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Trattori e sinistra in Europa

4 Febbraio 2024 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo pianoPolitica

La protesta degli agricoltori che infuria in Europa non è del tutto nuova. Almeno superficialmente, si potrebbero indicare due precedenti: il movimento dei “forconi”, che tra alterne vicende serpeggiò in Italia fra il 2011 e il 2013, e il movimento dei gilet gialli, che paralizzò la Francia dalla fine del 2018 ai primi mesi del 2019. Anche allora uno dei temi centrali della protesta era il prezzo dei carburanti; anche allora un ruolo centrale venne svolto da agricoltori e autotrasportatori; anche allora le simpatie verso quei movimenti venivano più da destra che da sinistra.

Queste analogie, tuttavia, non devono trarci in inganno. Il movimento di oggi è diverso, molto diverso da quelli di allora. La prima differenza che balza agli occhi è il carattere transnazionale della protesta odierna, partita da Olanda e Belgio ma rapidamente propagatasi ai principali paesi europei, fra cui Francia, Italia, Polonia, Spagna, Romania. La seconda differenza è che ora, al centro delle contestazioni, ci sono le politiche europee in materia di ambiente (il cosiddetto green deal), con le loro ripercussioni sulla PAC, la politica agricola comune: più restrizioni, maggiori costi, minori sussidi. Soprattutto: concorrenza sleale dei paesi da cui importiamo prodotti alimentari (un tema già sollevato, ben venti anni fa, da Giulio Tremonti nel suo libro Rischi fatali)

La terza differenza è che, mentre in passato l’approssimarsi delle elezioni europee aveva finito per spegnere le proteste (nel 2014 quella dei forconi, nel 2019 quella dei gilet gialli), oggi sembra accadere l’esatto contrario: il movimento dei trattori si espande e si rafforza man mano che ci avviciniamo alla data delle europee.

La ragione è semplice: oggi il cuore della protesta non sono le scelte specifiche dei governi nazionali, ma è l’orientamento complessivo della politica europea non solo in materia agricola, ma – più in generale – in tutte le materie sulle quali le scelte pro-ambiente della Commissione Europea mettono a repentaglio redditi, posti di lavoro, aziende, valore degli immobili. È il caso, per fare solo i due esempi più macroscopici, delle direttive in materia di motori termici (che comporteranno il deprezzamento del parco veicoli attualmente circolanti), e delle direttive in materia di abitazioni (che costringeranno i proprietari a scegliere fra costosi efficientamenti energetici e ingenti perdite di valore degli immobili posseduti).

È difficile prevedere come tutto ciò potrà influenzare il voto europeo di giugno. Quel che però, fin da ora, è abbastanza evidente, è che questa protesta impatta in modo asimmetrico sulla destra e sulla sinistra. I socialisti, da sempre in sintonia con gli orientamenti dirigisti della Commissione, rischiano di perdere ulteriori consensi tra i ceti popolari. Specularmente, le forze di destra (Riformisti Conservatori e Identità e Democrazia) hanno l’opportunità – ma forse si dovrebbe dire: un’opportunità unica – di consolidare il proprio consenso fra i ceti popolari, finora alimentato soprattutto dalle preoccupazioni in materia di criminalità e immigrazione.

È uno sbocco inevitabile?

Non credo. Molto dipende da come è fatta, e soprattutto da quanto è pluralistica, l’offerta politica della sinistra nei vari paesi. Se i principali partiti di sinistra sono compattamente schierati pro-immigrazione e pro-transizione ecologica, secondo l’ortodossia finora prevalente a Bruxelles, sono destinati a rafforzare il trend che, ormai da diversi decenni, ha fatto della sinistra la rappresentante privilegiata dei ceti medi e benestanti. E, specularmente, a perfezionare la migrazione dei ceti popolari sotto le ali dei partiti di destra, più o meno estrema.

Dove invece la sinistra prova a essere recettiva delle inquietudini popolari, come in Francia, in Danimarca, in Germania, e fuori dell’Ue nel Regno Unito, i giochi sono più aperti, come già si vede dalle elezioni più recenti e dai sondaggi. Nel Regno Unito e in Danimarca, da qualche anno ha preso forma una sinistra securitaria, talora non insensibile al tradizionalismo dei ceti popolari (penso in particolare al leader laburista Keir Starmer). In Francia, da tempo esiste una formazione di sinistra – La France Insoumise di Mélenchon – che, anche in virtù delle sue posizioni critiche sull’accoglienza, mette un argine al flusso di voti verso la destra di Marine Le Pen. In Germania, con la nascita del partito di Sahra Wagenknecht (BSW), qualcosa di analogo sta nascendo da un scissione della Linke, il partito di estrema sinistra molto radicato nelle regioni dell’Est.

E in Italia?

In Italia, a sinistra, non muove foglia che Schlein non voglia. La nuova segretaria del Pd appare ben decisa a perseverare sui pilastri ideologici della linea seguita fin qui: diritti LGBT, migranti, transizione green. Una formula perfetta per fare il pieno di voti dei ceti medi urbani, istruiti e riflessivi. Lasciando ai Cinque Stelle, ma soprattutto alle destre, di raccogliere il voto dei colletti blu, delle periferie, delle campagne. Un mondo di cui i trattori stanno diventando il simbolo.

Giovani: vittime e viziati

22 Maggio 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Quel che mi ha colpito, da quando è iniziata la protesta degli studenti “attendati” davanti alle università, è la forte presenza di reazioni non convenzionali, o in qualche modo inattese. Contrariamente a quel che accade su quasi tutto il resto, sulle “tende” destra e sinistra non appaiono compattamente schierate l’una a favore (la sinistra), l’altra contro (la destra). Ho ascoltato più volte parole di comprensione da parte di esponenti della maggioranza, ma anche parole di grande perplessità nel mondo progressista. Una parte della destra ammette che il problema è reale (oltreché antico), una parte della sinistra si chiede se, dare agli studenti un alloggio vicino all’università che frequentano, sia davvero una priorità.

Questa incertezza di giudizi ha una base logica più che comprensibile. Da un alto la mancanza di alloggi a prezzi accessibili è sicuramente un fattore che limita il diritto allo studio, ma dall’altro non si può ignorare il fatto che, comparati al vasto mondo dei lavoratori pendolari, gli studenti universitari – in media – costituiscono un segmento relativamente privilegiato (all’università accede circa 1 giovane su 2).

E tuttavia credo vi sia anche una ragione più profonda per cui, quando il discorso cade sulla condizione giovanile, è difficile assumere una posizione netta, e tantomeno sparare giudizi intransigenti o inappellabili. Il fatto è che, sulla condizione giovanile, convivono in Italia due racconti apparentemente opposti, ma entrambi fondati.

Il primo racconto osserva che in nessuna altra epoca è stato così alto il numero di giovani che possono permettersi di non fare nulla: né studio, né lavoro, né addestramento a un lavoro. In nessuna epoca del passato è stato possibile posticipare così a lungo l’ingresso nel mondo del lavoro (i cosiddetti Neet). Nessuna generazione precedente è stata allevata da genitori così protettivi, né da insegnanti così indulgenti. Di qui scaturiscono gli stereotipi classici, che dipingono i giovani come bamboccioni (Padoa Schioppa, 2007), schizzinosi o choosy (Elsa Fornero, 2012), sdraiati (Michele Serra, 2013). E, più recentemente, come fannulloni viziati dal reddito di cittadinanza. O come protagonisti della cosiddetta great resignation (gli autolicenziamenti di massa dopo il Covid, alla ricerca di un migliore equilibrio fra tempo di lavoro e tempo libero). O come generazione snowflake  (fiocco di neve), fragile e incapace di affrontare le difficoltà, di gestire gli insuccessi, di misurarsi con le opinioni altrui.

Il secondo racconto osserva che mai, nella storia repubblicana, sono state così poche, e così inadeguate alle aspirazioni, le occasioni di lavoro. Troppi posti di lavoro sono precari o sottopagati. Troppo incerte e modeste sono le possibilità di avanzamenti. Troppo forte è la tentazione di cercare all’estero quel che non si riesce a trovare in Italia. Di qui nascono i contro-stereotipi che descrivono i giovani nel registro vittimistico: sfruttati, emarginati, precarizzati, derubati del futuro.

Il fatto interessante è che entrambi gli stereotipi, quello di una generazione viziata e quello di una generazione vittima, posseggono qualcosa di più che un semplice “fondo di verità”. Certo, come tutti gli stereotipi semplificano e generalizzano incautamente, ma entrambi colgono un lato essenziale della condizione giovanile, e in questo senso sono non liquidabili. Si può inclinare verso l’uno o verso l’altro, ma non si può – se non si è accecati dall’ideologia – respingere totalmente una delle due semplificazioni come palesemente falsa. È qui, verosimilmente, l’origine dell’incertezza, della circospezione, talora dell’ambivalenza, con cui un po’ tutti ci accostiamo alla questione giovanile.

Ma c’è di più. I due stereotipi non solo sono entrambi a loro modo veritieri, ma sono strettamente connessi, perché hanno una radice comune. Se i giovani non trovano lavoro e (in tanti) possono permettersi di non cercarlo è anche perché, negli ultimi 60 anni, le generazioni immediatamente precedenti hanno radicalmente cambiato i propri modelli culturali. Al posto dell’etica del lavoro, del risparmio, dei sacrifici, dell’emancipazione attraverso la cultura, si sono affermati modelli di vita opposti, basati sul consumo, il tempo libero, il primato dell’autorealizzazione, l’iper-protezione di figli e allievi, il diritto al successo formativo. Tutto lecito, e forse auspicabile. Ma non privo di conseguenze, tutte ampiamente prevedibili: minore offerta di lavoro, distruzione della scuola e dell’università, progressivo deterioramento del “capitale umano”, rallentamento e poi arresto della formazione di posti di lavoro pregiati. Se ora i giovani non cercano lavoro, o non trovano il lavoro dei loro sogni, o quando lo trovano si scoprono inadeguati, è anche perché i loro padri e nonni a un certo punto hanno scelto di cambiare rotta. Hanno preferito raccogliere i frutti, piuttosto che continuare a seminare.

È questo che, a un certo punto, ha fermato la crescita. È questo che ha bloccato l’ascensore sociale. È per questo che i due stereotipi, quello del giovane viziato e quello del giovane vittima, non sono l’uno vero e l’altro falso, ma facce della medesima identica medaglia.

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