L’Università di Zurigo si ribella alla dittatura degli “indicatori”

Il 13 marzo scorso l’Università di Zurigo ha annunciato ufficialmente la sua decisione di abbandonare il sistema internazionale di valutazione delle università, usualmente chiamato THE perché pubblicato dalla rivista inglese Times Higher Education.

Ne parlo solo adesso perché solo adesso l’ho saputo, grazie alla segnalazione di un collega, che a sua volta ha ripreso un post pubblicato sulla pagina Facebook di un amico, che a sua volta riprendeva un trafiletto apparso sul sito svizzero swissinfo.ch, che a sua volta riprendeva il breve comunicato apparso sul sito dell’Università (https://www.news.uzh.ch/en/articles/news/2024/rankings.html). Un percorso quasi clandestino per una notizia che è stata quasi totalmente ignorata dai media (l’unica notizia in italiano che ho trovato su Internet è apparsa su Ticinonline ed era una semplice traduzione del trafiletto suddetto).

A prima vista tale disinteresse potrebbe apparire giustificato: perché infatti questa notizia dovrebbe importarci, in un momento in cui ben altri e ben più gravi sembrano essere i problemi?

La risposta è: esattamente perché così sembra, ma così non è. La decisione presa dall’Ateneo svizzero è potenzialmente rivoluzionaria, non solo rispetto al problema (comunque gravissimo) che affronta, ma soprattutto per la visione del mondo che vi sta dietro, che è diametralmente opposta a quella che sta alla radice di molti dei suddetti problemi apparentemente più gravi e più importanti.

Anzitutto, a scanso di equivoci, va detto che l’Università di Zurigo non ha preso questa decisione perché oggetto di una valutazione negativa: nell’ultima classifica si trovava infatti all’80° posto, che è un’ottima posizione, considerando che nel mondo esistono oltre 7000 università.

La ragione è che, come dice seccamente il comunicato, «la classifica non è in grado di riflettere l’ampio spettro di attività di insegnamento e ricerca intraprese dalle università». E questo perché «le classifiche generalmente si focalizzano su risultati misurabili, che possono avere conseguenze indesiderate, ad esempio portando le università a concentrarsi sull’aumento del numero di pubblicazioni invece che sul miglioramento della qualità dei loro contenuti».

Confesso che la cosa mi ha stupito, perché non credevo che in Europa ci fosse ancora qualcuno capace di prendere una posizione così forte e di dire parole così chiare e così controcorrente. Eppure, la cosa davvero sorprendente non dovrebbe essere la decisione degli svizzeri, ma piuttosto che ci sia voluto così tanto per arrivarci: da molti anni, infatti, tutti gli addetti ai lavori sanno perfettamente che le cose stanno così, ma ciononostante accettano supinamente questo sistema demenziale.

Giusto per dare l’idea a quelli che addetti ai lavori non sono, farò solo un esempio tra i tanti possibili: quello delle citazioni, che è particolarmente significativo perché a prima vista può sembrare sensato.

Nell’attuale sistema di valutazione si ritiene infatti che un buon indicatore del valore di un articolo, almeno nel campo delle scienze sperimentali, che hanno un metodo estremamente efficace per verificare la bontà delle teorie proposte, sia il numero delle volte che tale articolo è stato citato in altre pubblicazioni. Come ho detto, ciò può sembrare sensato, ma in pratica non lo è affatto e porta ad effetti gravemente distorsivi.

Anzitutto, c’è il problema delle autocitazioni. Un autore, infatti, può citare in ciascuna sua pubblicazione anche le proprie pubblicazioni precedenti e non solo quelle dei colleghi. Tuttavia, siccome il sistema funziona in automatico, gestito da computer che non sono in grado di distinguere, anche le autocitazioni vengono considerate valide.

Si potrebbe pensare che per rimediare basterebbe creare programmi più sofisticati che possano riconoscere e non considerare le autocitazioni, ma non è così: l’autocitazione individuale sta infatti cedendo il passo a quella di gruppo, che è praticamente impossibile da contrastare.

La scienza moderna, infatti, soprattutto in certi campi, come emblematicamente la fisica, può ormai avanzare solo grazie a esperimenti di estrema complessità, che coinvolgono decine o perfino centinaia di persone. Di conseguenza, quando alla fine si pubblica l’articolo che rende conto di tale esperimento vengono (giustamente) considerati coautori tutti quelli che vi hanno preso parte e non solo chi materialmente l’ha scritto, perché costui non ha fatto altro che presentare il risultato che tutti hanno concorso a produrre.

Tuttavia, è chiaro che ciò dà ai ricercatori che partecipano a tali esperimenti un enorme e ingiustificato vantaggio rispetto ai loro colleghi che lavorano da soli o in gruppi più piccoli. Infatti, ogni volta che uno dei coautori citerà l’articolo in un lavoro successivo, tutti gli altri “guadagneranno” una citazione. Di conseguenza, quanto più grande è il gruppo, tanto maggiore sarà (in media) il numero di citazioni che l’articolo otterrà, senza che ciò abbia la minima relazione con il suo valore.

Di nuovo, si potrebbe pensare che il problema si possa risolvere non ritenendo valide neppure le citazioni dei propri coautori, ma in realtà ciò non è possibile, perché si scontra con un’altra difficoltà, stavolta insormontabile.

Perlopiù, infatti, i coautori del primo articolo non lo citeranno in una pubblicazione individuale, ma in un’altra pubblicazione di gruppo, insieme ad altri coautori che non facevano parte del gruppo che ha scritto il primo articolo, il che impedisce di considerarla un’autocitazione, benché molto spesso lo sia. È chiaro, infatti, che, se uno dei coautori insiste per citare un articolo precedente di cui era coautore, anche se non è molto pertinente, ben difficilmente gli altri si opporranno, perché a loro volta avranno qualche altro articolo poco pertinente di cui sono coautori da citare.

Ma dovrebbe essere ormai altrettanto chiaro che tale perversa dinamica non dipende di per sé dall’esistenza (peraltro inevitabile) degli articoli di gruppo, ma dall’usare il numero di citazioni come metodo di valutazione.

Ciò, infatti, in primo luogo dà una rilevanza ingiustificata agli articoli scritti da molte persone e favorisce ingiustamente chi ha l’unico “merito” di far parte di grandi gruppi di ricerca. Inoltre, spinge inevitabilmente i ricercatori a usare il trucco delle autocitazioni di gruppo sopra descritto, il che è sì scorretto, ma spesso indispensabile per “sopravvivere” accademicamente.

Ma c’è di più. Ciò spinge anche i ricercatori ad aumentare il più possibile il numero di coautori, a volte inserendo anche colleghi che non hanno realmente contribuito (i quali, ovviamente, ricambieranno il favore alla prima occasione), perché questo, come abbiamo appena visto, aumenta le possibilità di essere citati (inoltre, la presenza di coautori, specie se internazionali, vale per un altro degli indicatori del valore di un articolo, ancora una volta a prescindere dal suo contenuto).

Infine, il sistema induce a pubblicare il maggior numero possibile di articoli, spesso parlando di cose insignificanti o “spezzettando” in varie parti un articolo interessante ma lungo, perché, di nuovo, così aumenta sia la possibilità di autocitarsi che la probabilità di essere citati da altri (senza contare che anche il numero di articoli pubblicati, indipendentemente dal loro valore, vale per un altro indicatore e quindi spinge nella stessa direzione).

Non ci vuole un genio per capire che tutto ciò alla lunga non può che causare una progressiva diminuzione della qualità della ricerca, cioè l’esatto opposto di quel che si voleva ottenere. Eppure, il numero delle citazioni è uno degli indicatori più sensati: se dunque anch’esso produce effetti perversi di questa portata, figuriamoci gli altri! E in effetti è proprio così. Ma, anziché insistere sugli effetti (su cui potrei andare avanti per ore, senza però aggiungere nulla di concettualmente nuovo), vorrei ora mettere in luce le cause.

O meglio, “la” causa, giacché alla base di tutto ciò sta un’unica idea: la pretesa di ridurre il giudizio qualitativo a un giudizio quantitativo, nella sciocca convinzione che solo quest’ultimo possa essere “oggettivo”, fraintendendo così completamente il vero senso del metodo scientifico. Pretendere di misurare ciò che per sua natura non è misurabile non è infatti segno di rigore, ma di stupidità.

Come ciononostante (e nonostante i suoi palesi effetti perversi) questa idea abbia potuto diffondersi così tanto è una domanda a cui si può rispondere o con un discorso molto lungo o con uno molto breve. Riservandomi quello lungo per un’altra occasione, qui risponderò nella forma breve.

In estrema sintesi, si può dire che da molti anni è in corso in Occidente una pericolosissima svalutazione del giudizio personale, che sempre più persone considerano irrimediabilmente “soggettivo”, non solo nel senso di “fallibile”, ma anche e soprattutto nel senso di “fonte inevitabile di corruzione e di discriminazione”, le due parole che più ossessionano gli uomini (e le donne) del nostro tempo, facendogli progressivamente perdere ogni capacità di ragionare.

Ma, ancor più in profondità, dietro a tutto questo si ritrova ancora e sempre la malattia mortale della modernità, ovvero il rifiuto radicale del rischio, di cui ho parlato molte volte sia in questo sito che nelle mie pubblicazioni. Perché è chiaro che il giudizio personale è un rischio. Ma è un rischio che non si può eliminare. O meglio, si può, ma a prezzo di eliminare con esso anche la libertà e quindi la creatività umana. Come infatti sta accadendo.

Per questo, come accennavo all’inizio, la presa di posizione dell’Università di Zurigo ha una portata potenzialmente rivoluzionaria, che va ben al di là del pur grave problema che l’ha provocata. Basti dire che la pretesa di sostituire il qualitativo con il quantitativo sta, fra l’altro, alla base di sistemi inaffidabili e potenzialmente deleteri come ChatGPT e i suoi “fratelli” (cfr. Luca Ricolfi, https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-limpostore-autorevole/ e Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-io-e-chat-lo-studente-zuccone/), che sarebbe bene cominciare a chiamare col loro giusto nome, che non è Intelligenza, bensì Stupidità Artificiale (cfr. Paolo Musso, A.S. – Artificial Stupidity, in “Bioethics Update” n. 2/2023, pp. 90-102, https://www.bioethicsupdate.com/frame_eng.php?id=57).

In particolare, mi ha colpito il fatto che gli svizzeri nel loro comunicato affermino che, «sebbene le classifiche pretendano di misurare in modo completo» le attività umane come l’insegnamento e la ricerca, in realtà «non possono farlo» («they cannot do so») e non semplicemente che “non devono farlo”, secondo l’atteggiamento oggi imperante che io chiamo “riduzionismo etico”. Nel nostro tempo scettico e stanco, infatti, qualsiasi affermazione che avanzi una pur minima pretesa di essere oggettivamente vera è di solito molto male accolta, mentre l’etica, anche se non è molto simpatica, è almeno tollerata, perché qualche regola di convivenza dobbiamo pur darcela.

Non che l’etica non sia importante, beninteso, ma il problema è che affrontare le sfide che abbiamo davanti solo dal punto di vista etico finisce inevitabilmente per ridurne (appunto) la portata, anche dallo stesso punto di vista etico (“bad science, bad ethics”, come dicono gli americani – anzi, come dicevano, prima di essere travolti dallo tsunami del rincoglionimento woke). Per questo quel «they cannot do so» è come una ventata d’aria fresca di straordinaria importanza.

Ma ancor più importante è che il comunicato affermi esplicitamente che il fallimento delle classifiche si verifica «perchéesse si incentrano su criteri quantitativi» («as they focus on quantitative criteria»), il che, in un momento storico in cui tutti cercano di convincerci che invece proprio questa è la strada da seguire, è davvero una rivoluzione

Una rivoluzione in cui «si privilegia la qualità piuttosto che la quantità» («the emphasis is on quality over quantity») e che perciò rimette al centro l’essere umano, con la sua rischiosa ma insostituibile libertà.

Una rivoluzione di cui il nostro mondo ha un disperato bisogno e in cui tutti devono decidersi a fare la loro parte, piccola o grande che sia.

Un primo, importantissimo passo sarebbe che altre Università, soprattutto le meglio posizionate nel ranking, lo abbandonassero, come ha fatto Zurigo.

Mai come in questo caso si può dire che il complimento più sincero è l’imitazione.




Giovani: vittime e viziati

Quel che mi ha colpito, da quando è iniziata la protesta degli studenti “attendati” davanti alle università, è la forte presenza di reazioni non convenzionali, o in qualche modo inattese. Contrariamente a quel che accade su quasi tutto il resto, sulle “tende” destra e sinistra non appaiono compattamente schierate l’una a favore (la sinistra), l’altra contro (la destra). Ho ascoltato più volte parole di comprensione da parte di esponenti della maggioranza, ma anche parole di grande perplessità nel mondo progressista. Una parte della destra ammette che il problema è reale (oltreché antico), una parte della sinistra si chiede se, dare agli studenti un alloggio vicino all’università che frequentano, sia davvero una priorità.

Questa incertezza di giudizi ha una base logica più che comprensibile. Da un alto la mancanza di alloggi a prezzi accessibili è sicuramente un fattore che limita il diritto allo studio, ma dall’altro non si può ignorare il fatto che, comparati al vasto mondo dei lavoratori pendolari, gli studenti universitari – in media – costituiscono un segmento relativamente privilegiato (all’università accede circa 1 giovane su 2).

E tuttavia credo vi sia anche una ragione più profonda per cui, quando il discorso cade sulla condizione giovanile, è difficile assumere una posizione netta, e tantomeno sparare giudizi intransigenti o inappellabili. Il fatto è che, sulla condizione giovanile, convivono in Italia due racconti apparentemente opposti, ma entrambi fondati.

Il primo racconto osserva che in nessuna altra epoca è stato così alto il numero di giovani che possono permettersi di non fare nulla: né studio, né lavoro, né addestramento a un lavoro. In nessuna epoca del passato è stato possibile posticipare così a lungo l’ingresso nel mondo del lavoro (i cosiddetti Neet). Nessuna generazione precedente è stata allevata da genitori così protettivi, né da insegnanti così indulgenti. Di qui scaturiscono gli stereotipi classici, che dipingono i giovani come bamboccioni (Padoa Schioppa, 2007), schizzinosi o choosy (Elsa Fornero, 2012), sdraiati (Michele Serra, 2013). E, più recentemente, come fannulloni viziati dal reddito di cittadinanza. O come protagonisti della cosiddetta great resignation (gli autolicenziamenti di massa dopo il Covid, alla ricerca di un migliore equilibrio fra tempo di lavoro e tempo libero). O come generazione snowflake  (fiocco di neve), fragile e incapace di affrontare le difficoltà, di gestire gli insuccessi, di misurarsi con le opinioni altrui.

Il secondo racconto osserva che mai, nella storia repubblicana, sono state così poche, e così inadeguate alle aspirazioni, le occasioni di lavoro. Troppi posti di lavoro sono precari o sottopagati. Troppo incerte e modeste sono le possibilità di avanzamenti. Troppo forte è la tentazione di cercare all’estero quel che non si riesce a trovare in Italia. Di qui nascono i contro-stereotipi che descrivono i giovani nel registro vittimistico: sfruttati, emarginati, precarizzati, derubati del futuro.

Il fatto interessante è che entrambi gli stereotipi, quello di una generazione viziata e quello di una generazione vittima, posseggono qualcosa di più che un semplice “fondo di verità”. Certo, come tutti gli stereotipi semplificano e generalizzano incautamente, ma entrambi colgono un lato essenziale della condizione giovanile, e in questo senso sono non liquidabili. Si può inclinare verso l’uno o verso l’altro, ma non si può – se non si è accecati dall’ideologia – respingere totalmente una delle due semplificazioni come palesemente falsa. È qui, verosimilmente, l’origine dell’incertezza, della circospezione, talora dell’ambivalenza, con cui un po’ tutti ci accostiamo alla questione giovanile.

Ma c’è di più. I due stereotipi non solo sono entrambi a loro modo veritieri, ma sono strettamente connessi, perché hanno una radice comune. Se i giovani non trovano lavoro e (in tanti) possono permettersi di non cercarlo è anche perché, negli ultimi 60 anni, le generazioni immediatamente precedenti hanno radicalmente cambiato i propri modelli culturali. Al posto dell’etica del lavoro, del risparmio, dei sacrifici, dell’emancipazione attraverso la cultura, si sono affermati modelli di vita opposti, basati sul consumo, il tempo libero, il primato dell’autorealizzazione, l’iper-protezione di figli e allievi, il diritto al successo formativo. Tutto lecito, e forse auspicabile. Ma non privo di conseguenze, tutte ampiamente prevedibili: minore offerta di lavoro, distruzione della scuola e dell’università, progressivo deterioramento del “capitale umano”, rallentamento e poi arresto della formazione di posti di lavoro pregiati. Se ora i giovani non cercano lavoro, o non trovano il lavoro dei loro sogni, o quando lo trovano si scoprono inadeguati, è anche perché i loro padri e nonni a un certo punto hanno scelto di cambiare rotta. Hanno preferito raccogliere i frutti, piuttosto che continuare a seminare.

È questo che, a un certo punto, ha fermato la crescita. È questo che ha bloccato l’ascensore sociale. È per questo che i due stereotipi, quello del giovane viziato e quello del giovane vittima, non sono l’uno vero e l’altro falso, ma facce della medesima identica medaglia.




Nelle nostre università chi ricerca non trova

Non c’è pace a Firenze. Dopo i due carabinieri accusati di aver violentato due studentesse americane, ora sono finiti nel mirino della Procura di quella città alcune dozzine di professori universitari, accusati di aver manipolato dei concorsi e intimidito un candidato, invitandolo a non presentarsi.

Da quando la notizia si è diffusa, non passa giorno senza che qualche collega professore universitario (anch’io insegno, nel Dipartimento di Psicologia di Torino) intervenga sulla vicenda. Leggendo i loro articoli e le loro prese di posizione, però,  mi rendo conto che – quando si parla di università – ognuno di noi pare aver visto un film diverso. C’è chi, come il celebre fisico Carlo Rovelli, racconta di essere stato ripetutamente escluso dall’Università italiana, ma conserva un’immagine mitica e idealizzata del mondo dell’Università stessa (“una delle migliori del mondo”) e della popolazione cui si rivolge (“una delle più colte, intellettualmente brillanti e vivaci del mondo”). Dunque l’Università ha solo bisogno “di risorse e di fiducia”.

C’è chi, come Massimo Cacciari, forse proprio perché non ne è stato escluso affatto, e la conosce dall’interno, si sofferma sul mondo kafkiano di regole e procedure in cui siamo costretti ad operare, e denuncia la finzione dell’autonomia degli atenei, che autonomi non sono affatto.

C’è chi, come Alessandro De Nicola, critica (giustamente, secondo me) i rimedi suggeriti da Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, e ripropone la via maestra dell’abolizione del valore legale del titolo di studio.

E infine c’è chi, come Elena Cattaneo (scienziata e senatrice a vita), si indigna e invita i ragazzi che aspirano a una carriera universitaria a ribellarsi, denunciando abusi e vessazioni, quasi fossero loro, con il loro coraggio e la loro dirittura morale, a poter cambiare l’Università e i suoi meccanismi.

E’ strano ma io, che lavoro all’Università dalla metà degli anni ’70, ho visto un altro film. Non è che non veda i problemi su cui i colleghi attirano l’attenzione, ma mi stupisco che così poca attenzione venga rivolta a due nodi che, almeno ai miei occhi e nei campi che mi è capitato di attraversare, sono molto più grandi di tutti gli altri.

Il primo nodo è che l’assenza di cultura meritocratica, nell’Università come nella maggior parte delle professioni intellettuali, è endemica, e sostanzialmente invariata rispetto a mezzo secolo fa. Gli episodi che ogni tanto vengono alla luce dalle rare inchieste della magistratura non sono dovuti a malversazioni di singoli professori, ma alla mentalità che da sempre circola nelle nostre istituzioni. Riassumerei questa mentalità con un semplice esempio. Quasi mai un professore, in Italia, perde la reputazione o il suo potere di influenza se mette in cattedra un mediocre, e neppure se promuove un perfetto imbecille.  E’ anzi abbastanza frequente che, proprio la capacità di promuovere chi non lo merita dimostri, agli occhi di molti colleghi, quanto potente egli sia. Un meccanismo, questo, che è sostanzialmente assente nelle grandi università degli altri paesi.

Quando si criticano i politici per le innumerevoli riforme sbagliate dell’Università si dovrebbe riflettere di più sul fatto che nessuna riforma può eliminare questa mentalità, e che viceversa basterebbe il declino di questa mentalità per rendere molto più meritocratiche le carriere universitarie. Insomma, nel film che ho visto io i professori sono protagonisti, non comparse incolpevoli vittime della cattiva politica.

Questo non vuol dire in alcun modo che la politica non abbia gravissime responsabilità nel disastro che ha colpito la scuola e l’università italiane. E qui veniamo al secondo nodo, di cui mi pare si parli troppo poco. In Italia, e solo in Italia, è stato messo in piedi un meccanismo di valutazione della produttività scientifica semplicemente aberrante, anche se basato su buone, anzi buonissime intenzioni (evitare gli arbitri). Ed è da tale meccanismo che dipendono le carriere dei giovani ricercatori.

Per spiegare ai non addetti ai lavori in che cosa questo meccanismo consista faccio un esempio. Ricordate Nadia Comăneci, la giovanissima ginnasta rumena che vinse innumerevoli medaglie negli anni ’70? Come si sa la carriera di una ginnasta dipende dai punteggi che le assegnano i giudici. Ebbene, immaginate che, dieci anni prima dei successi di Nadia, il ministro dello sport rumeno, per evitare favoritismi nelle assegnazioni dei punteggi, avesse sentenziato: “dato che i punteggi sono frutto di giudizi soggettivi, stabiliamo regole certe, assolutamente oggettive e impersonali: vince chi conclude l’esercizio nel tempo più breve”. E’ facile immaginare che nessuna ginnasta sarebbe diventata come Nadia Comăneci, e la sua disciplina avrebbe subito un’involuzione, per cui sgraziate fanciulle diventano abilissime nella particolare abilità che viene misurata e premiata.

E’ quel che sta succedendo all’Università italiana: poiché ogni ambito fissa minuziosamente le regole di valutazione, stiamo spegnendo ogni genuino interesse per gli interrogativi importanti della ricerca, e stiamo incentivando legioni di giovani a diventare macchine per massimizzare il criterio oggettivo su cui saranno giudicati (pubblicare su certi argomenti, certi tipi di lavori, in certe riviste, ecc.). Conosco persone che, non avendo ancora perso il gusto per la ricerca, allocano metà del loro tempo a fare “vera ricerca” e l’altra metà a pubblicare selvaggiamente cose che ritengono banali o irrilevanti ma che servono a non essere completamente esclusi dai percorsi di carriera.

E’ il caso di notare che questa aberrazione non investe solo i concorsi universitari, ma anche l’insegnamento nelle scuole. Proprio il fatto che studenti e insegnanti sappiano ex ante e con precisione in base a quali criteri verranno giudicati (in quale materia, in base a quali test) sta incentivando le pratiche del cosiddetto “teaching for the test”: preparare gli studenti non già a padroneggiare un campo del sapere, ma a superare un tipo particolarissimo di prove (ad esempio i test Invalsi).

Ma il punto è che è il principio in quanto tale che non funziona, non la sua cattiva o inadeguata applicazione. Se in un’attività complessa, in nome dell’oggettività, si viene giudicati solo in base a un suo aspetto particolare e quantificabile, quell’attività – alla lunga – non può non cambiare natura, impoverendosi e banalizzandosi.

Per concludere: checché ne pensino i magistrati e il pubblico, il nuovo sistema ha fortemente ridotto l’arbitrio nei concorsi; i casi come quello di Firenze sono molto più rari di un tempo. Il problema è che, per contenere l’arbitrio dei commissari dei concorsi, si stanno distruggendo le condizioni di base della ricerca, che deve essere libera, aperta, e sganciata dall’utile immediato. Una scelta sciagurata della politica, cui però la maggior parte del mondo universitario, negli ultimi dieci anni, ha trovato abbastanza facile adattarsi. Ancor oggi mi chiedo perché.

Pubblica su Panorama il 5 ottobre 2017



Test o croce, non è così che si fa la selezione

Fra proteste di piazza, ricorsi al Tar, scontri con le autorità accademiche, non è stato un settembre facile quello delle università italiane. Un po’ dappertutto è scoppiata la rivolta contro il numero chiuso, o “programmato”. E gli studenti hanno già raggiunto qualche risultato: il Tar del Lazio ha bocciato il numero chiuso alle facoltà umanistiche della Statale di Milano. Alla Sapienza è stato annullato il test di ingresso per le lauree magistrali di Psicologia: il test dovrà essere ripetuto. A Firenze, alcune incongruenze fra bando e contenuto delle domande hanno costretto ad ammettere tutti i 1329 studenti che avevano partecipato ai test per l’accesso alle facoltà di Biotecnologie, Scienze biologiche, Scienze farmaceutiche applicate – controllo qualità, Farmacia, Chimica e tecnologia farmaceutica.

La contestazione dei test poggia su due argomenti distinti. Primo, ogni diplomato dovrebbe essere libero di scegliere gli studi universitari che più lo appassionano, senza limitazioni. Secondo, i test di ingresso non sono un buon metodo per separare i migliori o i più adatti.

Hanno ragione gli studenti?

La mia esperienza di professore universitario mi dice che gli studenti, o meglio i rappresentanti degli studenti negli organi collegiali delle università, hanno quasi sempre torto (o perlomeno a me paiono averlo). Le loro rivendicazioni sono infatti quasi sempre attente agli aspetti organizzativi ed esteriori dello studio (ad esempio il numero di appelli) e mai a quelli culturali e sostanziali (come la qualità dei corsi, o il funzionamento dei laboratori). E tuttavia, in questo caso, penso che abbiano ragioni da vendere sue entrambi i punti.

Essi hanno certamente ragione sul test di ingresso per le matricole (studenti del 1° anno), che è uno strumento di incredibile rozzezza per valutare le attitudini e capacità dei futuri studenti universitari. La principale caratteristica che il test, molto imperfettamente, misura, è la velocità mentale, non certo la profondità o le capacità di organizzazione del pensiero, che in tante discipline sono ben più importanti della velocità.

Ma gli studenti hanno anche ragione sul principio generale per cui l’accesso all’università dovrebbe avvenire in base alle proprie inclinazioni ed aspirazioni, non in base a incerti calcoli sulle proprie probabilità di passare un test. E’ paradossale che ci si lamenti ad ogni piè sospinto del basso numero di laureati dell’Italia, e nello stesso tempo si ostacoli in ogni modo l’accesso all’università.

Tutto chiaro dunque? Si tratta solo di recepire la giusta richiesta degli studenti di una piena liberalizzazione degli accessi?

Assolutamente no. Il vero problema dell’università italiana non è che frotte di bravi studenti ne sono inclusi, il vero problema è che già oggi, nonostante gli ostacoli (spesso assurdi o artificiosi) che limitano il flusso degli ingressi, il numero di studenti che sono effettivamente in grado di effettuare studi di livello universitario è molto inferiore al numero di iscritti. Già così si laurea appena 1 studente su 2, ma credo che se facessimo seriamente il nostro lavoro di docenti, ovvero mantenessimo gli standard che erano propri dell’università di qualche decennio fa, dovremmo laurearne circa 1 su 5. O meglio: dovremmo laurearne leggermente di meno di oggi nelle facoltà scientifiche, il cui livello è rimasto decente, ma dovremmo laurearne quasi nessuno in quelle umanistiche, dove da decenni i professori assistono senza ribellarsi all’abbassamento degli standard.

Che fare, dunque?

Se ci fossero risorse, molte risorse, una soluzione ragionevole sarebbe adottare il cosiddetto “sistema francese”, che è basato su un semplice principio: iscriviti pure all’università, ma se dopo 1-2 anni non sei a posto con gli esami ti fermi lì. Il problema è che il sistema francese non funziona granché nemmeno in Francia, perché non ci sono abbastanza aule, laboratori, professori, tutor, per permettere a un’enorme massa di giovani di “provare” se sono adatti al tipo di studi che hanno scelto.

L’altra soluzione, ancora più utopistica, sarebbe di costringere le scuole – con un sistema di sorveglianza efficace – a non regalare pezzi di carta che valgono poco in generale, e soprattutto hanno valori del tutto diversi nelle varie parti del paese (studi accurati hanno dimostrato che, mediamente, un 7 dato a Napoli equivale a un 5 dato a Milano). Se le scuole non falsificassero sistematicamente i titoli di studio, certificando competenze inesistenti, l’accesso all’università potrebbe essere ragionevolmente regolato dal voto di maturità, o dalle pagelle degli ultimi anni di scuola secondaria superiore.

Ci sono altre soluzioni?

Io non ne vedo. Ma è uno dei tanti pregiudizi dell’umanità pensare che, per un problema, esista sempre una soluzione. I problemi insolubili esistono. E quello sollevato dalle giuste proteste degli studenti in questo inizio di anno accademico ne è un ottimo esempio.

Pubblicato su Panorama il 21 settembre 2017