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Politica

Il mito di Ventotene

18 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Che nella grande manifestazione di sabato scorso a Roma le idee fossero confuse, molto confuse, nessuno ha provato a negarlo. A occhio e croce direi che c’erano almeno tre tipi di manifestanti. I pacifisti senza se e senza ma (tipo Piero Sansonetti). I fautori del riarmo dell’Europa (tipo Carlo Calenda). E i cultori dei più o meno sottili distinguo, abili nei sofismi e nelle supercazzole. Ad esempio Elly Schlein, che è contraria al riarmo, ma favorevole alla Difesa comune. O lo scrittore Antonio Scurati, che se la cava con l’ars retorica: “ripudiamo la guerra, ma non siamo arresi”. Come se, all’atto pratico, ripudiare la guerra non significasse appunto arrendersi. Ma così è: gli intellettuali, come i politici, sono bravissimi nella produzione di soluzioni puramente verbali, quando quelle reali difettano.

E tuttavia, pur avendo notato anch’io il vuoto politico di quella manifestazione, non condivido la lapidazione cui soprattutto la stampa di destra l’ha sottoposta. Certo, colpisce il fatto che il principale partito di sinistra, il Partito Democratico, non abbia una linea condivisa sulla guerra. Ma come non vedere che lo stesso problema affligge la maggioranza di governo, con la Lega contraria al riarmo e gli altri partiti favorevoli?

Soprattutto, come non comprendere che, in questa situazione, semplicemente non può esistere una posizione che non sollevi legittimi dubbi? La volontà di riarmarsi, manifestata dai vertici europei, è perfettamente comprensibile perché l’ombrello americano vacilla e le intenzioni di Putin sono sconosciute (chi crede di conoscerle inganna sé stesso). Ma altrettanto comprensibili sono i dubbi della Lega e del Movimento Cinque Stelle, perché sconosciute, incerte o indesiderabili sono alcune conseguenze del progetto di riarmo. Indesiderabile è l’aumento del debito pubblico, e la conseguente contrazione (o minore espansione) della spesa sociale. Sconosciuto è l’impatto del riarmo, o meglio del suo annuncio, sulle trattative di pace, ma anche sull’eventualità di una ulteriore mossa aggressiva di Putin. Molto incerta, per non dire dubbia, è la possibilità che il riarmo diventi il primo passo per arrivare alla Difesa comune, o addirittura agli Stati Uniti d’Europa.

Insomma: capisco che sia il momento delle scelte, e che un partito serio debba schierarsi, ma non riesco a non provare anche un moto di simpatia per le incertezze di Elly Schlein. Che saranno senz’altro dettate da meri calcoli elettoral-partitici, ma – sul piano razionale – sono perfettamente giustificate. Più giustificate, comunque, delle certezze di coloro che non hanno dubbi.

Quel che invece mi lascia perplesso, molto perplesso, è il modo in cui il Pd e la stampa progressista (con la lodevole eccezione de La Stampa di Torino), stanno cercando di supplire al vuoto politico della piazza di sabato: lo scongelamento del Manifesto di Ventotene (1941), fatto passare come il manifesto degli Stati Uniti d’Europa, progetto luminoso tradito dalle classi dirigenti dell’Unione Europea.

Ebbene, leggetelo questo benedetto Manifesto di cui tutti parlano ma che quasi nessuno ha letto. Perché se non lo leggete non potete rendervi conto di quale spaventosa distopia anti-democratica avessero in mente i suoi autori. I quali avevano sì in mente un edificio grandioso, un unico super-stato europeo, propedeutico a un futuro stato unico mondiale. Ma pensavano di imporlo dall’alto, con una crisi rivoluzionaria e socialista, attraverso la “dittatura del partito rivoluzionario”, senza libere elezioni, contro le timidezze dei democratici, accusati – tra le altre cose – di non ammettere un sufficiente ricorso alla violenza. E vi risparmio le idee in materia di funzionamento dell’economia, espropri, limitazioni alla proprietà privata, nazionalizzazioni.

Io capisco che, non essendovi nulla su cui le varie anime della piazza siano d’accordo, si cerchi di trovare qualcosa che le unisca, che dia loro almeno un sentiment comune. Però mi preoccupa enormemente, e mi sconcerta, che nessuno dei tanti intellettuali, scrittori, giornalisti italiani che hanno esaltato il Manifesto di Ventotene (e nemmeno Corrado Augias che ne ha scritto l’introduzione), si siano accorti del suo contenuto anti-democratico. Perché delle due l’una: o il Manifesto non l’hanno letto, e ne parlano senza conoscerlo; o il Manifesto l’hanno letto, e sono così poso democratici da non rendersi conto del suo contenuto distopico.

Se davvero siamo per gli Stati Uniti di Europa, forse è giunto davvero il momento di concepirlo, un Manifesto che tracci la via. Ma pensare di prendere ispirazione da quello di Ventotene è provinciale, oltre che inquietante. Non è per caso che nessuno dei padri fondatori dell’Europa – né Adenauer, né De Gasperi, né Schuman, né Monnet –  lo abbia mai messo al centro del proprio pensiero. Ed è una fortuna.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 marzo]

Ci aspetta una guerra? – La stagione dell’incertezza

17 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Non sono un esperto di relazioni internazionali, né di questioni militari, né di geo-politica. Sulla guerra in Ucraina non sono intervenuto quasi mai, e quando l’ho fatto è stato più per porre domande ed esprimere dubbi che per suggerire condotte di azione. Ora però, con i venti di guerra che spirano in Europa, è difficile fare gli spettatori. L’Europa ha scelto la strada del riarmo, la gente scende in piazza per l’Europa, ma a quanto pare non per l’Europa che c’è, bensì per il fantasma dell’Europa ideale che ognuno coltiva dentro di sé.

In questo clima non mi stupisce affatto che esplodano le divisioni. Che la destra sia spaccata, e che lo sia pure la sinistra. E nemmeno mi stupiscono le fratture interne al Pd, il maggiore partito della sinistra, incapace di esprimere una posizione unitaria nel Parlamento Europeo. Quello che mi sorprende, invece, al punto da rendermi incredulo, sono le prese di posizione perentorie pro o contro il riarmo. E dicendo questo non mi riferisco ai posizionamenti categorici di alcuni partiti, come Fratelli d’Italia (pro-riarmo) e Cinque Stelle (anti-riarmo), che capisco benissimo, in quanto obbediscono all’imperativo di scegliere, o se preferite al rifiuto dell’ignavia del “né né”. Quello cui mi riferisco, piuttosto, sono le prese di posizione perentorie di analisti e osservatori indipendenti che, a differenza dei politici, non sarebbero tenuti a schierarsi.

Mi colpiscono, in particolare, le due posizioni speculari di chi appare certo che Putin sia intenzionato a invadere i paesi Baltici e altri paesi Nato confinanti con la Russia, e di chi – viceversa – ritiene che Putin si accontenterebbe di annettere i territori già conquistati e della neutralità dell’Ucraina. Mi colpisce, anche, la sicurezza con cui gli opposti “estremisti analitici” descrivono gli effetti del riarmo degli Stati europei, visto dagli uni come unica via per garantire la sicurezza dell’Unione, e dagli altri come mossa pericolosa, che allontana la pace in Ucraina e può rendere più e non meno aggressiva la politica della Russia. E mi colpisce, infine, la completa mancanza di accordo degli uni e degli altri nella ricostruzione della catena di eventi che, dal 2014 a oggi, hanno segnato la guerra civile in Ucraina.

Gli uni e gli altri si muovono in un delirio di onnipotenza cognitiva. Credono di sapere come sono andate davvero le cose. Credono di sapere che cosa passi per la mente di Putin e di Trump. Credono di saper valutare le forze in campo. Credono di poter prevedere le conseguenze delle loro azioni. Credono di conoscere i rischi delle due opzioni (riarmo sì, riarmo no), e quindi di essere in grado di individuare la mossa più utile per l’Europa. In breve: credono che esista una scelta razionale, e di sapere quale sia.

In breve: gli uni e gli altri si muovono come se fosse in corso un gioco di strategia, ed esistesse un metodo per individuare la strategia migliore. Eppure dovrebbero saperlo che, per individuare la strategia più razionale, la teoria dei giochi prevede condizioni precise, nessuna delle quali ricorre oggi. Non ricorre la condizione che i giocatori siano pochi e ben identificati (non sappiamo nemmeno quanti sono: due, tre, quattro, N?). Non ricorre la condizione che esistano regole del gioco e tutti i giocatori le rispettino. Non ricorre la condizione di conoscere le preferenze (funzioni di utilità, nel lessico della teoria dei giochi) dei vari giocatori. Non ricorre la condizione di conoscere, almeno probabilisticamente, le conseguenze delle proprie scelte. In breve: il gioco che si sta giocando è senza regole condivise, è a informazione limitata (incompleta e imperfetta), è affetto da incertezza generalizzata. Si deve scegliere, perché anche non scegliere è una scelta, ma nessuno è in condizione di fare scelte razionali, evidentemente superiori alle scelte alternative. Possiamo solo fare scommesse, basandoci sulle nostre intuizioni, e sui frammenti di conoscenza che riteniamo di possedere.

Per questo sono stupito che tanti ci offrano le loro certezze, come se oggi ne potessero esistere. E non mi scandalizzano né le incertezze del Pd, né le divisioni della piazza, anzi delle piazze della giornata di ieri. È giusto che ognuno manifesti le sue paure e le sue speranze. Ma sarebbe bello che lo facessimo tutti con umiltà, perché nessuno sa che cosa ci riserva il domani, e qual è il modo più ragionevole per assicurarci che un domani ci sia.

[articolo uscito sul Messaggero il 16 marzo 2025]

8 marzo e dintorni – Femminismi

12 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Ormai è chiaro: il concetto di femminismo – sostantivo maschile singolare – è obsoleto. Me ne sono reso conto, da tempo, sentendo donne che la pensano diversamente fra loro su tutto rivendicare orgogliosamente il loro essere femministe.  Ma ne ho avuto la certezza sabato scorso – 8 marzo, festa della donna – partecipando a un convegno femminista presso la fondazione Einaudi di Roma, significativamente intitolato: “I femminismi di fronte alla cultura woke”. Avete letto bene: “i femminismi”, plurale, non le correnti, o le tendenze, o le tradizioni del “femminismo”, singolare.

Insieme a Edoardo Albinati, ero l’unico relatore maschio, ed ero lì – credo – per il mio essermi occupato di cultura woke in alcuni libri recenti (ultimo Il follemente corretto). Ho ascoltato con interesse tutte le relazioni, tenute da relatrici diverse per età, orientamento politico, sensibilità, ma tutte accomunate – mi sembra – soprattutto da due cose: un profondo rispetto delle rispettive posizioni, e il rifiuto del settarismo del cosiddetto transfemminismo, o femminismo intersezionale.

Introdotto e concluso rispettivamente da Lucetta Scaraffia e Paola Concia, il convegno  ha offerto spunti di grande interesse, ma la relazione che più mi ha colpito è quella tenuta da Claudia Mancina. Il titolo era: “Il sette ottobre e le donne ebree: il femminismo che si volta dall’altra parte”. Il riferimento era, chiaramente, alla manifestazione, di oltre un anno fa, in cui le femministe di Non Una Di Meno non solo – nella piattaforma politica – si erano guardate dal menzionare le donne vittima dell’eccidio di Hamas, ma avevano impedito di manifestare a una ragazza che provava a ricordare quello scempio.

Ne è venuta fuori la migliore spiegazione che mi sia capitato di ascoltare di come funzioni il femminismo intersezionale. Nato nel 1989 da un’idea semplice e del tutto condivisibile della giurista Kimberlé Crenshaw, il femminismo intersezionale (o transfemminismo) ne ha fortemente tradito l’ispirazione originaria, e oggi si caratterizza per tre tratti fondamentali. Primo, privilegia i diritti delle persone transessuali rispetto a quelli delle persone omosessuali (gay e lesbiche). Secondo, conduce una polemica durissima nei confronti delle femministe radicali, o femministe della differenza, accusate di omofobia e bollate con l’etichetta TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminist) per la loro difesa dei diritti basati sul sesso biologico. Terzo, pretende di definire la condizione di chiunque, e in particolare delle donne, specificando quale intersezione di condizioni di oppressione lo caratterizza. Al top la donna nera, lesbica o transessuale, povera, nata in un paese del terzo mondo, meglio se sfruttato e colonizzato. Al fondo la donna bianca, eterosessuale, benestante, nata in un paese occidentale colonialista, o con un passato di potenza coloniale.

È chiaro che, in questo schema, una volta identificato Israele come il paese che sfrutta i palestinesi e ha colonizzato le loro terre, la maggior parte delle ragazze rapite al rave party del 7 ottobre non si trovano all’intersezione di un numero sufficiente di condizioni di oppressione. Anzi, a parte il loro essere donne, non possono vantarne nemmeno una.

Qui però Claudia Mancina ha fatto una mossa cruciale, suggerendo una lettura dell’intersezionalismo secondo me assolutamente rigorosa ma mai messa pienamente a fuoco, nemmeno dai suoi critici più severi. Quando si dice che la donna bianca-occidentale-benestante-israeliana non ha abbastanza condizioni di oppressione per meritare una tutela, si omette il vero retro-pensiero tipico delle dottrine woke, e cioè che la donna bianca-occidentale-benestante-israeliana è essa stessa, in qualche modo, colpevole di oppressione, in quanto co-responsabile dei misfatti di cui bianchi, occidentali, ricchi, ebrei sono o sono stati autori.

Nella visione paranoica della cultura woke, e segnatamente nella cosiddetta Critical Race Theory, la responsabilità non è semplicemente personale, ma anche collettiva. E non è limitata al presente, ma si allarga pure al passato. Una donna può trovarsi così a dover rendere conto non solo di ciò che fa personalmente, ma di quello che fanno gli appartenenti alla categoria cui lei appartiene, e addirittura di quello che hanno fatto in passato. È precisamente per questo motivo che le donne israeliane vittime di Hamas agli occhi delle femministe di Non Una Di Meno non meritano neanche un briciolo di solidarietà: il loro essere donne oppresse è sovrastato dalle colpe delle categorie di cui si trovano all’intersezione.

Ecco perché dicevo all’inizio che il concetto di “femminismo” è obsoleto. Mentre noi discutevamo con curiosità reciproca i vari femminismi possibili, nelle strade di Roma (e di altre città italiane) le transfemministe di Non Una Di Meno, le stesse che dopo il 7 ottobre non avevano voluto ricordare le donne israeliane violentate da Hamas, bruciavano immagini di Giorgia Meloni e Von der Leyen, esibivano impronte di vernice rossa sulle immagini di ministri e politici (compresa Elly Schlein), attaccavano il disegno di legge sul femminicidio, rifiutavano ogni dialogo con le istituzioni. A conferma del fatto, ben evocato dal titolo del nostro incontro, che ormai il femminismo come tale non esiste più: al massimo esistono i femminismi. E di almeno uno è il caso di chiedersi: ma è ancora femminismo se alle donne israeliane uccise e violentate da Hamas si nega ogni compassione, rispetto, e persino memoria?

[articolo uscito sulla Ragione l’11 marzo 2025]

A proposito dell’agguato mediatico a Zelensky – La politica come spettacolo

5 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Fra le accuse che più frequentemente, e più impietosamente, vengono rivolte ai leader europei, vi è quella di non aver mai preso un’iniziativa diplomatica per fare cessare la guerra fra Ucraina e Federazione Russa. Dal primo giorno della guerra, l’unica preoccupazione dell’Europa è stata di respingere l’invasione russa, ristabilendo la legalità internazionale (ossia i confini precedenti allo scoppio della guerra). Di qui l’assoluta latitanza della diplomazia: l’obiettivo di punire Putin ha sempre sovrastato quello di fermarlo.

Ora l’agguato teso da Trump a Zelensky, con il plateale litigio davanti alla stampa e alle tv, ha fatto ulteriormente precipitare le cose, mettendo fuori gioco ogni possibile diplomazia e ricerca di un ragionevole compromesso.

Ok, questo è successo, e si capisce perfettamente che tutti i maggiori editorialisti esternino il loro sgomento per questa rottura, per il cattivo gusto di Trump e Vance, per la violazione plateale delle regole minime dell’ospitalità, dell’educazione, del rispetto reciproco. Insomma, quella che è andata in onda nello Studio Ovale sarebbe una inaccettabile, orribile, disgustosa spettacolarizzazione della politica, che rompe – per la prima volta nella storia – convenzioni e preziose ipocrisie da tempo vigenti nei rapporti internazionali, tanto più quando coinvolgono questioni militari e strategiche. Non a caso le espressioni più usate per descrivere quel che è successo sono “senza precedenti” e “storico”. Come a dire: è inaudito, non era mai successo, è un punto di non ritorno.

In un certo senso è proprio così. Mentre leggevo questi commenti, però, in me è riaffiorato un ricordo. Il ricordo di quel che pensavo e provavo nei primi mesi della guerra. Ebbene, io ricordo che ero semplicemente sbalordito. E, non intendendomi di questioni di guerra, ho sempre pensato che fossi io a non capire.

Che cosa mi sbalordiva?

Mi sbalordiva, innanzitutto, che nel giro di pochi giorni un normale capo di stato fosse stato trasformato dalle autorità europee in una autentica star mediatica. Collegamenti in diretta con i parlamenti, ovazioni delle assemblee collegate, partecipazioni ad incontri che normalmente si svolgono a parte chiuse fra pochi potenti, persino un surreale dibattitto sulla necessità che Zelensky leggesse un messaggio al Festival di Sanremo. Tutto ciò mi sembrava folle, e incompatibile con l’eventuale aspirazione dell’Europa a svolgere un ruolo di mediazione e moderazione. Come era possibile, mi chiedevo, che la politica europea sulla guerra si formasse non nelle segrete stanze della diplomazia, ma attraverso eventi mediatici e spettacolari? Come avrebbero mai potuto, i parlamenti e i governi europei, dibattere serenamente e prendere decisioni ponderate, se tutto veniva discusso enfaticamente, in presenza di una parte in causa, e con toni da comizio?

Insomma, la prima cosa che voglio dire è che la spettacolarizzazione delle questioni internazionali l’abbiamo iniziata noi europei, non certo gli Stati Uniti di Trump.

Ma c’è anche una seconda cosa che mi ha sempre lasciato interdetto, anche qui non capendo se ci fosse qualcosa che mi sfuggiva. Come mai il tema della guerra è sempre stato affrontato, in Europa ma anche negli Stati Uniti di Biden, come un tema etico? Ovvero come un episodio dell’eterna lotta del Bene contro il Male? Come mai questa ossessiva, martellante e acritica retorica dell’aggressore e dell’aggredito? È vero che la eticizzazione del conflitto era il presupposto logico che rendeva possibile inscenare lo spettacolo della santificazione dell’eroe Zelensky, ma come non vedere che nel conflitto ucraino, come in innumerevoli altri conflitti condotti in nome del Bene, nessuna delle parti in conflitto era esente da responsabilità e colpe (nel caso di Zelensky,  per fare un solo esempio, il mancato rispetto degli accordi di Minsk)?

Sul conflitto ucraino, come su quello israeliano, si possono avere, ovviamente, le opinioni più diverse. Nessuno, fra noi comuni cittadini, è adeguatamente informato, e alla fine a guidarci sono l’istinto politico e le nostre passioni. Ma, tornando all’Europa, quel che mi resta incomprensibile è come l’Europa possa dolersi di non avere un ruolo al tavolo della pace, avendo sempre e senza esitazioni parteggiato per una delle parti in campo, e avendolo fatto nel modo più plateale e spettacolare possibile. Se vuoi fare l’arbitro, non puoi giocare tutta la partita con una delle due squadre in campo. Quello che a noi europei appare solo come un tradimento (il brusco voltafaccia di Trump) è anche un modo di indossare la maglietta dell’arbitro. Una maglietta che, se tre anni fa non avessimo sconsideratamente inaugurato la politica-spettacolo con la star Zelensky, oggi potremmo provare a indossare noi stessi.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 marzo]

La frattura tra ragione e realtà 11 / Nemica dell’umanità?

4 Marzo 2025 - di Paolo Musso

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«Nemica dell’umanità»: così Netanyahu ha definito la Corte Penale Internazionale dopo il mandato di arresto contro di lui. L’affermazione può sembrare eccessiva, ma in realtà il vero errore di Netanyahu è stato di parlarne solo con riferimento al suo caso. Se invece consideriamo la situazione globalmente, sembra difficile negare che la Corte è davvero pericolosa per gli equilibri internazionali. E non per quello che fa, ma per quello che è. L’unica soluzione è abolirla.

Quando la Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato di arresto nei confronti di Putin mi ero ripromesso di scrivere un articolo sul grave problema che essa rappresenta e di cui ben pochi sembrano essere consapevoli, ma poi, preso da altri impegni, ho lasciato stare. Ci ho pensato di nuovo quando la CPI ha emesso un mandato di arresto contro Netanyahu, ma ho ancora rimandato. Poi, proprio quando avevo finalmente deciso di affrontare la questione, la realtà stessa si è incaricata di farlo al posto mio attraverso il caso Almasri. Eppure, nonostante tutto quel che è successo, ancora una volta ben pochi sembrano aver colto il vero problema.

A scanso di equivoci, chiariamo subito un punto: non c’è nessun dubbio (e sottolineo nessuno) che in questo caso la CPI abbia sbagliato e che quindi sbagli anche l’opposizione ad accusare il governo italiano di aver violato la legge. Se era la CPI che doveva informarlo, infatti, è irrilevante che il governo fosse giunto a conoscenza della cosa per altre vie, proprio come una prova ottenuta in modo non conforme alla legge non può essere usata in un processo anche se tutti la conoscono. Nel diritto la forma è sostanza. E così deve essere, anche se talvolta ciò può causare ingiustizie, perché è l’unico modo di evitare ingiustizie molto peggiori.

Cionondimeno, qualcosa di vero c’è, nelle critiche dell’opposizione (almeno di quella più moderata e responsabile, come Renzi e Calenda): è evidente a tutti, infatti, che la vera motivazione della frettolosa espulsione di Almasri (che non è stato liberato dal governo, ma che il governo poteva trattenere in attesa di chiarire la situazione) è stata di natura politica.

L’errore formale commesso dalla CPI ha permesso al governo di far valere la ragion di Stato senza doverlo ammettere esplicitamente, in un paese come il nostro che non lo accetta mai facilmente, come ha ben spiegato Luca Ricolfi (https://www.fondazionehume.it/politica/a-proposito-del-caso-almasri-ipocrisia/). Ma così si è perso di vista il vero problema, che non è di natura giuridica, ma politica. E che sarebbe ugualmente esistito (anzi, sarebbe stato ancor più serio) se la richiesta di arresto di Almasri fosse stata presentata in modo corretto.

Come si può infatti ritenere ragionevole la pretesa della CPI che l’Italia si intrometta negli affari interni di un paese straniero fino al punto di arrestare il capo della sua polizia, per crimini certo gravissimi, ma che non ci riguardano, essendo stati commessi fuori dall’Italia e a danno di cittadini non italiani?

A rendere la cosa ancor più paradossale c’è il fatto che in genere chi sostiene la legittimità di questo comportamento è contrario all’idea di “esportare la democrazia” con la forza. Ma non mi risulta che la polizia, quando arresta qualcuno, si presenti disarmata. Pertanto, per un paese come la Libia, che non riconosce l’autorità della CPI, questo sarebbe stato un uso illegittimo della forza contro un alto esponente delle sue istituzioni: cioè, un atto di guerra.

Se non ne siete convinti, provate a immaginare che un paese straniero arresti il capo della nostra polizia per crimini magari anche veri, ma comunque non commessi in quel paese né a danno dei suoi cittadini, solo per eseguire l’ordine di un tribunale internazionale che l’Italia non riconosce e che è invece sostenuto da paesi a noi ostili, tipo la Russia, l’Iran, la Cina o la Corea del Nord. Sareste disposti ad accettarlo?

Se la vostra risposta è no, allora dovreste cominciare a chiedervi perché mai siete invece disposti ad accettare, magari anche con entusiasmo, che la stessa identica cosa venga fatta dall’Italia su richiesta della CPI.

Forse qualcuno obietterà che Almasri è “palesemente” un criminale della peggiore specie. Non c’è dubbio. Ma questo è un giudizio politico e morale, non giuridico, perché Almasri non è ancora stato condannato e quindi per la legge al momento è innocente. Inoltre, se accettiamo che ciò sia lecito per Almasri, poi dovremo accettarlo per chiunque, anche per persone che non sono così “palesemente” colpevoli, compresi noi stessi. E ciò, lungi dal favorire la pace nel mondo, rischia invece di comprometterla gravemente.

Cosa succederebbe, per esempio, se la CPI accusasse il nostro governo di crimini contro l’umanità per le sue politiche contro l’immigrazione oppure di complicità nei crimini di guerra commessi da qualche paese con cui l’Italia intrattiene rapporti di collaborazione?

Non si tratta di ipotesi campate in aria. Accuse molto simili sono già state mosse, per esempio, dal procuratore di Roma Francesco Lo Voi, prima nell’incredibile indagine contro Salvini, accusato di sequestro di persona per la vicenda della Open Arms, poi nell’altra, ancor più incredibile (e ai limiti della vera e propria eversione), contro la premier Meloni, i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Mantovano, accusati di favoreggiamento nei confronti di Almasri. Di conseguenza, nulla ci garantisce che un domani la CPI non decida di adottare la stessa “interpretazione creativa” delle leggi, muovendo accuse analoghe alle autorità italiane.

In tal caso, la nostra magistratura sarebbe tenuta ad arrestare i nostri governanti e a mandarli all’Aja, cioè in un paese straniero (ché tale è l’Olanda, giacché la UE non è uno Stato federale, ma solo un federazione di Stati), per essere giudicati da un gruppo di magistrati anch’essi tutti stranieri, che poco o nulla conoscono della situazione italiana e che, diversamente da loro, non sono stati eletti da nessuno, ma solo nominati dai governi di ben 124 paesi, buona parte dei quali in fatto di diritto dall’Italia hanno solo da imparare, quando non sono addirittura retti da feroci dittature (basti dire che il primo in ordine alfabetico è l’Afghanistan, mentre il penultimo è il Venezuela).

E non basta. Tutto ciò, infatti, potrebbe accadere non solo all’Italia, ma a qualsiasi altro paese, compresi i nostri alleati. In parte è già successo con Netanyahu, che, a causa del mandato di arresto contro di lui, non può più entrare in nessun paese della UE. Ma spingiamoci ancora oltre e proviamo a immaginare che la CPI emetta un mandato di arresto contro Trump, per esempio per complicità nei (presunti) crimini di guerra dello stesso Netanyahu.

Se il veto all’ingresso del premier israeliano nei paesi europei può ancora essere tollerato, quello al presidente degli Stati Uniti (che tra l’altro non riconoscono la CPI) provocherebbe invece una gravissima crisi internazionale. E cosa succederebbe se Trump decidesse di recarsi lo stesso in Europa? Davvero qualcuno pensa che dovremmo vietarglielo? O addirittura abbattere l’Air Force One? Oppure farlo atterrare e poi arrestare Trump? C’è qualcuno che si rende conto che fare questo significherebbe di fatto entrare in guerra con gli Stati Uniti? Apparentemente no…

Davvero non capisco come una qualsiasi persona sana di mente possa tollerare che un pugno di magistrati che non rappresentano nessuno se non sé stessi e non rispondono a nessuno se non a sé stessi possa influenzare fino a questo punto le relazioni tra gli Stati. E perché sia chiaro che la mia critica non nasce da una posizione di parte, faccio presente che, come accennavo all’inizio, il primo impulso a scrivere un articolo contro la CPI mi è venuto quando essa ha ordinato l’arresto di Putin.

Ora, chiunque abbia la bontà di leggermi sa benissimo che io Putin più che in galera vorrei vederlo morto e che ho sempre sostenuto che fare la pace con lui sull’Ucraina senza prima averlo chiaramente sconfitto sul campo sarebbe pericolosissimo, perché servirebbe solo a permettergli di riprendere fiato e riorganizzarsi, per poi, fra qualche anno, scatenare una nuova guerra da una posizione di maggiore forza (https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/).

Tuttavia, è ancor più pericoloso permettere che decisioni del genere, che sono di natura strettamente politica, possano essere determinate o anche solo influenzate dalla magistratura.

Se i legittimi rappresentanti dei popoli occidentali, cioè i rispettivi parlamenti e governi, decidono di fare la pace con Putin, allora devono poterla fare, senza che un mandato di arresto a suo carico complichi ulteriormente una situazione già di per sé complicatissima. E chi, come me, considera invece nefasta questa trattativa ha ovviamente tutto il diritto di avversarla, ma agendo attraverso gli strumenti della politica e non per via giudiziaria.

Perché allora la CPI, nonostante la sua evidente pericolosità per gli equilibri internazionali, gode di un consenso così ampio?

In parte si tratta di un atteggiamento ideologico, che per sua natura ignora la realtà, ma per un’altra parte, forse anche più ampia, credo che ciò dipenda dalla convinzione che la Corte non si spingerà mai tanto oltre da produrre questi scenari da incubo. Purtroppo, però, questo modo di pensare è erroneo, sia in teoria che in pratica.

In linea di principio, infatti, è sempre sbagliato creare un’istituzione potenzialmente pericolosa confidando che la saggezza di chi la dovrà gestire le impedirà di fare troppi danni. Al contrario, un principio fondamentale dello Stato di diritto è che le istituzioni dovrebbero essere (per quanto possibile) “a prova di cretino”, cioè costruite pensando non al miglior scenario possibile, ma al peggiore, in modo da minimizzare i danni anche se quest’ultimo si dovesse realizzare. Ora, creare un potere giudiziario internazionale senza prevedere nessun organo di controllo che possa realmente limitarlo (l’Assemblea degli Stati Parte fa ridere i polli) è ben più che pericoloso: è un vero e proprio abominio logico e giuridico.

Inoltre, in linea di fatto, tale ottimistica convinzione sulla CPI poteva forse essere giustificata fino a qualche tempo fa, ma oggi non più. Non solo, infatti, con gli ultimi tre mandati di arresto la “linea rossa” è stata chiaramente superata, ma la cosa più preoccupante è che c’è un’evidente “escalation” di pericolosità.

È vero che il bersaglio più grosso era il primo, Putin, ma con lui i rapporti erano già al minimo storico e quindi non potevano peggiorare più di tanto. Israele, invece, è un paese amico e quindi il mandato contro Netanyahu può causare danni molto più gravi. Quello contro Almasri, infine, i danni li sta già causando, avendo creato nel nostro paese un clima quasi da guerra civile. E danni ancor peggiori potrebbe causarli se dovesse portarci a uno scontro aperto con la CPI, come è purtroppo perfettamente possibile, anche se le voci di un’indagine sul nostro governo, messe in giro da alcuni irresponsabili esponenti del PD, sono state (per ora…) smentite.

D’altronde, ciò non deve stupire. La CPI, infatti, non è piovuta dal cielo, ma rappresenta solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più ampio e preoccupante: la crescente tendenza a giuridicizzare la politica, alterando l’equilibrio dei poteri tipico degli Stati democratici a favore di quello giudiziario, cosa ben più radicale e profonde della pur già deleteria politicizzazione della magistratura (ne riparleremo presto).

A livello internazionale, poi, è ancor peggio, perché qui un potere esecutivo e un potere legislativo semplicemente non esistono (a meno che, con sovrano sprezzo del ridicolo, non si voglia considerare tali il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale dell’ONU). E poiché ogni vuoto tende ad essere riempito, col tempo la CPI, unico vero potere sulla scena, tenderà non soltanto a invadere gli ambiti di competenza degli altri (inesistenti) poteri, ma a occuparli completamente e stabilmente, trasformandosi così in un organo totalizzante e perciò tendenzialmente totalitario.

Quando venne emesso il mandato di arresto contro di lui per crimini di guerra, Netanyahu disse che la CPI doveva essere considerata «nemica dell’umanità» perché si trattava di un atto antisemita. Aveva ragione, ma non per questo motivo, benché indubbiamente ci sia un pizzico di antisemitismo (e forse anche più di un pizzico) negli attuali abnormi attacchi contro lo Stato di Israele e il suo governo, per criticabile che sia il suo operato (anche di ciò riparleremo presto).

Ma la Corte Penale Internazionale non è pericolosa per questo o quell’altro suo provvedimento specifico: è pericolosa per la sua stessa natura e quindi per il fatto stesso di esistere.

Così stando le cose, l’unico modo di evitare che in futuro possa destabilizzare ancor più gravemente i già fragili equilibri internazionali è abolirla.

È soprattutto per questo che è auspicabile che il nostro governo la smetta di nascondersi dietro il dito dei formalismi giuridici e ponga apertamente la vera questione (politica) sul tavolo della UE: con le buone se sarà possibile, con le cattive se sarà necessario.

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