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L’Università di Zurigo si ribella alla dittatura degli “indicatori”

10 Aprile 2024 - di Paolo Musso

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Il 13 marzo scorso l’Università di Zurigo ha annunciato ufficialmente la sua decisione di abbandonare il sistema internazionale di valutazione delle università, usualmente chiamato THE perché pubblicato dalla rivista inglese Times Higher Education.

Ne parlo solo adesso perché solo adesso l’ho saputo, grazie alla segnalazione di un collega, che a sua volta ha ripreso un post pubblicato sulla pagina Facebook di un amico, che a sua volta riprendeva un trafiletto apparso sul sito svizzero swissinfo.ch, che a sua volta riprendeva il breve comunicato apparso sul sito dell’Università (https://www.news.uzh.ch/en/articles/news/2024/rankings.html). Un percorso quasi clandestino per una notizia che è stata quasi totalmente ignorata dai media (l’unica notizia in italiano che ho trovato su Internet è apparsa su Ticinonline ed era una semplice traduzione del trafiletto suddetto).

A prima vista tale disinteresse potrebbe apparire giustificato: perché infatti questa notizia dovrebbe importarci, in un momento in cui ben altri e ben più gravi sembrano essere i problemi?

La risposta è: esattamente perché così sembra, ma così non è. La decisione presa dall’Ateneo svizzero è potenzialmente rivoluzionaria, non solo rispetto al problema (comunque gravissimo) che affronta, ma soprattutto per la visione del mondo che vi sta dietro, che è diametralmente opposta a quella che sta alla radice di molti dei suddetti problemi apparentemente più gravi e più importanti.

Anzitutto, a scanso di equivoci, va detto che l’Università di Zurigo non ha preso questa decisione perché oggetto di una valutazione negativa: nell’ultima classifica si trovava infatti all’80° posto, che è un’ottima posizione, considerando che nel mondo esistono oltre 7000 università.

La ragione è che, come dice seccamente il comunicato, «la classifica non è in grado di riflettere l’ampio spettro di attività di insegnamento e ricerca intraprese dalle università». E questo perché «le classifiche generalmente si focalizzano su risultati misurabili, che possono avere conseguenze indesiderate, ad esempio portando le università a concentrarsi sull’aumento del numero di pubblicazioni invece che sul miglioramento della qualità dei loro contenuti».

Confesso che la cosa mi ha stupito, perché non credevo che in Europa ci fosse ancora qualcuno capace di prendere una posizione così forte e di dire parole così chiare e così controcorrente. Eppure, la cosa davvero sorprendente non dovrebbe essere la decisione degli svizzeri, ma piuttosto che ci sia voluto così tanto per arrivarci: da molti anni, infatti, tutti gli addetti ai lavori sanno perfettamente che le cose stanno così, ma ciononostante accettano supinamente questo sistema demenziale.

Giusto per dare l’idea a quelli che addetti ai lavori non sono, farò solo un esempio tra i tanti possibili: quello delle citazioni, che è particolarmente significativo perché a prima vista può sembrare sensato.

Nell’attuale sistema di valutazione si ritiene infatti che un buon indicatore del valore di un articolo, almeno nel campo delle scienze sperimentali, che hanno un metodo estremamente efficace per verificare la bontà delle teorie proposte, sia il numero delle volte che tale articolo è stato citato in altre pubblicazioni. Come ho detto, ciò può sembrare sensato, ma in pratica non lo è affatto e porta ad effetti gravemente distorsivi.

Anzitutto, c’è il problema delle autocitazioni. Un autore, infatti, può citare in ciascuna sua pubblicazione anche le proprie pubblicazioni precedenti e non solo quelle dei colleghi. Tuttavia, siccome il sistema funziona in automatico, gestito da computer che non sono in grado di distinguere, anche le autocitazioni vengono considerate valide.

Si potrebbe pensare che per rimediare basterebbe creare programmi più sofisticati che possano riconoscere e non considerare le autocitazioni, ma non è così: l’autocitazione individuale sta infatti cedendo il passo a quella di gruppo, che è praticamente impossibile da contrastare.

La scienza moderna, infatti, soprattutto in certi campi, come emblematicamente la fisica, può ormai avanzare solo grazie a esperimenti di estrema complessità, che coinvolgono decine o perfino centinaia di persone. Di conseguenza, quando alla fine si pubblica l’articolo che rende conto di tale esperimento vengono (giustamente) considerati coautori tutti quelli che vi hanno preso parte e non solo chi materialmente l’ha scritto, perché costui non ha fatto altro che presentare il risultato che tutti hanno concorso a produrre.

Tuttavia, è chiaro che ciò dà ai ricercatori che partecipano a tali esperimenti un enorme e ingiustificato vantaggio rispetto ai loro colleghi che lavorano da soli o in gruppi più piccoli. Infatti, ogni volta che uno dei coautori citerà l’articolo in un lavoro successivo, tutti gli altri “guadagneranno” una citazione. Di conseguenza, quanto più grande è il gruppo, tanto maggiore sarà (in media) il numero di citazioni che l’articolo otterrà, senza che ciò abbia la minima relazione con il suo valore.

Di nuovo, si potrebbe pensare che il problema si possa risolvere non ritenendo valide neppure le citazioni dei propri coautori, ma in realtà ciò non è possibile, perché si scontra con un’altra difficoltà, stavolta insormontabile.

Perlopiù, infatti, i coautori del primo articolo non lo citeranno in una pubblicazione individuale, ma in un’altra pubblicazione di gruppo, insieme ad altri coautori che non facevano parte del gruppo che ha scritto il primo articolo, il che impedisce di considerarla un’autocitazione, benché molto spesso lo sia. È chiaro, infatti, che, se uno dei coautori insiste per citare un articolo precedente di cui era coautore, anche se non è molto pertinente, ben difficilmente gli altri si opporranno, perché a loro volta avranno qualche altro articolo poco pertinente di cui sono coautori da citare.

Ma dovrebbe essere ormai altrettanto chiaro che tale perversa dinamica non dipende di per sé dall’esistenza (peraltro inevitabile) degli articoli di gruppo, ma dall’usare il numero di citazioni come metodo di valutazione.

Ciò, infatti, in primo luogo dà una rilevanza ingiustificata agli articoli scritti da molte persone e favorisce ingiustamente chi ha l’unico “merito” di far parte di grandi gruppi di ricerca. Inoltre, spinge inevitabilmente i ricercatori a usare il trucco delle autocitazioni di gruppo sopra descritto, il che è sì scorretto, ma spesso indispensabile per “sopravvivere” accademicamente.

Ma c’è di più. Ciò spinge anche i ricercatori ad aumentare il più possibile il numero di coautori, a volte inserendo anche colleghi che non hanno realmente contribuito (i quali, ovviamente, ricambieranno il favore alla prima occasione), perché questo, come abbiamo appena visto, aumenta le possibilità di essere citati (inoltre, la presenza di coautori, specie se internazionali, vale per un altro degli indicatori del valore di un articolo, ancora una volta a prescindere dal suo contenuto).

Infine, il sistema induce a pubblicare il maggior numero possibile di articoli, spesso parlando di cose insignificanti o “spezzettando” in varie parti un articolo interessante ma lungo, perché, di nuovo, così aumenta sia la possibilità di autocitarsi che la probabilità di essere citati da altri (senza contare che anche il numero di articoli pubblicati, indipendentemente dal loro valore, vale per un altro indicatore e quindi spinge nella stessa direzione).

Non ci vuole un genio per capire che tutto ciò alla lunga non può che causare una progressiva diminuzione della qualità della ricerca, cioè l’esatto opposto di quel che si voleva ottenere. Eppure, il numero delle citazioni è uno degli indicatori più sensati: se dunque anch’esso produce effetti perversi di questa portata, figuriamoci gli altri! E in effetti è proprio così. Ma, anziché insistere sugli effetti (su cui potrei andare avanti per ore, senza però aggiungere nulla di concettualmente nuovo), vorrei ora mettere in luce le cause.

O meglio, “la” causa, giacché alla base di tutto ciò sta un’unica idea: la pretesa di ridurre il giudizio qualitativo a un giudizio quantitativo, nella sciocca convinzione che solo quest’ultimo possa essere “oggettivo”, fraintendendo così completamente il vero senso del metodo scientifico. Pretendere di misurare ciò che per sua natura non è misurabile non è infatti segno di rigore, ma di stupidità.

Come ciononostante (e nonostante i suoi palesi effetti perversi) questa idea abbia potuto diffondersi così tanto è una domanda a cui si può rispondere o con un discorso molto lungo o con uno molto breve. Riservandomi quello lungo per un’altra occasione, qui risponderò nella forma breve.

In estrema sintesi, si può dire che da molti anni è in corso in Occidente una pericolosissima svalutazione del giudizio personale, che sempre più persone considerano irrimediabilmente “soggettivo”, non solo nel senso di “fallibile”, ma anche e soprattutto nel senso di “fonte inevitabile di corruzione e di discriminazione”, le due parole che più ossessionano gli uomini (e le donne) del nostro tempo, facendogli progressivamente perdere ogni capacità di ragionare.

Ma, ancor più in profondità, dietro a tutto questo si ritrova ancora e sempre la malattia mortale della modernità, ovvero il rifiuto radicale del rischio, di cui ho parlato molte volte sia in questo sito che nelle mie pubblicazioni. Perché è chiaro che il giudizio personale è un rischio. Ma è un rischio che non si può eliminare. O meglio, si può, ma a prezzo di eliminare con esso anche la libertà e quindi la creatività umana. Come infatti sta accadendo.

Per questo, come accennavo all’inizio, la presa di posizione dell’Università di Zurigo ha una portata potenzialmente rivoluzionaria, che va ben al di là del pur grave problema che l’ha provocata. Basti dire che la pretesa di sostituire il qualitativo con il quantitativo sta, fra l’altro, alla base di sistemi inaffidabili e potenzialmente deleteri come ChatGPT e i suoi “fratelli” (cfr. Luca Ricolfi, https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-limpostore-autorevole/ e Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-io-e-chat-lo-studente-zuccone/), che sarebbe bene cominciare a chiamare col loro giusto nome, che non è Intelligenza, bensì Stupidità Artificiale (cfr. Paolo Musso, A.S. – Artificial Stupidity, in “Bioethics Update” n. 2/2023, pp. 90-102, https://www.bioethicsupdate.com/frame_eng.php?id=57).

In particolare, mi ha colpito il fatto che gli svizzeri nel loro comunicato affermino che, «sebbene le classifiche pretendano di misurare in modo completo» le attività umane come l’insegnamento e la ricerca, in realtà «non possono farlo» («they cannot do so») e non semplicemente che “non devono farlo”, secondo l’atteggiamento oggi imperante che io chiamo “riduzionismo etico”. Nel nostro tempo scettico e stanco, infatti, qualsiasi affermazione che avanzi una pur minima pretesa di essere oggettivamente vera è di solito molto male accolta, mentre l’etica, anche se non è molto simpatica, è almeno tollerata, perché qualche regola di convivenza dobbiamo pur darcela.

Non che l’etica non sia importante, beninteso, ma il problema è che affrontare le sfide che abbiamo davanti solo dal punto di vista etico finisce inevitabilmente per ridurne (appunto) la portata, anche dallo stesso punto di vista etico (“bad science, bad ethics”, come dicono gli americani – anzi, come dicevano, prima di essere travolti dallo tsunami del rincoglionimento woke). Per questo quel «they cannot do so» è come una ventata d’aria fresca di straordinaria importanza.

Ma ancor più importante è che il comunicato affermi esplicitamente che il fallimento delle classifiche si verifica «perchéesse si incentrano su criteri quantitativi» («as they focus on quantitative criteria»), il che, in un momento storico in cui tutti cercano di convincerci che invece proprio questa è la strada da seguire, è davvero una rivoluzione

Una rivoluzione in cui «si privilegia la qualità piuttosto che la quantità» («the emphasis is on quality over quantity») e che perciò rimette al centro l’essere umano, con la sua rischiosa ma insostituibile libertà.

Una rivoluzione di cui il nostro mondo ha un disperato bisogno e in cui tutti devono decidersi a fare la loro parte, piccola o grande che sia.

Un primo, importantissimo passo sarebbe che altre Università, soprattutto le meglio posizionate nel ranking, lo abbandonassero, come ha fatto Zurigo.

Mai come in questo caso si può dire che il complimento più sincero è l’imitazione.

Giovani: vittime e viziati

22 Maggio 2023 - di Luca Ricolfi

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Quel che mi ha colpito, da quando è iniziata la protesta degli studenti “attendati” davanti alle università, è la forte presenza di reazioni non convenzionali, o in qualche modo inattese. Contrariamente a quel che accade su quasi tutto il resto, sulle “tende” destra e sinistra non appaiono compattamente schierate l’una a favore (la sinistra), l’altra contro (la destra). Ho ascoltato più volte parole di comprensione da parte di esponenti della maggioranza, ma anche parole di grande perplessità nel mondo progressista. Una parte della destra ammette che il problema è reale (oltreché antico), una parte della sinistra si chiede se, dare agli studenti un alloggio vicino all’università che frequentano, sia davvero una priorità.

Questa incertezza di giudizi ha una base logica più che comprensibile. Da un alto la mancanza di alloggi a prezzi accessibili è sicuramente un fattore che limita il diritto allo studio, ma dall’altro non si può ignorare il fatto che, comparati al vasto mondo dei lavoratori pendolari, gli studenti universitari – in media – costituiscono un segmento relativamente privilegiato (all’università accede circa 1 giovane su 2).

E tuttavia credo vi sia anche una ragione più profonda per cui, quando il discorso cade sulla condizione giovanile, è difficile assumere una posizione netta, e tantomeno sparare giudizi intransigenti o inappellabili. Il fatto è che, sulla condizione giovanile, convivono in Italia due racconti apparentemente opposti, ma entrambi fondati.

Il primo racconto osserva che in nessuna altra epoca è stato così alto il numero di giovani che possono permettersi di non fare nulla: né studio, né lavoro, né addestramento a un lavoro. In nessuna epoca del passato è stato possibile posticipare così a lungo l’ingresso nel mondo del lavoro (i cosiddetti Neet). Nessuna generazione precedente è stata allevata da genitori così protettivi, né da insegnanti così indulgenti. Di qui scaturiscono gli stereotipi classici, che dipingono i giovani come bamboccioni (Padoa Schioppa, 2007), schizzinosi o choosy (Elsa Fornero, 2012), sdraiati (Michele Serra, 2013). E, più recentemente, come fannulloni viziati dal reddito di cittadinanza. O come protagonisti della cosiddetta great resignation (gli autolicenziamenti di massa dopo il Covid, alla ricerca di un migliore equilibrio fra tempo di lavoro e tempo libero). O come generazione snowflake  (fiocco di neve), fragile e incapace di affrontare le difficoltà, di gestire gli insuccessi, di misurarsi con le opinioni altrui.

Il secondo racconto osserva che mai, nella storia repubblicana, sono state così poche, e così inadeguate alle aspirazioni, le occasioni di lavoro. Troppi posti di lavoro sono precari o sottopagati. Troppo incerte e modeste sono le possibilità di avanzamenti. Troppo forte è la tentazione di cercare all’estero quel che non si riesce a trovare in Italia. Di qui nascono i contro-stereotipi che descrivono i giovani nel registro vittimistico: sfruttati, emarginati, precarizzati, derubati del futuro.

Il fatto interessante è che entrambi gli stereotipi, quello di una generazione viziata e quello di una generazione vittima, posseggono qualcosa di più che un semplice “fondo di verità”. Certo, come tutti gli stereotipi semplificano e generalizzano incautamente, ma entrambi colgono un lato essenziale della condizione giovanile, e in questo senso sono non liquidabili. Si può inclinare verso l’uno o verso l’altro, ma non si può – se non si è accecati dall’ideologia – respingere totalmente una delle due semplificazioni come palesemente falsa. È qui, verosimilmente, l’origine dell’incertezza, della circospezione, talora dell’ambivalenza, con cui un po’ tutti ci accostiamo alla questione giovanile.

Ma c’è di più. I due stereotipi non solo sono entrambi a loro modo veritieri, ma sono strettamente connessi, perché hanno una radice comune. Se i giovani non trovano lavoro e (in tanti) possono permettersi di non cercarlo è anche perché, negli ultimi 60 anni, le generazioni immediatamente precedenti hanno radicalmente cambiato i propri modelli culturali. Al posto dell’etica del lavoro, del risparmio, dei sacrifici, dell’emancipazione attraverso la cultura, si sono affermati modelli di vita opposti, basati sul consumo, il tempo libero, il primato dell’autorealizzazione, l’iper-protezione di figli e allievi, il diritto al successo formativo. Tutto lecito, e forse auspicabile. Ma non privo di conseguenze, tutte ampiamente prevedibili: minore offerta di lavoro, distruzione della scuola e dell’università, progressivo deterioramento del “capitale umano”, rallentamento e poi arresto della formazione di posti di lavoro pregiati. Se ora i giovani non cercano lavoro, o non trovano il lavoro dei loro sogni, o quando lo trovano si scoprono inadeguati, è anche perché i loro padri e nonni a un certo punto hanno scelto di cambiare rotta. Hanno preferito raccogliere i frutti, piuttosto che continuare a seminare.

È questo che, a un certo punto, ha fermato la crescita. È questo che ha bloccato l’ascensore sociale. È per questo che i due stereotipi, quello del giovane viziato e quello del giovane vittima, non sono l’uno vero e l’altro falso, ma facce della medesima identica medaglia.

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