Harakiri antifascista

C’è sempre stato un che di poco simpatico, nella richiesta perentoria di dichiararsi antifascisti. Chi la formulava, lo faceva nella presunzione di essere immacolatamente antifascista, e perciò stesso nella posizione di giudicare-assolvere-condannare l’interlocutore. Al di là di questo lato sgradevole, però, un tempo era del tutto naturale dichiararsi antifascisti, perché per la stragrande maggioranza degli italiani l’antifascismo era una sorta di ovvietà: rifiuto del fascismo, gratitudine verso i partigiani, fiducia nella democrazia. Il 25 aprile, è vero, era una festa egemonizzata dalla sinistra, ma non per questo cessava di essere una festa di tutti.

Poi le cose cominciarono a cambiare. Il primo cambiamento mi si palesò in Consiglio di Facoltà nella primavera del 1994, esattamente 30 anni fa. Il nostro preside, eminente studioso della Resistenza, si presentò in Aula Magna con il viso scuro, annunciandoci – con l’aria di chi aveva per le mani una notizia sconvolgente – che in Italia stava tornando il fascismo. In effetti Berlusconi aveva vinto le elezioni. Passarono pochi mesi e Umberto Eco, dagli Stati Uniti, ritenne di dover rincarare la dose: il fascismo non era mai scomparso, anzi era eterno perché i suoi 14 (quattordici) tratti fondamentali si ripresentavano e combinavano in varie configurazioni anche dopo la sconfitta del fascismo storico. Da allora gli allarmi si sono ripetuti migliaia di volte, con particolare frequenza quando al governo c’era la destra, e con ossessiva solerzia da quando Giorgia Meloni ha avuto l’ardire di vincere le elezioni. Da quel momento qualsiasi atto del nuovo governo, dalla politica migratoria al premierato, viene interpretato dagli antifascisti-doc o come manifestazione di tendenze autoritarie e illiberali, o come prodromico alla rinascita del fascismo, ovviamente in una edizione nuova e più consona ai tempi.

Questo modo di vedere le cose si presenta in due forme principali, una teorica e l’altra

pratica. Della forma teorica, il massimo esponente è il prof. Luciano Canfora, per il quale il “nòcciolo” del fascismo è il “suprematismo razzistico”, che starebbe alla base delle politiche migratorie del governo. Della forma pratica, sono da molti anni espressione i gruppi che, per lo più in nome dell’antifascismo, tolgono la parola a chi ha idee diverse dalle loro. Ne sono ricorrente testimonianza le contro-manifestazioni e contestazioni che, puntualmente, provano a impedire fisicamente le manifestazioni altrui, che siano cortei o altri eventi sgraditi, quali presentazioni di libri, convegni, dibattitti: i 18 mesi del governo Meloni ne hanno visto un campionario impressionante.

In breve, l’antifascismo ha poco per volta cessato di essere quel che era – un rito della memoria che celebra la Resistenza e riafferma il valore supremo della democrazia – per trasformarsi in un’arma impropria che una parte politica agita contro la parte avversa, talora accusandola di preparare il fascismo che verrà, talora accusandola di essere essa stessa, già ora, quel fascismo che credevamo di aver debellato per sempre.

Ecco perché oggi, oltre ad essere poco simpatica, la richiesta di dichiararsi antifascisti sta diventando irricevibile per ragioni logiche. Se un governo democraticamente eletto viene considerato compromesso con il fascismo, come potranno gli italiani che lo hanno votato proclamarsi antifascisti? E se così spesso, in nome dell’antifascismo, si usa la forza per togliere la parola agli avversari politici, come potranno proclamarsi antifascisti i liberali e più in generale quanti credono nella libertà di espressione e nel pluralismo delle idee?

Insomma, a me pare che, specie con le ultime manifestazioni dell’8 marzo e del 25 aprile, così piene di odio e intolleranza, l’antifascismo abbia fatto harakiri. D’ora in poi nessuno potrà chiedere a noi antifascisti normali se siamo antifascisti. Saremmo noi, semmai, a dover chiedere ai custodi dell’antifascismo storico che cosa aspettano a prendere le distanze dal nuovo antifascismo, violento e intimidatorio, e a restituire un po’ di rispetto a quella parte del paese che ha più fiducia nella destra che nella sinistra.

Ma non lo faremo. Perché a noi antifascisti normali le abiure non piacciono. Ognuno è responsabile delle sue idee, ma nessuno è titolato a ergersi a giudice delle idee altrui. La democrazia è anche questo, qualsiasi cosa ne pensino le autonominate vestali dell’ortodossia antifascista.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 maggio 2024]




Sul futuro di Medicina

È strano. Fiumi di inchiostro sono stati versati sul monologo di Scurati. Altri se ne sprecano quotidianamente per denunciare imminenti innumerevoli pericoli di ritorno del fascismo. Le frasi del generale Vannacci infiammano gli animi di tifosi e detrattori. Non passa giorno senza che si denuncino, non senza ragione, gli inaccettabili tempi di attesa del nostro sistema sanitario nazionale. Altre decine di temi, sempre quelli, occupano ripetutamente le pagine dei quotidiani.

Però c’è una questione di cui, stranamente, parliamo pochissimo, pur essendo cruciale per il futuro di tutti noi: la riforma dei criteri di ingresso a Medicina (e facoltà collegate). Se ne discute da tempo. In Commissione istruzione del Senato c’è un testo base, da cui presto dovrebbe scaturire un disegno di legge. I principali partiti hanno idee diverse. L’Associazione Nazionale Docenti Universitari (ANDU) non sposa nessuna delle proposte partitiche in campo, ed è estremamente critica con l’impostazione del testo base.

L’idea di fondo del testo base è di NON abolire il numero chiuso, che attualmente esclude circa il 70% degli aspiranti, e di sostituirlo con un sistema giudicato più equo (e da tempo usato in Francia con risultati assai controversi): tutti possono iscriversi al primo semestre del primo anno, ma proseguano solo quelli che – in quel primo semestre – hanno conseguito i risultati migliori.

Ma che significa risultati migliori?

Non è chiarissimo. Nel testo base si parla di raggiungere un determinato numero di CFU (crediti formativi universitari) nelle materie obbligatorie e caratterizzanti del primo semestre, cui però possono aggiungersi crediti acquisiti durante l’ultimo anno di scuola secondaria superiore. Se il numero di studenti a “pieni crediti” supera il numero di posti disponibili, la selezione dovrà avvenire in base a una “graduatoria di merito nazionale”, di cui tuttavia non si sa ancora come verrà costruita.

Le idee del testo base hanno sollevato diverse critiche e dubbi. C’è chi ritiene che il vero problema non sia l’accesso a medicina, ma l’accesso alle specialità post-laurea, e in particolare lo squilibrio fra struttura della domanda e dell’offerta di posti. C’è chi osserva che le università non hanno le strutture (aule e personale docente) per reggere l’urto di tutti gli aspiranti medico nel primo semestre. C’è chi ritiene che l’unico sistema di selezione equo sarebbe il sorteggio. E c’è chi, al contrario, vorrebbe eliminare il numero chiuso, come se il problema delle strutture insufficienti non esistesse. C’è chi si preoccupa del destino dei non ammessi al secondo semestre, e dell’impiego dei crediti comunque acquisti. C’è chi fa notare che, al momento, non sono previsti adeguati stanziamenti per sostenere la transizione dal vecchio al nuovo sistema. E l’elenco delle criticità potrebbe continuare a lungo.

Per quanto mi riguarda, ho letto i documenti principali prodotti dalla Commissione e dall’ANDU e l’impressione che ne ho ricavato è che l’iter della legge sarà lungo e accidentato, e difficilmente ne verrà fuori qualcosa di funzionante. A giudicare dal resoconto dei lavori, sembra che si vada avanti concedendo qualcosa a ogni forza politica coinvolta, rinunciando a un disegno organico e coerente, perché qualsiasi disegno di questo tipo scontenterebbe troppi soggetti coinvolti. Un po’ come accadde tanti anni fa (2009), quando la Lega rinunciò al suo progetto di federalismo fiscale (discutibile ma coerente) per incassare la benevolenza della sinistra, senza rendersi conto che la ricerca ossessiva del compromesso avrebbe spento ogni spinta riformatrice.

Non so come andrà a finire, ma penso che delegare completamente il tema della riforma di Medicina alle manovre dei partiti non favorirà la nascita di una legge funzionante. È vero che è un tema molto tecnico, che non consente di prendere posizione sull’asse fascismo-antifascismo che tanto appassiona gli intellettuali, ma resto dell’idea che, sulle cose che contano – ad esempio la soglia del numero chiuso e i criteri di accesso – sia meglio che anche l’opinione pubblica abbia modo di dire la sua. La libera stampa serve anche a questo.

[articolo uscito su La Ragione il 30 aprile 2024]




Protesta studentesca e libertà di parola – Davide contro Golia?

Diversi osservatori si sono compiaciuti delle mobilitazioni studentesche pro-Gaza, perché esse mostrerebbero che i giovani non sono apatici e indifferenti come talora vengono dipinti, bensì impegnati e sensibili ai destini del mondo. Qualcuno ha pure evocato una sorta di nuovo ’68, come se l’idealismo della gioventù pacifista di oggi fosse una riedizione di quello di ieri contro la guerra del Vietnam.

Nessuno può sapere come le cose evolveranno, ma per ora – a mio parere – le differenze prevalgono sulle analogie. La differenza più evidente è che, per ora, le proteste degli studenti sono molto circoscritte e, anche per questo, significativamente infiltrate da soggetti esterni, sia negli Stati Uniti sia in Italia. Ma esiste anche un’altra differenza, di cui si parla poco: la complessità ideologica dell’oggetto del contendere.

Negli anni ’60 il nucleo della protesta, specie negli Stati Uniti, era l’opposizione a una guerra che coinvolgeva direttamente gli Stati Uniti, e che rischiava di ripercuotersi sugli studenti universitari, in quanto potenzialmente arruolabili. Sul piano politico, l’alternativa era relativamente semplice: si potevano condividere o viceversa contestare le ragioni dell’intervento americano nel sud-est asiatico. Due posizioni chiare e ben difendibili, da entrambe le parti.

Oggi le cose sono molto più complicate. Il conflitto che scalda gli animi dura da quasi 80 anni, ossia dalla nascita dello stato di Israele nel 1948. Nel tempo ha coinvolto direttamente o indirettamente numerosi stati e popolazioni, dando luogo a una catena di guerre più o meno esplicitamente dichiarate, con alleanze variabili fra i soggetti coinvolti. Come non bastasse, al centro del conflitto si sono trovati gli ebrei, ovvero le vittime principali del nazismo, e diverse popolazioni di fede musulmana, ostili alla nascita di uno stato ebraico in Palestina. Un vero groviglio, che ha dato luogo a una lunghissima partita, suddivisa in una decina di “tempi”, di cui quello iniziato il 7 ottobre 2023 è solo l’ultimo.

Queste peculiarità della questione palestinese rendono terribilmente difficile dipanare la matassa ideologica del conflitto. Se si parla tra persone informate e non troppo faziose, nessuno si sente di schierarsi nettamente da una delle parti in conflitto, perché è impossibile non vedere la sequenza di tragici errori compiuti da entrambi i lati. Si può, più o meno istintivamente, sentirsi più solidali con gli uni o con gli altri, ma è difficile non vedere le immani responsabilità della parte per cui si parteggia.

Non così a livello di massa. A livello di massa prevalgono le semplificazioni manichee proprio perché la vicenda è troppo intricata. Il bisogno di prender posizione, ammirevole in quanto rifiuto di ogni indifferenza e apatia, si scontra con l’impossibilità di farlo senza cancellare ingenti porzioni della storia reale del conflitto. Ed ecco la soluzione: costruire un racconto a senso unico giocando sulla asimmetria fondamentale del conflitto, che vede da una parte uno dei popoli più martoriati della terra, dall’altro una delle nazioni più ricche e potenti dell’occidente. Una sorta di riedizione della sfida fra Davide e Golia, con Israele nella inedita parte del cattivo gigante Golia, e il popolo palestinese in quella del buono e coraggioso pastorello Davide.

Questo racconto partigiano, naturalmente, non ha alcuna possibilità di uscire indenne da un confronto storico-critico informato, che consideri tutta la storia del conflitto, e non nasconda le spaventose responsabilità delle classi dirigenti arabe (specie nei primi 20 anni del conflitto) e israeliane (specie negli ultimi 20 anni). Ed ecco spiegato come mai non accade quel che recentemente ha auspicato Massimo Cacciari: ossia che le università diventino luoghi di confronto, riflessione e dialogo nei modi ad esse appropriati, ossia con seminari, convegni, dibattiti, corsi di studio sulla storia del conflitto. La ragione per cui tutto ciò non accade, né potrà mai accadere, è che un dialogo aperto e senza censure farebbe sciogliere come neve al sole il rozzo racconto degli attivisti anti-Israele, per questo fermamente decisi a non fare i conti con tutta la complessità del groviglio medio-orientale.

Ma la debolezza storico-ideologica del racconto degli attivisti studenteschi spiega anche un altro tratto della protesta attuale: la sua vocazione intimidatoria, che si è manifestata in tanti episodi recenti, come le contestazioni degli ebrei David Parenzo e Maurizio Molinari, o l’espulsione dal corteo del’8 marzo della ragazza che ricordava gli stupri di Hamas. L’attivismo studentesco di oggi, a differenza di quello di ieri, ha assoluto bisogno di limitare la libertà di parola altrui, perché quella libertà ne metterebbe a repentaglio il racconto. In un confronto aperto non tutte le ragioni starebbero dalla parte dei palestinesi, e non tutti i torti dalla parte degli israeliani. È questo che impedisce agli studenti di lasciare il comodo terreno dei cortei e delle piazze per avventurarsi in mare aperto, dove l’unica forza che conta è quella delle idee.

(uscito sul Messaggero il 25 aprile 2024)




Generazione Z: fuga dallo smartphone?

Non è un momento felice per gli smartphone e per i social: da un anno a questa parte le voci che ne sottolineano ogni sorta di pericoli sono sempre più numerose. Fra le più recenti il possente studio di Jonathan Haidt sulla Generazione ansiosa, uscito poche settimane fa negli Stati Uniti, e il recente manifesto del professor Juan Carlos De Martin (Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica).

Per certi versi, questo allarme improvviso mi stupisce un po’, visto che le prove della dannosità del telefonino e della “vita online” c’erano già una quindicina di anni fa, grazie al lavoro di tanti scienziati, medici, psicologi e sociologi. È del 2012 l’uscita in tedesco di Digitale Demenz (Demenza digitale), di Manfred Spitzer. Nello stesso anno, in Italia, il linguista Raffaele Simone, uno dei più acuti osservatori dei cambiamenti cognitivi connessi alla tecnologia, pubblicava Presi nella rete. La mente ai tempi del web, lucida descrizione dei danni cognitivi delle nuove tecnologie. E l’elenco delle analisi critiche tempestive potrebbe continuare.

Dunque – torniamo a chiederci – perché solo adesso ci si accorge di quel che si sapeva già 10-15 anni fa? Perché fino a pochi anni fa solo un’esigua minoranza di studiosi e cittadini era disposta a riconoscere gli inconvenienti delle tecnologie della comunicazione?

Di ragioni, verosimilmente, ve ne sono più di una, ampiamente intrecciate fra loro. Ma la più importante credo sia che, per riconoscere i danni, abbiamo dovuto attendere che i danni stessi uscissero dal mondo ristretto dei laboratori, degli esperimenti scientifici e dei ragionamenti teorici, e si mostrassero – per così dire – in campo aperto. Il che significa: che potessimo vederli concretizzati, quei danni, sulla pelle, nei vissuti e nelle menti di un’intera generazione, quella che è entrata nell’adolescenza quando l’accesso ai social stava diventando di massa grazie allo smartphone. Come hanno ampiamente documentato gli psicologi americani Jonathan Haidt e Jean Tewnge, il punto di svolta è il triennio 2010-2012, allorché esce il primo vero smartphone (iPhone 4) e l’accesso ai social si sposta dal computer fisso allo smartphone stesso. Le cavie di questo colossale esperimento di psicologia sociale sono le ragazze e i ragazzi delle ultime due generazioni (Z e alpha) nate dopo la fine degli anni ’90, e di cui solo ultimamente abbiamo cominciato a percepire la fragilità, i limiti e le sofferenze.

Quel che è successo è che, a un certo punto, il disagio è divenuto troppo tangibile perché si potesse continuare a negarlo, sottovalutarlo, o non riconoscerne le cause. A renderlo percepibile ha indubbiamente contributo la mera osservazione dei comportamenti giovanili, sempre più intrappolati nella morsa fra autolesionismo e aggressività, ansia e depressione, iperconnessione e ritiro sociale. Ma l’apporto decisivo lo hanno dato e lo stanno dando le statistiche che, specie nel mondo di lingua inglese e nei paesi nord-europei, documentano non solo l’estensione del disagio, ma la rapidità con cui si è diffuso dopo il 2012 e la selettività con cui ha colpito le ultime generazioni, lasciando sostanzialmente indenni le generazioni più anziane. È solo negli ultimissimi anni che è divenuta schiacciante l’evidenza statistica su precocità dell’uso dello smartphone, tempo medio di connessione, ubiquità della pornografia, diffusione dei più svariati sintomi di disagio, particolarmente gravi fra le ragazze.

Soprattutto, è solo grazie agli studi più recenti (di Twenge e Haidt, in particolare) che, una dopo l’altra, sono cadute tutte le spiegazioni di comodo dell’esplosione del disagio giovanile: alla prova dell’analisi statistica, l’unica spiegazione che regge è quella che fa risalire il disastro al cocktail smartphone + social media.

Non si sottolineerà mai troppo l’importanza di questo risultato. Fino a ieri, dare uno smartphone a una ragazzina di 12 anni senza imporre anche drastiche limitazioni d’uso, poteva apparire una scelta imprudente o coraggiosa, a seconda dei punti di vista. Oggi, alla luce di quel che sappiamo, è solo un imperdonabile azzardo.

Un azzardo di cui – anche qui a giudicare dalle statistiche – sembrerebbero via via più avvertiti i giovani delle ultime generazioni. Le più recenti indagini sulla generazione Z rivelano segnali di allontanamento dai social e sempre più frequenti ritorni ai telefonini tradizionali (i cosiddetti flip phone, economici e senza connessione internet), quasi si sentisse il bisogno di una pausa di disintossicazione dai veleni della rete. Segno che, alle volte, i giovani sono più saggi dei loro genitori.

(uscito sul Messaggero il 19 aprile 2024)




Gli indistinguibili – A proposito del “campo largo”

“Non accettiamo lezioni da nessuno” è una frase che, ciclicamente, sentiamo ripetere un po’ da tutte le forze politiche, quando una inchiesta della magistratura scoperchia malefatte dei politici, qualche volta presunte, qualche volta vere. È successo pochi giorni fa con il Pd a Bari e Torino; è successo con Fratelli d’Italia in Sicilia; ed è successo pure con il Movimento Cinque Stelle a Roma (anche se di questo si è parlato pochissimo). Quindi è vero che nessuno può dare lezioni, ma solo perché nessun partito è senza peccato.

Questo non vuol dire, tuttavia, che su questione morale e dintorni non vi siano differenze importanti. I partiti di destra non hanno mai rivendicato una superiorità morale. Il Pd e i suoi predecessori l’hanno sempre rivendicata, fin dai tempi di Berlinguer. Il Movimento Cinque Stelle ne ha fatto addirittura una questione identitaria, una sorta di biglietto da visita che lo rendeva una forza politica speciale, diversa da tutte le altre. Poco stupisce, quindi, che Conte – alla prima avvisaglia di difficoltà dell’alleato – abbia colto la palla al balzo, assumendo il ruolo di censore e giudice, in paziente attesa che i reprobi facciano pulizia in casa loro.

Per certi versi la mossa di Conte è comprensibile: le elezioni europee sono alle porte, e l’occasione per scavalcare il Pd e diventare il primo partito dell’opposizione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. E i primi sondaggi dopo gli scandali sembrano dare ragione al leader Cinque Stelle: il vantaggio del Pd si sta riducendo, e potrebbe persino annullarsi (o cambiare di segno) se nuovi scandali dovessero riversarsi sul Partito Democratico, lasciando indenne il suo maggiore alleato.

C’è anche un’altra ragione, tuttavia, meno opportunistica e più politica, che rende non irragionevole la scelta di Conte. Ed è che, in questo momento, la “questione morale” è l’unico terreno su cui i Cinque Stelle hanno qualche possibilità di differenziarsi dal Pd non solo oggi, in occasione delle elezioni europee, ma anche più in là, quando sarà il momento delle elezioni politiche (2027).

E le differenze sulla guerra? si potrebbe obiettare; e quelle sul reddito di cittadinanza?; e quelle sulla magistratura? e quelle sui migranti?

In realtà, oggi nessuna delle classiche differenze fra i due partiti ha qualche consistenza. Sulla guerra, al momento di candidarsi al governo del paese non potranno che assumere un atteggiamento comune, come hanno dovuto fare i partiti di centro-destra, neutralizzando le gravi perplessità di Berlusconi e Salvini.

Sul reddito di cittadinanza, è impensabile che il Pd – dopo aver governato con i Cinque Stelle e difeso a spada tratta il reddito – recuperi le posizioni critiche e anti-assistenziali che aveva un tempo. Sulla magistratura, le intercettazioni, il potere dei giudici, la libertà dei giornalisti, è inevitabile che prevalgano le posizioni giustizialiste dei Cinque stelle, se non altro come antidoto al presunto eccesso di potere della destra. Stesso discorso sui migranti, anche se qui sono stati i Cinque Stelle – scottati dall’esperienza di governo con Salvini – a omologarsi alle posizioni del Pd.

Quanto agli altri grandi temi, ad esempio diritti civili e transizione green, è arduo immaginare anche un solo punto su cui i due partiti siano in grado di differenziarsi in modo significativo.

In breve, Pd e Cinque Stelle ormai si somigliano troppo per poter chiedere il voto in base a differenze programmatiche percepibili. E certo non aiuta il fatto che il terzo soggetto del cosiddetto campo largo – l’Alleanza Verdi-Sinistra (AVS) – sia a sua volta un’entità quasi indistinguibile dai due partiti principali della sinistra.

Ecco perché la scelta di Conte ha una sua logica. Con l’avvento di Elly Schlein e la sconfitta dell’ala riformista del Pd, con il convinto ripudio dell’era Renzi, con l’alleanza organica con Landini e la sua Cgil, le tre forze portanti del centro-sinistra – Pd, Cinque Stelle, AVS – hanno perso la capacità di spiegare in che cosa ciascuna di esse è veramente diversa dalle altre. Con un’unica particolarità, tutta a favore dei Cinque Stelle: che loro, almeno, possono provare a riesumare il marchio di fabbrica, “onestà e legalità”.

Resta solo da vedere se gli elettori vorranno prenderli in parola.

[uscito su La Ragione il 16 aprile 2024]