Dimenticare i problemi strutturali

Per anni ho ritagliato gli articoli di giornale più interessanti in materia economico-sociale, distribuendoli in centinaia di cartelline a seconda del periodo e dell’argomento. Nei giorni scorsi, finalmente, mi sono deciso a fare pulizia: ho buttato quasi tutto. Non alla cieca, però: prima di buttare, ogni tanto davo una sbirciata. Così, per curiosità.

Ebbene, è stata un’esperienza sorprendente, e molto istruttiva. La cosa che più mi è saltata all’occhio è la differenza fra ciò di cui si parla oggi e ciò di cui si parlava 10, 15, 20 anni fa. La metterei così: allora il dibattito pubblico era governato da lunghe, lunghissime, insistenti discussioni sui grandi problemi strutturali dell’Italia e sui modi di affrontarli, oggi quasi tutto lo spazio è occupato da questioni contingenti e molto delimitate, nonché dalle opposte prese di posizione delle forze politiche.

Di che cosa si parlava allora?

Un elenco minimale include: spesa pubblica, spending review, sprechi, riforma federalista, pressione fiscale, debito pubblico, efficienza della giustizia, riforma della scuola, riforma dell’università, meritocrazia, spread, globalizzazione, crescita, produttività, mercato del lavoro, crisi del sistema pensionistico. Gli interventi su questi temi erano quotidiani, le posizioni contrastanti ma ben delineate. Oggi non è che non se ne parli mai, qualche articolo prima o poi compare, ma manca la convinzione condivisa che certi nodi siano ineludibili, e che sia urgente discuterne per fermare il declino dell’Italia.

Oggi a me pare che l’unico nodo strutturale in grado di attirare un’attenzione mediatico-politica costante sia quello del calo demografico: ci sposiamo di meno, facciamo meno figli, siamo preoccupati per le conseguenze economiche e sociali di questo “inverno demografico”.

Ma tutto il resto? Possibile che nessuna delle questioni che un tempo ci appassionavano (e su cui spesso ci dilaniavamo) sia ancora importante?

Per certe questioni la nostra attuale disattenzione è comprensibile. Nel caso del debito pubblico, ad esempio, è il buon andamento dello spread che ci induce a non vedere il problema. Nel caso del federalismo, sono stati 25 anni di chiacchiere impotenti che hanno fatto evaporare il tema (ma non il problema degli squilibri territoriali, da cui il sogno federalista aveva preso le mosse).

Per tutto il resto, però, la nostra disattenzione non è giustificata. Possiamo dire che la spesa pubblica è finalmente efficiente, o che la sanità nel Mezzogiorno ha prestazioni comparabili a quelle del Nord? Evidentemente no.

Possiamo dire che il merito è adeguatamente premiato, come prevede l’articolo 34 della Costituzione (“i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”)? Evidentemente no.

Possiamo dire di aver disboscato la selva di adempimenti, lacci e lacciuoli che frenano l’economia? Evidentemente no.

Possiamo dire che la giustizia civile è diventata più veloce, e quella penale commette meno errori? Evidentemente no.

Possiamo dire che la lotta all’evasione ha permesso di ridurre la pressione fiscale e abbassare le aliquote per chi paga le tasse? Evidentemente no.

Possiamo dire che, finalmente, la produttività è tornata a crescere, con benefici per le imprese (più investimenti) e per i lavoratori (più potere di acquisto)? Evidentemente no.

Possiamo dire che finalmente i nostri giovani si sono rimboccati le maniche, e non siamo più il paese dei Neet (giovani che non studiano e non lavorano)? Ancora una volta, evidentemente no. Dove tutti i nostri “evidentemente” non rimandano a percezioni ma a dati statistici, che implacabilmente testimoniano il perdurare dei nostri maggiori problemi strutturali.

Ma, si potrebbe obiettare, negli ultimi cinque anni (con Draghi e Meloni) abbiamo avuto uno straordinario aumento dell’occupazione: circa 2 milioni di posti di lavoro in più. È vero, tuttavia il problema è che gli aumenti occupazionali non si sono accompagnati a incrementi del Pil abbastanza sostenuti da far crescere la produttività, che ha continuato a ristagnare come fa da circa un trentennio. Quanto agli aumenti occupazionali, sono dovuti più alla permanenza al lavoro di adulti e anziani che non all’immissione di nuove leve. Anzi, diversi indizi suggeriscono che, anche negli ultimi anni, si è rafforzata la tendenza di parti del sistema-Italia a vivere di rendita, o meglio e più precisamente, a “vivere senza lavorare”, come testimoniano tanti fenomeni apparentemente scollegati: lo sfruttamento intensivo delle abitazioni (esplosione degli Airbnb), le donazioni patrimoniali (un flusso annuo di denaro pari a 10 Finanziarie), l’attrattiva delle carriere da influencer, l’aumento del gioco d’azzardo e del trading on line. Tutte attività che assicurano (o promettono di assicurare) un reddito senza la fatica e l’impegno di un vero lavoro.

Colpa della politica? Colpa di questo governo? Colpa di quelli che l’hanno preceduto?

Difficile distribuire meriti e colpe, ma il fatto che dei problemi strutturali del paese si parli poco, comunque molto di meno di dieci o venti anni fa, suggerisce un’ipotesi amara: forse non sono solo i politici, ossessionati dalla ricerca del consenso immediato, ma siamo noi stessi – in quanto cittadini, studiosi, operatori dell’informazione – che ci siamo distratti. Poco per volta la fiducia nella possibilità di cambiare le cose ha lasciato il posto a una visione più scettica e disincantata, per cui le cose non vanno così male da esortarci all’azione, e il costo di affrontare i problemi ci appare superiore ai benefici che potremmo attenderci da riforme radicali.

O non è così?

[articolo uscito sul Messaggero il 15 novembre 2025]




Quando il pluralismo non è preso sul serio. Il caso Valditara

Lettera 150

Novembre 2025

I fatti sono noti. Una circolare del Ministero dell’Istruzione e del Merito dei primi di novembre ha invitato presidi e professori a tener conto della diversità delle opinioni che si possono avere sui grandi temi della politica del nostro tempo. Un informato articolo di ’Repubblica’ firmato v.a., Dibattiti a scuola solo se c’è ‘par condicio’. Polemica su Valditara (8 novembre u.s.) ha spiegato bene la vicenda. «Appare importante—si legge nella circolare– che l’organizzazione e lo svolgimento, all’interno delle istituzioni scolastiche, di manifestazioni ed eventi pubblici aventi a oggetto tematiche di ampia rilevanza politica e sociale, siano caratterizzati dalla presenza di ospiti ed esperti di specifica competenza e autorevolezza». Le scuole, «nell’ambito della loro autonomia» devono « assicurare il pieno rispetto dei principi del pluralismo e delle libertà di opinione e garantire il dialogo costruttivo e la formazione del pensiero critico». Le iniziative, dunque, devono essere «coerenti con gli obiettivi formativi della scuola e contribuire attraverso il libero confronto di posizioni diverse, a favorire una approfondita e il più possibile oggettiva conoscenza dei temi proposti, consentendo a ciascuno studente di sviluppare una propria autonoma e non condizionata opinione». Si tratta di direttive pienamente condividibili ma che ingenerano nell’animo una profonda tristezza. Le scuole della ‘società aperta’, infatti, non avrebbero alcun bisogno di essere richiamate a principi tanto evidenti. E inoltre se dal piano delle (legittime) ‘raccomandazioni’ si passasse a quello dei ‘fatti’ e delle concrete proposte operative, sarebbe difficile sottrarsi alla tentazione del Manuale Cencelli, («l’espressione giornalistica riferita all’assegnazione di ruoli politici e governativi ad esponenti di vari partiti politici o correnti in proporzione al loro peso” poi “spesso utilizzata in senso ironico o dispregiativo per alludere a nomine effettuate in una mera logica di spartizione in assenza di criteri di merito». Wikipedia). Vi immaginate un dibattito sulla guerra russo-ucraina organizzato in un liceo e sottoposto alla discussione del Consiglio d’istituto in cui ciascun docente potrebbe eccepire sull’invito rivolto a un ospite la cui ”specifica competenza e autorevolezza” sia, a suo avviso, per così dire, problematica. Detto ciò l’invito di Valditara «al costante rispetto del pluralismo» è ineccepibile e non si vede lo sdegno suscitato dalle deputate del PD, Irene Manzi e Simona Malpezzi (un volto noto, quest’ultima, grazie ai talk show di Mediaset). « La scuola—dicono le due parlamentari nell’interpellanza rivolta al Ministro—non è un luogo da sorvegliare, ma un luogo dove liberare le idee, perché solo dove si discute liberamente si educa davvero alla cittadinanza». ‘Na penzata ‘e spírito’, vien fatto di commentare, col grande Armando Gil, pensando ai licei e alle Università che, una volta occupati, non possono certo dirsi  luoghi dove’ liberare le idee’. Giustamente Valditara ha commentato «parole inquietanti che lasciano trasparire l’intenzione di voler confondere l’autonomia scolastica con pratiche di indottrinamento. La scuola costituzionale non si merita questa preoccupante confusione».

 E tuttavia alla base di questa vicenda c’è un equivoco non risolto—e da tempo.  Lo Stato, i ministeri competenti hanno il dovere di salvaguardare il pluralismo dell’informazione e di assicurare a tutte le idee, a tutte le opinioni libertà di accesso nelle istituzioni scolastiche. Ma qui non si tratta di pluralismo dell’informazione bensì di pluralismo di manifestazione. Studenti e antagonisti vari partecipano alle occupazioni con lo spirito dei coristi del CAI che si riuniscono per cantare Lassù sulle montagne.. Per loro, non è un problema la conoscenza giacché si sa sin troppo bene ciò che sta accadendo nel mondo e contro cui si protesta. Vogliono, invece, porre fine a qualcosa che assimilano a un genocidio  sicché pretendere  che facciano ascoltare le due campane è, per lo meno, ingenuo. Sarebbe come  se si fosse chiesto a John Brown, l’abolizionista del Connecticut impiccato nel 1859, di dare la parola nei raduni da lui indetti (che potevano portare ad azioni violente come il massacro del Pottawatomie del 1856) anche ai fautori della schiavitù o comunque a quanti, in qualche modo, la giustificavano. Se si protesta conto i Lager o contro i Gulag, non è assurdo far sentire la campana nazista o comunista? Al tempo della Guerra del Vietnam, sui grandi viali di Washington sfilavano, da una parte, i manifestanti che volevano porre fine al conflitto nel Sud-est asiatico e, dall’altra parte, quanti desideravano che continuasse fino alla vittoria sui comunisti (tra loro c’era, almeno idealmente, John Wayne). Due cortei, appunto, impensabili in Italia dove sarebbero vietate de facto—per ragioni di ordine pubblico–manifestazioni in difesa non di Netanyahu ma del diritto dello stato di Israele a esistere. Da noi hanno diritto di parola (e di predica) solo i puri, gli onesti, quanti parlano a nome del Genere Umano.

 E qui veniamo al tumore maligno radicato nel corpo della nazione: la pretesa di essere nel giusto e che le opinioni degli altri, se contrarie alle nostre, nascondano interessi nascosti e disegni inconfessabili. Luca Ricolfi, in un magistrale articolo sul ‘Messaggero ’,A proposito di un’uscita di Elly Schlein. Democrazia a rischio (2 novembre u.s.) ha messo a fuoco due gravi distorsioni del concetto di democrazia, presenti nell’ideologia italiana. «La prima è di misurare il grado di democrazia non in base al rigoroso rispetto dei principi costituzionali, ma in base al grado di avvicinamento agli obiettivi che ispirano una politica progressista, ad esempio: più stato sociale, più redistribuzione, più mitezza in campo penale.|…| è un errore concettuale grave: l’orientamento delle politiche dei governi non può essere un criterio per giudicare il grado di democraticità di un determinato paese, o la qualità della sua democrazia. E non può esserlo per un motivo logico ben preciso: ogni politica è frutto di un bilanciamento fra istanze opposte ma entrambe legittime, e nulla autorizza a dire che muoversi verso uno dei due poli sia più democratico che muoversi verso l’altro». La seconda distorsione è «la credenza che una delle due parti politiche—la destra—non sia pienamente legittimata a governare. E non lo sia perché non pienamente democratica».

 A mio parere, qui c’è un vizio antico—che forse risale addirittura all’età del Risorgimento e agli insegnamenti di Giuseppe Mazzini e di Carlo Cattaneo—quello di ritenere che, alla base delle decisioni dei governi e dei loro oppositori, debba esserci una Verità oggettiva, indistinguibile dalle leggi di natura—che prescrive ciò che è giusto, in politica come in economia– e che non tenerne conto sia andare fuori strada, esporre il paese alla rovina. E’ un costume di casa che non riguarda solo le ali estreme dello schieramento politico giacché, a leggere gli editoriali dei columnist moderati e liberali di oggi come di settant’anni fa, si ha sempre la sensazione che, al di fuori delle soluzioni politiche da essi auspicate (centro-destra o centro-sinistra), ci fosse solo il caos. La cultura del Partito d’Azione svolse in tal senso una funzione decisiva: ponendosi come sintesi di liberalismo e di socialismo, i suoi esponenti tendevano a delegittimare moralmente quanti della sintesi  non  volevano saperne e rimanevano attaccati all’una o all’altra delle polarità ‘superate dalla Storia’. Non a caso con qualche luminosa eccezione (v. Guido Calogero) erano portati ad auspicare una democrazia senza partiti giacché questi non avevano più ragion d’essere una volta che il paese si fosse incamminato sulla via maestra del socialismo liberale o del liberalsocialismo.

 Non meraviglia che una sinistra non ancora secolarizzata e laicizzata (e quindi lontana dall’acquisire la consapevolezza che i valori politici stanno tutti sullo stesso piano) a parole riven-dichi il pluralismo dell’informazione ma, col cuore, si ritrovi sempre dalla parte dei ‘monopolisti delle manifestazioni’ ovvero di quanti—magari con mezzi violenti e inaccettabili—‘portano avanti’ le cause giuste. Se nella lotta politica si confrontano il Bene e il Male, quanti si trovano al servizio del secondo, possono anche andare al governo—se gli elettori sottopongono la democrazia a  harakiri—ma restano sempre un pericolo per la democrazia e per le libertà. Tutto in loro diventa subdolo, persino il ‘richiamo strumentale’ al pluralismo. Quest’ultimo, nei loro disegni perversi, diventa un cavallo di Troia destinato a far conoscere, nelle scuole della Repubblica, interpretazioni della nostra storia non in linea con la pedagogia dello Stato democratico fondato sui valori di una Resistenza e di un antifascismo intesi non come restaurazione delle libertà civili e politiche–conculcate dal fascismo– ma come renovatio ab imis, creazione di una nuova civiltà destinata a cancellare le miserie della vecchia Italia. Come ebbe a scrivere Giuseppe Bedeschi sul ‘Giornale’ del 9 giugno 2010, Così Croce sfidò Parri in difesa della libertà, «il Partito d’azione mirava a realizzare un programma di ‘rinnovamento sociale e politico’ con evidenti caratteri massimalistico-giacobini. Persino un uomo come La Malfa (azionista) era convinto che si dovesse chiedere” la nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali”, al fine di “recidere alle radici ogni potenza reazionaria del grande capitale’». Quel programma di rinnovamento sociale e politico con evidenti caratteri massimalistico-giacobini continua ad essere il termine fisso d’eterno consiglio per la sinistra italiana, anche dopo aver rinunciato alla nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali. Forse il vero nemico del pensiero egemone oggi è il pluralismo preso sul serio. Potrebbe convincere gli Italiani che a sinistra non c’ è “l’Unto del Signore” come non c’è a destra: giacché, per dirla con Bernard Crick, destra e sinistra stanno tutt’e due sul mercato.




La politica è donna?

A destra non c’è partita: nessun politico maschio ha un carisma anche lontanamente comparabile a quello di Giorgia Meloni. Ma a sinistra, come stanno le cose? Apparentemente la situazione è più equilibrata: Elly Schlein ha fatto fuori Bonaccini con le primarie, ma tutto il resto del centro-sinistra è dominato dai maschi: maschio è il capo dei cinque stelle, Giuseppe Conte; maschio è il leader dei Verdi Angelo Bonelli; maschio è il leader di sinistra italiana Nicola Fratoianni; maschi sono i leader del Terzo Polo Matteo Renzi e Carlo Calenda. Maschi, infine, sono quasi tutti i “grandi vecchi” – Franceschini, Bettini, Prodi, Bersani, Veltroni – che da dentro o da fuori ancora influenzano la vita del Partito Democratico.

Tutto questo fino a poco fa. Ora però il vento sta cambiando. Nel giro di pochissimo tempo la palude progressista è stata investita da un triplice ciclone femminile. A livello europeo, Pina PiciernoP, eletta nelle liste del Pd e vicepresidente del Parlamento Europeo, si è distinta – nell’ambito della sinistra italiana – come una delle voci più chiare e risolute nel sostegno all’Ucraina, in sintonia con il gruppo dei socialisti europei ma in aperto dissenso con le direttive del Partito Democratico. È uno dei rari casi in cui una donna di sinistra si contrappone duramente e a viso aperto ai vertici del suo partito.

In Italia, invece, a sfidare l’establishment progressista hanno provveduto altre due giovani donne, Silvia Salis e Chiara Appendino. Eletta sindaco di Genova con il sostegno di Elly Schlein, Silvia Salis non ha atteso molto prima di lanciare – sia pure in modo alquanto obliquo – il suo guanto di sfida alla segretaria del Pd come candidata premier della coalizione di sinistra. Quanto a Chiara Appendino, è di pochi giorni fa una sua lettera a Libero in cui sferra un durissimo attacco a tutta la sinistra per la sua incapacità di affrontare il problema della sicurezza.

Le buone ragioni politiche delle due “ragazze terribili” sono più che comprensibili. A favore della renziana Silvia Salis gioca il fatto che, con una candidata premier sbilanciata a sinistra come Elly Schlein, le probabilità di battere Giorgia Meloni sono minime. E tuttavia colpisce la sua improvvisa, repentina popolarità, ovvero il fatto che a lei – con pochissima esperienza politica, e un passato di campionessa di lancio del martello – sia riuscito in pochi giorni quello che da oltre un anno non sta riuscendo a nessuno dei maschi, da Manfredi a Onorato, da Ruffini a Prodi, che vengono ripetutamente indicati come possibili federatori di un centro sinistra ampio e inclusivo. È come se l’essere donna, giovane, sportiva e di bell’aspetto fosse diventato sufficiente a bruciare tutte le tappe di una normale carriera politica.

Il caso di Appendino è diverso, perché il suo curriculum politico è molto più ricco, a partire dalla guida della città di Torino (dal 2016 al 2021), prima donna sindaco nella storia della città. Però anche qui colpisce il modo repentino con cui ha saputo mettere nell’angolo Giuseppe Conte, finora leader indiscusso del movimento Cinque Stelle. Le è bastato dimettersi da vicepresidente del movimento, e subito dopo mettere il dito nella piaga del centro-sinistra, accusato di avere rimosso il tema della sicurezza. Un problema che cova da tempo sotto le ceneri nel M5S, ma che Conte era riuscito abilmente a tenere nascosto persino in occasione dell’incontro-intervista di un anno fa con Sahra Wagenknecht, leader di un partito (la BSW) di sinistra ma chiaramente anti-migranti.

Non sappiamo se, alla fine, il triplice assalto di Picierno, Salis, Appendino all’establishment progressista sarà coronato da successo, e quale potrà essere alla fine il ruolo di Schlein. Ma se l’assalto dovesse riuscire, le prossime elezioni ci riserverebbero uno spettacolo inedito: lo scontro tutto al femminile fra una donna al comando – Giorgia Meloni – e un manipolo di donne che aspirano a prenderne il posto. Una novità assoluta in Italia, e forse non solo in Italia.

[articolo uscito sulla Ragione l’11 novembre 2025]




Dopo la mossa di Chiara Appendino – Sinistra e sicurezza

“Da troppo tempo la sinistra ha paura di occuparsi di sicurezza, come se parlarne fosse di destra. È stato un errore enorme”.

La diagnosi non è nuova. Fra i sociologi non siamo in tantissimi a pensarla così, ma lo ripetiamo da almeno vent’anni, con una montagna di numeri. Dunque perché insistere con questo mantra?

Per una ragione fondamentale: questa volta a parlare così non siamo noi, studiosi di criminalità e di politica attoniti per la cecità della sinistra, ma è nientemeno che Chiara Appendino, esponente di punta del Movimento Cinque Stelle. In una lettera inviata a Libero non solo dice l’indicibile, ma rivendica di avere agito concretamente, quando era sindaca di Torino, per combattere contro degrado, campi rom, occupazioni abusive, anarchici dinamitardi. Anziché scaricare sul Ministero dell’Interno ogni responsabilità, la deputata Cinque Stelle richiama tutti i livelli di governo – comprese le amministrazioni locali – alle loro responsabilità e al dovere di collaborare per combattere il degrado, visto come brodo di coltura del crimine (una teoria con basi scientifiche piuttosto solide).

Dunque tutto bene. Finalmente a sinistra c’è qualcuno di (politicamente) autorevole, che prova a far aprire gli occhi alla sinistra. Nella lettera, tuttavia, Appendino non spiega come mai la sinistra stessa non abbia mai voluto prendere sul serio il tema della sicurezza. Il punto è importante, perché dalla risposta a questa domanda deriva la risposta alla domanda che segue subito dopo: riuscirà mai la sinistra a correggere questo suo errore “enorme”?

Ebbene, forse la prima cosa da notare è che non è sempre stato così, e comunque non per tutta la sinistra. Di fronte al pericolo del terrorismo, il Partito Comunista di Enrico Berlinguer (e di Armando Cossutta!) aveva ben chiara l’importanza della sicurezza, e l’assoluta necessità di combattere contro coloro che la mettevano a repentaglio. A non capire il valore della sicurezza, in quegli anni, fu semmai la sinistra extraparlamentare, che detestava le divise, disprezzava la normalità “borghese”, e vedeva ogni forma di devianza come ribellione al “sistema”. Detto per inciso, è incredibile come questi schemi mentali sopravvivano ancora oggi, più di mezzo secolo dopo il Sessantotto, in parole come quelle di Michela Murgia (“io quando vedo un uomo in divisa mi spavento sempre”) o di Enrico Letta (“viva le devianze”).

La vera mutazione, quella che ha decretato il divorzio fra sinistra e sicurezza, si è prodotta nei decenni successivi alla morte di Berlinguer, con l’assottigliamento della classe operaia, la “cetomedizzazione” del maggiore partito della sinistra, l’arrivo dei migranti. Per un partito di ceti medi, urbanizzati e istruiti, culturalmente cosmopoliti, aperti alle opportunità della globalizzazione, la sicurezza non poteva essere una priorità. E questo non solo perché le vittime principali della criminalità non sono certo i ceti medi (ben più attrezzati a difendersi), ma perché stare dalla parte degli immigrati come delle altre minoranze più o meno oppresse era la condizione logica necessaria per alimentare e sostenere il complesso di superiorità morale della sinistra. A preoccuparsi delle paure e dei bisogni dei ceti popolari, fatti di lavoro dipendente e partite Iva, hanno provveduto sempre di più partiti nuovi, spregiativamente definiti “populisti”, ma più capaci di interpretare il disagio dei ceti popolari: prima la Lega (nata alla fine degli anni ’80), poi il Movimento Cinque Stelle (nato nel 2007), infine Fratelli d’Italia (fondato nel 2012). Di qui, non solo in Italia, un radicale smottamento e rimescolamento delle basi elettorali: i progressisti raccolgono consenso soprattutto dai ceti medi istruiti, i partiti di destra attirano una fetta consistente del voto popolare.

E i Cinque Stelle?

I Cinque Stelle hanno avuto il loro momento di massimo splendore quando non erano né di destra né di sinistra, e sull’immigrazione avevano una posizione interlocutoria, non schiacciata sul cattivismo di destra e sul buonismo di sinistra. Poi, per amore del potere, hanno compiuto la loro svolta a sinistra (governo Conte 2) e siglato un patto difficilmente reversibile con il Partito Democratico. Di qui le loro difficoltà attuali: l’alleanza con il Pd, che sul tema della sicurezza è muto, li penalizza anche elettoralmente, perché snobbare quel tema allontana il voto popolare, che altrimenti troverebbe nei Cinque Stelle uno dei suoi sbocchi naturali.

La mossa di Chiara Appendino è anche un tentativo di far uscire il movimento dall’angolo in cui Conte negli ultimi anni ha finito per relegarlo. Un ritorno a destra? Qualcuno proverà a metterla così, ma sarebbe uno sbaglio concettuale. Perché – ce lo hanno insegnato in tanti, da Isaiah Berlin a Norberto Bobbio – la “libertà dal timore” fa parte dei diritti fondamentali dell’uomo, esattamente come la “libertà dalla miseria”. È toccato a Chiara Appendino ricordarlo nella sua lettera a Libero (“la sicurezza non è né di destra né di sinistra: è un diritto dei cittadini”). Ora tocca a Elly Schlein decidere se raccogliere la sfida, o perseverare nell’arroccamento che, non da oggi, tiene i ceti popolari lontani dalla sinistra ufficiale.

[articolo uscito sul Messaggero il 9 novembre 2025]




Zorhan Mamdani ha vinto. E’ la democrazia bellezza!

L’elezione del musulmano Zohran Mamdani a sindaco di New York ha generato nell’area liberale non poche apprensioni. Mamdani è un tipico prodotto dell’attuale establishment nordamericano—suo padre è un docente universitario di un prestigioso e costoso ateneo privato, sua madre un’apprezzata regista—ma non è cristiano e, inoltre, il suo programma di governo si ispira a una sinistra decisamente radicale.  Piero Sansonetti, sull’’Unità’, ha esultato: si torna a parlare di socialismo e qualcuno ha finalmente raccolto la bandiera che i partiti progressisti avevano nascosto nell’armadio. Capisco sia le apprensioni (forti, c’era da aspettarselo, nella comunità ebraica non solo newyorkese) che gli entusiasmi ma, al di là delle emozioni, vorrei ricordare che la democrazia dei moderni vive nell’alternanza di destra e di sinistra, di conservatori e di liberali, di welfaristi e di liberisti. Misure fiscali punitive dei ceti più abbienti, ingenti debiti pubblici per garantire i ‘diritti sociali’ (sanità, scuola, trasporto pubblico etc.) possono non piacere ma perché dovrebbero rappresentare un vulnus per la democrazia liberale? Semmai rovineranno, col passare del tempo, l’economia e, in tal caso, i socialisti vittoriosi di oggi saranno le truppe in ritirata di domani. Un partito che si ispira alla lezione liberale e liberista non è depositario della Verità più di un partito che si riconosca nella socialdemocrazia classica: se’ non c’è verità’ in etica e in politica, non ce n’è neppure in economia. Il problema vero è un altro: i grandi leader socialisti dell’Europa d’antan erano imbevuti di idealità occidentali, provenivano da scuole di pensiero fortemente segnate dai valori liberali e democratici e, pertanto, erano portati –è il caso dei partiti socialisti francese, inglese, tedesco italiano prima della rivoluzione bolscevica—ad ‘addomesticare’ lo stesso Karl Marx come si vede nella prassi e nella teoria della Seconda Internazionale. La novità costituita da Mamdani sta nel fatto che non proviene dalla ‘civiltà cristiana’, dalla cultura classica, dall’illuminismo democratico o dal romanticismo liberale. Non sappiamo se tutto questo avrà conseguenze nel suo stile di governo. Ce lo dirà il futuro ma fasciarsi la testa prima di rompersela non è consigliabile.

                                                                    Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche

Università degli Studi di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[Pubblicato l’11 novembre su Il Giornale del Piemonte e della Liguria]