Hume PageHume Page

In primo piano

Le tre sinistre

9 Agosto 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Nei giorni scorsi, quando sembrava che il matrimonio fra Letta e Calenda fosse cosa fatta, in molti ci siamo chiesti se fosse la volta buona per la nascita di una sinistra finalmente e risolutamente riformista. Per sottolineare la profondità della svolta, lo stesso Calenda ebbe a parlare di una Bad Godesberg italiana.

In realtà, mai paragone fu più fuorviante. La svolta di Bad Godesberg, avvenuta nel 1959, sancì il distacco dei socialisti tedeschi (SPD) dal marxismo e dal progetto di abolizione della proprietà privata. Il che significava: piena accettazione dell’economia di mercato, sia pure corretta dall’intervento statale, e conseguente rinuncia a guardare all’Unione Sovietica, e all’economia pianificata, come modello di socialismo.

La sinistra italiana di oggi non ha alcun bisogno di una Bad Godesberg, perché quel tipo di svolta, sia pure con trent’anni di ritardo rispetto ai cugini tedeschi, la aveva già fatta Achille Occhetto, quando – dopo la caduta del Muro di Berlino, con la svolta della Bolognina – archiviò il Partito Comunista Italiano per farne un normalissimo partito socialdemocratico: il Pds, poi divenuto Ds, e infine Pd.

Questo, naturalmente, non significa che, a sinistra, non ci sia bisogno di una svolta. Il punto è: svolta rispetto a che cosa?

Calenda risponde: rispetto alla perenne oscillazione fra riformismo e massimalismo. Ma il massimalismo e l’estremismo sono morti da tempo, a sinistra. Il maggiore partito della sinistra, il Partito democratico, tutto è tranne che massimalista. Le uscite contro i ricchi (imposta di successione) e gli ammiccamenti ai partitini di estrema sinistra, come Articolo 1 (il partito di Speranza e Bersani) o Sinistra Italiana (di Fratoianni), non ne cambiano la natura riformista.

E’ il riformismo, semmai, il problema del Pd. Il Pd, dopo la tardiva Bad Godesberg di Occhetto, non ha ancora scelto che tipo di partito riformista vuole essere. Alla fine degli anni ’90, abbagliato dai successi della rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, affascinato dalle teorizzazioni pro-mercato della Terza via di Giddens, Blair, Clinton, Schroeder, il Pd ha deposto quasi interamente la questione sociale, incamminandosi a diventare un “partito radicale di massa”, attento agli immigrati, alle istanze LGBT, più in generale al vasto arcipelago delle grandi “battaglie di civiltà”, ma sostanzialmente dimentico delle istanze dei ceti popolari, dalla domanda di sicurezza al bisogno di protezione dai guasti della  globalizzazione. Tutte istanze che, viceversa, sono da tempo al centro dei programmi politici della destra.

Detto con rammarico: il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi.

Credo che nessuno, neppure Enrico Letta, abbia idea di che cosa il Pd sia destinato a diventare in futuro. Quel che è abbastanza verosimile, però, è che l’incredibile “saga delle alleanze mancate”, cui abbiamo dovuto assistere in questi giorni, un qualche tipo di sbocco finisca per averlo.

Ma quale sbocco?

L’alleanza con +Europa di Emma Bonino, e la contemporanea rottura con Renzi e Calenda, fanno pensare che, per il Pd, l’esito più probabile sia l’accentuazione dei suoi caratteri di partito radicale di massa. Anche perché le altre due caselle – partito socialdemocratico e partito liberaldemocratico – sono già, più o meno confusamente, presidiate da quel che resta dei Cinque Stelle di Conte, e da quel che sarà del Terzo polo di Renzi e Calenda.

Sotto questo profilo, l’appuntamento del 25 settembre potrebbe essere davvero cruciale per il futuro della sinistra. Sarà la prima volta, infatti, in cui toccherà agli elettori – e non alle correnti del Pd – pronunciarsi sulle tre alternative politiche che dividono la sinistra da quando Achille Occhetto decise di archiviare il comunismo: partito radicale di massa, partito socialdemocratico, partito liberaldemocratico?

Al popolo di sinistra l’ardua sentenza.

Luca Ricolf

Sulla violenza delle donne

2 Agosto 2022 - di Luciana Piddiu

In primo pianoSocietà

Da qualche tempo vado inanellando alcuni fatti di cronaca come grani di un rosario.

Mi inquieta che nella loro gravità vengano fatti passare sotto traccia, forse perché hanno come protagoniste delle donne.

Provo a citarne qualcuno.

Fa prostituire in un ovile la figlia di 13 anni. Mamma arrestata. (Agrigento, 12 Marzo 2019)

Donna violenta da anni i suoi 4 figli disabili. Arrestata insieme al compagno . (Taranto, 8 Marzo 2019)

Madre droga e fa bere la figlia di 17 anni. Poi il suo compagno abusa della giovane. (Genova,18 Febbraio 2019)

Una mamma costringe la figlia di 13 anni a masturbarsi e poi manda il video ad un pedofilo. (Conegliano,28 marzo 2019).

Atti sessuali con un minore di 13 anni durante l’ora di ripetizione. L’assistente sanitaria di Prato dà alla luce un bambino che suo marito riconosce come figlio proprio. (Prato 12 Marzo 2019).

Solo quest’ultimo episodio ha suscitato una qualche debole reazione nell’opinione pubblica mentre gli altri sono subito svaniti dalle pagine di cronaca dei quotidiani nazionali.

Sulla assistente sanitaria ,già madre di un ragazzino, qualcuno ha scritto che in verità non di violenza o di abuso si tratta ma di un’esperienza erotica gratificante per il minore in piena tempesta ormonale data l’età.Il che è platealmente contraddetto dalle suppliche del ragazzino di essere lasciato in pace e non piu’ ricattato.

Questa squallida vicenda odora di manipolazione e -comunque vadano le indagini- lascerà  tracce pesanti nella psiche e nella sfera delle emozioni  dell’adolescente usato come un giocattolo  di carne , costretto mentre è  ancora figlio in fase di transizione dall’infanzia all’adolescenza , a farsi padre suo malgrado.

Ma proprio questo episodio che non è sparito subito dalla cronaca puo’ gettare luce su tutti quegli altri. Darci un indizio di cosa si agita nella mente di chi lavora nel settore dell’informazione e contribuisce al formarsi dell’opinione pubblica.

Nel caso di Prato dove non è in gioco la relazione madre-figlio/a alti si sono levati i ‘lai’ da parte di schiere di innocentisti, secondo cui la signora non avrebbe fatto niente di male perchè non si puo’ violentare un maschio e poi è il maschio l’unico vero autentico predatore e sicuramente il ragazzino avrà goduto delle attenzioni sessuali dell’improvvisata insegnante. Sugli altri gravi fatti di abuso e sopraffazione si è steso un velo pietoso. Sembra inaccettabile il dover riconoscere che anche le donne – le madri per giunta – si prestano ad usare e violare i loro figli .

Perche’ questa tolleranza o indifferenza verso queste derive e perversioni delle relazioni tra madre e figli? O tra donne adulte e minori?

Se i protagonisti fossero stati dei maschi si sarebbe gridato allo scandalo ,si sarebbe invocate la castrazione chimica e il carcere duro.

Perche’ questa asimmetria nel giudizio? Le donne sembrano godere in modo del tutto ingiustificato – se teniamo conto dei dati di realtà – di un pregiudizio positivo che scatta nei loro confronti.

Non vi è alcun dubbio che nella vicenda millenaria dei sessi le donne sono state le vittime di un sistema che le ha oppresse, sfruttate, negate, abusate, uccise talvolta.

Gli uomini hanno giocato il ruolo dei carnefici esercitando un potere assoluto sui corpi e le menti. Ma lo scenario è cambiato grazie alle lotte  degli ultimi due secoli e a straordinarie figure femminili che si sono pensate come ‘soggetti’ liberi e autonomi, non piu’ appendici di qualche maschio. Oggi le donne sono libere di scegliere. Tuttavia  l’esercizio della libertà non è  gratuito, comporta un prezzo  quello della responsabilità  delle scelte che si fanno.

E allora perche’ ci si ostina a dire che se le donne assumono il ruolo di carnefici ,non a loro va imputata la colpa ma al sistema sociale in generale? O ad asserire che le donne hanno sempre ragione qualunque cosa facciano?

Il rifiuto di vedere le zone d’ombra che pure albergano negli esseri di sesso femminile sembra una costante che si ripete in questi casi. Una volta di piu’ le donne vengono considerate nell’opinione corrente ‘vittime’, incapaci di scelte autonome e dunque necessitate a comportamenti inaccettabili da non si sa bene quali cause di forza maggiore.

Ritorna il leitmotiv giustificazionista a tutti i costi senza considerare che questo modo di  ragionare rende obiettivamente le donne delle minus habens.

Certo i rapporti di potere sono ancora in larga misura saldamente in mano agli uomini ma questo non deve impedirci di cogliere cio’ che si cela dietro questa forma di negazionismo: l’idea che ‘per natura’ la donna non sia aggressiva ma fondamentalmente accogliente, amorevole, incapace di gesti sconsiderati di violenza e abuso.

Tuttavia alcuni miti (Medea in primis) e fiabe (Biancaneve, Hänsel e Gretel) per non dire di personaggi letterari illuminanti come Lady Macbeth potrebbero aiutarci a cogliere indizi preziosi per decodificare correttamente alcuni fatti. E se a questi non vogliamo dar credito possiamo sempre servirci di studi antropologici per aprire finalmente gli occhi e la mente.

Un’ipotesi convincente sembra essere quella  avanzata da Valcarenghi nel suo “L’aggressività femminile”. In tempi lontani sembra essere successo qualcosa  che ha indotto la compressione dell’aggressività femminile ,forse per esigenze legate alla conservazione della specie.Questa costrizione avrebbe avuto nel corso del tempo esiti altalenanti  tra comportamenti eccessivi come forme di prepotenza,insofferenza, collere esplosive, ecc. o deficitari come forme di autolesionismo, senso di colpa, insicurezza, dipendenza. L’istinto aggressivo represso si sarebbe ammalato non riuscendo ad esprimersi e rivelandosi cosi incapace di garantire la necessaria autodifesa dello spazio fisico, psichico e sociale che solo consente l’affermazione dell’identità soggettiva.

Accanto a questa ipotesi non andrebbe trascurato, a mio avviso, l’esito perverso di una cattiva ‘emancipazione’, quella che in nome dell’uguaglianza, insegue i maschi sul loro stesso terreno di predazione  per pareggiare finalmente i conti dello svantaggio accumulato nei secoli. Alcune sembrano bearsi del loro potere di seduzione e della loro capacità predatoria e ad ogni conquista piantano la bandiera, fiere del nuovo status di cacciatrici e della conquistata indipendenza.

Ma noi sappiamo bene che non è questa la strada maestra per liberarci del male che gli uomini hanno fatto, ci fanno, si fanno.

Luciana Piddiu

Un governo pseudo-Draghi

2 Agosto 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

O noi o loro. O la Meloni o noi. O sole o luna. Così parlò Enrico Letta, “con occhi di tigre”.

Non sono certo di aver capito chi sia sole e chi sia luna, immagino lui-Letta-sole, lei-Meloni-luna. In compenso ho inteso il messaggio, perché Letta stesso lo ha decrittato: dopo il voto “non ci sarà una terza strada che consentirà di fare chissà cosa, o vincono gli uni o vincono gli altri”.

Mi permetto di dire che, in realtà, la eventualità di una “terza strada” è uno scenario tutt’altro che inverosimile. Supponiamo che, dopo il voto, si scopra che i sondaggi erano sballati (come nel 2006, quando annunciavano il trionfo dell’Ulivo di Prodi) e che il centro-destra non abbia la maggioranza dei seggi. E supponiamo non ne abbia una neanche il “campo aperto” del Pd.

A quel punto si aprirebbero due possibilità. La prima è che, in barba alla dicotomia “o sole o luna”, il sole lettiano riconsideri l’alleanza con i Cinque Stelle, tentando di costruire un governo di salvezza nazionale “contro le destre e l’avanzata del fascismo”. E’ estremamente improbabile che, per una simile soluzione, vi possano essere i numeri in Parlamento, ma scommetterei che – se i numeri vi fossero – Letta ci proverebbe, se non altro perché è già successo. E’ esattamente questo, infatti, che fecero Renzi e Zingaretti nel 2019: un governo di salvezza nazionale per non conferire i “pieni poteri” al pericoloso Salvini del Papeete.

Ma c’è una seconda possibilità, ben più verosimile. In caso di stallo, il Presidente della Repubblica, valorizzando il perdurante consenso per l’operato di Draghi, potrebbe pilotare la formazione di un governo pseudo-Draghi senza Draghi (assumo che Draghi si sia stancato dei partiti).

Che cos’è un governo pseudo-Draghi? E’ un governo con la stessa identica maggioranza del governo Draghi, salvo il fatto che, al posto dei Cinque Stelle, vi sarebbe il drappello dei seguaci di Di Maio. Un governo, dunque, così composto: Pd, Lega, Forza Italia, Azione, Italia Viva, Insieme per l’Italia, Articolo 1, Centristi vari. Ovvero: tutti dentro, eccetto i partiti “estremisti” di Meloni, Conte, Fratoianni e Paragone.

Su quanti seggi potrebbe contare un simile esecutivo?

Tanti, stando agli ultimi sondaggi. Attualmente i partiti dello pseudo-Draghi attirano circa il 55% dei consensi, il che si traduce nella conquista di circa 200 seggi proporzionali su 366. Ma i seggi della parte uninominale, che sono 222, andrebbero  quasi tutti ai partiti dello pseudo-Draghi, eccetto quelli conquistati da Fratelli d’Italia. Anche assumendo che Giorgia Meloni riesca a conquistare 1/3 dei seggi uninominali, ai partiti dello pseudo-Draghi resterebbero circa 150 seggi, che sommati ai 200 conquistati nella parte proporzionale porterebbe il totale a 350 (cui andrebbero aggiunti una decina di seggi per la quota degli italiani all’estero). Poiché nel nuovo parlamento i membri sono solo 600, 360 seggi dovrebbero essere più che sufficienti ad avere una maggioranza sia alla Camera sia al Senato.

Fantapolitica?

Non direi proprio. A rendere verosimile la possibilità di una “terza strada” militano varie circostanze, che è sempre bene tenere a mente.

Primo, il nostro sistema è parlamentare, quindi è normale che la maggioranza di governo non sia decisa dagli elettori. Può piacere o no (a me non piace per niente) ma è così.

Secondo, il trasformismo e la disponibilità ai cambi di casacca sono, da circa 150 anni (ossia dai tempi di Depretis), una costante del nostro sistema politico.

Terzo. Nella seconda Repubblica, la costituzione di governi ibridi destra-sinistra, per lo più motivati con l’eccezionalità della situazione, è divenuta una prassi consolidata.

Ma la circostanza fondamentale che rende verosimile la nascita di un governo pseudo-Draghi, è che in nessuno dei due campi avversi è stata fatta l’unica cosa che avrebbe reso (relativamente) credibile la profezia “o Meloni o noi”: una solenne promessa di non fare nuove alleanze dopo il voto.

Giorgia Meloni, dopo averlo invocato per anni, pare aver rinunciato a pretendere un “patto anti-inciucio”, che eviti il ripetersi di quel che accadde nel 2018, quando Salvini ruppe l’unità del centro-destra per formare un governo con i Cinque Stelle.

Enrico Letta, pur escludendo un’alleanza elettorale con i Cinque Stelle, non ha preso alcun impegno esplicito a non cercare una convergenza con il partito di Conte in Parlamento, all’indomani del voto (omissione comprensibile, posto che una parte del partito ha mal digerito la chiusura ai grillini).

Altroché o Sole o Luna. Mi sa che sarà Terra e trasformismo, come sempre.

Luca Ricolfi

L’estate del nostro sconcerto

1 Agosto 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

1Ora, come previsto, la curva dei contagi comincia seppur debolmente a scendere. Un timido buon segnale per la nostra estate arroventata non solo dal caldo. Ma intanto, dopo mesi di inerzia, le autorità sanitarie hanno deciso di riaprire la campagna vaccinale, suggerendo di estendere la quarta dose alla fascia 60-80 anni, anziché riservarla ai soli fragili o ultra-ottantenni. Così, ci troviamo ancora una volta in bilico, tra paura e speranza, ognuno solo con se stesso a decidere la strada.

I sentimenti che registro più frequentemente tra le persone che hanno ancora voglia di parlare di Covid – e non solo di guerra, inflazione, inverno al freddo, caduta del governo, elezioni – sono di delusione e di sconcerto.

Delusione, perché si comincia a capire che la promessa di una vaccinazione annuale, periodica e aggiornata alle nuove varianti, non è stata mantenuta, almeno per ora. E anche perché, con l’arrivo della cosiddetta variante Centaurus, di nuovo siamo in balia dell’ignoto; ed è possibile che ci verrà prospettata una quinta dose nella stagione fredda, quando sarà emerso che la protezione della quarta dose, come di tutte le precedenti, dura solo pochi mesi.

Ma anche sconcerto. Uno sconcerto che deriva dalle tante cose che non si capiscono nella gestione di questa pandemia. Non si capisce, ad esempio, perché il medesimo numero di casi (o di morti, o di ospedalizzati), in certi momenti sia fonte di allarme e in altri no. Non si capisce perché i medesimi esperti che ieri ci avvertivano che non è  bene sollecitare troppe volte il sistema immunitario, ora propugnano la quarta dose subito, anche per gli ultrasessantenni. Non si capisce perché, fino a pochi mesi fa, dovevamo assolutamente vaccinare i bambini per evitar loro il Long Covid, mentre ora si dice “lasciamo che il virus circoli fra i giovani”, come se il Long Covid non esistesse più. Non si capisce perché fino a ieri ci assicuravano che ogni autunno avremmo avuto un vaccino aggiornato, e ora a chi dice che vuole aspettare il suo arrivo si risponde che è inutile, perché anche quello si baserà su varianti che non ci saranno più. Non si capisce perché a giugno ci abbiano fatto togliere le mascherine nei luoghi chiusi, e ora ci si stupisca che i morti, gli ospedalizzati, i ricoverati in terapia intensiva siano più che raddoppiati. Non si capisce qual è l’età al di sotto della quale i rischi del vaccino superano i suoi benefici. Non si capisce perché la politica considera inaccettabili mille morti all’anno sul lavoro, e accettabili 40 mila morti di Covid.

Certo, può anche darsi che alcune di queste domande siano stupide o ingenue, e che ci sia qualcuno che ha una risposta per tutte. Ma il punto non è questo. Il punto è che la cacofonia della discussione pubblica, e il disaccordo permanente fra gli esperti, queste domande le suscitano, seminando incertezze e dubbi. Compreso il dubbio più grande: che cosa succederà quest’autunno?

Nessuno lo sa, ma una cosa sappiamo con certezza: l’intervento più importante che andava attuato per frenare la circolazione del virus nella stagione fredda non è stato nemmeno avviato, e ormai non siamo in tempo utile (ci vorrebbero almeno 6 mesi, e l’autunno è alle porte). Spiace ripeterlo ancora una volta dalle colonne di Repubblica, ma – accanto a quella del vaccino – la via maestra per frenare il virus era la ventilazione meccanica controllata (VMC) degli ambienti chiusi.

Gli ingegneri dell’aria lo avevano dimostrato esattamente due anni fa sulle riviste scientifiche. L’opposizione lo ripete da un anno e mezzo. Una Regione italiana, prima nel mondo, l’ha sperimentato l’anno scorso nelle scuole. Gli statistici hanno provato che la VMC abbatte la circolazione del virus di un fattore 5 (più del vaccino). L’Oms, da qualche mese, si è finalmente convinta che la trasmissione del virus avviene anche per aerosol, e che la VMC è la strada giusta per frenarla. Lo stesso Parlamento italiano, all’inizio dell’anno, aveva impegnando il governo ad emettere entro un mese linee guida per la ventilazione. Ma di mesi ne sono passati quattro, e di quelle linee guida non c’è traccia.

Ora la crisi di governo e le imminenti elezioni rendono le cose ancora più difficili. E le scuole riapriranno a settembre: di nuovo DaD e mascherine in classe?

Possiamo solo sperare che il governo che verrà, prima o dopo le elezioni, riprenda in mano il dossier. Perché sapere di avere un’arma in più, diversa da vaccini e quarantene, ci restituirebbe un po’ di ottimismo per il futuro.

Luca Ricolfi

I punti deboli del centro-destra

31 Luglio 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Che il centro-sinistra, dopo la rottura fra Pd e Cinque Stelle, si appresti alle elezioni in una situazione di grande difficoltà è evidente a tutti. Una eventuale coalizione Pd+Mdp+Azione+Italia Viva, allo stato attuale, intercetta circa il 30% dei consensi, decisamente poco per competere con il centro-destra, dato intorno al 45%.

Meno evidente, forse, è il fatto che anche per il centro destra la strada che porta alle elezioni è lastricata di difficoltà. Per parte mia ne vedo almeno quattro, dalla meno importante alla più seria.

La prima è la conflittualità interna nella scelta delle candidature e nell’assegnazione dei collegi sicuri. Le ultime tornate amministrative hanno reso evidente che, su questo terreno, i tre leader del centro destra hanno difficoltà a mettersi d’accordo, e qualche volta a trovare candidati convincenti.

La seconda difficoltà sono le tensioni sulla scelta del candidato premier. La regola da sempre in vigore nel centro-destra, secondo cui la scelta del candidato premier spetta al partito che raccoglie più voti, improvvisamente pare non valere più. Interrogati dai giornalisti, i politici (maschi) di Forza Italia e Lega tentennano di fronte alla prospettiva che la regola possa premiare Giorgia Meloni. Difficile pensare che questo nodo irrisolto non inquini i rapporti fra gli alleati.

La terza difficoltà è l’auto-inabissamento di Forza Italia con la decisione di togliere la fiducia al governo Draghi. Specie dopo l’uscita di Gelmini, Brunetta, Carfagna e Cangini, sarà estremamente difficile, per il partito di Berlusconi, conservare i consensi dell’elettorato liberale e moderato. E, simmetricamente, sarà facilissimo per il centro sinistra ridurre il centro-destra al duo “Salvini & Meloni”.

E poi c’è l’ultima difficoltà, la più importante: il programma. Su molte cose i tre partiti di centro-destra vanno relativamente d’accordo, ma ve n’è una – cruciale – su cui le idee di Berlusconi, Salvini e Meloni divergono sensibilmente: la politica fiscale. Berlusconi e Salvini sono per la flat tax, anche se la declinano in modo un po’ diverso, pro famiglie Berlusconi, pro partite iva Salvini. Giorgia Meloni no, anche se pochi paiono essersene accorti.

E’ da almeno otto anni che, sulla politica fiscale, le idee di Giorgia Meloni divergono radicalmente da quelle di Berlusconi e Salvini. Lo ha fatto capire nell’ultima campagna elettorale (2018), quando – per non scontentare gli alleati – accettò di includere la flat tax nel programma di Fratelli d’Italia, ma solo limitatamente al “reddito incrementale” (ovvero sull’eventuale, improbabile, aumento del reddito da un anno all’altro). Ma lo aveva già reso chiarissimo nel 2014, quando trasformò in disegno di legge una proposta della Fondazione Hume (denominata maxi-job) che prevedeva di azzerare i contributi sociali alle sole imprese che aumentano l’occupazione. Una proposta così “di sinistra” da ricevere il sostegno di Susanna Camusso, allora al vertice della Cgil.

Aggiungo un ricordo personale. Tre anni fa ebbi occasione di intervistarla in tv nel programma di Nicola Porro e, per stanarla sulla questione fiscale, le sottoposi una sorta di domanda trabocchetto: se lei avesse risorse per 10 miliardi, e dovesse usarle per varare un’unica misura fiscale, preferirebbe detassare le famiglie, detassare tutte le imprese, o concentrare gli sgravi sulle sole imprese che aumentano l’occupazione?

Risposta: non avrei il minimo dubbio, metterei tutte le risorse sulle imprese che aumentano l’occupazione.

Se le cose stanno così, è chiaro che sulla politica fiscale si gioca una partita cruciale. Se dovesse prevalere la linea di Giorgia Meloni, la politica fiscale del centro-destra potrebbe forse essere criticata da sinistra, ma non attaccata frontalmente. Non è neppure escluso che i sindacati ne colgano il lato keynesiano, di strumento di contrasto alla disoccupazione.

Ma è un’eventualità improbabile. Molto più verosimile è che Berlusconi e Salvini impongano a tutto il centro-destra la ricetta di sempre: flat tax + pace fiscale. Questo, a mio parere, è un tallone di Achille notevole, e un assist al centro-sinistra. Perché le (poche) buone ragioni dell’aliquota unica e della clemenza fiscale si possono anche difendere, con qualche sottigliezza tecnica, in un seminario fra esperti di opposte vedute, ma sono destinate a trasformarsi in un boomerang in una campagna elettorale. Dove, inesorabilmente, la ferrea logica della comunicazione politica traduce flat tax in “aiutare i ricchi” e pace fiscale in “premiare gli evasori”.

Luca Ricolfi

image_print
1 38 39 40 41 42 107
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy