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Squadrismo e dissenso – Sulla contestazione a Donatella Di Cesare

20 Marzo 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

La recente vicenda in cui è incappata la filosofa Donatella Di Cesare è interessante e istruttiva. Ricapitoliamo i fatti.

Il 4 marzo scorso, all’età di 75 anni, viene a mancare Barbara Balzerani, brigatista rossa, unica donna nel commando che rapisce Aldo Moro. Arrestata nel 1985, era rimasta in carcere per più di 20 anni, e nel 2011 era tornata in libertà, dopo 5 anni di libertà condizionale.

Appresa la notizia, la prof.ssa Di Cesare, che insegna Filosofia teoretica alla Sapienza, posta il seguente pensiero:

La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna.

Come era facilmente prevedibile, si scatena una bagarre mediatica. La professoressa rimuove il post, e spiega che lo ha rimosso in quanto accortasi che “non solo veniva frainteso, ma veniva anche utilizzato per scatenare una polemica”.

A quel punto le autorità accademiche minacciano sanzioni, e qualche giorno dopo una sua lezione viene interrotta da alcuni giovani di Forza Italia, che mostrano dei cartelli con le foto di alcune vittime delle Brigate Rosse. La professoressa, che comunque riesce a terminare la lezione, accusa i giovani di Forza Italia di aver messo in atto una “violenta azione di squadrismo”, e lamenta che non le viene consentito di svolgere il suo insegnamento.

Perché la vicenda è istruttiva?

Fondamentalmente, perché in essa si presentano in modo paradigmatico un po’ tutti i problemi – e gli interrogativi – della libertà di espressione.

Primo problema, può un docente (ma vale a maggior ragione per chi fa altri mestieri) essere sanzionato dall’Università per le idee che esprime al di fuori del ruolo che ricopre? Il post della Di Cesare era su una piattaforma social, non su una slide di Power Point mostrata agli studenti durante una lezione.

A quel che si apprende, “la Sapienza ha avviato un iter di cui è stato informato il Ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini”. Se stiamo ai precedenti, l’università potrebbe sanzionare la docente, come ha già fatto l’università di Milano con il prof. Marco Bassani, colpevole di aver condiviso sui social una vignetta ritenuta offensiva su Kamala Harris, vice presidente USA.

Secondo problema, qual è il confine fra la libertà di espressione, e il diritto di manifestare il dissenso?

Difficile non rilevare il doppio standard con cui la questione viene affrontata, specie a sinistra. Da un lato, una breve, silenziosa, interruzione di una lezione come quella attuata dai giovani di Forza Italia, viene classificata come squadrismo, dall’altro azioni effettivamente squadristiche vengono derubricate a legittime manifestazioni del dissenso nei casi, sempre più numerosi, in cui a un relatore viene impedito fisicamente di parlare. Penso a quel che è successo nei giorni scorsi al giornalista David Parenzo, o al direttore di Repubblica Maurizio Molinari, ma anche ai numerosi casi del passato, in cui – spesso in nome dell’antifascismo – è stata negata la parola a personaggi sgraditi ai collettivi studenteschi.

Terzo problema, quali sono – in una democrazia liberale – le idee che è inammissibile manifestare, e a chi tocca sanzionare chi le manifesta?

Personalmente, stento ad accettare che la censura possa toccare opinioni che non configurano reati. Ma trovo semplicemente raccapricciante che un’università, una istituzione culturale, un’impresa possiedano o si auto-attribuiscano il diritto di comminare sanzioni sindacando la legittimità delle opinioni espresse da loro funzionari o dipendenti. Eppure, è questo che sta succedendo sempre di più, specialmente negli Stati Uniti, dove può capitare che una piattaforma di pagamenti come PayPal multi i suoi utenti, o ne congeli i fondi, solo perché hanno espresso opinioni che non collimano con i codici etici della piattaforma.

Tornando alla vicenda Di Cesare, credo che chi ama la libertà non possa in alcun modo auspicare sanzioni per il suo melanconico post. Semmai, dovrebbe invitarla a ripristinarlo. Perché anche il suo ragionamento, è istruttivo. Esso illustra infatti nel modo più vivido la tragedia del comunismo, e di una parte non trascurabile della generazione del ’68. Che si è perduta proprio perché è caduta nell’errore che Donatella Di Cesare reitera nel suo post, ossia credere che le idee possano essere distinte dalle “vie”, cioè dai mezzi, attraverso i quali si cerca di realizzarle.

(uscito su La Ragione il 19 marzo 2024)

Strage di Bologna – Il silenzio degli innocentisti

10 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

SocietàSpeciale

Nel 43-esimo anniversario della strage di Bologna, suscitano qualche sorpresa due fatti nuovi. Il primo è la dissonanza fra le dichiarazioni dei principali esponenti della maggioranza. Mentre il premier Meloni e il ministro Piantedosi hanno evitato accuratamente di usare l’espressione “matrice neo-fascista”, il presidente del Senato La Russa e il ministro Nordio vi hanno fatto ricorso, sia pure delimitandone la portata in quanto “accertata in sede giudiziaria”.

In realtà, a leggere le dichiarazioni integrali, le differenze non sono poi così clamorose. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno auspicato un pieno accertamento della verità, che si auspica possa emergere grazie alla completa desecretazione degli atti coperti dal segreto di Stato, e (utopisticamente?) grazie al lavoro di una ennesima istituenda commissione di inchiesta parlamentare. È come dire: ok, la verità giudiziaria è quella che è, ma è tutta la verità?

In realtà anche la verità giudiziaria, quale emerge dall’ultima sentenza dell’ennesimo processo (concluso l’aprile scorso), è più sfumata di quel che è apparsa a molti: gli esecutori sarebbero neo-fascisti assoldati per compiere la strage, ma i mandanti sarebbero apparati dello Stato deviati e la massoneria (Licio Gelli e la loggia P2). Dunque, a essere precisi, la matrice della strage è quantomeno composita e, se si deve usare una espressione sintetica e più aderente alla sentenza, forse sarebbe più esatto parlare di “strage di Stato”.

Ma c’è anche un altro fatto nuovo nelle discussioni di questi giorni: il quasi completo venir meno, nei principali media, di ogni dubbio sulla effettiva colpevolezza dei due principali imputati per l’esecuzione materiale dell’attentato, ovvero Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. È la prima volta che succede. Eppure in passato i dubbi si sono sprecati, fin dai tempi dello storico appello E se fossero innocenti? firmato nel 1994 da decine di personalità illustri, per lo più collocate a sinistra: ad esempio Luigi Manconi, Sandro Curzi, Oliviero Toscani, Liliana Cavani, Franca Chiaromonte. Per non parlare delle perplessità di Marco Pannella e di tanti esponenti radicali.

Oggi, di quella galassia di persone assalite dal dubbio ho trovato traccia soltanto in Piero Sansonetti (direttore dell’Unità, a quanto pare in conflitto con la sua redazione) e in Mattia Feltri, autore di un (piuttosto) criptico intervento in cui rimpiange la stagione in cui destra e sinistra si parlavano, e prende le distanze dall’invito di Elly Schlein a evitare ogni “tentativo di riscrivere la storia”. A quel che ne so, nessuno di coloro che in passato avevano sollevato dubbi ha ritenuto di intervenire, o di spiegare che aveva cambiato idea e perché.

Perché questa unanimità? Perché questo silenzio? Perché questo muro inespugnabile che viene opposto a chiunque inviti ad andare fino in fondo nella ricerca della verità? Perché la richiesta di togliere il segreto di Stato da tanti documenti non suscita il più largo consenso?

L’unica risposta che riesco a darmi è che il governo è cambiato, e la priorità è diventata mettere in difficoltà l’esecutivo, considerato espressione della medesima cultura politica neo-fascista che sarebbe all’origine della strage di Bologna. Come ai tempi dello stalinismo e della “doppia verità”, la verità che si cerca di affermare non è quella storica, ancora in parte sconosciuta, ma quella utile alla causa, conosciutissima e perfettamente chiara: affinché i conti politici tornino, la strage deve essere di matrice neo-fascista. Ogni dubbio va rimosso. Ogni voce che, anche timidamente, provi a fare qualche domanda va zittita.

Capisco perfettamente che, per i parenti delle vittime, dopo decenni di dolore e di attesa, dopo un calvario di processi e sentenze contraddittorie, una qualche verità sia meglio di una verità forse più vera, ma spostata in un futuro incerto. Ma per tutti gli altri? Per gli studiosi, i giornalisti, i cittadini che vogliono sapere? Possibile che l’etichetta “matrice neo-fascista” plachi ogni desiderio di verità?

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