sono cresciuti in modo esponenziale negli ultimi 15 anni, arricchendo pochissimi ma danneggiando molti.

Eppure, non erano queste le promesse che erano state fatte dai politici e dai regolatori alle persone. Dal 1° luglio 2007, infatti, il mercato italiano dell’energia è completamente liberalizzato, perché ciò avrebbe dovuto in teoria garantire concorrenza e prezzi migliori. Ciò vuol dire che le famiglie (come prima già poteva avvenire per le imprese) possono scegliere liberamente da quale fornitore – ed a quali condizioni – acquistare l’elettricità o il gas (sebbene debbano guardarsi da offerte che si rivelano spesso assai ingannevoli): possono farlo, in pratica, optando per un fornitore del cosiddetto “Mercato Libero”.

Il vecchio mercato vincolato, o “di maggior tutela”, si applica ancora – ma solo fino al 31 dicembre 2022, salvo eventuali proroghe – alle famiglie che non hanno voluto cambiare fornitore tenendosi quindi stretto il vecchio (ad es. l’Enel, che ora si chiama “Enel Servizio Elettrico Nazionale” sul mercato a maggior tutela, mentre sul mercato libero si chiama “Enel Energia”); e ad essi è garantita la fornitura di energia ai prezzi molto bassi stabiliti dall’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas (che ora si chiama Arera), l’organismo che in Italia ha le funzioni di controllo e regolamentazione del mercato elettrico.

Quando si parla di politica energetica, è inoltre fondamentale tenere a mente i seguenti eventi, con le rispettive date: (1) il referendum sul nucleare a fissione (1987), che ha sancito la rinuncia del nostro Paese a questa fonte di energia; (2) la liberalizzazione del mercato dell’energia (1999) con il decreto Bersani, che ha avviato lo smantellamento del monopolio esistente nel campo dell’energia elettrica, facendo entrare in tale mercato altri operatori; (3) il Conto Energia per l’incentivazione del fotovoltaico (durato dal 2005 al 2013); (4) nel 2007 nascono la Borsa elettrica e quella del gas e, tramite il decreto Bersani bis, viene previsto un passaggio graduale dal Servizio a Maggior Tutela al mercato libero (obbligatorio, dopo vari rinvii: dal 1° gennaio 2021, per imprese e PMI e, dal 1° gennaio 2024, anche per tutte le famiglie italiane e le microimprese); (5) il referendum sulle trivelle (2016), che ha fermato le trivellazioni e l’estrazione di petrolio e gas in mare entro il limite di 12 miglia nautiche che definisce le acque territoriali.

Il referendum sul nucleare e quello sulle trivelle hanno dunque impedito al nostro Paese di diversificare l’approvvigionamento energetico, una strategia miope non meno di quanto non lo sia l’usare contro il Covid i soli vaccini. La diversificazione è importante perché diminuisce il rischio. Lo sanno bene gli investitori ed i trader. In quest’ottica, sarebbe stato anche opportuno dotarsi di più rigassificatori, in modo da avere uno stoccaggio adeguato di gas naturale facendo rifornimento via nave quando i prezzi sono più bassi. Invece, l’Italia ne ha solo tre, mentre la Spagna ne ha ben sei e la Croazia, qualche anno fa, ha ottenuto due co-finanziamenti europei per realizzarne uno ed affrancarsi dal monopolio russo del metano [1].

Il nostro Paese, peraltro, all’epoca del referendum aveva un know-how tecnologico in campo nucleare di altissimo livello, che è andato inevitabilmente perso in virtù del timore dei cittadini di un incidente tipo quello di Chernobyl ai nostri reattori;  ma l’Italia è circondata da Paesi che hanno reattori nucleari e potrebbe quindi essere ugualmente investita da un fallout radioattivo. Non amo particolarmente il nucleare a fissione, tuttavia è indubbio che sarebbe stato prezioso in una transizione energetica dai combustibili fossili alle rinnovabili, che inevitabilmente necessita di molti anni per realizzarsi effettivamente (sempre che non vi siano imprevisti che impediscano di rispettare la road map ipotizzata dal Governo).

L’Italia brucia circa 70-75 miliardi di metri cubi di gas l’anno. Nel sottosuolo sotto i piedi degli italiani riposano indisturbati almeno 90 miliardi di metri cubi di metano, il meno inquinante tra i combustibili fossili. Tuttavia, le stime delle riserve italiane di gas pubblicate conteggiano i giacimenti accertati e non possono immaginare quelli ancora da cercare. Ma i nuovi giacimenti ora non li si cercano più: dopo il referendum, gli investimenti delle compagnie sono fermi. Quello italiano è metano il cui costo di estrazione si aggira sui 5 centesimi al metro cubo. Invece, il prezzo di mercato del gas che l’Italia importa da Paesi remotissimi si aggira fra i 50 e i 70 centesimi al metro cubo, ovvero più di 10 volte tanto [2].

Meno del 5% del gas metano che utilizziamo arriva dai giacimenti in Pianura Padana e dai grandi giacimenti dell’Adriatico, in Basilicata e, in misura contenuta, in Sicilia. Le importazioni vengono soprattutto da Russia, Algeria, via nave al rigassificatore di Rovigo e dal nuovo metanodotto TAP (Trans-Adriatic Pipeline), che ci porta il gas di un giacimento off-shore azero sito nel Mar Caspio. Insomma, per il gas dipendiamo soprattutto dall’estero, il che comporta prezzi molto più elevati di questa materia prima. Inoltre, dipendere fortemente dal gas proveniente dall’estero – si è visto anche negli ultimi mesi – significa che, quando crescono le quotazioni del gas, cresce il prezzo dell’energia elettrica e del riscaldamento delle case. Quindi sarebbe importante avere un più ampio mix energetico e una maggiore produzione nazionale.

Il mix energetico italiano e la nostra dipendenza dall’estero 

La produzione di energia elettrica, in Italia, avviene a partire dall’utilizzo di fonti energetiche non rinnovabili (i combustibili fossili quali gas naturale, carbone e petrolio, in gran parte importati dall’estero) e, in misura sempre più rilevante, con fonti rinnovabili (come lo sfruttamento dell’energia geotermica, dell’energia idroelettrica, dell’energia eolica, delle biomasse e dell’energia solare); il restante fabbisogno elettrico (il 12,8% dei consumi totali nel 2017, e superiore al 10% anche negli anni successivi) viene soddisfatto con l’acquisto di energia elettrica dall’estero, trasportata attraverso elettrodotti dai Paesi confinanti.

A seguito di valutazioni economiche dettate dal costo delle materie petrolifere, dai costi sociali nell’uso del carbone e dall’abbandono del nucleare, le politiche perseguite in Italia sono state essenzialmente due:

  • la sostituzione del petrolio con il gas naturale come combustibile delle centrali termoelettriche, considerato un combustibile con oscillazioni di prezzo inferiori, maggiore disponibilità e provenienza da aree politicamente meno instabili;
  • è stata ulteriormente perseguita la politica di importazione di energia dall’estero, in particolare dalla Francia e dalla Svizzera, nazioni che durante la notte (periodi off-peak) hanno forti eccedenze di produzione che svendono a basso prezzo.

Il Gestore dei Servizi Energetici (GSE) annualmente aggiorna i dati sulla composizione del mix energetico nazionale, come richiesto dal Decreto ministeriale del 31 luglio 2009. La nuova pubblicazione, uscita a settembre, mostra il mix energetico iniziale per l’elettricità immessa in rete nel 2019 (dati a consuntivo) e per il 2020 (dati provvisori), a livello nazionale (lo possiamo vedere in dettaglio nella tabella seguente). Ai dati della produzione nazionale da fonti rinnovabili e da combustibili fossili, si aggiungono, ovviamente, i dati Eurostat per l’energia elettrica netta importata.

Nel 2019, il mix energetico nazionale mostrava un 41,74% di rinnovabili tra le fonti primarie, seconde solo alla quota del gas naturale (43,20%); nel 2020, complice la pandemia e il calo dei consumi, le rinnovabili hanno alzato il tiro raggiungendo “sulla carta” (pre-consuntivo) un buon 45,04% [3]. In effetti, nel 2020 in Italia si è avuto un calo record in tempo di pace per fabbisogno di energia ed emissioni di CO2, in conseguenza del crollo del PIL, della produzione industriale e della mobilità. Si è trattato del calo maggiore registrato in tempi di pace, superato solo dai cali del 1943-44, mentre nell’anno della crisi del 2009 la domanda di energia si ridusse del 5,7%, in perfetto allineamento con la caduta del PIL [4].

Il mix energetico nazionale. Si noti come oltre il 42% dell’elettricità sia prodotta usando il gas naturale, come ben circa altrettanta derivi dalle rinnovabili (non programmabili) e solo il 3,5% circa dal nucleare (di importazione). Si osservi anche la quota tuttora rilevante prodotta con l’economico ma inquinante carbone.

Il mix energetico dell’elettricità venduta da Enel Energia sul mercato libero. Si noti come l’Enel privilegi più il gas e il carbone rispetto al “mix nazionale”, il che è già un buon motivo per evitarla. Ogni fornitore è tenuto a indicare il mix delle fonti utilizzate. Pertanto, se gli italiani scegliessero fornitori magari piccoli e poco noti ma che privilegiano molto di più le rinnovabili, da una parte spenderebbero meno in bolletta e, dall’altra, favorirebbero la transizione energetica. Ma quanti consumatori ne sono consapevoli?

Nonostante la domanda primaria di energia si sia contratta in Italia del 9,2% nel corso del 2020, a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia, il 73,4% del nostro fabbisogno energetico è stato soddisfatto solo grazie alle importazioni nette. Complessivamente, per coprire una domanda energetica primaria totale (comprensiva dell’uso per i trasporti, per il riscaldamento, etc.) pari a 143,5 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, ci siamo affidati ad un approvvigionamento energetico per il 40% dal gas naturale, per il 33% dal petrolio e solo per il 20% dalle fonti energetiche rinnovabili [5].

La domanda del gas in Italia, nel 2020, è stata complessivamente pari a 71,3 miliardi di metri cubi, in riduzione di 3,2 miliardi di metri cubi (-4.3%) rispetto all’anno precedente; la copertura della domanda è stata garantita in gran parte dalle importazioni (per il 93%) e solo in piccola parte dalla produzione nazionale (per il 7%), che come abbiamo visto garantirebbe prezzi della materia prima molto più bassi. Dunque, per quanto riguarda il gas naturale, la nostra dipendenza dall’estero è oggi elevatissima.

Il fabbisogno energetico primario italiano (considerando anche trasporti, riscaldamento, etc.) è soddisfatto per il 40% dal gas naturale, per il 30% dal petrolio e appena per il 20% dalle rinnovabili. Il motivo è che i veicoli usano ancora derivati del petrolio e le rinnovabili italiane sono in gran parte fotovoltaico, che d’inverno dà un contributo relativamente modesto (i Paesi nordici privilegiano perciò l’eolico).

L’Italia è fra i Paesi dell’Unione Europea che pagano di più l’energia  

Dalle iniziative legislative prese in questi anni e dalla propaganda del Governo, potrebbe quindi sembrare che tutto vada bene e che gli italiani possano dormire sonni tranquilli. Se ci pensate, è quel che accade anche con il Covid: abbiamo il vaccino e il Green Pass, per cui l’Italia, ci dicono, “è un modello da seguire”. Peccato, però, che nel caso del Covid non siamo affatto un’isola felice ma, come mostrato dal prof. Luca Ricolfi [6], siamo a metà classifica fra i Paesi europei in quanto a morti per abitante; mentre, in campo energetico, già da molti anni siamo ai primissimi posti fra i Paesi UE che pagano l’energia (luce e gas) più cara, con ovvie conseguenze sia per le famiglie sia per l’industria e le piccole e medie imprese (PMI).

Infatti, come si vede dai grafici seguenti forniti da Eurostat [7], il nostro Paese è al primo posto fra i paesi dell’Unione Europea con il prezzo a kWh dell’elettricità più alto per i clienti non domestici (i prezzi – comprensivi di imposte e oneri vari – sono relativi alla prima metà del 2019, dunque al periodo pre-pandemia); mentre risulta essere al 6° posto per quanto riguarda il prezzo pagato dai clienti domestici, grazie alla presenza del Mercato a Maggior Tutela con le tariffe ultra-calmierate stabilite dall’Authority (ma anche questi clienti dovranno passare al mercato libero dal 1° gennaio del 2024, e allora verosimilmente, come vedremo più avanti, verranno raggiunte le primissime posizioni anche in questa classifica).

I Paesi UE che pagano di più l’elettricità – Clienti non domestici, come ad es. le industrie. (fonte: Eurostat)

I Paesi UE che pagano di più l’elettricità – Clienti domestici, cioè le famiglie. (fonte: Eurostat)

Per quanto riguarda, invece, il prezzo del gas naturale (sempre relativo al primo semestre 2019 e comprensivo di imposte e oneri vari), l’Italia è all’11° posto per il prezzo pagato dai clienti non domestici (in pratica, le industrie, le piccole e medie imprese, le attività commerciali, le partite Iva) ed al 4° posto per quanto riguarda il prezzo pagato dai clienti domestici (le famiglie) [8]. Insomma, siamo riusciti a far molto peggio rispetto a quanto fatto contro il Covid, se si considera che l’obiettivo principale della politica energetica di un Paese dovrebbe essere quello di far pagar meno l’energia alle famiglie e alle imprese, per ridurre la “mortalità” di queste ultime o comunque garantire una miglior “salute” sia alle attività che alle famiglie. Ma quali sono le ragioni di questi prezzi così esorbitanti?

I Paesi UE che pagano di più il gas naturale – Clienti domestici, cioè le famiglie. (fonte: Eurostat)

Va premesso che, come ben illustra l’istogramma mostrato di seguito, la distanza del prezzo dell’energia elettrica in Italia dal prezzo europeo (media EU28) per le piccole, medie e grande imprese è andata progressivamente riducendosi a partire dal secondo semestre del 2012. Il gap di prezzo fra l’Italia e altri Paesi dell’UE è in parte diminuito, negli ultimi anni, perché nel 2016 problemi di sicurezza hanno costretto a chiudere, per controlli, diversi reattori nucleari francesi, per cui la Francia ha smesso di esportare in mezz’Europa la corrente a basso costo e ha dovuto importare da mezz’Europa corrente ad alto costo. Gli effetti sui prezzi europei del kWh si sono subito fatti sentire con forti rincari.

Differenze di prezzo dell’elettricità fra l’Italia e l’UE. Il 2012 corrisponde al differenziale più alto dei prezzi dell’energia elettrica pagati dalle imprese italiane nel periodo considerato (2010-2017). (fonte: ENEA)

Le ragioni strutturali per cui l’Italia paga una bolletta energetica salatissima sono numerose, ma le più note sono due: la scarsa diversificazione degli approvvigionamenti (per fonti e Paesi) e il peso delle imposte e, soprattutto, degli “oneri” in bolletta. Infatti, nel caso della generazione elettrica non possiamo contare sul nucleare e, se non in minima parte, sul gas nostrano, mentre per le importazioni siamo costretti – evidentemente – a fornirci dai paesi confinanti. Nel caso del gas, grazie alla presenza di più gasdotti e dei rigassificatori (che accolgono gas proveniente anche da Paesi non confinanti) possiamo avere una maggiore scelta e spuntare quindi prezzi all’ingrosso più bassi, donde il miglior posizionamento in graduatoria.

Come si può vedere dai grafici sottostanti, l’Italia è: al 2° posto nell’UE per la quota delle imposte e degli oneri non recuperabili sul prezzo totale dell’energia elettrica per i consumatori non domestici; al 6° posto per quanto riguarda, invece, quelli domestici. Mentre, per quanto riguarda la quota delle imposte e degli oneri non recuperabili dai consumatori non domestici sul prezzo totale del gas naturale, il nostro Paese si pone a metà classifica; ma è al 4° posto, invece, per i consumatori domestici. Le posizioni italiane nella classifica UE per quanto riguarda il peso di imposte e oneri risultano, quindi, simili a quelle del prezzo totale, il che indica come la ragione principale della cattiva posizione sia proprio il peso di imposte ed oneri.

Percentuale di imposte e oneri nelle bollette elettriche dei Paesi UE – Clienti non domestici. (fonte: Eurostat)

Percentuale di imposte e oneri nelle bollette elettriche dei Paesi UE – Clienti domestici. (fonte: Eurostat)

Percentuale di imposte e oneri nelle bollette del gas dei Paesi UE – Clienti domestici. (fonte: Eurostat)

Riassumendo, industrie e PMI italiane pagano carissima l’elettricità, mentre le famiglie italiane pagano già ora molto cara sia luce che gas: infatti, industrie e PMI pagano per l’elettricità dei prezzi che sono da anni ben al di sopra la media dell’Unione Europea (UE), nonostante le nostre oltre 500 aziende di vendita dell’energia sul mercato libero. Viceversa, le famiglie con consumi medio-bassi pagano (per ora) un po’ meno della media dell’UE. Inoltre, in Italia si è generato un gap rilevante tra i prezzi pagati dai consumatori finali nei mercati al dettaglio ed i corsi delle relative materie prime sui mercati all’ingrosso.

Da cosa dipende il prezzo dell’elettricità alla Borsa elettrica?  

Per capire le altre cause dell’alto prezzo della bolletta energetica italiana, occorre entrare nel “sancta sanctorum” del mercato energetico italiano. Ma niente paura, tutto può essere spiegato in poche parole. Il cosiddetto “Prezzo Unico Nazionale” (PUN) è il prezzo di riferimento dell’energia elettrica rilevato sulla Borsa elettrica italiana. La formazione di tale prezzo è complessa, ma si può presumere che, al crescere della penetrazione delle fonti rinnovabili, il prezzo di vendita in Borsa dell’energia elettrica si ridurrà, con un vantaggio anche per il consumatore. Tuttavia, non si ridurrà quanto si può pensare a prima vista.

Infatti, alla Borsa elettrica – dove si forma il prezzo di circa i due terzi dell’energia elettrica venduta in Italia e grosso modo i tre quarti di quella destinata ai clienti a maggior tutela (i piccoli consumatori) – le offerte di energia elettrica vengono accettate in ordine di merito economico, cioè in ordine di prezzo crescente, fino a quando la loro somma in termini di kWh arriva a soddisfare la domanda. Il prezzo del kWh dell’ultimo offerente accettato (quindi quello più alto) viene attribuito a tutte le offerte (criterio del marginal price).

Il PUN è importante perché fa da riferimento alle tariffe elettriche proposte mensilmente dai fornitori ai clienti o potenziali tali. In pratica, il fornitore di energia guadagna perché al prezzo del PUN aggiunge un differenziale, o spread. In particolare, alcuni contratti con tariffa variabile offrono come, possibile tariffa, il “PUN + spread”. Ad esempio, uno “spread su PUN” di 0,0135 €/kWh vuol dire che devo aggiungere tale valore al PUN (espresso però in €/kWh!) per sapere la tariffa proposta per la componente energia.

In altre parole, il Prezzo Unico Nazionale (PUN) rilevato sulla Borsa elettrica è il risultato di aste che coprono la richiesta di energia prevista, ora per ora, con l’elettricità offerta da vari operatori (Enel Energia, A2A, Acea, Sorgenia, etc.). Nelle aste si accetta, cioè si “dispaccia”, prima l’offerta più economica e poi, via via, i “pacchetti” più cari, fino a coprire tutto il fabbisogno. A determinare il prezzo orario che si applica a tutti gli impianti è però la fonte più cara selezionata. Le rinnovabili non programmabili, come solare ed eolico, sono offerte a prezzo zero, così da non rischiare di non essere selezionate: ciò avviene in accoglimento di una direttiva europea, ma in realtà non lo rischierebbero comunque, in quanto vento, sole, acqua, e fluido geotermico sono fonti energetiche a costo di funzionamento quasi nullo.

Pertanto, il meccanismo usato nella Borsa elettrica (e nelle borse europee) per fissare ogni giorno il costo dell’elettricità è uno dei veri colpevoli del caro-bolletta, sebbene sia uno dei più sconosciuti al grande pubblico. Poiché il meccanismo delle Borse elettriche prevede che il prezzo di vendita dell’energia sia determinato dall’impianto meno efficiente con cui si satura la domanda, se nell’esempio in figura una quota dell’offerta non venisse dall’eolico, per soddisfare tutta la domanda bisognerebbe ricorrere a impianti a combustibili fossili ancora più costosi, facendo salire il prezzo di vendita dei kWh [33]. Per sterilizzare questi effetti che accrescono il prezzo a MWh, bisognerebbe puntare ad es. su aste e su contratti a lungo termine con fonti rinnovabili (i cosiddetti Power Purchase Agreement, o PPA).

Il perverso criterio del prezzo marginale nella formazione del prezzo giornaliero alla Borsa elettrica, che fa piacere ai produttori ma molto meno al consumatore finale (fonte: G.B. Zorzoli / Quale Energia)

Nel frattempo, il prezzo del gas naturale determina (e determinerà ancora in futuro) il “fattore di carico” con cui la generazione a gas può essere (e verrà) utilizzata. Anche il numero dei rigassificatori presenti giocherà un ruolo. D’altra parte, il gas naturale è usato come fonte per la generazione di picco di energia elettrica al fine di soddisfare i carichi di raffreddamento in estate e quelli di riscaldamento in inverno. Dunque è importante cercare di stabilire dei solidi modelli di analisi dei possibili prezzi futuri a MWh dell’elettricità basati sulla cosiddetta “co-integrazione” dei due prezzi (vedremo più avanti cosa esattamente significa) come strumenti decisionali anche per lo scambio di materie prime energetiche.

Quali sono le cause del prezzo così alto dell’elettricità in Italia?  

Le cause che influiscono sul prezzo elevato dell’energia elettrica nel nostro Paese sono, come dicevamo, numerose. Ora le analizzerò brevemente, sebbene non necessariamente in ordine di importanza. La prima causa è il mix squilibrato e limitato delle fonti energetiche disponibili, poiché in Italia esso è giocoforza limitato per l’assenza del nucleare e, d’altro canto, le fonti fossili (sostanzialmente il gas naturale) sono ancora molto rilevanti nel mix energetico nazionale e contribuiscono oggi alla formazione del prezzo sulla Borsa elettrica nonostante la crescente quota delle rinnovabili.

Inoltre, a causa del riscaldamento globale che ha portato a temperature più alte, vi è stata negli ultimi anni una minore disponibilità della generazione idroelettrica nazionale, sostituita dalla più costosa produzione delle centrali a gas, i cui costi sono molto legati all’andamento del mercato del metano ed a fattori geopolitici. Così l’aumento autunnale dei prezzi all’ingrosso del gas in tutta Europa dovuto alla domanda per il riscaldamento spinge ogni anno a far innalzare stagionalmente i prezzi elettrici. Una tendenza al rialzo su cui si innesta quella a più lungo termine dovuta all’uso crescente del gas per la transizione energetica.

La seconda causa, come abbiamo visto in precedenza, è la dipendenza dall’estero per quanto riguarda le materie prime energetiche: gas naturale, carbone, petrolio, etc. (ricordo che il petrolio viene usato per produrre i carburanti e, soprattutto in passato, veniva usato nella produzione termoelettrica tramite un suo noto distillato, l’olio combustibile). Inoltre, circa il 90% dell’elettricità consumata nel nostro Paese è di produzione nazionale, ma la restante parte arriva dalla Svizzera, dalla Francia e, in misura minore, da Slovenia e Austria. Si noti che, eccetto l’Austria, tutti questi Paesi posseggono centrali nucleari.

La terza causa – ma, come abbiamo visto dai dati di Eurostat, in realtà fino a qualche anno fa la prima per importanza fra tutte – è rappresentata dal peso elevato delle imposte e degli oneri non recuperabili. Questi ultimi, in particolare, sono una zavorra notevolissima nella nostra bolletta energetica. Si tratta di alcune componenti addizionali previste per legge, il cui gettito è destinato a finalità particolari. Sono i cosiddetti “oneri di sistema”, che incidono per una parte assai rilevante del costo totale lordo di un utente.

Andamento semestrale del peso delle 4 componenti della bolletta elettrica delle piccole imprese italiane nel periodo 2013-2017. Si noti come la componente energia (in colore azzurro) sia inclusa, nelle nuove bollette, nei cosiddetti “servizi di vendita” (in colore viola). La componente A3 è a copertura degli incentivi alle fonti rinnovabili ed a quelle “assimilate”, che sono non rinnovabili e inquinanti. Come si vede, gli “oneri” nel loro complesso (oggi indicati con una marea di nuove sigle per confondere ulteriormente il povero consumatore) pesano sempre più sulla bolletta elettrica delle piccole imprese. (fonte: ENEA)

Essi compaiono sotto varie forme in una bolletta elettrica, essendo composti da: una quota energia (euro/kWh), una quota potenza (euro/kW/anno), ed una quota fissa (euro/anno). La percentuale della spesa per gli oneri di sistema in una bolletta della luce è molto aumentata negli ultimi 15 anni, fino ad arrivare in certi periodi al 25% della spesa totale e ad attestarsi, ad oggi, intorno al 20%.

Gli oneri di sistema sono la somma di numerosi componenti: oneri per il decommissioning delle centrali nucleari; incentivi alle fonti rinnovabili (Conto Energia, “tariffa onnicomprensiva”, etc.); agevolazioni tariffarie per il settore ferroviario; ricerca di sistema; agevolazioni alle industrie energivore; oneri per il bonus elettrico; imprese elettriche minori; promozione dell’efficienza energetica (ad es. attraverso il meccanismo dei Certificati Verdi); enti locali che ospitano impianti nucleari. Insomma, una varietà di voci da retribuire lautamente che ricalca vagamente lo schema delle accise sulla benzina.

La più consistente di queste componenti è quella destinata a promuovere la produzione di energia da fonti rinnovabili e “assimilate”. Oltre agli oneri generati direttamente dagli incentivi statali, questa componente serve a coprire anche i costi di funzionamento del Gestore dei Servizi Energetici (GSE, anche se poi contattarlo per avere delle informazioni è una vera impresa), per la copertura dei costi per i Certificati Verdi, di quelli per le agevolazioni per le connessioni alla reti di distribuzione, etc.

In realtà, però, gran parte di questa componente non è stata usata per compensare i produttori di rinnovabili, bensì per pagare i produttori di energia da fonti “assimilate” non rinnovabili e inquinanti (facendo dunque un grosso favore all’ex monopolista, l’Enel, che come visto in precedenza ha nel suo mix energetico tali fonti): oggi centrali elettriche a ciclo combinato alimentate con il metano o il gas ottenuto dalla gassificazione dei residui di raffineria, termovalorizzatori connessi agli inceneritori di rifiuti, etc. Perciò, l’Italia è stata sottoposta a procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea e condannata, per cui ognuno può oggi chiedere la restituzione di tale somma illecitamente pagata. Naturalmente, va da sé che in un Paese “normale” la restituzione sarebbe automatica, ma non è il caso nostro.

Per dare un’idea migliore di questa situazione scandalosa che perpetua un andazzo, in voga in Italia da tempo, di elargire benefici sostanzialmente “ad aziendam”, posso citare una rivista di settore, Quale Energia, che nell’articolo “Tutto per Enel il ‘regalo’ alle centrali a olio combustibile” [32] sintetizza così la sostanza dell’ennesimo “favore” all’epoca concretizzatosi: “Circa 250 milioni di euro prelevati (in modo spalmato) dalle bollette degli italiani per rendere solo disponibili dal 1° gennaio al 31 marzo 2013, e con un preavviso di 48 ore, la produzione di vecchie e inquinanti centrali a olio combustibile, ormai obsolete. Obiettivo ufficiale è ‘fronteggiare un’eventuale emergenza gas’ (come quella verificatasi nell’inverno 2011). Dall’elenco dell’Authority, però, risulta che il ‘monopolista’ di questi impianti è Enel”.

Una vecchia centrale a olio combustibile dell’Enel, usata in emergenza per alleggerire il peso sulle scorte di gas nel periodo invernale. Dal 1° settembre 2017, gli impianti termici civili a olio combustibile sono fuorilegge, perché dannosi per la salute (sebbene lo siano pure quelli a carbone, di cui l’Enel ne possiede ancora diversi), oltre ad avere – in tempi “normali” – un costo di esercizio più alto rispetto al gas naturale.

Ogni eventuale parallelo fra questo regalo fatto alle lobby del petrolio e dell’energia con i più recenti “favori” fatti dal Governo alle lobby farmaceutiche – miliardi e miliardi spesi per i vaccini anti-Covid, indicazione persistente della tachipirina (che guarda caso era già prima il farmaco più venduto in Italia) nelle linee guida nonostante sia ormai noto dalla letteratura che è controindicata per il Covid, pressione per l’acquisto di costosissimi anticorpi monoclonali che poi non sono stati utilizzati, autorizzazione di antivirali dal costo esorbitante quando sarebbero disponibili principi attivi economici che in studi controllati randomizzati hanno funzionato meglio, etc. – è il classico “a pensar male si fa peccato ma…”.

Altre cause che influiscono sull’elevato prezzo dell’elettricità in Italia sono le seguenti: (1) il fatto che alcune aziende elettriche lavorino in modo speculativo su un mercato derivato dell’elettricità; (2) gli sconti in bolletta per l’industria “interrompibile” per la sicurezza del sistema elettrico; (3) la crescita dei costi di produzione delle centrali elettriche che devono marciare anche se inefficienti o vecchie perché ritenute indispensabili per garantire la sicurezza del sistema in determinate aree del Paese.

Inoltre, in Italia abbiamo elettrodotti inefficienti che contribuiscono a rendere l’energia elettrica più cara. I “no” dei comitati Nimby contro la posa di nuove infrastrutture e ricorsi ai TAR paralizzano molti investimenti di Terna sulle linee di alta tensione. Ciò costringe buona parte del sistema elettrico a funzionare con vecchie reti inadeguate, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. Al tempo stesso, lo sviluppo di reti elettriche più “smart” delle attuali comporterà investimenti e conseguenti oneri tariffari aggiuntivi.

Infine, il mercato libero in questi anni non ha fatto calare le bollette delle famiglie italiane, anzi per queste ha causato esattamente l’effetto opposto; e pure per le industrie italiane la situazione è pessima, visto che nonostante il mercato libero pagano ancora l’elettricità più cara che il resto d’Europa. Anche le piccole imprese italiane hanno, da anni, l’elettricità più cara d’Europa. In particolare, l’Analisi trimestrale del sistema energetico italiano curata periodicamente dall’ENEA illustra bene il differenziale storico del prezzo all’ingrosso dell’energia elettrica in Italia rispetto ai principali Paesi europei nel periodo 2010-17.

Le piccole imprese italiane (curva tratteggiata) hanno da anni l’elettricità più cara d’Europa. (fonte: ENEA)

La liberalizzazione del mercato non ha migliorato la situazione per famiglie, partite Iva e PMI  

Dal 1° luglio 2007, in Italia il mercato dell’energia è completamente liberalizzato, e ciò – secondo le dichiarazioni dell’epoca che accompagnarono il decreto Bersani, che introdusse tale liberalizzazione – avrebbe dovuto favorire la concorrenza e, di conseguenza, il calo dei prezzi. Ciò, però, in generale non è avvenuto, come vedremo, nonostante non vi fosse ancora l’obbligo del passaggio al mercato libero, e quindi vi fosse un forte stimolo, per i fornitori, a offrire ai clienti tariffe convenienti.

Come evidenziato già nel prezioso documento del 2015 “Monitoraggio Retail: Rapporto annuale 2012-13” redatto dall’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas (all’epoca chiamata AEEGSI, oggi ARERA) – ovvero dal massimo organismo pubblico in materia esistente in Italia – nel settore delle utenze elettriche domestiche il Mercato Libero è risultato essere molto più caro di quello a Maggior Tutela, cioè con tariffe fissate dall’Autorità: infatti, già nel periodo 2012-13, per i clienti domestici il Mercato Libero costava, in media, il 15-20% in più del Mercato tutelato, e una situazione simile si è riscontrata per le piccole attività.

Il citato Rapporto dell’Autorità per l’energia sintetizza, per gli anni 2012 e 2013, gli esiti dell’attività di monitoraggio della clientela di massa (“retail”) svolta da tale organismo nell’ambito dell’attività di regolare e sistematica osservazione delle condizioni di funzionamento del mercato della vendita al dettaglio di energia elettrica e di gas naturale. Le evidenze riscontrate in materia di struttura dell’offerta e dinamiche concorrenziali nel settore della vendita alla clientela di massa hanno indicato che “la maturità e la concorrenzialità del mercato ha raggiunto livelli disomogenei nei due settori – elettricità e gas – e, nell’ambito di ciascun settore, difformi per tipologia di cliente”.

In particolare, nel settore elettrico, l’analisi ha evidenziato “condizioni concorrenziali uniformi sul territorio nazionale ma assai disomogenee per le varie tipologie di clienti”. Infatti, l’attività di vendita ai clienti in “Media Tensione altri usi” – cioè ai clienti più energivori, come l’industria e le grandi e medie imprese – è risultata caratterizzata da condizioni di effettiva concorrenza, come desumibile dagli indici di concentrazione e dalla frequenza con cui i clienti cambiano fornitore (cioè fanno il cosiddetto “switch”). Inoltre, come evidenzia il rapporto dell’Autorità per l’energia, la dinamicità dei clienti in “Media Tensione altri usi” è risultata essere più intensa rispetto agli altri clienti analizzati: nel solo 2013, i passaggi tra modalità di fornitura operati da tali clienti sono stati pari a circa il 27,3% del totale.

Dal citato rapporto dell’Authority sono emerse invece indicazioni di segno opposto circa il grado di concorrenzialità nell’attività di vendita ai clienti connessi in Bassa Tensione (BT), che comprendono i clienti domestici ma anche le piccole imprese e partite Iva (ovvero i clienti cosiddetti, in gergo, “Bassa Tensione altri usi”). In particolare, secondo il rapporto, i risultati dell’analisi svolta dall’Autorità circa le condizioni di fornitura di energia elettrica ai clienti domestici possono essere sintetizzate come segue:

  • In primo luogo, il servizio di Maggior tutela costituiva la modalità di fornitura prevalente per tale tipologia di clienti finali: il 75% dei clienti domestici, nel 2013, preferiva tale modalità di approvvigionamento rispetto alle alternative disponibili sul mercato libero;
  • In secondo luogo, il fenomeno dei rientri nel servizio di Maggior Tutela, da parte di clienti finali che in precedenza si approvvigionavano sul mercato libero, presenta dimensioni non trascurabili: per ogni 7 clienti domestici che hanno lasciato il servizio di Maggior Tutela nel 2013, uno vi è rientrato;
  • In terzo luogo, gli esercenti del servizio di Maggior Tutela apparivano ancora godere, rispetto ai loro concorrenti, di un certo vantaggio nel “convincere” i clienti domestici a rifornirsi alle loro condizioni nel mercato libero. Infatti, il rapporto evidenzia che quasi il 60% dei clienti che rinunciano al servizio di Maggior Tutela in favore della fornitura sul mercato libero sceglie di approvvigionarsi dal venditore che in precedenza forniva il servizio di Maggior Tutela (o da un venditore appartenente al gruppo societario del medesimo esercente).
  • In quarto luogo, si è osservato che il primo operatore del settore elettrico deteneva, relativamente al biennio analizzato, una quota di mercato prossima al 50% delle vendite a clienti finali domestici del mercato libero ed i principali tre operatori detenevano una quota superiore al 70%. “Tali livelli di concentrazione (v. la tabella seguente)”, spiegava il rapporto dell’Authority, “qualora trovassero conferma anche a seguito della progressiva riduzione del numero di clienti forniti nel servizio di Maggior Tutela, potrebbero risultare critici con il dispiegarsi di una effettiva concorrenza”.

  • Infine, secondo il rapporto dell’Authority vi sono evidenze che, in media, i clienti elettrici domestici che si approvvigionano sul mercato libero pagano un prezzo di fornitura maggiore di quello che pagherebbero nel regime di Maggior Tutela. Nel 2013, i prezzi medi rilevati nel mercato libero, con riferimento alla sola quota relativa ai costi di approvvigionamento, vendita e margine di commercializzazione, risultavano superiori a quelli del servizio di Maggior Tutela di un intervallo compreso tra il 15% e il 20%. Evidentemente, una pessima notizia!

Differenza di costi dell’elettricità fra mercato libero e in Maggior Tutela per i clienti domestici a 5-6 anni di distanza dalla liberalizzazione: il mercato libero è risultato essere del 15-20% più caro. (fonte: Arera)

Una situazione simile a quella riscontrata per il mercato elettrico al dettaglio si è osservata anche per il gas naturale, dove: (1) i clienti domestici ed i condomini sono risultati pagare il gas in media di più sul mercato libero che non su quello a maggior tutela (v. figura seguente); si nota una elevata concentrazione della clientela presso pochissimi fornitori (peraltro in parte diversi da quelli dominanti nel caso dell’energia elettrica, come si può notare confrontando le due tabelle).

Perché l’obbligo del passaggio al mercato libero peggiorerà la situazione

Riassumendo, la stessa Authority per l’energia ha trovato (e dunque ammesso) che i clienti domestici, le partita Iva e le PMI che passano al mercato libero finiscono per pagare luce e gas di più rispetto al mercato a maggior tutela. E non è che per le industrie e le grandi imprese energivore la situazione sia in realtà molto più rosea. Me ne accorsi qualche anno fa, quando grazie a un amico potei disporre delle bollette elettriche di numerose SpA e grosse Srl del settore manifatturiero grandi consumatrici di elettricità.

Le sottoposi quindi a un’analisi comparata (vedi tabella), misurando lo spread da loro pagato rispetto al prezzo dell’elettricità sulla Borsa elettrica (nel mese al quale la singola bolletta si riferisce). Ciò che scoprii, come mostrato chiaramente dalla figura, è che vi è una differenza enorme nello spread pagato dalle varie aziende. In un caso, l’azienda pagava il 42% in più rispetto al prezzo della Borsa elettrica, in un altro il 36% di più, e così via. Solo 4 aziende su 10 pagavano uno spread inferiore all’11%! Il che la dice lunga sulla (in)capacità anche delle grosse aziende di scegliere il fornitore e il tipo di contratto giusti.

I prezzi pagati per l’elettricità da 10 aziende italiane energivore a confronto (i nomi di aziende e fornitori luce sono stati omessi per ovvie ragioni di riservatezza). Il PUN (Prezzo Unico Nazionale) è il prezzo di riferimento dell’energia elettrica rilevato sulla borsa elettrica italiana (IPEX, Italian Power Exchange). (fonte: elaborazione dell’Autore su dati forniti dalle aziende stesse attraverso le bollette)

In realtà, per un non esperto è assai difficile effettuare confronti tra i fornitori, o anche solo “leggere fra le righe” di un’offerta luce o gas, per non parlare del relativo contratto da firmare con le clausole scritte in piccolo. Così, scoprire le informazioni nascoste, quelle ingannevoli e le cose che non vanno può, perfino per un ingegnere (figure di cui molte delle aziende da me analizzate erano “imbottiti”), risultare assai arduo, se egli non è addentro a tali tematiche e non ha la necessaria esperienza.

Poche persone – al di là degli “addetti ai lavori”, ovviamente – sanno che il confronto fra due o più fornitori di luce (o, analogamente, di gas) si può fare solo se: (1) le loro offerte hanno lo stesso tipo di indicizzazione (ad es. sono tutte indicizzate al PUN); (2) si conoscono i costi fissi mensili applicati da ciascuno di essi, che comprendono, nel caso dell’energia elettrica, il Prezzo di Commercializzazione e Vendita (PCV) stabilito dall’Authority (una componente tariffaria che copre le spese di gestione commerciale dei clienti), a cui si possono sommare altri costi fissi, questa volta stabiliti dal fornitore, magari con una certa “fantasia” (ad es. “energia con garanzia d’origine green”, con riferimento alle fonti rinnovabili).

Dunque, in pratica un primo fornitore luce (A) potrebbe offrire, ad esempio, l’elettricità a 230 €/MWh (ovvero equivalente a 0,23 €/kWh) più un costo fisso mensile pari a 12 €/mese, mentre un secondo fornitore (B) potrebbe offrirla a 0,30 €/kWh più un costo fisso mensile pari a 6 €/mese. Quale dei due fornitori è più conveniente per la famiglia media (2.700 kWh annui), A o B? Beh, se si fanno tutti i conti (v. figura), si scopre che il fornitore B risulta “a sorpresa” di circa il 15% più economico rispetto al fornitore A, nonostante il prezzo della materia prima fosse ben più alto rispetto a quello applicato dal fornitore A! Quindi, vi ho svelato uno dei tanti ed efficaci trucchi usati dai fornitori per ingannare il consumatore.

In realtà – e qui arriviamo a un altro punto chiave della questione – il mercato libero non è sempre meno conveniente rispetto al mercato tutelato. Infatti, sul mercato libero il consumatore è libero di scegliere un prezzo fisso (sia pure per la sola componente energia) piuttosto che un prezzo variabile (ad es. indicizzato al PUN più uno spread diverso da fornitore a fornitore) e viceversa, a seconda delle proprie esigenze di consumo (un po’ come succede con i mutui, dove si può scegliere fra tasso fisso o tasso variabile, ovvero indicizzato all’Euribor più uno spread); mentre nel mercato a Maggior tutela c’è solo il prezzo variabile.

Di conseguenza, quando i prezzi dell’energia scendono, la Maggior tutela risulta più conveniente del mercato libero: viceversa, in caso di salita dei prezzi, si avvera esattamente il contrario. Le offerte luce e gas a prezzo fisso sono dunque di solito dedicate alle utenze alimentate in bassa e media tensione dei clienti che vogliono pagare sempre lo stesso prezzo coprendosi dal rischio di rialzi, ad es. come conseguenza dell’aumento del prezzo del gas sui mercati internazionali.

La prima schermata di un comparatore di offerte luce realizzato dall’Autore con un foglio Excel. Nel caso di offerte biorarie o multiorarie il confronto è un po’ più laborioso, ma occorre sempre tener conto sia del costo della componente energia nelle varie fasce sia dei costi fissi mensili (che invece molti ignorano!).

Tuttavia, questa possibilità di scelta – e di conseguente risparmio – è vera solo sulla carta, perché il cliente medio (in particolare quasi tutte le famiglie e le piccole attività, ma anche molte PMI) non ne è, in generale, a conoscenza (gli agenti dei fornitori guadagnano pochi euro a contratto, sono formati con corsi di 2 ore e tendono a perdere meno tempo possibile con i clienti), né è minimamente in grado di fare delle previsioni sui prezzi futuri dell’energia, che oltretutto presentano una forte componente stagionale, la quale falsa la percezione e si riflette nel prezzo fisso offerto nel mese della stipula, che rimane “blindato” per tutta la durata della fornitura (tipicamente annuale, ma può essere anche per 24 mesi, cioè 2 anni).

Con un prezzo fisso, il cliente si mette al riparo dalle oscillazioni dei prezzi all’ingrosso dell’energia. D’altra parte, le offerte indicizzate al PUN (+ spread) sono “di base” più economiche di quelle a prezzo fisso non solo perché il venditore non deve aggiungere al prezzo dell’energia un extra-margine per accollarsi il rischio di oscillazione dei prezzi, ma anche perché acquistare energia quotata al PUN non richiede che intermediari finanziari si collochino nel mezzo, cosa non possibile nel caso di quotazioni a prezzo fisso (o di altri tipi di indici), dove gli intermediari finanziari elaborano appositi strumenti per bloccare il prezzo.

Per esempio, in un’offerta indicizzata uno “spread su PUN” di 0,0135 €/kWh vuol dire che devo aggiungere tale valore al PUN (in €/kWh!) per sapere la tariffa proposta dal fornitore per la (sola) componente energia della bolletta. Supponiamo ad es. che il PUN in un determinato mese sia di 55,32 €/MWh. Per conoscere il suo valore espresso in €/kWh, lo dividiamo per 1000, ottenendo 0,05532 €/kWh (che è pari a 5,53 centesimi a kWh). Pertanto, nell’esempio suddetto, la tariffa in bolletta per la componente energia sarà uguale a Pe = 0,05532 + 0,0135 = 0,06882 €/kWh (pari, evidentemente, a 6,88 centesimi a kWh).

Sebbene ormai, dopo la riforma tariffaria, la componente energia pesi per meno del 50% sul totale fatturato in bolletta, la scelta tra prezzo fisso e prezzo variabile è una scelta difficile ma importante per ogni consumatore, tanto più se energivoro. Per non parlare della scelta fra tariffe monorarie, biorarie e multiorarie rese possibili dai contatori elettronici di ultima generazione, che rendono le decisioni del consumatore in tema di contratto luce e gas difficili quasi quanto il superare un esame scolastico, specie se si è in presenza di venditori scorretti, disinformati o poco professionali.

Pertanto, l’abolizione del mercato a maggior tutela non potrà fare altro che peggiorare le cose sia per le famiglie (che saranno costrette a passare al mercato libero entro il 1° gennaio 2024) sia per le “piccole attività” (PMI con un numero di dipendenti inferiore a 50 e un fatturato annuo di massimo 10 milioni di euro), che invece avevano come scadenza per il passaggio il 1° gennaio 2021. Infatti, senza più il mercato a maggior tutela con le tariffe fissate dall’Authority, i fornitori del mercato libero possono avere “campo libero” sulle tariffe, sapendo che pure i clienti più recalcitranti non avranno purtroppo alternative.

L’obbligo del passaggio al mercato libero vs. l’obbligo vaccinale tramite Green Pass

Forse i lettori più attenti si staranno chiedendo perché mai imporre l’obbligo del passaggio al mercato libero per famiglie, partite Iva e PMI, dal momento che loro non ne beneficiano (verosimilmente perché non hanno le competenze necessarie per scoprire gli innumerevoli tranelli posti loro dai fornitori). Ebbene, non ho una risposta, poiché qualsiasi persona sana di mente (e non in conflitto di interessi) sulla base delle evidenze rinuncerebbe ad imporre l’obbligo a queste categorie, mantenendo lo status quo, cosa peraltro fatta in passato su richiesta del M5S “di non esporre le famiglie al rischio di un incontrollato aumento dei prezzi”. In fondo, chi vuole passare al mercato libero può già farlo, perché obbligarci?

Inoltre, è interessante notare che si può fare una sorta di parallelo fra l’obbligo del passaggio al mercato libero di queste categorie (“deboli” per la loro incapacità di scelta) e l’obbligo surrettizio alla vaccinazione rappresentato dal Green Pass (anch’esso rivolto a categorie “deboli”, ma nel senso che non hanno scelta). In entrambi i casi, le intenzioni iniziali erano buone, sembravano strumenti saggi. Poi, però, in ambedue i casi i fatti hanno smentito le dichiarazioni delle Autorità, ma nessuno ha avuto il coraggio non dico di fare retromarcia, ma anche solo di applicare delle restrizioni, di alimentare un serio dibattito pubblico sul tema valutando quantitativamente rischi e benefici sui vari versanti (salute, economia, psiche, etc.)

Nel caso del Green Pass, sappiamo che ha tre grossi punti deboli: (1) induce un falso senso di sicurezza, che porta le persone ad allentare le normali precauzioni; (2) non spinge a vaccinarsi, ma anzi sembra avere l’effetto opposto, se si fa un confronto a livello europeo [3]; (3) è epidemiologicamente pericoloso, in quanto è un vero e proprio “lasciapassare” per il virus, dato che i vaccinati sono meno infettivi dei vaccinati solo per 4 mesi e mezzo (v. la parte più chiara del grafico), mentre per la restante metà dei 9 mesi di validità del Green Pass – che per questo motivo è stata, alcuni giorni fa, tardivamente portata a 6 – i vaccinati infettano più (o almeno quanto) i non vaccinati [23]; [4] impatta molto sugli under 50, la popolazione in età lavorativa che non contribuisce quasi per nulla all’“emergenza”, poiché oltre il 99% dei morti per Covid sono – in assenza di vaccinazione – over 50, di cui per la maggior parte anziani con una o più comorbidità.

L’efficacia del vaccino Pfizer (contro l’infezione) nei vaccinati rispetto ai non vaccinati, come trovata dallo studio di Chemaitelly et al. [26]. L’asse orizzontale mostra i 9 mesi di durata del Green Pass, quale era fino a pochissimo tempo fa (per molto tempo è stata addirittura di 12 mesi). Come si vede, i vaccinati sono meno infettivi dei vaccinati per 4 mesi e mezzo (parte più chiara del grafico), mentre per la restante metà della validità del Green Pass i vaccinati infettano più (o almeno quanto) i non vaccinati, come mostrato dalla parte più scura del grafico. I dati relativi ai mesi 8 e 9 sono una estrapolazione ottimistica, poiché quei mesi non sono analizzati dallo studio. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati della Tabella S11 [26]) 

La verità è che la “caccia alle streghe” ai non vaccinati ha distratto dalle vere priorità. Un recente report dell’Università Cattolica stima che oltre 3 ricoveri su 4 tra i vaccinati (il 76%) e addirittura 7 su 10 in terapia intensiva si sarebbero potuti evitare se le persone vaccinate da oltre 5 mesi avessero ricevuto la terza dose [31]. Un ritardo, evidentemente, che non si può che definire “colpevole”. In altre parole, le Autorità – forse per una scarsa competenza matematica – ancora una volta non hanno saputo capire quali erano i fattori più importanti su cui agire e quale fosse il timing giusto per farlo. Ciò era già accaduto nella prima fase della pandemia, come spigato nel libro La notte delle ninfee [27], ed era costato forse ancora più morti.

Quindi uno si aspetterebbe che, preso atto della realtà dei fatti, il Green Pass venisse abolito, o quanto meno non imposto ai giovani, che ormai secondo numerose analisi indipendenti risultano avere un rapporto rischi-benefici sfavorevole con i vaccini anti-Covid attuali [24, 25]. Analogamente, uno si aspetterebbe che si rinunciasse all’obbligo del passaggio al mercato libero per famiglie, partite IVA e PMI, visto che per questi soggetti non vi sono vantaggi, se non – evidentemente – per le lobby dell’energia, che a parità di consumi potranno far pagare di più alla maggior parte dei clienti, che sono del tutto inesperti.

Lascio al lettore l’ulteriore analogia fra gli interessi in gioco per la vaccinazione di massa e quelli per il passaggio al mercato libero. Nel primo caso, l’autorità (AIFA, Ministero della Salute) che dovrebbe essere indipendente sembra comportarsi come il miglior rappresentante delle case farmaceutiche, senza peraltro che ve ne sia alcun motivo apparente, visto che le altre “armi” disponibili contro il Covid sarebbero parecchie, se solo si fosse voluto prenderle in considerazione; nel secondo caso, invece, sono l’Authority dell’energia e il Ministero dello Sviluppo Economico che sembrano non fare gli interessi di cittadini e delle piccole attività e imprese. Insomma, in entrambi i casi le Autorità si sono intestardite passando, di fatto, dalla ragione al torto e, nel primo caso, si sono separate dalla scienza, nel secondo dalla logica.

Sia nel caso dell’obbligo surrettizio alla vaccinazione tramite Green Pass sia in quello dell’obbligo al passaggio libero, l’impatto su larghe fasce della popolazione italiana è enorme: di natura economica, sociale e psichica nel primo caso, soltanto (si fa per dire) economica nel secondo. Inoltre, sia nella lotta contro il Covid sia in quella contro il caro-bollette si è sempre alla ricerca di un capro espiatorio, individuato – rispettivamente – nei non vaccinati ed in cause “esogene”, magari definite contingenti; ma i dati mostrano che i maggiori “untori” in Italia, in questo momento, sono i vaccinati per i quali sono passati più di 5 mesi dalla seconda dose, mentre il caro-bollette italiano dipende da scelte errate della politica e del regolatore, per cui ora il “conto” da pagare (ad es. per i risultati dei referendum su nucleare e trivelle e per la mancanza di una politica energetica seria e, per molti anni, perfino di un Piano energetico) è davvero salato.

La riforma delle tariffe elettriche: una stangata per le famiglie passata sotto silenzio 

La liberalizzazione del mercato dell’energia non è stata, però, l’unica idea partorita dalle Autorità ad avere appesantito il bilancio economico annuale delle famiglie italiane, già svantaggiate dalle tariffe fra le più alte d’Europa. Infatti, non tutti i lettori sono probabilmente al corrente della più che discutibile riforma delle tariffe elettriche, che ha interessato i circa 30 milioni di utenti elettrici domestici italiani, e che ha previsto tre step progressivi – partiti il 1° gennaio 2016 – per arrivare il 1° gennaio 2019:

  • alla totale eliminazione della “progressività” (che permetteva in precedenza a chi consumava meno di pagare di meno, logica alla base del risparmio energetico);
  • allo spostamento degli oneri di rete e di sistema dalla parte variabile della bolletta a quella fissa, cioè che non varia in base al consumo, con grave penalizzazione per i bassi consumi e per le seconde case (oltre che per le rinnovabili).

La riforma delle tariffe elettriche per gli utenti domestici, partita il 1° gennaio del 2016, è stata attuata dall’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (oggi Arera, all’epoca AEEGSI) come recepimento della Direttiva Europea 2012/27/UE sull’efficienza energetica. Essa prevedeva, entro il 31 dicembre 2017, il completo superamento della “struttura progressiva” della tariffa per il trasporto dell’energia elettrica, la gestione del contatore e degli oneri di sistema che troviamo nelle nostre bollette.

La “struttura progressiva” era stata introdotta negli anni ’70, in periodo di “austerity”, e prevedeva un costo unitario dell’energia elettrica che aumentava per scaglioni all’aumentare dei consumi; ciò ha consentito, a suo tempo, di stimolare un’ampia diffusione degli elettrodomestici essenziali per il benessere delle famiglie e di disincentivare gli sprechi di energia elettrica, ed oggi – secondo la “scusa” ufficiale o ufficiosa con cui l’ha giustificata il regolatore – poteva essere ostacolo all’uso delle più moderne soluzioni per la climatizzazione ambiente e per la ricarica delle auto elettriche.

Le vecchie tariffe D1, D2 e D3. Si noti la progressività con i consumi della vecchia tariffa D2, che incentivava il risparmio. Ai clienti domestici erano applicate le tariffe D2 (se gli utenti erano residenti e la potenza contrattuale non era superiore a 3 kW) e la tariffa D3 (applicata alle “seconde case” ed a chi aveva un contatore di potenza superiore a 3 kW). La D1 era riservata alle utenze domestiche con pompe di calore.

L’idea dietro la riforma era che le soluzioni tecnologiche innovative – quali le pompe di calore elettriche e le auto elettriche – comportano grandi benefici in termini di incremento della sostenibilità ambientale (riduzione dei consumi di energia primaria, riduzione dell’inquinamento, aumento del peso delle fonti rinnovabili, etc.), ma in passato sono risultate economicamente non competitive per via della tariffazione progressiva che produceva incrementi molto rilevanti nella spesa energetica.

In pratica, a fronte di una netta riduzione dei consumi di energia primaria (23-25%) ottenuta con l’uso di queste nuove tecnologie, la tariffazione progressiva produceva incrementi molto rilevanti nella spesa energetica totale in Euro (34-53%), rendendole palesemente antieconomiche. La soluzione adottata dall’Unione Europea e recepita dall’Italia, tuttavia, penalizza fortemente le famiglie più povere, che sono sostanzialmente quelle che non possono né permettersi le nuove tecnologie (per gli elevati costi di installazione) né spese più elevate per via dei loro bassi consumi (al fine di risparmiare).

In pratica, con la riforma scattata nel gennaio 2017 (delibera 582/2015/R/eel), l’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico ha stabilito una nuova tariffa TD per i servizi di rete, quindi relativi al trasporto e alla distribuzione dell’energia elettrica, spostati sulla parte fissa: quello che comporta la riforma è dunque che i costi di rete risultano pagati semplicemente per la potenza impegnata e non più in base ai kWh consumati dal cliente. Un’assurdità evidente e di fatto un fardello ulteriore per molti, ma così è.

Gli effetti per gli utenti domestici della riforma delle tariffe elettriche. Come si vede, con la riforma chi ci ha rimesso di più sono i soggetti che consumano poco: poveri, single, proprietari di seconde case, etc.

Pertanto, da gennaio 2017 non esistono più le vecchie tariffe D2 e D3, ma si ha un’unica tariffa TD per i servizi di rete: la TD si applica a tutti i clienti domestici, eliminando la distinzione tra clienti residenti e non residenti ed abolendo gli scaglioni di consumo. In precedenza, invece, erano previste delle “tariffe” (cioè costi non fissi bensì variabili e proporzionali al consumo) regolate dall’Autorità più alte per le seconde case rispetto a quelle per gli immobili dove l’intestatario della bolletta era residente.

Perché la riforma è stata fatta nel modo sbagliato e favorendo le lobby  

L’effetto esplosivo della riforma in questione sulla spesa di una famiglia – riforma che avrebbe avuto un senso se fosse stata attuata tutelando le fasce deboli della popolazione, cosa che non è affatto successa! – lo si vede già particolarmente bene sulle seconde case, tipicamente caratterizzate da bassi consumi perché abitate solo per poco tempo nell’arco dell’anno, e che oltretutto difficilmente userebbero le pompe di calore per il riscaldamento invernale, quand’anche fossero case di montagna.

Infatti, come previsto dalla riforma decisa dall’Autorità per l’energia, dal 1° gennaio 2017 i clienti domestici non residenti devono pagare circa 20 euro al mese di base, anche senza avere consumi, come di solito si verifica per gran parte dell’anno nelle seconde case, spesso abitazioni al mare o in montagna. Così non stupisce che un utente abbia segnalato di aver notato un aumento di ben 135 euro all’anno, nel 2017, nella bolletta elettrica per la seconda casa, nonostante i relativi consumi fossero stati bassissimi.

La portata dell’aumento è inversamente proporzionale ai consumi: chi consuma poco o niente nota un forte aumento, chi consuma molto (più di 2500 kWh/anno) ha pagato di meno nel 2017 rispetto al 2016. Tuttavia, è ovvio che nel caso delle seconde case i consumi annuali sono solitamente molto bassi, per cui la novità si traduce in un vero e proprio salasso e le bollette nei periodi in cui la casa è disabitata possono aumentare tranquillamente del 200% (cioè raddoppiare), e in molti casi addirittura di più!

Il cosiddetto “break even point”, o punto di pareggio, si collocava all’epoca intorno a un consumo totale annuo tra i 2.000 e i 2.500 kWh. In pratica, chi ha pagato circa 600 € totali nel 2016 (corrispondenti appunto a un consumo compreso tra 2.000 e 2.500 kWh) si è trovato a pagare grosso modo la stessa cifra anche nel 2017; chi invece ha consumato di meno, ha registrato un aumento rispetto al 2016, mentre chi ha consumato di più rispetto agli ipotizzati 2.000-2.500 kWh annui ha notato un certo risparmio (sempre, ovviamente, nel caso che i consumi del 2017 siano stati pari a quelli del 2016).

L’impatto tipico della riforma delle tariffe elettriche sulle seconde case poco prima (2016) e dopo (2017) la sua introduzione. Come si vede, si è trattato sostanzialmente di un raddoppio dell’importo della bolletta. Quello sulle prime case è stato analogo in termini assoluti, ma viene “nascosto” dai consumi.

Evidentemente, il forte incremento delle quote fisse colpisce gli utenti con i consumi energetici più bassi, e in particolare quelli con i consumi pari o prossimi a zero. Perciò, vi sono state in Rete molte segnalazioni di lettori con la cifra ricorrente di 47,92 €, che corrisponde alla tipica bolletta bimestrale del 2017 per le utenze domestiche non residenti con consumi pari a zero, una bolletta che fino al 2016 ammontava a circa 23 €. Vi è quindi stato un incremento di circa 25 € nel 2017: praticamente è raddoppiata!

La riforma della tariffa elettrica degli utenti domestici, inoltre, ha tagliato le gambe a fotovoltaico, risparmio elettrico e cogenerazione, rendendo così anche indirettamente più salata la bolletta per gran parte delle famiglie con consumi piccoli e medi. Infatti, spostare i costi verso la parte fissa compromette il mercato del fotovoltaico e delle altre tecnologie per risparmiare o autoprodurre elettricità, disincentivandone l’adozione da parte dei privati, che trovano così assai meno conveniente adottarle.

La riforma delle tariffe elettriche ha penalizzato (e tuttora penalizza) molto fortemente il fotovoltaico e, più in generale, le fonti rinnovabili e l’autoproduzione dell’energia. Un vero e proprio favore alle “solite” lobby!

Non è difficile dunque capire che questa riforma attuata con questa modalità a dir poco scellerata è stata un vero e proprio favore fatto alle lobby dell’energia (i grandissimi produttori), che hanno interesse nel cercare di impedire la transizione alle rinnovabili e all’autoconsumo dei clienti domestici e, più in generale dei piccoli clienti, rendendo meno conveniente l’investimento in questo tipo di energie pulite e virtuose. D’altra parte, aumentando a dismisura i costi fissi, le lobby dell’energia pongono le basi affinché i propri clienti si stacchino del tutto dalla rete in futuro, appena sarà loro (prima o poi) possibile.

Anche in questo caso, è evidente il parallelismo fra il potere delle lobby in campo farmaceutico, che si è manifestato in modo abnorme nel caso del Covid e il potere delle lobby in campo energetico. Qui “a fare il bello e il cattivo tempo” sono da decenni le due major: rispettivamente l’Enel per quanto riguarda l’elettricità e l’Eni per il gas naturale. Naturalmente, anche qui, ufficialmente, le lobby non compaiono e le decisioni all’apparenza sono prese dalle Autorità in totale indipendenza. Ma chi segue questo settore sa che perfino il 5° Conto Energia per il fotovoltaico è stato scritto, in realtà, direttamente da un dipendente dell’Enel, smascherato grazie alla propria “firma” dimenticata sulle bozze in formato Word [9].

Le crescenti morosità e l’impatto su famiglie e fornitori di energia  

Come se non bastasse la batosta per i consumatori del passaggio al mercato libero e della ingiustificabile riforma delle tariffe elettriche appena illustrata, chi è in regola con le bollette elettriche deve ora coprire alcuni buchi lasciati dai morosi: si tratta del cosiddetto “Cmor” o “corrispettivo morosità”. È questo, in sintesi, il contenuto di una delibera, la 50/2018, emanata dall’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (Arera), che il 1° febbraio 2018 ha emanato un provvedimento che assegna ai consumatori – e non ai fornitori dell’energia – l’onere di rifondere i debiti per gli oneri generali di sistema accumulati dai morosi verso le aziende di distribuzione a partire dal 1° gennaio 2016.

Gli oneri di sistema devono sempre essere pagati dai distributori di energia elettrica all’Autorità che li ha decisi, anche sulle bollette non pagate. Per ora, l’Autorità ha deciso di accollare a tutti i consumatori solo una parte degli oneri non pagati, pari a 200 milioni. E quindi, su bollette elettriche già cariche di oneri, si è aggiunto un nuovo prelievo a carico di chi paga regolarmente. Secondo gli esperti, invece, l’Autorità dovrebbe porre delle nuove regole per evitare l’arrivo sul mercato di venditori inaffidabili.

Fatto sta che le famiglie italiane e le piccole attività hanno sempre più difficoltà a pagare le bollette di luce e gas, perché i “bonus” per le famiglie più povere sono – di fatto – soltanto un’elemosina, una sorta di goccia nel mare (né più nè meno, del resto, di quello che sono stati per le imprese italiane i famosi “ristori” per i lockdown imposti dal Governo in piena pandemia). Il risultato è che si creano nuove morosità che vanno ad aumentare la bolletta energetica del resto della popolazione attraverso il Cmor. Di conseguenza si alimenta, potenzialmente, una sorta di circolo vizioso che non può che peggiorare le cose.

Ma se, a causa delle crescenti morosità, dal lato clienti le cose vanno male, esse non vanno molto meglio per i fornitori di luce e gas, almeno da quando è scoppiata la pandemia e si sono avuti i lockdown. Infatti,   come spiegava bene in un’intervista [10], nel novembre 2020, Diego Pellegrino, CEO di Eroga Energia (società che vende energia alle partite Iva) e portavoce di Arte, associazione di 110 aziende che forniscono gas ed elettricità a circa un milione di clienti (con 2,5 miliardi di incasso): “Subito dopo il periodo di lockdown, le punte degli insoluti da parte degli utenti riguardo la fornitura di energia sono state del 40%, il trend sta continuando ed è ipotizzabile che peggiorerà con l’aggravarsi dell’emergenza”.

“Nei mesi di marzo e aprile, quando le attività erano chiuse per il lockdown”, spiega ancora Pellegrino per dare la misura di ciò che si è verificato, “le imprese hanno ricevuto le bollette relative ai mesi di gennaio e di febbraio, durante i quali vi erano stati consumi. Quindi durante la chiusura le attività si sono viste recapitare fatture con importi non gestibili durante quel periodo di stop loro imposto. Il fatto è che, a differenza di quanto è avvenuto all’estero, il Governo da un lato ha bloccato i distacchi per morosità ma dall’altro non ha previsto fondi per aiutare un settore, quello dell’erogazione di energia, in cui i capitali coinvolti sono interamente privati. Ma con il 40% di insoluti e senza aiuti pubblici dove si va?”.

“Noi, come tutti, abbiamo visto crollare le marginalità che sono necessarie per mantenerci in vita e assicurare lo stipendio ai nostri dipendenti”, sottolinea Pellegrino, lanciando un grido di allarme. “Inoltre va sottolineato che svolgiamo un servizio di incasso non remunerato per conto dello Stato, privo di princìpi di solidarietà e condivisione del rischio di impresa. Siamo gli ‘esattori dello Stato’ per più del 90% di quello che fatturiamo. E se gli utenti sospendono i pagamenti delle bollette o si permettono di pagare anche con 5 mesi di ritardo, noi abbiamo comunque l’obbligo di adempiere puntualmente a tutte le scadenze con lo Stato. In questa situazione di emergenza è un meccanismo che non può funzionare. Perciò, se il governo continua a tenere la testa sotto la sabbia finirà in tragedia”.

Insomma, i fornitori di luce e gas vengono usati dal Governo come ammortizzatori sociali (con capitali privati) per sopperire ai mancati pagamenti dei clienti, e non succede solo da noi. Non meraviglia, quindi, che da quando è scoppiata la pandemia, già solo nel Regno Unito e in Cina (solo per citare due Paesi che ho seguito più in dettaglio) siano falliti numerosi fornitori di energia. Ad esempio, nel 2021, nel Regno Unito quasi 30 società energetiche hanno cessato l’attività, lasciando oltre 2 milioni di clienti dipendenti dalla rete di sicurezza fornita dal regolatore del mercato (Ofgem), per mantenere le proprie forniture e proteggere i propri saldi creditori mentre vengono spostati verso un nuovo fornitore [11].

I fallimenti aziendali del Regno Unito sono attribuiti all’aumento dei prezzi all’ingrosso, in particolare per il gas naturale, che è aumentato di oltre il 300% dall’inizio dell’anno. Grazie al limite di Ofgem (l’equivalente della nostra Authority Arera) su quanto i fornitori possono addebitare per l’energia che vendono, le aziende britanniche sono infatti obbligate a fissare prezzi al di sotto di quanto costa loro l’acquisto all’ingrosso di gas ed elettricità. Il risultato è stato che molti fornitori hanno operato effettivamente in perdita. Tuttavia, è innegabile che da noi l’impatto delle morosità su fornitori e clienti finali non possa venire ignorato.

Come si effettuano le previsioni sul prezzo futuro dell’elettricità   

La fine del regime di maggior tutela prevista, per le famiglie e le microimprese, a partire dal 1° gennaio 2024 – e che rappresenta, di fatto, anch’essa uno straordinario favore fatto alle lobby – porrà, dunque, milioni di italiani di fronte alla necessità di passare al mercato libero, in quanto chi non passa al mercato libero si ritroverà in un nuovo mercato transitorio, come successo già alle piccole imprese (10-50 dipendenti e fatturato annuo di 2-10 milioni di euro) e alle microimprese (meno di 10 dipendenti e fatturato annuo inferiore a 2 milioni di euro) che al 1° gennaio 2021 non erano passate al mercato libero [12].

La prospettiva di dover passare al mercato libero, tuttavia, non è allettante per i clienti domestici (e neppure per le piccole attività, che non hanno in genere le competenze necessarie in materia), dovendosi effettuare delle scelte con informazioni scarse o comunque spesso incomplete: insomma, per molti sarà come tentare la sorte. Pertanto, è utile spiegare brevemente e sapere – almeno a grandi linee – come i professionisti fanno la previsioni sul prezzo futuro dell’elettricità, altrimenti la scelta fra il prezzo fisso e il prezzo variabile in un contratto con un fornitore di energia equivale al giocare alla roulette russa.

Vi sono un certo numero di studi nella letteratura che indagano sulla relazione tra prezzo del gas naturale e altri prezzi dell’energia, come petrolio ed elettricità. L’interesse dei ricercatori era quello di determinare se i prezzi di due serie qualsiasi sono “co-integrati”, nel senso che le due serie rimangono insieme e non divergono nel tempo. Qualsiasi divergenza è, in questo caso, a breve termine e alla fine le due serie tornano insieme. Se due serie sono co-integrate, allora sono considerate accoppiate.

In altre parole, due variabili di serie temporali sono co-integrate se possiedono una relazione di equilibrio di lungo periodo. Inoltre, due serie che sono co-integrate possono essere o non essere correlate nel breve periodo. Il combustibile con l’impatto più diretto sul prezzo dell’elettricità è il gas naturale, poiché la generazione di gas naturale in Italia spesso determina il prezzo dell’elettricità nel mercato. Invece, il prezzo del petrolio e quello del gas sono stati tradizionalmente considerati debolmente co-integrati.

Il nesso di causalità che lega i tre prezzi energetici più importanti. Il legame fra prezzo del gas naturale e prezzo dell’elettricità è più forte del legame fra prezzo del petrolio e prezzo del gas. Pertanto, le previsioni del prezzo dell’elettricità effettuate dai professionisti sono basate, sul breve termine, sull’andamento del prezzo del gas naturale, mentre sul più lungo termine tengono conto anche dell’andamento e delle previsioni relative al prezzo del petrolio. (fonte: elaborazione dell’Autore)

La debole co-integrazione tra il prezzo del petrolio e quello del gas era giustificata dal fatto che solo in aree limitate di utilizzo dell’energia – come il riscaldamento residenziale e commerciale – c’è una reale competizione tra petrolio e gas. Al contrario, il prezzo del gas e quello dell’elettricità sono più fortemente co-integrati. Tale co-integrazione può essere dovuta al fatto che il gas naturale viene usato sia per il riscaldamento residenziale sia per la generazione di energia elettrica per uso residenziale.

Una delle migliori analisi del legame reale fra prezzi del petrolio greggio, del gas naturale e dell’elettricità è stata effettuata da Bencivenga e Sargenti [25], due ricercatrici le quali nel 2010, nell’ambito del dottorato in Economia svolto all’Università di Roma La Sapienza, hanno considerato separatamente gli andamenti dei relativi mercati europei (Brent, BNP, EEX) e statunitensi (WTI, HH, PJM), confrontando i grafici dei prezzi giornalieri di queste tre commodity relativamente al periodo Ottobre 2001-Marzo 2009.

La tabella seguente riassume le correlazioni incondizionali fra i prezzi trovate dai due autori. Nel caso europeo, fra petrolio e gas vi è una discreta correlazione complessiva, pari a 0,677 (e 0,800 nel caso degli Stati Uniti), mentre tra i prezzi del gas e dell’elettricità vi è una correlazione totale pari a 0,622 (e 0,813 nel caso statunitense). Dinamiche simili sono state trovate per la relazione elettricità / petrolio, con una correlazione globale pari a 0,613 (e 0,749 nel caso americano).

Il seguente grafico analizza l’andamento dei prezzi dell’elettricità e del gas naturale in Italia rilevato nelle rispettive borse energetiche (PUN e PSV). Esso parte necessariamente dal 2010, anno di nascita della Borsa del gas italiana. La scelta di graficare il prezzo medio annuo, anziché quello mensile, permette di evidenziare il fatto che, tranne che in un caso (fra il 2014 e il 2015), ogni anno in cui il prezzo del gas cresce anche il prezzo dell’elettricità in Italia (espresso dal PUN sulla Borsa elettrica) aumenta, e viceversa. Ciò significa che, sul medio e lungo termine, il trend del prezzo del gas è un buon indicatore del trend del costo dell’elettricità nel nostro Paese, e può dunque essere utilizzato per delle previsioni in tal senso.

Il prezzo medio annuo dell’elettricità in Italia (espresso dal PUN, in €/MWh) e il prezzo del gas naturale sulla Borsa del gas italiana (PSV, in €/MWh) dal 2010 al 2016. (fonte: elaborazione dell’Autore)

L’aumento dei prezzi dell’energia a livello internazionale: trend e cause

I prezzi del gas naturale in tutto il mondo sono aumentati parecchio negli ultimi mesi, raggiungendo in alcuni luoghi livelli record. In Europa e in Asia, i prezzi si sono aggirati intorno a più di quattro volte le loro medie a lungo termine ed equivalenti a oltre 200 dollari al barile di greggio. Sia i consumatori che le imprese hanno notato aumenti dei prezzi, in particolare verso la stagione del riscaldamento invernale, quando la domanda di gas naturale raggiunge tradizionalmente il suo picco.

La rapida crescita della domanda globale di gas naturale negli ultimi dieci anni – dunque iniziata ben prima e indipendentemente dalla pandemia – è stata guidata dalla sua versatilità [13]: possiede attributi unici per la generazione di energia, vantaggi come combustibile per riscaldamento e cottura e riveste un ruolo chiave nella produzione di cemento, fertilizzante, vetro e molti altri processi. Il gas naturale ha un profilo di emissioni relativamente basso, con circa la metà delle emissioni di anidride carbonica del carbone. L’utilizzo del gas naturale al posto del carbone favorisce riduzioni ancora maggiori di ossido di azoto, anidride solforosa e particolato. Per tutti questi motivi, il gas naturale è molto richiesto.

Ci sono molte ragioni per le quali in questi mesi i prezzi del gas naturale stanno aumentando a livello globale, e diverse regioni del mondo hanno diversi fattori dominanti. Ciò che abbiamo visto negli ultimi tempi è una rara confluenza di eventi che potrebbe essere considerata una “tempesta perfetta” nell’esercitare una pressione al rialzo sui prezzi globali del gas naturale. Peraltro, pure in Cina si è verificata nella seconda metà del 2021 una “tempesta perfetta”, che ha portato a grossa carenza di elettricità ed a pesanti blackout elettrici; ma, come ho illustrato in un mio precedente articolo [14], le cause della crisi energetica cinese sono state molteplici (v. figura), non si limitano all’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche (in quel caso, del carbone, da cui la Cina ancora fortemente dipende).

Schema riassuntivo delle cause della carenza di elettricità in Cina nel 2021. (fonte elaborazione dell’Autore)

Come spiega Dustin Meyer, vice-presidente del Mercato gas naturale dell’American Petroleum Institute (API): “Quello che abbiamo visto di recente è che la domanda globale del gas naturale è aumentata insieme alla ripresa economica dalla pandemia. Dopo un 2020 anomalo, il 2021 ha rappresentato il ritorno a un trend storico decennale di forte crescita della domanda globale di gas. Tuttavia, mentre la domanda è aumentata, l’offerta globale di gas naturale è rimasta sostanzialmente piatta, il che esercita naturalmente una pressione al rialzo sui prezzi. E in quasi tutte le regioni della domanda, una serie di fattori individuali si sono combinati per lasciare i mercati globali piuttosto carenti di offerta”.

“Guardiamo la Cina”, spiega ancora Meyer, “da tempo il più grande motore al mondo per la crescita della domanda di gas naturale. Quest’anno la domanda di gas naturale in Cina è aumentata di circa il 20% su base annua, il che è sorprendente. In Sud America, la bassa produzione di energia idroelettrica ha portato a un aumento della domanda regionale di gas ed a una maggiore pressione al rialzo sui prezzi. Nell’Europa nordoccidentale, la produzione eolica offshore inaspettatamente bassa ad agosto e settembre ha aumentato la domanda di gas nel settore energetico, esercitando pressioni al rialzo sui prezzi” [13].

Inoltre, il gas naturale spesso compete nella produzione di energia con il carbone, a cui alcune regioni tornano quando i prezzi del gas aumentano. Tuttavia, anche i prezzi globali del carbone sono aumentati notevolmente quest’anno. L’aumento dei prezzi di luce e gas e dei carburanti è dovuto, quindi, all’aumentare della domanda internazionale di gas, petrolio e suoi derivati, ed è accentuata dalla speculazione da parte degli investitori finanziari che non sono interessati alla consegna “fisica” e che sfruttano il cosiddetto “contango” (che permette ad alcuni investitori di acquistare petrolio oggi, immagazzinarlo, bloccare quel prezzo e venderlo mesi dopo con un enorme profitto).

La situazione complessiva sottolinea l’importanza del rimanere indipendenti dal punto di vista energetico anziché fare affidamento sulle importazioni. Non è passato molto tempo da quando si prevedeva che gli Stati Uniti sarebbero stati il più grande importatore di gas al mondo, ma la situazione è cambiata radicalmente negli ultimi 10 anni grazie alla rivoluzione dello scisto (in realtà ora gli Stati Uniti sono tra i più grandi esportatori di gas al mondo). L’Italia, invece, ha puntato forte sul gas da importazione per la transizione energetica verso le rinnovabili e ora paga un conto salato, anche perché nel frattempo altri Paesi hanno avuto la stessa idea per la transizione e quindi i prezzi di questa materia prima saranno sempre più alti per la concorrenza nella domanda (a prescindere, dunque, dalla speculazione finanziaria).

E non pare trattarsi di una situazione contingente. I prezzi delle materie prime hanno storicamente eseguito cicli che spesso si svolgono nel mondo di un determinato mercato – il prezzo del petrolio greggio, ad esempio, può aumentare mentre quello del mais crolla – ciascuno per ragioni separate. Ma cosa succede se un gruppo di materie prime si unisce alla festa nello stesso momento? Ciò è chiamato un “superciclo” delle materie prime e vari professionisti del mercato ritengono che ora ne siamo all’inizio [28, 29]. Ciò, non sarebbe una novità, poiché ciò è già successo dopo la SARS del 2003, culminando con la grande crisi finanziaria del 2008, anno in cui il prezzo del greggio toccò la cifra record di 147 $ al barile.

Andamento storico dell’indice dei prezzi delle materie prime (include sia carburanti che metalli e altri tipi di commodities). Si vede molto bene il “superciclo” iniziato proprio dopo l’epidemia di SARS del 2003 e culminato nel 2008, quando il petrolio (e altre materie prime) erano “alle stelle”, a seguito della grossa crisi bancaria innescata da quella dei mutui sub-prime, avvenuta nel 2007 negli Stati Uniti.

I dati, d’altra parte, sembrano parlare chiaro. Il rame e altri metalli industriali sono già aumentati enormemente di prezzo, così come i semi di soia. Pare che la crescente domanda globale di cibo, petrolio e metalli, così come la domanda di automobili e cibo in Cina, stiano guidando un nuovo superciclo che potrebbe durare nel tempo, con tutte le conseguenze del caso [30]. Infatti, oggi non è necessario scambiare fisicamente materie prime per trovare opportunità in un superciclo, ovvero per fare speculazione, ma ciò non fa altro che incrementare ulteriormente il problema, come avvenne già nel periodo 2003-2008.

Perché la bolletta energetica può dare il “colpo di grazia” a famiglie ed imprese

A questo punto abbiamo tutti gli elementi per poter capire quali sono le cause dell’aumento della bolletta energetica degli italiani e per poter fare delle valutazioni qualitative e (volendo) quantitative. In pratica, le cause possono essere riassunte – essenzialmente – nelle seguenti:

  1. mix squilibrato delle fonti disponibili (largamente pesato sul gas naturale), aggravato dal riscaldamento globale (minore disponibilità di generazione idroelettrica);
  2. dipendenza dall’estero per materie prime (gas, petrolio) e, in misura minore, energia elettrica, in conseguenza dei referendum sulle trivelle (2016) e sul nucleare (1987);
  3. peso elevato delle imposte (sul valore aggiunto, o IVA) e delle accise (imposta erariale di consumo), e molte attività non sanno di aver diritto ad accise del gas ridotte [21];
  4. peso assai elevato degli oneri di sistema (dismissione centrali nucleari; incentivi a rinnovabili e “assimilate”; oneri per il bonus elettrico; promozione efficienza energetica, etc.);
  5. passaggio al mercato libero, per di più reso (senza alcuna ragione valida) obbligatorio, cosa che ha fatto (e farà ancora) aumentare le bollette di famiglie e piccole attività / PMI;
  6. riforma delle tariffe elettriche per gli utenti domestici, che ha colpito pesantemente le famiglie che consumavano meno (che in genere sono le più povere), sfavorendo le rinnovabili;
  7. crescente morosità dovuta ai costi sempre più insostenibili, ma che è pagata in bolletta dagli altri utenti, innescando un pericoloso circolo vizioso che impatta su clienti e fornitori;
  8. il meccanismo di formazione del prezzo sulla Borsa elettrica, che usa la fonte di generazione più cara per determinare il prezzo da applicare a tutti gli altri impianti, rinnovabili comprese;
  9. costi di produzione delle centrali elettriche che devono marciare anche se inefficienti, vecchie e più inquinanti per garantire la sicurezza del sistema in determinate aree del Paese;
  10. elettrodotti inefficienti, con i “no” dei comitati Nimby contro la posa di nuove infrastrutture ed i ricorsi ai TAR che rallentano l’installazione di nuove linee.

Si noti che tutte queste cause si possono senz’altro definire strutturali, non congiunturali. Dunque, se si eccettua la variazione stagionale nel corso dei 12 mesi dell’anno e alcune specifiche situazioni contingenti legate alla ripartenza post-pandemia, il trend a lungo termine dei prezzi dell’energia è chiaro e il destino delle nostre bollette future segnato, se non si procede a una revisione globale della politica energetica, dal Piano energetico nazionale alla tariffazione di luce e gas, che con il peso esagerato degli oneri di sistema (per cui la componente energia pesa meno del 50% in bolletta) non incentiva di certo l’adozione di fonti rinnovabili e dunque la tanto sbandierata “transizione energetica”.

Gli oneri di sistema sono stati negli ultimi anni la zavorra più rilevante delle bollette luce e gas degli italiani. La stessa cosa, peraltro, accade con i carburanti, dove le imposte di scopo si chiamano semplicemente “accise” (e sono ben 17). Ad essi si sommano altri fattori destinati a diventare da quest’anno più rilevanti, come il mix energetico nazionale troppo squilibrato sul gas e l’eccessiva dipendenza dalle importazioni.

Se poi, a tutto ciò, si sommano i fattori più o meno congiunturali – impatto economico del Green Pass e della “politica del terrore” contro il Covid, la crisi energetica cinese, il boom dei prezzi dei carburanti, le ricadute sui prezzi di semi-lavorati e prodotti finiti, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e dell’inflazione (favorita dal permanere del Quantitative easing [16]) – il mix diventa potenzialmente esplosivo per le tasche di famiglie e imprese italiane. Ho scritto “più o meno congiunturali” perché la sensazione di vari esperti indipendenti (e anche del sottoscritto) è che, per una varietà di motivi, in realtà non si tratti di situazioni così transitorie come si potrebbe pensare o si vorrebbe far credere.

In pratica, in soggetti già economicamente stremati (e con il patrimonio sempre più eroso dall’inflazione), come sono milioni tra famiglie ed imprese italiane, la “variabile impazzita” rappresentata dai costi dell’energia in forte e incontrollabile ascesa – complice peraltro proprio l’obbligo del passaggio al mercato libero – può dare il colpo di grazia definitivo, che per un’attività può tradursi nel fallimento, ovvero nella chiusura, e per una famiglia a reddito medio-basso vuol dire scivolare verso la soglia di povertà o finirvi al di sotto, dato che il “paracadute” ordinario (cioè il “bonus” luce e gas) è assente al di sopra di un certo Isee e comunque insufficiente per cambiare le cose anche per chi ne ha diritto.

Per alcune attività particolarmente energivore (ad es. aziende del vetro, della carta, della ceramica, del cemento, della plastica, dell’alimentazione, della chimica, etc.), il mix “minori entrate + maggiore spesa in bolletta” è più insostenibile che per altre, e queste sono di solito le prime imprese a fermarsi o a cessare di esistere, per cui rappresentano il classico “canarino del minatore”, ma il Governo non sembra darvi la necessaria attenzione. Eppure è evidente che, se i costi dell’energia aumenteranno ancora nei prossimi anni (come è facilmente prevedibile per le ragioni che verranno illustrate in dettaglio in un futuro articolo) e la mala gestio della pandemia continuerà a impattare sull’economia (in assenza di un “cambio di paradigma” nelle strategie), le famiglie e le imprese messe in ginocchio saranno ben più numerose.

Inoltre, quest’inverno l’Unione Europea si è trovata con le scorte di gas naturale ai minimi storici (-25% rispetto al 2020). Ma, soprattutto, queste scorte si stanno esaurendo – anzi “consumando” – ad un ritmo più elevato rispetto alla media degli ultimi anni, tanto da aver dovuto riattivare anche in Italia vecchie e inquinanti centrali a carbone per la produzione elettrica. Ciò non sarebbe accaduto se all’inizio della stagione fredda si fossero fatti i “compiti a casa”, riempiendo i serbatoi. Ma la crisi delle materie prime e la tensione estiva sui mercati non hanno permesso di farlo, aprendo così a mesi complicati in cui occorre solo sperare che non faccia troppo freddo. Insomma, per famiglie e imprese c’è pure il rischio di blackout.

Stando al database AGSI che traccia quotidianamente il livello delle riserve di gas naturale per ciascun Paese europeo, nel 2021 si è partiti con meno riserve e, come se non bastasse, le si stanno consumando più rapidamente: la quantità di metano nelle disponibilità del continente europeo è passata da un picco di circa il 77% della capacità totale lo scorso 20 ottobre al 69,9% del 27 novembre. Una caduta di oltre il 7% in meno di quaranta giorni e ad un livello relativamente allarmante e ben inferiore a quello a cui i singoli Stati erano abituati nell’ultimo decennio [17]. (fonte: Aggregate Gas Storage Inventory)

Perché le contromisure del Governo non risolvono affatto i problemi di fondo

Nel 2022, l’anno appena iniziato, il gas dovrebbe arrivare a costare 1,55 euro al metro cubo, facendo registrare un +61%, e l’energia elettrica dovrebbe toccare i 43,8 centesimi al chilowattora, aumentando del 48%. Sono i dati allarmanti snocciolati da Nomisma Energia già nelle scorse settimane che avvisavano i consumatori dell’arrivo di un anno catastrofico dal punto di vista economico. E, in effetti, gli aumenti del primo trimestre di quest’anno (che partono ora, da gennaio) decisi dall’Authority per gli utenti del mercato a Maggior tutela saranno del +55% per l’elettricità e +41,8% del gas.

Non sono dunque poche le famiglie e le attività che avranno serie difficoltà a pagare le bollette. Questi soggetti, in altre parole, rischiano di scivolare nella cosiddetta “povertà energetica”, espressione con cui si intende l’incapacità da parte di famiglie o individui di acquistare un paniere minimo di beni e servizi energetici, con conseguenze sul loro benessere. Un adeguato riscaldamento, raffreddamento ed illuminazione delle abitazioni, la possibilità di accedere all’energia, sono servizi essenziali necessari per garantire uno standard di vita adeguato e la salute dei cittadini, oltre che per facilitare l’inclusione sociale.

Un emendamento del Governo italiano alla Legge di Bilancio 2022 prevede che alle famiglie sarà data la possibilità di pagare gli importi delle bollette di luce e gas emesse tra gennaio e aprile 2022 in 10 rate senza l’applicazione di interessi. L’Arera è stata chiamata a definire, entro il miliardo di euro, tutti gli anticipi in denaro da dare alle imprese fornitrici di luce e gas per compensare i pagamenti rateizzati, così da consentire il recupero per la “Cassa per i servizi energetici e ambientali” e applicare la nuova norma.

Ovviamente, però, questa misura è solo un trucco contabile, una sorta di maquillage, poiché con essa l’importo annuo pagato dai consumatori non cambierà di un centesimo. Anche Assoutenti, l’Associazione di consumatori, in considerazione dei rincari già scattati nel 2021 e di quelli che colpiranno luce e gas nel 2022, ritiene che il periodo di rateizzazione di 10 mesi sia una misura insufficiente: sarebbe stato meglio 24 mesi. Questo “perchè avremo davanti una crisi che ci accompagnerà per molto tempo e si deve sostenere, e proteggere le famiglie in difficoltà, le fasce deboli e garantire liquidità alle aziende”.

L’aumento impressionante del prezzo dell’elettricità e del gas in Italia negli ultimi mesi, all’interno di un arco di due anni a cui i grafici si riferiscono. In figura sono riportati i prezzi medi mensili degli indici delle rispettive Borse, ovvero l’Ipex per la Borsa elettrica e il PSV (che sta per “Punto di Scambio Virtuale”) per quella del gas. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

Inoltre, per le famiglie (o clienti domestici) e per le microimprese con potenza impegnata inferiore a 15 kW – oppure con meno di 10 dipendenti o meno di 2 milioni di euro di fatturato – la scadenza del servizio di Maggior tutela nel mercato energetico era prevista, fino a qualche settimana fa, per il 31/12/2022, con il passaggio obbligato al mercato libero dal 1° gennaio dell’anno successivo. Ma il Decreto Milleproroghe 2021, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 31/12/2021, l’ha rinviato ancora di un anno, al 1° gennaio 2024. E un emendamento al Decreto sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnnr), firmato dal capogruppo M5S alla Camera Davide Crippa, e riformulato nel corso dell’esame in Commissione Bilancio e approvato nella seduta del 15/12/21, ha impostato un regime transitorio che permetterà a tutti gli utenti (non solo quelli vulnerabili e in povertà energetica) di rimanere nella fascia tutelata fino al 2024.

Il Governo ha infine deciso di contenere gli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico confermando, per il primo trimestre 2022, una analoga iniziativa attuata nel trimestre precedente, che agevola – con 912 milioni di euro – i clienti domestici economicamente svantaggiati (cioè con Isee fino a 8.265 euro) o in gravi condizioni di salute. Mentre, per le altre famiglie, gli incrementi delle bollette saranno in parte assorbiti dai provvedimenti di fiscalizzazione: circa 1,8 miliardi andranno ad annullare gli oneri di sistema per le utenze non domestiche in bassa tensione, per altri usi, con potenza disponibile fino a 16,5 kW e ridurranno parzialmente i medesimi oneri per le restanti utenze elettriche non domestiche; 600 milioni per abbassare l’aliquota Iva per il gas metano per usi civili e industriali al 5%; 480 milioni per azzerare gli oneri di sistema sul gas delle utenze domestiche e non [20].

Tuttavia, il Governo si è dimenticato delle imprese che hanno i consumi energetici più alti e, dunque, pagano una bolletta salatissima per mandare avanti la propria attività. Le imprese in difficoltà, infatti, da una parte non possono beneficiare di una rateizzazione delle bollette luce e gas e, dall’altra, per le utenze elettriche sopra i 16,5 kW gli oneri di sistema tolti (l’Asos, che finanzia l’incentivazione delle rinnovabili) hanno un peso davvero irrisorio. Va detto anche che si tratta di un terreno assai delicato, su cui peraltro sono puntati anche i riflettori di Bruxelles, che mal digerisce misure settoriali [18].

Insomma, questi del Governo sono solo i classici “pannicelli caldi” che non risolvono i problemi di fondo. Esattamente come la strategia italiana contro il Covid culminata con il Green Pass si è rivelata un disastro economico e sociale e ora si richiede un razionale “cambiamento di paradigma” [19], analogamente la politica energetica italiana degli ultimi decenni si è rivelata un fallimento di cui ora stiamo cominciando a pagare un conto assai pesante (e questa che vediamo ora è soltanto la “punta dell’iceberg”, cioè il peggio deve ancora venire). Pure in questo caso appare dunque necessario, dopo una riflessione approfondita, intervenire su tutti i 10 fattori causa del caro-bollette, non soltanto su 1 o 2.

Non basta, quindi, da sola la transizione alle rinnovabili, così come non basta da sola una riforma strutturale della bolletta che vada a toccare gli oneri generali di sistema. Proprio come contro il Covid è necessario un approccio “multi-arma” perché nessuna, da sola, può essere risolutiva, anche qui è necessario mettere in atto tutta una serie di riforme e di strategie, alcune delle quali attuabili sul breve termine, altre sul medio termine e altre ancora sul lungo termine. Tuttavia, come abbiamo visto, anche in campo energetico la politica italiana sembra mancare di quella visione e concretezza di altri Paesi dell’UE, e si continuano di fatto a favorire le lobby, non ponendo l’interesse del cittadino al primo posto.

Mario Menichella – Fisico e science writer

 

Riferimenti bibliografici

[1]  Giliberto J., “Croazia batte Italia con il rigassificatore di Veglia”, Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2017.

[2]  Giliberto J., “Trivellazioni in Adriatico ferme ma il gas italiano costa un decimo”, Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2021.

[3]  Gestore dei Servizi Energetici, “Fuel mix. Determinazione del mix energetico per gli anni 2019-2020”, gse.it, 6 settembre 2021.

[4]  ENEA, “Analisi trimestrale del sistema energetico italiano – Anno 2020”, enea.it, marzo 2021.

[5]  L.A., “Ecco da dove arriva l’energia che consumiamo in Italia”, greenreport.it, 23 luglio 2021.

[6]  Ricolfi L., “Vaccinare non basta”, Fondazione David Hume, 7 dicembre 2021.

[7]  EuroStat, “Statistiche sul prezzo dell’energia elettrica”, ec.europa.eu, 25 giugno 2020.

[8]  EuroStat, “Statistiche sul prezzo del gas naturale”, ec.europa.eu, 28 gennaio 2020.

[9]  Croce P., “Quinto Conto Energia: la bozza è stata scritta da ENEL?”, greenstyle.it, 26 marzo 2021.

[10]  Valentini C., “Il 40% non paga le bollette”, Italiaoggi.it, 3 novembre 2011.

[11]  Cyrus C., “Failed UK Energy Suppliers Update”, Forbes, 1° dicembre 2021.

[12]  ARERA, “Il Servizio a Tutele Graduali”, arera.it, 2020.

[13]  Green M., “Q&A: What’s Up with Natural Gas Prices?”, American Petroleum Institute, 3 novembre 2021.

[14]  Menichella M., “Come (e perché) la Cina può mettere a rischio la nostra economia e la pace mondiale”, Fondazione David Hume, 25 ottobre 2021.

[15]  European Commission, “Third energy package”, ec.europa.eu, 21 maggio 2019.

[16]  Rajan R.G., “I Pericoli di un Quantitative Easing Senza Fine”, Project Syndacate, 2 agosto 2021.

[17]  “Le riserve di gas per l’inverno si stanno svuotando rapidamente”, liberta.it, 30 novembre 2021.

[18]  Dominelli C., “Bollette, in arrivo 3,8 miliardi: tutte le misure anti-rincari allo studio del Governo”, Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2021.

[19]  Becchi P. & Menichella M., “Ecco qual è l’alternativa al green pass”, nicolaporro.it, 23 dicembre 2021.

[20]  Redazione, “Bollette luce e gas: la legge di Bilancio 2022 prevede riduzioni”, fiscoetasse.com, 31 dicembre 2021.

[21]  “Accise agevolate gas metano: come funzionano”, energia-lowcost.com, 2018.

[22]  AEEG, “Monitoraggio Retail: Rapporto annuale 2012 e 2013”, 5 febbraio 2015.

[23]  Becchi P. & Menichella M., “Parlano i dati: il green pass è un lasciapassare solo per il virus”, nicolaporro.it, 17 dicembre 2021.

[24]  Menichella M., “Una stima realistica degli effetti avversi dei vaccini anti-Covid e del rapporto rischi-benefici”, Fondazione David Hume, 9 novembre 2021.

[25]  Bencivenga & Sargenti, “Crucial relationship among energy commodity prices”, Working Papers 5, Doctoral School of Economics, Sapienza University of Rome, 2010.

[26]  Chemaitelly H. et al., “Waning of BNT162b2 Vaccine Protection against SARS-CoV-2 Infection in Qatar”, The New England Journal of Medicine, 6 ottobre 2021.

[27]  Ricolfi L., “La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia”, La nave di Teseo, 2021.

[28]  Blythe B., “COVID-19 Recovery May Be Driving New Commodity Supercycle”, The Ticker Tape, 22 marzo 2021.

[29]  Wallace P., “The Winners and Losers From Surging Oil and Commodity Prices”, Bloomberg.com, 11 marzo 2021.

[30]  Menichella M., “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’”, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[31]  Cicchetti A. et al., “Analisi dei modelli organizzativi di risposta al Covid-19”, Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari, 16 dicembre 2021.

[32]  Redazione, “Tutto per Enel il ‘regalo’ alle centrali a olio combustibile”, qualenergia.it, 8 gennaio 2013.

[33]  Zorzoli G.B., “La formazione del prezzo dell’elettricità e le rinnovabili”, qualenergia.it, 18 febbraio 2021.

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