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Il pride di Budaspest

2 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Il successo del Pride di domenica a Budapest è andato, molto ampiamente, al di là delle più ottimistiche previsioni degli organizzatori. Non sappiamo se i partecipanti siano stati davvero 200 mila, ma anche fossero stati la metà, il successo resta. La destra italiana si consola osservando che, per compattare il campo largo, hanno dovuto esportarlo a Budapest, e che in nessuna altra occasione e su nessun altro tema i progressisti sono stati capaci di marciare uniti.

Ma è una ben magra consolazione. Meglio farebbero, i nostri partiti conservatori, a prender atto del successo dei progressisti e a comprenderne le ragioni. Che a mio parere sono soprattutto due, tra loro strettamente intrecciate. La prima è che, quali che siano le buone ragioni di chi governa, non è mai una buona idea farle valere limitando il dissenso e la manifestazione del pensiero. Vale per il Pride ungherese, dove il premier Viktor Orbán ha sbagliato, e dove l’andamento civile e ordinato della manifestazione ha reso ancora più palese l’arbitrarietà – per non dire l’assurdità – del divieto governativo. Ma vale anche per altri tipi di limitazioni, come alcune di quelle introdotte in Italia dal recente decreto sicurezza riguardo alle manifestazioni, dove a sbagliare sono stati i nostri governati. Non che non possano esservi, in specialissime circostanze, buone ragioni per limitare il diritto di manifestazione del pensiero o la protesta politica, ma il punto è che la legge dovrebbe perimetrare in modo estremamente restrittivo e rigoroso i casi in cui il divieto governativo è ammissibile e giustificato. Insomma, c’è caso e caso: l’impedimento del traffico ferroviario o l’occupazione di case sono comportamenti ben diversi da una manifestazione di piazza. L’eccessiva estensione, o l’insufficiente specificazione, dei casi in cui si può vietare una manifestazione rischia di squalificare anche i divieti più ragionevoli.

C’è anche una seconda ragione, però, per cui il Pride di Budapest ha segnato una grave sconfitta dei conservatori, ed è che – vietando la semplice manifestazione del pensiero – essi hanno fatto venir meno le proprie buone ragioni, o meglio le ragioni che, giuste o sbagliate che siano, sono pubblicamente difendibili. Quello che spesso si dimentica, infatti, è che il nucleo duro dell’ostilità contro il mondo Lgbtq+ non è il “diritto ad amare chi si vuole”, un principio ormai ampiamente e quasi universalmente affermato, almeno in occidente e perlomeno dai tempi di Giorgio Gaber (ricordate i versi di quella canzone del 1975? Vedi, cara, l’amore è una cosa normale, uno lo può fare con chi vuole, donne, uomini, animali… caloriferi…). No, il nucleo delle battaglie anti-Lgbtq+, chiunque le conduca (la Chiesa, i tradizionalisti, i moralisti), non è il diritto degli adulti consenzienti di fare sesso con chi vogliono e come vogliono, ma è la tutela dei minori e dei loro diritti contro rischi e conseguenze, reali o presunte, delle rivendicazioni Lgbtq+ e più in generale della cultura woke.

Quali rischi e conseguenze?

Fondamentalmente quattro. Primo, l’indottrinamento a scuola in materia sessuale, che secondo alcuni entrerebbe in conflitto con l’articolo 26 della “Dichiarazione universale dei diritti umani” (dicembre 1948), che al comma 3 recita: i genitori hanno diritto di priorità nella scelta dell’istruzione da impartire ai loro figli. Secondo, i rischi per la salute fisica e mentale connessi ai cambiamenti di sesso precoci, mediante bloccanti della pubertà e/o operazioni chirurgiche. Terzo, la violazione del diritto dei bambini ad avere una madre e un padre nei casi di adozioni non convenzionali (single e coppie omosessuali). Quarto, le complesse problematiche etiche della maternità surrogata (utero in affitto) sia sotto il profilo dello sfruttamento economico delle gestanti sia sotto quello del benessere psicologico del nascituro.

Qualsiasi cosa se ne pensi, credo si possa concordare che si tratta di materie delicate, sulle quali sono legittime e comprensibili le opinioni più diverse, perché è nella società che – come testimoniano i sondaggi – le troviamo tutte ampiamente rappresentate. Ecco perché la mossa di Orbán – vietare la manifestazione – è stata non solo profondamente sbagliata, ma stupidamente autolesionistica: mettendo la questione in termini di libertà di manifestazione, ha concesso un rigore a porta vuota ai propri avversari.

[articolo uscito sulla Ragione il 1° luglio 2025]

Nel segno dell’incertezza

2 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Che cosa pensa l’opinione pubblica delle guerre in corso? A giudicare da diversi sondaggi degli ultimi tempi sembra che i sentimenti dominanti siano stanchezza, scetticismo, incertezza. La guerra in Ucraina è durata troppo, le speranze di una “pace giusta” sono ridotte al lumicino. La condanna dell’intervento israeliano a Gaza coesiste con una certa comprensione per l’attacco americano ai siti nucleari dell’Iran. Il riarmo europeo e il connesso aumento delle spese militari spaccano sia la destra sia la sinistra.

Che l’opinione pubblica sia confusa e divisa non stupisce più di tanto, data la straordinaria complessità delle questioni sul tappeto. Quel che trovo sorprendente, invece, è la sicurezza con cui si muovono tanti esperti di questioni geopolitiche e geostrategiche. Due cose mi colpiscono in particolare. La prima è quante informazioni cruciali ci mancano, e quanto poco questa ignoranza venga tematizzata. Nel caso dell’intervento in Iran non sappiamo se l’Iran era davvero sul punto di possedere l’arma nucleare, o se siamo di fronte a una nuova bufala, come quella sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein nel 2003; non sappiamo dove siano in questo momento i 400 chili di uranio arricchito e che cosa gli iraniani intendano farne; non sappiamo, soprattutto, quale proposta americana l’Iran avrebbe rifiutato prima della rottura dei negoziati sul programma nucleare. Nel caso della guerra in Ucraina non sappiamo con la necessaria esattezza chi e che cosa fece fallire le trattative intavolate a Istanbul nella primavera del 2022; e ovviamente non conosciamo i piani di Putin per i prossimi anni (sempre che resti al potere), né come reagirebbe alle possibili mosse dei governi occidentali.

La seconda cosa che mi sorprende è che, in una situazione di così palese e drammatica ignoranza dei dati basilari, tanti politici e tanti esperti esibiscano convinzioni strategiche univoche. Mi hanno colpito, in particolare, le analisi contenute in due bellissimi libri di specialisti, uno uscito nei giorni scorsi (Se la Russia attacca l’Occidente, di Carlo Masala, Rizzoli), l’altro pubblicato pochi mesi dopo l’invasione dell’Ucraina (Il governo mondiale dell’emergenza, di Alessandro Colombo, Cortina). Il primo è un esercizio di fanta-politica, che immagina uno scenario futuro di tipo catastrofico: la Russia attacca l’Estonia il 28 marzo 2028, e i governanti europei, non avendo dato seguito alle promesse di riarmo ed essendo tra loro divisi, non riescono a reagire adeguatamente l’attacco. Il secondo è una raffinata analisi del dopo ’89, e degli errori strategici dell’occidente, incapace di capire che l’aggressività e pericolosità dei suoi nemici dipendono anche dalle politiche, a loro volta aggressive e ossessionate dall’imperativo della sicurezza, messe in atto nei loro confronti. Anche se i due autori non si pronunciano esplicitamente, credo che la lezione che un lettore ricaverebbe dal primo libro è che l’Europa dovrebbe riarmarsi al più presto (“si vis pacem para bellum”), mentre la lezione che ricaverebbe dal secondo è che l’Occidente e la Nato devono smetterla di spadroneggiare in tutto il mondo.

Quello che ai miei occhi in entrambi pare mancare, è la coscienza che il gioco delle relazioni internazionali non è governato dal rischio ma, per riprendere la fondamentale distinzione di Knight e di Keynes, è retto dall’incertezza. Si ha rischio quando gli esiti delle proprie azioni sono sconosciuti ma calcolabili probabilisticamente (come in molti giochi d’azzardo), si ha incertezza quando non solo le conseguenze delle nostre azioni non sono prevedibili, ma non siamo neppure in grado di assegnare probabilità ai vari esiti logicamente possibili. E’ questa, sfortunatamente, la situazione del gioco europeo in atto in questi anni. Dove l’imperativo del riarmo ha una sua logica, il paragone con gli errori delle democrazie di fronte a Hitler ha una sua plausibilità, ma nessuno è in grado di escludere che le cose stiano all’opposto, e che il comportamento futuro della Russia possa dipendere anche, se non soprattutto, da quanto si sentirà minacciata da noi. Di qui, in particolare, l’impossibilità di formulare un giudizio razionale sul riarmo tedesco: provvidenziale ciambella di salvataggio per un’Europa altrimenti inerme, o provocazione che rischia di risvegliare l’orso russo, memore di Napoleone e di Hitler?

Ecco perché sono stupito. I nostri governanti, i nostri politici, i nostri esperti militari, i nostri intellettuali, i nostri editorialisti parlano come se conoscessero le conseguenze delle scelte che l’Unione Europea si appresta a compiere. Come se non sapessero che questo è il tempo dell’incertezza. E che, in tempi di incertezza, nessuno può sapere con ragionevole certezza qual è la via che si deve imboccare.

[articolo uscito sul Messaggero il 28 giugno 2025]

L’Italia è un paese sicuro?

26 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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L’Italia è un paese sicuro?

La domanda riceve risposte perentorie solo da chi è schierato in modo ideologico. Se prendete un politico di destra, ad esempio Salvini, vi sentirete rispondere che l’Italia non è un paese sicuro, e che occorre un giro di vite. Se prendete un intellettuale di sinistra, ad esempio Gianrico Carofiglio, vi può capitare di sentir dire che l’Europa è uno dei posti più sicuri del mondo, e che noi italiani “stiamo vivendo nell’epoca in assoluto più sicura della nostra storia”. Se poi parlate con una militante femminista, vi inonderà di indignazione per i femminicidi, descritti come una mattanza, uno sterminio, un’ecatombe.

Il tutto, non di rado, condito da dati statistici: ad esempio i tassi di criminalità degli immigrati, che sembrano dare ragione a Salvini, i tassi di omicidio, che sembrano dare ragione a Carofiglio, il numero di donne uccise dal partner, che sembrano dare ragione alla femminista.

Se vogliamo capire come stanno le cose, la prima cosa da fare è evitare quello che gli inglesi chiamano cherry picking (selezionare ciliegie), ovvero usare solo i dati che fanno comodo alla tesi cui siamo affezionati. E allora proviamoci, nei limiti di spazio di un articolo.

Punto numero uno: effettivamente, se consideriamo i comportamenti violenti, e in particolare quelli contro la donna (femminicidi e stupri), l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa. Però attenzione, c’è una importante differenza: gli omicidi, sia di uomini sia di donne, sono relativamente pochi, e abbastanza stazionari negli ultimi anni, ma le violenze sessuali sono in forte aumento, sia nel breve periodo (ultimi anni) sia nel lungo (rispetto agli anni ’50 e 60). Difficile, senza prove, rassicurarsi ipotizzando che il loro aumento nel tempo rifletta solo un aumento del tasso di denuncia.

Anche sugli omicidi in generale occorre andarci piano. Usando il cherry picking possiamo auto-rassicurarci dicendo che, rispetto al picco del 1991 (in cui c’erano stati quasi 2000 omicidi) le cose vanno benissimo (nel 2024 sono sati solo 319). Ma quel che invariabilmente si dimentica, quando ci compiacciamo della spettacolare riduzione del numero di omicidi dal 1991 a oggi, è il fatto che il 1991 è un anno specialissimo, che conclude una altrettanto spettacolare ascesa degli omicidi iniziata subito dopo il ’68, allorché gli omicidi erano ancora sotto quota 400, dunque non molto lontano dal livello cui sono oggi.

In breve: se parliamo di violenza, è vero che in Italia ce n’è meno che in Europa, ma non si può dire che sia minore di com’era negli anni ’60. Il vero crollo degli omicidi è avvenuto fra gli anni dell’immediato dopoguerra, in cui erano diverse migliaia all’anno, e la metà degli anni ’60, in cui erano scesi sotto i 400: una diminuzione di un fattore 10.

Ma la insicurezza non è fatta solo di esposizione alla violenza. È fatta anche, forse soprattutto, di esposizione a reati più comuni e diffusi, come quelli che attentano alla proprietà privata (furti, rapine, truffe).

Ebbene, se diamo un’occhiata alle statistiche disponibili per i paesi avanzati (Oecd o UE) scopriamo che, in generale, l’Italia si situa nel gruppo dei paesi in cui la proprietà è esposta a maggiori pericoli. E, sorpresa, in tale gruppo – oltre all’Italia – troviamo paesi considerati civilissimi come Svezia, Norvegia, Svizzera, Danimarca, Canada, Francia. Mentre nel gruppo dei paesi in cui i crimini predatori sono più diffusi troviamo soprattutto i paesi dell’Est europeo, tendenzialmente meno ricchi, meno democratici, meno avanzati sul piano dei diritti, meno aperti all’immigrazione.

Conclusione. Quando parliamo di sicurezza, dobbiamo distinguere nettamente fra attacchi alle persone fisiche (omicidi e violenze sessuali) e attacchi alla proprietà. Chi cerca di rassicurarci ha ragione se parliamo di attacchi alla persona e il termine di paragone sono le altre società avanzate. Ma ha torto se il termine di paragone è il passato remoto del nostro paese (l’Italia non è più sicura che negli anni ’60 del Novecento), o se parliamo di attacchi alla proprietà (l’Italia è meno e non più sicura delle altre società avanzate).

[articolo uscito sulla Ragione il 24 giugno 2025]

Criminalità – La paura e il rimpianto

24 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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Anche se ogni tanto qualcuno a sinistra ci prova, il tema della sicurezza non riesce proprio a far breccia nella mente dell’establishment progressista. A neutralizzare questa eventualità provvede un racconto standard, terribilmente ripetitivo, che più o meno suona così.

Viviamo nell’epoca più sicura della storia, l’Europa è una delle aree più sicure del pianeta, l’Italia è uno di paesi più sicuri d’Europa. I crimini violenti, e in particolare gli omicidi, sono in calo vertiginoso dall’Ottocento, se qualche tipo di reato (ad esempio stupri ed estorsioni) è in crescita in realtà è un bene, perché vuol dire che la gente denuncia di più. Gli immigrati non sono il problema, non delinquono più degli italiani. La paura non è razionale, perché ad alimentarla provvedono i media e gli “imprenditori della paura”, non certo l’aumento effettivo dei crimini commessi. La buona politica deve impegnarsi a mostrare ai cittadini l’infondatezza delle loro paure.

Questo racconto è basato su un buon numero di errori statistici e logici, e pure su qualche piccola furbizia. Ad esempio usare come termine di paragone il 1991, anno in cui i crimini hanno toccato il picco, o concentrarsi sugli omicidi, ossia su uno dei pochissimi crimini su cui effettivamente l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa. Ma il difetto principale del racconto rassicurante è di fraintendere radicalmente lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Oggi la preoccupazione per il crimine, i vissuti di insicurezza, l’ostilità verso gli immigrati non poggiano, come in passato, sulla sensazione, più o meno fondata, di un recente più o meno improvviso aumento dei reati. La loro base è molto più ampia e profonda, perché affonda le radici in un cambiamento più generale della nostra percezione della realtà in cui viviamo.

Dopo i quattro grandi shock degli ultimi anni – Covid, guerra in Ucraina, guerra Israele-Hamas, attacco all’Iran – la sensazione di vivere in un mondo profondamente insicuro e sempre più a rischio di catastrofi globali (pandemie, disastri climatici, guerra nucleare), è diventata pane quotidiano delle nostre coscienze. Ma questo ha anche modificato il modo di vivere la preoccupazione per il crimine. Se ieri potevamo essere turbati da ondate, vere o presunte, di comportamenti criminali, oggi quello che si fa strada nella mente di molti è un sospetto molto più radicale: che il progresso non sia progresso, che il mondo di ieri fosse ben più sicuro e vivibile di quello di oggi. Detto in altre parole, la gente, specie se ha vissuto parte della sua vita nel Novecento, non si chiede se l’Italia sia più sicura di 5 anni fa, ma semmai se lo sia rispetto a decine di anni fa.

Ma come stanno le cose?

Difficile, con l’informazione statistica disponibile, formulare una risposta rigorosa, ma una approssimativa invece la possiamo dare. Fatto 1 il livello dei vari crimini a metà degli anni ’60, possiamo dire che oggi le lesioni dolose sono salite a livello 3, i furti a livello 5, le violenze sessuali e le estorsioni a livello 6, le frodi e le truffe a livello 7, le rapine a livello 12, la produzione e commercializzazione di stupefacenti oltre livello 100. In breve: la gente ha ragione, oggi la criminalità è più forte, molto più forte di ieri. E sono diversi i reati (ad esempio furti e frodi) per cui l’Italia è meno e non più sicura della maggior parte degli altri paesi europei.

C’è una sola eccezione importante, che non a caso è sistematicamente invocata da chi nega o cerca di sminuire il problema della sicurezza: gli omicidi.

Effettivamente è vero che il tasso di omicidio in Italia è fra i più bassi d’Europa. Ed effettivamente è vero che negli ultimi 30 anni il numero di omicidi è crollato. E infine è vero che, nel lunghissimo periodo, con la modernizzazione e la crescita del benessere, il numero di omicidi volontari tende a diminuire. Negli ultimi decenni dell’Ottocento erano circa 4000 (su una popolazione di 30 milioni di abitanti), mentre oggi sono poco più di 300 (su una popolazione di 58 milioni di abitanti).

Quello che sempre si dimentica, tuttavia, è di specificare che il grosso del tracollo degli omicidi è avvenuto nei primi 100 anni della nostra storia nazionale, fra gli anni ’60 dell’Ottocento e gli anni ’60 del Novecento, e che negli ultimi 60 anni la diminuzione è stata modestissima, dai circa 400 del 1965 ai circa 300 di oggi. L’impressione di un crollo del numero di omicidi è dovuta a un rozzo trucco statistico: per dare l’impressione di un inarrestabile progredire della civiltà si usa come termine di paragone il 1991 (quasi 2000 omicidi), ossia l’anno terminale di una drammatica galoppata degli omicidi, enormemente cresciuti dopo il ’68. Se il paragone, anziché con il 1991, si facesse con il dato del 1965, dovremmo amaramente ammettere che – in quasi 60 anni – gli omicidi sono scesi da circa 400 a circa 300, un ben misero risultato considerata la lunghezza del periodo.

Ecco perché, oggi, parlare semplicemente di paura è riduttivo. Quello che si sta facendo strada nell’opinione pubblica è un sentimento assai più complesso, che ha più a che fare con il rimpianto che non con la paura. Rimpianto di un’epoca forse un po’ idealizzata, ma in cui i crimini erano molti di meno, e l’impunità era meno sistematica e legalizzata di oggi. Un’epoca in cui non era vivo quanto oggi il sentimento generale di ingiustizia che ogni crimine impunito suscita nelle vittime e nei comuni cittadini.

Possiamo deplorare la nostalgia per il passato, e sforzarci di elencare le innumerevoli cose che vanno meglio oggi di ieri. Ma non possiamo non vedere che il futuro non è più costellato di speranze come lo si pensava nel secolo scorso, e la nostalgia ha le sue buone ragioni.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 giugno 2025]

La macedonia avvelenata

19 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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C’erano una volta i movimenti collettivi. Ricordate le grandi manifestazioni delle donne negli anni ’70? La battaglia sul divorzio? E quella sull’aborto? La mobilitazione contro il nucleare? Il referendum contro il finanziamento pubblico dei partiti? E quello sulla scala mobile? E le grandi manifestazioni per la pace ai tempi delle guerre del Golfo?

La stagione dei movimenti è durata una quarantina di anni, dalla fine degli anni ’60 ai primi anni 2000. Poi, più o meno lentamente, le grandi ondate dell’azione collettiva hanno perso vigore, e sono state sostituite da sommovimenti più piccoli, più contingenti, più frammentati. I grandi movimenti collettivi, capaci di polarizzare l’opinione pubblica e mobilitare grandi masse di cittadini, oggi non ci sono più, sostituiti da sussulti di breve durata e scarso respiro.

Perché?

Una spiegazione possibile è che la nostra società è diventata molto più individualista. Siamo molto più concentrati su noi stessi, le battaglie collettive ci interessano sempre di meno. Ognuno cerca la sua strada da solo. La “società liquida” di cui parla Zygmunt Bauman non consce né la fatica dell’impegno pubblico né la pazienza dell’attesa.

Un’altra possibile spiegazione è che molte delle rivendicazioni dei movimenti del passato sono state soddisfatte. Se le donne di oggi lottano di meno è anche perché hanno ottenuto molto di ciò per cui le loro madri e nonne si sono battute.

E tuttavia, forse, c’è anche un’altra ragione, stranamente dimenticata, per cui oggi non ci sono più veri movimenti collettivi di massa: non c’è uno straccio di attore politico che sappia resistere alla tentazione della macedonia avvelenata.

Che cos’è la macedonia avvelenata?

È la tendenza a costruire, intorno al tema principale per cui si convoca una manifestazione o si indice un’iniziativa, una macedonia di temi supplementari, tenuti insieme e spesso infiammati dal veleno dell’ideologia, quando non dal carburante dell’odio.

L’esempio più recente è stato fornito giusto sabato scorso dal Gay Pride di Roma, una manifestazione che in teoria era di difesa dei diritti LGBT+, in realtà è diventata tutt’altro. Le bandiere della Palestina l’hanno trasformata anche in una manifestazione pro-Gaza e anti-Netanyahu. E un mostruoso manifesto, con Netanyahu, Trump, Musk  e Joanne Rowling a testa in giù, l’ha trasformata in una macchina dell’odio e dell’incitamento alla violenza.

Ma la stessa cosa era successa, una settimana prima, nella grande manifestazione della sinistra a sostegno dei Palestinesi, che si è rapidamente trasformata in una iniziativa per il sì ai referendum del giorno dopo, in patente violazione del silenzio elettorale. Episodi di questo genere, in cui la piazza viene convocata su un tema, ma gli organizzatori confezionano la “macedonia avvelenata” aggiungendo altri temi, mettendo nel mirino gli avversari politici, indicando bersagli da colpire, non sono certo nuovi. Fra quelli relativamente recenti ricordo l’incredibile insalata di slogan – dai femminicidi al Ponte sullo Stretto – che caratterizzò la piattaforma politica della manifestazione transfemminista del 25 novembre 2023, poco tempo dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin. E, fra quelli remoti, la politicizzazione in chiave anti-Berlusconi (erano i tempi del bunga bunga) della grande manifestazione nazionale del 2011 “in difesa della dignità delle donne”, promossa dalle femministe di “Se non ora quando”.

Ecco, forse è stato proprio in quel momento che è iniziata l’agonia dei movimenti collettivi. Che ha una matrice molto semplice: se chiami la gente in piazza in nome di una parte politica contro la parte avversa, se appiccichi al tema mobilitante una pletora di temi parassitari che c’entrano nulla o poco, se spargi odio contro chi non la pensa come te, allora non stai facendo impegno civile: stai distruggendo le pre-condizioni che lo rendono possibile.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 giugno 2025]

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