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Economia cannibale

1 Giugno 2023 - di Luciana Piddiu

EconomiaIn primo piano

Per migliaia di anni le più antiche comunità umane hanno praticato il cannibalismo, o fatto ricorso a sacrifici umani a scopo rituale. Poi si sono stabiliti dei tabù e queste pratiche sono state messe al bando per sempre. Per questa ragione dobbiamo essere ottimisti sulla possibilità di riuscire a superare, nella faticosa strada del divenire umani, anche quella che Jean Daniel Rainhorn, professore dell’Università di Ginevra, chiama ‘economia cannibale’.

Rientrano in questa categoria le pratiche di economia globalizzata neo-liberale che hanno per oggetto di scambio, singole parti del corpo umano o corpi nella loro interezza. Banche -non a caso si chiamano così- del seme e degli ovociti, uteri in affitto per la maternità surrogata, compravendita di gameti, di organi e di patrimonio genetico, traffico di esseri umani per la loro riduzione in schiavitù e/o prostituzione. È una nuova branca dell’economia che cannibalizza gli esseri viventi. Il corpo degli umani è considerato puro assemblaggio di organi e il vivente diventa una risorsa materiale. A chi può permettersi di acquistarlo è riconosciuto il ‘diritto’ o la facoltà di farlo. Questa economia neo-liberale ha progressivamente ridotto gli esseri umani a ‘risorse biologiche’ introducendo un processo di reificazione e riduzione a merce dei soggetti.

Il processo è cominciato negli anni ’80 del Novecento con la pratica della brevettabilità. Sulla spinta di società di bio-ingegneria coadiuvate da genetisti di fama e da una certa lobby di medici sono stati depositati brevetti su organismi viventi, geneticamente modificati e non, e su intere sequenze genetiche, comprese quelle umane.

La filiera del mercato globale per la produzione di bambini come prodotti di qualità (quelli difettosi sono scartati e le madri surrogate in questo caso non vengono pagate) è -dopo la riduzione in schiavitù -la più grande violenza che si possa immaginare fatta a donne e bambini. Ma l’economia cannibale produce enormi profitti.

Un altro ramo fiorente di questa economia è quello legato ai percorsi di transizione da maschio a femmina e viceversa. Percorsi che richiedono un precoce bombardamento ormonale di bambine e bambine al fine di adeguare attraverso la chimica il senso di sé al corpo considerato ‘sbagliato’.

Alcune di queste pratiche sono intimamente legate al filone di pensiero conosciuto come transumanesimo. Se vogliamo sconfiggerle e metterle al bando per sempre è necessario fare un passo indietro e risalire alle riflessioni di alcune pensatrici che con le loro teorie hanno fortemente contribuito all’affermazione di questa deriva .

Donna Haraway col suo Manifesto cyborg (1985) e Judith Butler col suo Gender trouble (1990) hanno ingaggiato vere e proprie colluttazioni teoriche con la carne umana come ha acutamente osservato M.Terragni in un recente articolo.

Judith Butler ha sempre sostenuto che il sesso è costruito culturalmente proprio come il genere, frutto di un atto linguistico performativo. Anche il corpo è dunque una costruzione e non ha un significato prima di essere ‘marcato’ dal punto di vista del genere. La realtà del corpo ha perso ogni consistenza fino a scomparire. E il primo corpo a dover scomparire è quello della donna. Ma il dato biologico cacciato dalla porta finisce col rientrare dalla finestra quando si teorizza la ‘vulnerabilità’ dei corpi viventi (Bodies that matter). Essa non è una costruzione linguistica ma attiene strettamente alla fragilità e mortalità dell’essere umano.

Donna Haraway invece ha spinto fino in fondo le sue riflessioni sulle implicazioni della tecnologia e della scienza sulla vita degli esseri umani. Il cyborg, organismo cibernetico, ibrido tra macchina ed essere umano permette di comprendere come la pretesa ‘naturalità’ dell’uomo sia in realtà una costruzione culturale. Il corpo diventa territorio sperimentazione e di manipolazione. Il corpo smette dunque di essere inalterato e intoccabile: può essere trasformato e gestito a piacimento. Cade il mito che vede il corpo come sede di una naturalità opposta all’artificiosità e crolla di conseguenza il sistema di pensiero occidentale incentrato sulla contrapposizione degli opposti. Il cyborg non è né macchina né uomo, né maschio né femmina. Cadono tutti i confini e tutti i dualismi. Uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente, umano /animale ecc. In questo percorso Donna Haraway è cosi approdata a quella che J.F. Braunstein definisce zoofilia cosmica. Nel suo ‘Manifesto delle specie compagne’ e nel successivo ‘Quando le specie si incontrano’ esalta la relazione sessuale molto soddisfacente con la sua cagnetta Cayenne Pepper e i suoi baci profondi e umidi. Siamo quindi arrivati a una sorta di butlerismo reale egemonizzato dal mercato che ha saputo intercettare i desideri e le fantasie circolanti per farne prodotti liberamente acquistabili.

Il lavoro da fare per superare le risposte del mercato neoliberale capitalistico è quello di una battaglia culturale e politica profonda e senza compromessi. ‘Liberi di…liberi da ‘ lo slogan che faceva presagire una mitica età dell’oro in cui tutto sarebbe stato concesso (fors’anche l’immortalità) e non ci sarebbero stati vincoli di sorta al desiderio di onnipotenza, ha mostrato crepe insanabili.

Ci si può liberare dagli stereotipi e dalle costrizioni con un assiduo lavoro di introspezione, ma c’è una cosa da cui in nessun modo ci si può liberare: la condizione umana. Quella che Hannah Arendt ha messo al centro della sua riflessione in Vita Activa. ’La condizione umana designa ciò che segna il nostro essere al mondo, quel che non dipende da noi, che ci è dato senza averlo scelto. Ciò da cui si parte. Essa condiziona qualsiasi posizione noi assumiamo nei suoi confronti, compresa quella della sua negazione. Detto in altri termini la sua caratteristica è l’irriducibilità, rappresenta di fatto il limite primo costitutivo da cui non si può prescindere in quanto oltrepassa il nostro controllo e la nostra presa’( D.Sartori).

Questo non impedisce beninteso la nostra libertà che si sperimenta come realtà concreta nello spazio pubblico, nell’agire politico con gli altri esseri umani dando inizio a qualcosa di inedito e di inatteso. É la natalità che designa questo aspetto della condizione umana in virtù della quale siamo capaci di introdurre qualcosa di nuovo .

Per tornare alla differenza sessuale da cui siamo partiti essa non è riducibile al discorso e al linguaggio ma è un dato reale nell’accezione corrente del termine. Le teorie del gender si sono affermate e imposte sulla scia dei rivolgimenti seguiti all’onda lunga del ’68, al ‘vietato vietare’, ’l’immaginazione al potere’….come un vero e proprio imperialismo culturale. Esse hanno cancellato con un colpo di spugna il senso della differenza sessuale, che non attiene soltanto all’ordine simbolico, ma all’ordine di quei dati di fatto irriducibili che lo stesso ordine simbolico deve assumere muovendosi tra la condizione di necessità e quella di libertà. Il taglio della differenza sessuale operato dal femminismo ha rimesso in gioco la linea di demarcazione tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. Non siamo liberi dalla condizione data ma liberi nell’attribuzione di senso di quella condizione. Dobbiamo tenere insieme i due poli, necessità/ libertà, sapendo riconoscere quel che dipende da noi e quel che non dipende da noi.

La teoria gender ha finito per dimenticare il corpo, ma il corpo è il primo confine. E non bisogna dimenticare mai che non c’è simmetria tra i sessi. C’è solo un corpo che ha la capacità di generare, quello delle donne, e non sarà certo il linguaggio che invoca un presunto ‘diritto di procreare’ a cambiare il dato puro e semplice.

Il pensiero queer, che prende le mosse da quello gender, punta all’indifferenza sessuale esaltando l’egualitarismo. In questo modo la differenza sessuale diventa una sorta di variabile corporea buona per tutti gli usi che se ne vogliano fare in continuità col sogno prometeico di liberarsi dal peso del corpo superando quella che Gunther Anders chiamava la vergogna di non essersi fatti da sé.

Il pensiero della differenza ci ha reso libere dalla coercizione di ruoli imposti e accettati come destino naturale dovuto alla nostra differenza ma ci ha ha anche liberato dalla ossessione emancipazionista che ci vuole uguali agli uomini in tutto e per tutto, neutre, rendendo insignificante la nostra differenza. Noi però non abbiamo mai dimenticato che la nostra libertà non è onnipotente, non è incondizionata ma è capace di riconoscere la condizione umana incarnata che può fondare un nuovo umanesimo a radice materna, dove la relazione madre/figli sia nuovamente centrale nel percorso del divenire umani.

Luciana Piddiu
Ferney Voltaire 31 Maggio 2023

Sull’inattualità di don Milani

29 Maggio 2023 - di Luca Ricolfi

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Inevitabilmente, in questi giorni in cui ricorre il centenario della nascita di don Milani, si moltiplicheranno le celebrazioni del suo pensiero, della sua opera, della sua perdurante attualità. Non so se sia il modo giusto di ricordarlo, se sia questo il modo migliore per onorare i grandi del passato. Provo sempre un po’ di disagio, quando un autore classico viene usato per fargli dire quel che piace a noi, che viviamo in un’epoca completamente diversa. Dante era di destra? Manzoni ci invita a non parlare di etnie? Don Milani ci dice come dovrebbe essere la scuola oggi?

Proprio per questo, ho accolto con sollievo l’uscita, giusto in questi giorni, di un libriccino di Adolfo Scotto di Luzio (uno dei più autorevoli studiosi della storia della scuola), che parla del Priore e della sua opera in un modo diverso, non agiografico né strumentale, e che definirei semplicemente rispettoso (L’equivoco don Milani, Einaudi). Rispettoso perché filologico, perché si sforza – attraverso gli scritti – di farci entrare nella testa del Priore, con le sue ansie, i suoi sogni, il suo modo di vedere le cose. Evitando di ridurre “una figura così complessa, piena di tante cose, ambigua, contraddittoria e indubbiamente carica di fascino” al “figurino senza spessore del pedagogismo nostrano”.

Il risultato dell’operazione è spiazzante, perché non ci fornisce affatto – come spesso si presume – una soluzione ai problemi della scuola di oggi. Ma semmai ci rivela la radicale inattualità del pensiero di don Milani, una inattualità che, fin da subito, fu pienamente intuita da Pasolini, e da pochissimi altri. Lettera a una professoressa, spiega Scotto di Luzio, “è un pressante invito ad abbandonare ambizioni e illusioni del moderno”. Don Milani detestava il gioco, il pallone, il biliardo, il divertimento, la televisione, persino la ricreazione scolastica. Considerava egoistico persino avere una ragazza, farsi una famiglia, studiare all’università, aspirare a una professione come chirurgo o ingegnere. Le uniche professioni che considerava degne di stima erano, nell’ordine: prete, maestro, sindacalista, politico. La sua scuola era durissima, senza pause, e non disdegnava il ricorso alle maniere forti. Se avesse potuto vedere la scuola (e la gioventù) di oggi, don Milani ne avrebbe avuto orrore. Consumismo e volontà di autorealizzazione, cardini del nostro tempo, erano per lui debolezze piccolo-borghesi: solo la dedizione totale agli altri rendeva una vita degna di essere vissuta.

Ma qual era l’idea di scuola pubblica del Priore?

Fondamentalmente, poggiava su tre cardini. Primo, la cultura popolare, e contadina in particolare, fatta di esperienza e saperi pratici, ha pari dignità rispetto alla cultura alta, formale, borghese, insegnata nelle scuole. Secondo, la scuola dell’obbligo dovrebbe riconoscere il pieno valore della cultura popolare, e rinunciare a trasmettere conoscenze prive di utilità pratica (matematica, letteratura, filosofia, ecc.), puntando tutte le carte sull’attualità (leggere i giornali) e sul controllo della lingua (non solo italiana). Terzo, l’orario scolastico dovrebbe essere molto più lungo, perché è nelle ore di non-scuola che i figli dei ricchi acquisiscono un vantaggio rispetto a quelli dei poveri, costretti a lavorare quando non sono a scuola (di qui il favore con cui don Milani vedeva il “pieno tempo”, e persino le “classi differenziali”).

Da questo complesso di idee derivava una conseguenza fondamentale. Diversamente da Gramsci, da Concetto Marchesi, e dallo stesso Togliatti, don Milani non vedeva l’accesso alla cultura alta come strumento di elevazione ed emancipazione degli strati popolari. Per lui, come per Pierre Bourdieu pochi anni dopo, la cultura alta era uno strumento di dominio, che imponeva saperi arbitrari, fatti apposta per consentire ai ricchi di umiliare ed escludere i poveri. Come tale, andava lasciata ai ceti alti e a quanti, fra i poveri, preferivano tradire la loro classe di origine, sottomettendosi alla scuola borghese e frequentando quelle che don Milani spregiativamente considerava “Scuole di Servizio dell’Io”, università e licei in particolare.

In questa sua visione dei compiti dell’istruzione, don Milani si situa agli antipodi del pensiero dei Padri Costituenti, in particolare di Piero Calamandrei. Per loro la scuola doveva rompere il monopolio borghese della cultura, facendo sì che la nuova classe dirigente dell’Italia repubblicana potesse attingere alle forze migliori di ogni ceto sociale. Era a questo alto compito che guardava l’articolo 34 della Costituzione, che al comma 2 recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”.

Piero Calamandrei considerava quell’articolo il più importante della Costituzione. Don Milani, invece, detestava l’articolo 34. Per lui, diventando chirurgo o ingegnere, il povero perdeva la sua purezza, il suo legame con i compagni, l’appartenenza al magico universo della cultura popolare. Premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi” non era la strada giusta. E infatti non fu seguita. Le borse di studio che l’articolo 34 prometteva (al comma 3) sono rimaste in gran parte sulla carta: don Milani ha vinto, Piero Calamandrei ha perso.

Fu un bene? Fu un male? Su questo, fra una celebrazione e l’altra, forse varrebbe la pena riflettere.

Giovani: vittime e viziati

22 Maggio 2023 - di Luca Ricolfi

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Quel che mi ha colpito, da quando è iniziata la protesta degli studenti “attendati” davanti alle università, è la forte presenza di reazioni non convenzionali, o in qualche modo inattese. Contrariamente a quel che accade su quasi tutto il resto, sulle “tende” destra e sinistra non appaiono compattamente schierate l’una a favore (la sinistra), l’altra contro (la destra). Ho ascoltato più volte parole di comprensione da parte di esponenti della maggioranza, ma anche parole di grande perplessità nel mondo progressista. Una parte della destra ammette che il problema è reale (oltreché antico), una parte della sinistra si chiede se, dare agli studenti un alloggio vicino all’università che frequentano, sia davvero una priorità.

Questa incertezza di giudizi ha una base logica più che comprensibile. Da un alto la mancanza di alloggi a prezzi accessibili è sicuramente un fattore che limita il diritto allo studio, ma dall’altro non si può ignorare il fatto che, comparati al vasto mondo dei lavoratori pendolari, gli studenti universitari – in media – costituiscono un segmento relativamente privilegiato (all’università accede circa 1 giovane su 2).

E tuttavia credo vi sia anche una ragione più profonda per cui, quando il discorso cade sulla condizione giovanile, è difficile assumere una posizione netta, e tantomeno sparare giudizi intransigenti o inappellabili. Il fatto è che, sulla condizione giovanile, convivono in Italia due racconti apparentemente opposti, ma entrambi fondati.

Il primo racconto osserva che in nessuna altra epoca è stato così alto il numero di giovani che possono permettersi di non fare nulla: né studio, né lavoro, né addestramento a un lavoro. In nessuna epoca del passato è stato possibile posticipare così a lungo l’ingresso nel mondo del lavoro (i cosiddetti Neet). Nessuna generazione precedente è stata allevata da genitori così protettivi, né da insegnanti così indulgenti. Di qui scaturiscono gli stereotipi classici, che dipingono i giovani come bamboccioni (Padoa Schioppa, 2007), schizzinosi o choosy (Elsa Fornero, 2012), sdraiati (Michele Serra, 2013). E, più recentemente, come fannulloni viziati dal reddito di cittadinanza. O come protagonisti della cosiddetta great resignation (gli autolicenziamenti di massa dopo il Covid, alla ricerca di un migliore equilibrio fra tempo di lavoro e tempo libero). O come generazione snowflake  (fiocco di neve), fragile e incapace di affrontare le difficoltà, di gestire gli insuccessi, di misurarsi con le opinioni altrui.

Il secondo racconto osserva che mai, nella storia repubblicana, sono state così poche, e così inadeguate alle aspirazioni, le occasioni di lavoro. Troppi posti di lavoro sono precari o sottopagati. Troppo incerte e modeste sono le possibilità di avanzamenti. Troppo forte è la tentazione di cercare all’estero quel che non si riesce a trovare in Italia. Di qui nascono i contro-stereotipi che descrivono i giovani nel registro vittimistico: sfruttati, emarginati, precarizzati, derubati del futuro.

Il fatto interessante è che entrambi gli stereotipi, quello di una generazione viziata e quello di una generazione vittima, posseggono qualcosa di più che un semplice “fondo di verità”. Certo, come tutti gli stereotipi semplificano e generalizzano incautamente, ma entrambi colgono un lato essenziale della condizione giovanile, e in questo senso sono non liquidabili. Si può inclinare verso l’uno o verso l’altro, ma non si può – se non si è accecati dall’ideologia – respingere totalmente una delle due semplificazioni come palesemente falsa. È qui, verosimilmente, l’origine dell’incertezza, della circospezione, talora dell’ambivalenza, con cui un po’ tutti ci accostiamo alla questione giovanile.

Ma c’è di più. I due stereotipi non solo sono entrambi a loro modo veritieri, ma sono strettamente connessi, perché hanno una radice comune. Se i giovani non trovano lavoro e (in tanti) possono permettersi di non cercarlo è anche perché, negli ultimi 60 anni, le generazioni immediatamente precedenti hanno radicalmente cambiato i propri modelli culturali. Al posto dell’etica del lavoro, del risparmio, dei sacrifici, dell’emancipazione attraverso la cultura, si sono affermati modelli di vita opposti, basati sul consumo, il tempo libero, il primato dell’autorealizzazione, l’iper-protezione di figli e allievi, il diritto al successo formativo. Tutto lecito, e forse auspicabile. Ma non privo di conseguenze, tutte ampiamente prevedibili: minore offerta di lavoro, distruzione della scuola e dell’università, progressivo deterioramento del “capitale umano”, rallentamento e poi arresto della formazione di posti di lavoro pregiati. Se ora i giovani non cercano lavoro, o non trovano il lavoro dei loro sogni, o quando lo trovano si scoprono inadeguati, è anche perché i loro padri e nonni a un certo punto hanno scelto di cambiare rotta. Hanno preferito raccogliere i frutti, piuttosto che continuare a seminare.

È questo che, a un certo punto, ha fermato la crescita. È questo che ha bloccato l’ascensore sociale. È per questo che i due stereotipi, quello del giovane viziato e quello del giovane vittima, non sono l’uno vero e l’altro falso, ma facce della medesima identica medaglia.

La macabra barbarie contro i morti sepolti

9 Maggio 2023 - di fondazioneHume

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Trovo barbaro, macabro e raccapricciante quel che sta succedendo in Spagna col governo sinistro di Pedro Sanchez. Non mi va nemmeno di parlarne, lo faccio perché qualcuno deve pur dirlo. La chiamano Memoria Democratica e consiste nel prendersela con i morti e i caduti della parte sconfitta, disseppellendoli dalle loro tombe e traslocandoli altrove, in anonime e private tumulazioni, per cancel-lare ogni “infame” accostamento tra i loro resti e quelli dei combattenti anti-fascisti, comunisti e repubblicani. Con l’aggravante di farlo per lucrare misera-mente sul residuale antifascismo e tenere in vita la più tetra memoria del passato per rovesciarla alle elezioni sugli avversari, come il movimento Vox.

Il generalissimo Francisco Franco, il “becero dittatore”, alla fine della Guerra civile, li aveva sepolti insieme, rossi e neri, comunisti e falangisti, repubblicani e nazionalisti, nella Valle de Los Caidos. Lo ritenne un gesto di pietà e di ricon-ciliazione, dopo tanto odio e tanto sangue. Ma la Memoria Democratica non am-mette requiem né civile memoria, tantomeno condivisa; neanche dopo morti e dopo 84 anni dalla fine della Guerra Civile. Respinge ogni idea di pacificazione degli animi e di parificazione delle vittime, rifiuta il senso cristiano della pietas almeno post mortem e si accanisce con bestiale sciacalleria sui resti di poveri caduti degli anni trenta. Lo fa oggi perché ormai non c’è più nessuno a difendere la memoria del passato, nessun familiare diretto, nessun movimento che ne tuteli la memoria; solo sparuti, anacronistici militanti della testimonianza proibita, come le poche decine di persone che hanno tentato una flebile protesta.

Il governo rosso cancella la definizione stessa di Valle dei Caduti, e deporta le spoglie di coloro che sono seppelliti ma che appartennero alla parte avversa all’epoca vincente, rispetto a quella repubblicana e antifascista che i vincitori invece seppellirono accanto ai vinti, per lanciare un messaggio di pacificazione a un paese così sanguinosamente lacerato. Dopo la traslazione dei resti di Francisco Franco, di cui scrivemmo, il governo in carica formato dall’alleanza tra la sinistra del vecchio Psoe e la nuova sinistra radicale e grilleggiante di Podemos, ha esumato e cacciato dalla sua tomba i resti di José Antonio Primo de Rivera, fondatore del Movimento Falangista, ucciso, anzi fucilato, a 36 anni dai repub-blicani. Primo de Rivera era il Che Guevara della Rivoluzione nazionale e sociale spagnola, non fece in tempo a vivere il regime di Franco né la fase cruenta della guerra civile; Franco alla sua morte, congelò lo spirito nazional-rivoluzionario del movimento falangista e la sua carica ideale. José Antonio non amava il Fuhrer e scriveva: “Con Hitler non ci intenderemo mai. Non crede in Dio” e detestava il razzismo. “Che non ci si parli della razza, l’impero spagnolo non fu mai razzista; anzi, raggiunse l’immensa gloria proprio per aver unito uomini di tutte le razze”. José Antonio fu ucciso agli inizi della guerra civile, dunque non partecipò al cal-vario più terribile di quel paese, le atroci crudeltà compiute da ambo le parti, con lo speciale accanimento dei comunisti e stalinisti verso suore e preti, civili e minori, e perfino anarchici. Una pagina atroce che destò il disgusto di molti combattenti idealisti che erano accorsi in Spagna per difendere la Repubblica antifascista ma rimasero poi sconvolti e spiazzati dalle crudeltà, anche gratuite, commesse dai loro stessi compagni. Ne cito alcuni, tra i più famosi, oltre il celebre Ernst Hemingway: lo scrittore cattolico Georges Bernanos, lo scrittore liberal-so-cialista George Orwell, la giovane pensatrice Simone Weil, il combattente repub-blicano Randolfo Pacciardi. Erano andati tutti per combattere in difesa della Repubblica e della libertà, contro il franchismo e il falangismo. Ma dovettero presto fare i conti con le atrocità compiute dai loro stessi compagni.

José Antonio era un mito per la gioventù europea, non aveva fondato alcun regime sanguinario, alcuna dittatura, si era solo battuto lealmente in una guerra civile per i suoi ideali e per la difesa della Spagna eterna contro il pericolo comunista, ateo e stalinista. Fu un capo carismatico, un oratore coinvolgente, un combattente intrepido, un sognatore politico. Era avvocato, padre di quattro figli, a sua volta figlio di Miguel Primo de Rivera, generale e dittatore col consenso del Re negli anni venti. José Antonio sognava una Rivoluzione nazionale che coniugasse i valori tradizionali della Spagna cattolica, con i valori popolari di giustizia sociale e difesa dei lavoratori. Mi innamorai di lui da ragazzo, ricordo il suo discorso testamento: “La bandiera è stata issata. Andiamo a difenderla allegramente, poe-ticamente…il nostro posto è fuori, all’aria libera, sotto la notte chiara, arma in spalla e in alto le stelle”. A lui dedicò una biografia elogiativa Giorgio Almirante.

Non si tratta di riaprire e tantomeno di riscrivere le pagine della storia, figuria-moci. E’ proibito farlo, ormai, in Europa: e dico non in chiave apologetica e nem-meno revisionistica ma semplicemente e rigorosamente storica. Ma si tratta di denunciare a che livello di inciviltà, di disumanità e di odio sia giunta la “memoria democratica” toccando il fondo peggiore della “cancel culture” applicata alle spoglie dei defunti, ai trapassati remoti, fino al macabro disseppellimento e cacciata post mortem con odio eterno. Anche le più fiere e cruente ideologie mili-tari e militanti del secolo scorso, si sono fermate davanti all’oltraggio ai cadaveri. I regimi totalitari del passato, comunisti o nazisti, hanno sterminato milioni di morti ma nessun regime è andato a disseppellire e processare i cadaveri del passato. E’ solo una bestiale pratica del nostro presente, pur così pacifista, così sensibile e così pronto a indignarsi se viene maltrattato un fiore o un vitello. Dio ci scampi dalla Memoria Democratica.

di Marcello Veneziani

Calcio, tifo e razzismo

9 Maggio 2023 - di Paolo Natale

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Finalmente, alla fine, anche nello sport si è aperto uno spiraglio, un timido tentativo di fare un pochino di chiarezza su se e quanto si possano definire “manifestazioni di razzismo” i cori che ormai quotidianamente si sentono negli stadi (italiani e non). Ad aprire il dibattito, con qualche interessante dichiarazione e alcune considerazioni di base, sulle quali riflettere almeno un istante, è stato l’allenatore dell’Atalanta, GianPiero Gasperini.

Breve riassunto degli accadimenti di domenica scorsa, per chi non segue da vicino lo sport giocato né quello chiacchierato. Va in scena a Bergamo la partita di campionato Atalanta-Juventus. Nel corso dello svolgimento, un gruppo significativo di ultras bergamaschi non smette di rivolgere all’attaccante slavo della squadra avversaria, Vlahovic, coretti ed epiteti spregiativi, tipo “sei uno zingaro”, se non anche peggiori. Un po’ ciò che era accaduto a Torino un paio di settimane prima, tra alcuni ultras della stessa Juve e l’attaccante nero dell’Inter Lukaku, apostrofato con il consueto “negro di merda” o giù di lì. In modo non dissimile anche in questo caso a ciò che avviene in tutti gli stadi di calcio, da anni a questa parte, più o meno nessuno escluso.

Breve parentesi, ma molto importante per il discorso che farò tra poco. Una volta, qualche decennio fa, questo era un “rituale” comune anche negli altri sport, in particolare quelli di squadra, ma molto meno quelli individuali (ve l’immaginate uno spettatore di boxe che avesse apostrofato a bordo ring Cassius Clay / Mohamed Alì con un epiteto del genere? Avrebbe fatto sicuramente una brutta fine…).

Anche nel basket, ad esempio, giravano coretti simili, del tipo “non ci sono negri italiani”, rivolto a Carlton Myers, figlio di un inglese nero e di una riminese, divenuto nel tempo una colonna della nazionale italiana, tipo Balotelli. Negli ultimi anni ingiurie di questo tipo sono praticamente scomparse da tutti i palazzetti di basket, per la semplice ragione che i migliori giocatori di pallacanestro sono spesso neri e tutte le squadre ne hanno nel loro roster almeno tre o quattro, e insultarne qualcuno a caso non avrebbe alla fine un apprezzabile risultato, né si saprebbe esattamente chi ne sarebbe il destinatario, dei cinque o sei che sono in campo o in panchina.

Dunque, nel basket, al contrario di un passato più antico, di squalifiche o di multe per “cori razzisti” oggi non se ne verificano praticamente mai. Significa forse che tra gli ultras della pallacanestro non c’è alcun esagitato tifoso, simile ad il suo omologo calcistico? Direi proprio di no. Forse meno diffuso, grazie al livello meno popolare degli spettatori di basket. Forse, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Chiusa parentesi.

Ma torniamo ad Atalanta-Juve e alle dichiarazioni di Gasperini che, a fine partita, ha espresso un concetto semplice: non è vero che le frasi rivolte a quel giocatore slavo siano insulti di stampo razzista, semplicemente perché anche nella squadra che lui allena giocano almeno due-tre altri giocatori della stessa origine “etnica”, quella di Ibrahimovic per intenderci, che ha subito anch’egli nella sua lunga carriera epiteti molto simili. Ora, conclude Gasperini, se gli ultras fossero davvero razzisti (contro gli slavi), non potrebbero accettare nemmeno che nella propria squadra giochino almeno due-tre “zingari di merda”, e li insulterebbero a ogni piè sospinto, sebbene difendano i propri colori sociali. Come ben ci insegna la storia Usa, non si può essere razzisti ad intermittenza, o lo si è o non lo si è. E a volte, addirittura quando non si pensa di esserlo, il proprio rapporto con persone di colore non è semplice (vedi il caso del film anni Sessanta “Indovina chi viene a cena”). Punto.

Quegli insulti, sempre secondo Gasperini (che ovviamente è stato attaccato da tutti, proprio tutti tutti) non sarebbero razzisti, ma semplicemente “maleducati”, o beceri, perché seguono il diffuso sentiment di provocare l’avversario per infastidirlo, per fargli commettere errori che normalmente non farebbe. Non è bello, s’intende, ma non è nemmeno sintomo di razzismo, perché il razzismo, quello vero, è tutt’altra cosa, molto più grave, ma anche molto più specificamente diretta al colore della pelle, alla etnia, alla religione. Ora, argomenta l’allenatore dell’Atalanta (e io con lui), se ce l’ho con gli “sporchi negri” dell’altra squadra, perché quelli che giocano nella mia squadra sono al contrario “giganti d’ebano”, “principi neri”, eccetera. Balotelli, quando era dell’Inter, veniva insultato costantemente dai tifosi milanisti, quando passò al Milan subiva lo stesso trattamento da quelli interisti. Razzismo?

Ricordo ancora una ricerca universitaria degli anni Novanta, un’indagine sul campo promossa da Alessandro Dal Lago, in cui si cercava di studiare da vicino atteggiamenti e comportamenti degli ultras del Milan. Ne uscì un importante libro dal titolo “Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio”. Utilizzammo per l’analisi dei tifosi e del loro livello di razzismo una procedura statistica chiamata “Scala di Likert”, composta da 10 frasi cui l’intervistato doveva dichiarare il proprio grado di accordo. La sommatoria di tutte le risposte avrebbe fornito appunto un indicatore complessivo del livello di razzismo degli ultras. A patto che tutte le frasi indicassero una delle facce del tema del razzismo.

Orbene, 9 frasi su 10 funzionavano piuttosto bene ed erano tra loro ben correlate. L’unica che al contrario non mostrava significativi livelli di collegamento con le altre era proprio quella che riguardava gli insulti ai giocatori avversari per il colore della loro pelle. Quella frase era correlata più con il tifo maleducato, gli insulti (“figlio di p…”, “testa di c…”) che con il razzismo. Già oltre 30 anni fa, dunque, le parole che oggi ha pronunciato l’allenatore dell’Atalanta erano state comprovate da un’analisi scientifica. Meglio tardi che mai.

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