Ma chi ha detto che la violenza politica non paga?

Anni fa avevo chiesto al compianto amico Giampaolo Pansa di presentare a Genova il suo ultimo libro, I vinti non dimenticano (2010). Lo storico aveva declinato l’invito giacché alti funzionari del capoluogo ligure gli avevano detto di non poter garantire l’ordine pubblico dinanzi alle prevedibili proteste (non pacifiche) dei pasdaran dell’antifascismo. La minaccia della violenza da parte di questi ultimi era o non era un esercizio di potere, peraltro prolungato nel tempo?

 Quando centri sociali, antagonisti e sovversivi vari occupano spazi pubblici, stazioni, metropolitane, scuole si può dire che la violenza non paga? Se le occupazioni durano giorni, il potere viene esercitato con successo, ai danni dei comuni cittadini; se lo sgombero avviene a suon di randellate, un obiettivo importante viene raggiunto: quello di mostrare che lo stato ha il potere di mobilitare le ’forze dell’ordine’, ma non ha, in senso proprio, ’autorità’. Si ha autorità, infatti, se leggi e divieti vengono rispettati in modo spontaneo e naturale e non vengono imposti, come negli stati totalitari, con lo spettro di una feroce repressione. M.me de Stael racconta che a Versailles un semplice nastro vietava l’accesso agli appartamenti reali.

 Lo Stato, che si trova a reprimere disordini sempre più frequenti, fa il suo dovere ma, in tal modo, rivela una debole legittimazione ovvero che le istituzioni democratiche godono di un consenso a macchia di leopardo e che la repressione della violenza che, per alcuni, è sacrosanta, per altri, costituisce la riprova che si vive in un regime poliziesco. Se il fossato tra Stato e ampi strati sociali si allarga, perché c’è chi vorrebbe più ordine e repressione e chi un radicale cambio di regime politico e sociale, non resta che la guerra civile: e non esercita potere chi è stato in grado di attivarla?

 Si dirà: ma i sovversivi – vedi per tutti le Brigate Rosse – alla lunga non vengono sconfitti? Certo che vengono sconfitti ma, come i kamikaze, non prima di aver recato gravi danni al ’sistema’, dalle fratture all’interno delle classi dirigenti alla tentazione di ridisegnare in peggio il quadro politico nazionale – per non parlare dell’assassinio di una delle più eminenti figure della Repubblica.




A proposito di un video di Trump – Follemente scorretto

Non ha attirato la dovuta attenzione, in Italia, il video (costruito con l’intelligenza artificiale) nel quale Trump, con una corona da re in testa e un respiratore in bocca, pilota un jet da combattimento e scarica tonnellate di liquami sui manifestanti. Il video è una provocatoria risposta al “no kings day”, ossia alle migliaia di manifestazioni contro la deriva autoritaria (espressione abusata, ma in questo caso ineccepibile) del presidente Usa. È come dire: voi dite che non volete essere governati da un re, e io non solo vi dico che sono il vostro re, ma vi mostro tutto il mio disprezzo ricoprendovi di escrementi.

Perché merita tutta la nostra attenzione quel video?

Fondamentalmente perché segna un salto di qualità nella degenerazione della lotta politica in America (e speriamo solo in America). Dopo circa un dodicennio (2012-2024) di follemente corretto, gli Stati Uniti si sono improvvisamente trovati di fronte al suo perfetto rovescio, il follemente scorretto di Trump. Due fenomeni collegati, per certi versi speculari, ma sottilmente distinti come possono esserlo l’esterno e l’interno di un guanto. La forma tipica del follemente corretto era il bullismo etico, ovvero il disprezzo per chi la pensava diversamente esercitato in virtù di una presunta superiorità morale delle proprie convinzioni. La forma tipica del follemente scorretto nella versione trumpiana è l’umiliazione dell’avversario in virtù di un effettivo (non presunto) eccesso di potere. Il follemente corretto proclamava: io sono migliore di te, perciò devi adeguarti. Il follemente scorretto proclama: tu non sei nessuno, io posso schiacciarti.

È possibile che il follemente scorretto sia anche una reazione estrema, al limite della paranoia, alla lunga scia di aberrazioni e prevaricazioni che, specie nei paesi di lingua inglese, la cultura woke ha inflitto a chiunque la pensasse diversamente. Ma temo che ci sia ben più di questo. Questo di più è la nostra incapacità, a sinistra come a destra, di prendere veramente congedo dal politicamente corretto e dalle sue degenerazioni.  La sinistra si tiene ben stretta al politicamente corretto perché questo le permette di mantenere in vita il “complesso dei migliori”, la destra – specie nelle sue frange estremiste – è perennemente tentata dal politicamente scorretto, quasi che l’alternativa al politicamente corretto potesse essere il suo rovescio.

Ma è un grave errore logico. Politicamente corretto e politicamente scorretto non sono opposti, ma due facce della medesima moneta. Il politicamente scorretto è il rovescio del politicamente corretto, non il suo contrario. Il contrario del politicamente corretto è il pluralismo, ovvero il riconoscimento che – fatti salvi il ripudio della violenza e il rispetto della legge – possono esservi valori al tempo stesso rispettabili e difficilmente compatibili, e che quindi nessuno può pretendere che i propri valori siano eticamente superiori a quelli dell’avversario politico. Una postura, questa, che la sinistra è strutturalmente incapace di assumere, convinta com’è di essere portatrice di valori universali e incontestabili, e che la destra – pur immune al complesso dei migliori – rischia di tradire ogniqualvolta l’istinto del politicamente scorretto secerne disprezzo, offesa, intimidazione.

Ecco perché la vicenda del video di Trump è inquietante. Fino a ieri si poteva sperare che il nuovo clima instaurato dall’avanzata delle destre nella maggior parte dei paesi occidentali si sarebbe limitato a raffreddare l’arroganza etica dei progressisti, ponendo un freno alle follie woke. L’improvvido video del volo di Trump sopra i manifestanti democratici fa temere anche un risveglio dei peggiori istinti nel mondo dei conservatori.

Una recente indagine di Mannheimer ha documentato una vera esplosione, nell’elettorato italiano, del consenso nei confronti del presidente degli Stati Uniti. C’è solo da sperare che tanto entusiasmo riguardi la sua determinazione nel porre fine agli eccidi di Gaza, piuttosto che la tentazione di inaugurare una stagione di disprezzo per gli avversari politici.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 ottobre 2025]




Sinistra e doppia verità – Era meglio il PCI?

Qualche giorno fa ad Amsterdam, all’incontro dei socialisti europei, la segretaria del Pd Elly Schlein, dopo aver espresso la solidarietà a Sigfrido Ranucci, appena scampato a un attentato, non ha trovato di meglio che aggiungere: «Così la democrazia è a rischio, la libertà di parola è a rischio quando l’estrema destra è al governo».

Notate quel così, che suggerisce una connessione causale: l’attentato a Ranucci è figlio del clima che si è instaurato da quando Giorgia Meloni ha preso le redini del governo. Si capisce quindi l’indignazione che le parole di Schlein hanno suscitato a destra, con conseguente durissima risposta della premier.

Io però penso che, almeno su un piano politico, Giorgia Meloni avrebbe dovuto rallegrarsene. Quelle parole, come la maggior parte delle analisi che gli esponenti del Pd ripropongono quotidianamente, sono straordinariamente utili alla destra, e hanno effetti catastrofici sulla sinistra.

Perché siano utili alla destra è evidente: poiché contengono diagnosi sballate e previsioni di eventi che non si avverano, non fanno che rafforzare il consenso alla destra. Se dici che Meloni cancellerà la legge 194 sull’aborto e poi la legge resta in piedi, se dici che con la destra al governo la stampa non sarà più libera e poi la stampa continua imperturbata a denigrare la destra, se dici che le paure verso gli immigrati irregolari sono ingiustificate e poi le cronache (e le statistiche) suggeriscono il contrario, se fai tutto questo la gente crede sempre di meno a te, e si rassicura sempre di più nei confronti dell’avversario che hai dipinto come un demonio. Insomma: gridare al lupo al lupo troppe volte non funziona se poi il lupo non arriva.

Meno evidente è perché le diagnosi errate abbiano effetti catastrofici sulla sinistra, al di là dell’aiuto che finiscono per dare alla destra sul piano elettorale. Ebbene, la ragione  è che non c’è più il vecchio Partito Comunista, con i comitati centrali a porte chiuse e la pratica della doppia verità. I comunisti non credevano a tutto quello che raccontavano alle masse. Quindi potevano benissimo proporre analisi sbagliate (per catturare voti) ma al tempo stesso sapere, o meglio cercare di sapere, come stavano le cose davvero. E sapere come le cose stavano davvero era essenziale per non mettere in atto politiche sbagliate, irrealistiche o controproducenti.

Oggi non è più così. Nella maggior parte dei casi i dirigenti della sinistra, gli intellettuali progressisti, i giornalisti di area credono veramente a quello che dicono e scrivono. Davvero temevano “rigurgiti” fascisti e autoritari se Meloni avesse vinto le elezioni. Davvero erano persuasi che fosse in atto una drammatica crisi economica quando Berlusconi obiettava “però i ristoranti sono pieni”. Persino un grande intellettuale come Umberto Eco ebbe a cascarci quando, nel 2001, profetizzò la scomparsa della libera stampa nel caso avesse vinto Berlusconi.

A nessuno piacerebbe svegliarsi un mattino e scoprire che tutti i giornali, il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Messaggero, Il Giornale, e via via dall’Unità al Manifesto, compresi i settimanali e i mensili, dall’Espresso a Novella Duemila, sino alla rivista on line Golem, appartengono tutti allo stesso proprietario e finalmente ne riflettono le opinioni. Ci sentiremmo meno liberi. Ma è quello che accadrebbe con una vittoria del Polo che si dice delle Libertà.

Sappiamo come sono andate le cose. I giornali hanno continuato ognuno per la sua strada, e i pochi – peraltro fallimentari – tentativi di accentrare il comando delle maggiori testate sono venuti, alcuni decenni dopo, da sinistra e non da destra. Dunque la teoria di Eco, come tante teorie e analisi che allignano in campo progressista, era sociologicamente errata.

Quel che voglio dire è che la sinistra italiana, e massimamente quella guidata da Schlein, ha disimparato una lezione fondamentale della politica: ingannare gli altri può funzionare, ma ingannare sé stessi è sempre catastrofico. Perché se vuoi cambiare la realtà è meglio – molto meglio – che tu sappia come funziona: altrimenti sarà la realtà a giocarti un brutto tiro.

[articolo uscito sulla Ragione il 21 ottobre 2025]




Dopo le Regionali – Chi deve comandare a sinistra?

La vittoria dell’alleanza progressista in Toscana ha riacceso qualche speranza a sinistra, dopo le sconfitte nelle Marche e in Calabria. Le speranze di un’inversione di tendenza, tuttavia, sono mitigate dalle preoccupazioni per l’astensionismo, cresciuto di ben 15 punti in Toscana, e per la crisi del Movimento Cinque Stelle, ossia di quello che – sulla carta – è il principale alleato del Pd in vista delle elezioni politiche del 2027. Alcuni analisti e sondaggisti fanno notare che l’astensionismo è un pericolo soprattutto per la sinistra: a differenza che in passato, sarebbero proprio i suoi elettori a disertare le urne quando non apprezzano le proposte dei leader progressisti. I due grandi mali dell’alleanza di sinistra, dunque, sarebbero l’astensionismo e la “evaporazione” del Movimento Cinque Stelle.

Questa analisi, a prima vista, ha una sua plausibilità. La crisi del Movimento Cinque Stelle è conclamata, e l’ascesa del “partito dell’astensione” è da decenni il leitmotiv dei media all’indomani di ogni consultazione elettorale. A ben vedere, però, le cose sono molto più complicate di come appaiono.

Intanto, non è vero che nelle ultime tre consultazioni regionali abbiamo assistito a un’impennata dell’astensionismo. L’impressione di un aumento è dovuta a un banale errore tecnico-metodologico: la partecipazione elettorale viene confrontata con quella del 2020, in cui il dato di Toscana e Marche era inflazionato dall’abbinamento delle Regionali alla consultazione referendaria (molto sentita) sulla riduzione del numero di parlamentari. Se il confronto viene fatto con il 2015, in cui non c’erano altre elezioni, si osserva una perfetta stabilità della partecipazione al voto in tutte e tre le regioni (48% in Toscana, 50% nelle Marche, 44% in Calabria). E nell’unico caso in cui si può fare un confronto con le ultime elezioni regionali (quello della Calabria, che andò al voto nel 2021, in data diversa da quella del referendum) il dato del 2025 è praticamente identico a quello del 2020 (44.4% contro 44.3%). Dunque cominciamo con lo sgombrare il campo dalla prima mina: la crisi della sinistra non è colpa dell’astensionismo.

Ma anche l’altra parte delle preoccupazioni che travagliano la sinistra, ovvero la crisi dei Cinque Stelle, andrebbe riconsiderata alla luce dei dati. È vero che nelle elezioni regionali i Cinque Stelle raccolgono pochi consensi, ed è verissimo che il loro peso elettorale è oggi molto minore di 10 anni fa, e tuttavia se guardiamo ai movimenti più recenti dell’opinione pubblica non sono i Cinque Stelle il vero tallone di Achille della sinistra. La supermedia dei sondaggi calcolata da Youtrend mostra che dopo le elezioni europee del 2024, ovvero nell’ultimo anno e mezzo, il consenso verso i Cinque Stelle è in costante aumento, mentre quello al Partito Democratico è in calo. Il differenziale fra i due partiti era di circa 14 punti (a favore del Pd), ora è sceso a circa 9. L’evaporazione dei Cinque stelle è un fenomeno che riguarda le elezioni locali, ma sul piano nazionale (almeno a stare ai sondaggi) è semmai il Pd a perdere colpi (dal 24 al 22%), mentre i Cinque Stelle sono in lenta ma costante crescita (dal 10 al 13%).

Non solo. Una recentissima indagine di Renato Mannheimer ha scoperto una cosa assolutamente sorprendente. Nonostante il Pd abbia quasi il doppio dei consensi dei Cinque Stelle, l’elettorato progressista preferisce nettamente Giuseppe Conte a Elly Schlein come candidato alla Presidenza del Consiglio per le elezioni del 2027: il leader Cinque Stelle viene scelto dal 34% degli elettori di sinistra, mentre la segretaria del Pd deve accontentarsi del 22% delle indicazioni. E lo scarto fra i due leader è ancora più grande se si considera l’intero elettorato, non solo gli elettori di sinistra: 27% contro 14%.

Come mai?

La spiegazione, probabilmente, sta in una precedente indagine di Mannheimer, condotta poche settimane fa. Da essa emergeva la profonda insoddisfazione dell’elettorato di sinistra per l’operato (o il mancato operato) dell’opposizione, ben maggiore della speculare insoddisfazione dell’elettorato di destra per l’operato del governo. A sinistra gli insoddisfatti sfioravano il 50%, a destra erano meno del 13%. E anche fra gli indecisi coloro che bocciano l’opposizione risultavano più numerosi di coloro che bocciano il governo (79% contro 67%).

Fra i due risultati – preferenza per Conte e insoddisfazione per l’opposizione – un nesso c’è: l’elettorato progressista, proprio perché Schlein è il leader che dà le carte a sinistra, tende a attribuire a lei e non a Conte litigiosità e mancanza di idee del campo largo, e al tempo stesso apprezza la vena populista e soprattutto iper-pacifista del leader Cinque Stelle.

A quanto pare, la questione di chi debba guidare il centro-sinistra è più che mai all’ordine del giorno.

 

 

[articolo uscito sul Messaggero il 17 ottobre 2025]

 




A proposito di un intervento di Baricco – Meglio il XXI secolo?

Il secolo che stiamo vivendo è migliore di quello che ci siamo lascati alle spalle?

Sembra incredibile, ma è proprio questa la pensosa domanda che, nei giorni della pace di Trump, ha sollevato un articolo di Alessandro Baricco uscito sulla piattaforma Substack. Lui tende a rispondere: sì, almeno nelle intenzioni, perché i ragazzi che agitano la bandiera della Palestina hanno voluto prendere congedo dagli orrori del Novecento, un secolo morente ma pericoloso proprio perché morente.

Altri, come Michele Serra, esitano invece a liquidare il Novecento, un secolo che ci ha inflitto due guerre mondiali ma ci ha anche regalato – nella sua seconda metà – cose bellissime come: multilateralismo, collaborazione internazionale, Unione Europea,  femminismo, pacifismo, liberazione sessuale, il “piglio antigerarchico delle nuove generazioni”, e “volendo anche la conquista dello spazio per mano di americani e russi”. Ovviamente è stato facilissimo ricordare a Serra gli orrori e i crimini della seconda metà del Novecento, a partire dalle decine di milioni di morti dei regimi comunisti in Unione Sovietica, Cina, Cambogia.

In realtà la questione è irrisolvibile non solo perché ognuno può scegliere a proprio piacimento il menù con cui preferisce descrivere un determinato secolo, ma perché – alla fine – la diagnosi dipende soprattutto dai fantasmi di chi ne discute. C’è chi, come Serra, non sa rinunciare all’idea che i progressisti siano stati capaci di migliorare il mondo, e c’è chi, come Baricco almeno dal tempo de I barbari (un libro del 2006), sembra ossessionato dal timore di apparire poco al passo con i tempi o, peggio, di finire nella schiera dei nostalgici, che rimpiangono il bel tempo antico. Di qui il sapore di panglossismo, di benevola fiducia nel presente e nelle virtù nascoste delle nuove generazioni, che emana da tanti suoi scritti.

Il fatto che, così posta, la questione del confronto fra i due secoli non sia dirimibile, non significa però che ogni confronto sia impossibile. Tutto sta a scegliere un terreno non troppo friabile e, soprattutto, non troppo condizionato dai giudizi di valore. Ma esiste un simile terreno?

Sì, un terreno che dovrebbe mettere d’accordo tutti è quello dell’evoluzione della violenza, sia collettiva (guerra) sia individuale (omicidi). Si può dire che la violenza, pur tuttora presente nel mondo, è in diminuzione nel nuovo secolo?

Purtroppo i dati al riguardo sono controversi e raramente raccolti in modo sistematico. Tuttavia almeno due tendenze sembrano abbastanza chiare. Per quanto riguarda le guerre (fra stati e interne), la tendenza alla diminuzione del numero delle vittime (civili e militari) che si osservava negli ultimi decenni del Novecento pare essersi invertita da tempo, e non solo in concomitanza o a causa dei conflitti armati più recenti (Ucraina Gaza, Sudan, Myanmar). E pensando a quanti e quanto sanguinosi eccidi si verificano da anni in ogni angolo del pianeta, fa riflettere quanta poca attenzione vi abbiano riservato le generazioni ultra-sensibili al dramma di Gaza. Chi vede un salto di sensibilità etica nelle nuove generazioni, forse dovrebbe domandarsi quanto tale salto sia dovuto a una nuova coscienza civile e quanto sia invece il risultato di una completa dipendenza dai media e dalla rete, letteralmente intasati dal dramma palestinese ma sostanzialmente insensibili alla maggior parte degli altri.

Per quanto riguarda la violenza individuale forse dovremmo rivedere l’entusiastica diagnosi di Steven Pinker, che nel suo libro Il declino della violenza (del 2011) annunciava che la nostra è l’epoca più pacifica delle storia, e che l’umanità non è mai stata così sicura come oggi. Sul fatto che oggi si uccida fra 50 e 100 volte di meno che nel tardo Medioevo sussistono pochi dubbi, ma i dati più recenti mostrano che nel nuovo secolo il trend di diminuzione degli omicidi si è interrotto, specie nelle società avanzate. Fra queste ultime sono molto più numerose quelle in cui il numero di vittime di omicidio aumenta che quelle in cui diminuisce: un segnale preoccupante, che va contro il senso comune progressista.

[articolo uscito sulla Ragione il 14 ottobre 2025]