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Lollobrigida e il cane di Pavlov

25 Aprile 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

“Io sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu”. Questa frase, attribuita a Massimo Troisi, mi è tornata irresistibilmente alla mente in questi giorni durante la lapidazione pubblica (e bipartisan) del ministro Lollobrigida, reo di aver usato l’espressione “sostituzione etnica”.

Perché non ha semplicemente citato Troisi? mi sono detto. Possibile che non abbia capito come funzionano i media nell’era dello smartphone? Non lo sa che spiegarsi e chiedere scusa è perfettamente inutile, anzi controproducente? E pensare che Guia Soncini, che di internet se ne intende, l’ha spiegato in mille salse nei suoi articoli su Linkiesta e nei suoi libri (L’era della suscettibilità, Marsilio 2021): “Va sempre così. Più ti scusi, più ti urlano. Più ti contrisci, più infieriscono. I giustizieri dell’internet sono come quei mariti stronzi che più piangi più godono a corcarti di mazzate”.

Eppure il meccanismo dovrebbe essere chiaro. È il medesimo su internet e sui media politicizzati. Tu dici una parola, l’altro le associa un’altra parola, che a sua volta (a lui!) ne richiama un’altra ancora, e così via secondo una catena associativa governata soltanto dai fantasmi di chi ascolta.

Esempio. Tu dici merito, l’altro pensa prestazione  competizione  selezione  esclusione stress  disagio  suicidi giovanili. E voilà, chi parla di merito ha sulla coscienza i ragazzi che si tolgono la vita.

Altro esempio. Tu dici Nazione, e scatta la catena patria  nazionalismo  militarismo colonialismo  fascismo. E voilà, chi parla di Nazione è in odore di fascismo.

E arriviamo a Lollobrigida: sostituzione etnica  razzismo  complottismo  fascismo suprematismo bianco  nazismo  pulizia etnica. E voilà: chi parla di sostituzione etnica (che vorrebbe evitare) “è a un passo dalla pulizia etnica”.

Per certi versi, è il cane di Pavlov, come ebbe a notare Massimo Recalcati in un articolo su Repubblica, in cui descriveva il “riflesso pavloviano di ripudio” che scatta “nella sinistra più ideologica” quando viene in contatto con certe parole-stimolo (Recalcati menzionava “merito” e “sicurezza”). Per altri versi, però, è qualcosa di più, e di diverso, da un mero riflesso pavloviano. C’è molto di scientifico, di intenzionale, di studiato a tavolino nella campagna che, contro Lollobrigida, è stata scatenata non solo dai media progressisti, ma dagli stessi alleati di governo (Lega e Forza Italia), che non hanno fatto mancare critiche, censure, rimproveri. In retorica si chiama straw man, (argomento fantoccio, o dello spaventapasseri), la fallacia logica che consiste nello smontare una tesi dandone una rappresentazione deformata.

Dico questo non solo perché è palese, per un osservatore neutrale, che il ministro Lollobrigida si è limitato a esporre una posizione discutibile ma perfettamente plausibile, per non dire scontata per un esponente della destra (meglio spingere sulla natalità che sui flussi migratori), ma anche perché la medesima espressione – sostituzione etnica – usata in passato sia da Salvini sia da Meloni, mai aveva suscitato reazioni paragonabili a quelle di questi giorni.

Che cosa è cambiato, rispetto ad allora? Perché parlare di “sostituzione etnica” è diventato improvvisamente così scandaloso?

Non lo so. Forse, per il mondo progressista, la destra al governo è un nemico più inquietante della destra all’opposizione. Forse, per Lega e Forza Italia, questo è il momento giusto per ridimensionare lo strapotere di Giorgia Meloni. Forse, nell’era della suscettibilità, la sensibilità alle parole è aumentata.

Chissà. Resta il fatto che parlare è diventato pericolosissimo. E questo, la classe dirigente della destra, non sembra proprio averlo ancora capito.

La mente (inconsapevolmente) totalitaria di Noemi Di Segni

24 Aprile 2023 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPolitica

Confesso un profondo sconcerto quando leggo, sulle più importanti testate italiane, che il governo di Giorgia Meloni stenta ancora a riconoscere il fascismo come male assoluto. Anche una persona squisita come Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche in Italia, in un’intervista a ‘La Stampa del 21 aprile u.s., ha dichiarato che “ Giorgia Meloni e gli altri esponenti del governo devono capire che il fascismo ha fatto cose gravissime a partire dalle leggi razziali e devono capire che è stato un male assoluto per tutte l’Italia. Giorgia Meloni ha detto che le leggi razziali sono state un abominio ma ha mancato di dire che le ha fatte un governo fascista. Le leggi non nascono da sole, qualcuno le ha volute e le ha firmate”. Ancora una volta si chiede alla destra al governo di dichiararsi antifascista, non bastando la professione di fede democratica (che per un liberale comporta poi sia l’antifascismo che l’anticomunismo).

 Tra l’altro, nell’intervista, Di Segni adopera il termine ‘revisionismo’ come ‘un peccato contro lo Spirito’, per dirla con Croce, ignorando che il revisionismo è l’imperativo metodologico di ogni storico serio: se i racconti del passato fossero ‘veri’ come sono vere le leggi delle scienze naturali, che senso avrebbe  sottoporli alla critica della ragione storica? In realtà, la political culture ,in cui si riconosce l’intervistata–e con lei quasi tutti gli intellettuali impegnati del nostro paese—da qualche tempo ha dichiarato una guerra spietata a ogni tipo di revisionismo storiografico: ormai a dirci cosa realmente  fu il fascismo sembrano essere rimasti l’Anpi e  Gianfranco Pagliarulo. La ‘vulgata antifascista’—da cui vent’anni fa rifuggivano anche gli storici di sinistra– è diventata una verità di Stato e persino la più alta carica della Repubblica ha messo in guardia contro la tentazione di ripetere che il fascismo ha fatto anche cose buone. E’ il pensiero unico che celebra i suoi trionfi e che, se fosse coerente, dovrebbe porre al bando l’intervista sull’antifascismo che un politico e studioso comunista del calibro di  Giorgio  Amendola rilasciò a Piero Melograni (Ed. Laterza 1976): Il ‘Secolo d’Italia’ scrisse che i riconoscimenti tributati al regime superavano quelli che si potevano leggere nell’Intervista sul fascismo di Renzo de Felice. Ma ormai chi si ricorda più del  maggiore storico del fascismo del nostro tempo, di Augusto Del Noce, il geniale filosofo politico che alle diverse forme di totalitarismo dedicò le sue riflessioni più profonde? Chi cita più i grandi storici e scienziati politici d’oltralpe e d’oltreoceano che sul fascismo, sul nazismo, sul comunismo hanno scritto pagine fondamentali ma che oggi sembrano ignorate?

 Meloni e altri esponenti della sua area politica e culturale hanno condannato le leggi razziali e l’alleanza col Terzo Reich? Per le Vestali della Liberazione non basta: avrebbero dovuto dire che quelle pagine nere del regime fascista erano iscritte tutte nel suo DNA ideologico: insomma avrebbero dovuto scavalcare a sinistra studiosi come A. James Gregor o Ernst Nolte, elaborando una teoria dei crimini commessi dai fascisti che li presentasse come effetti naturali di cause autoevidenti. Davvero una strana pretesa, questa,  che riporta in auge quelle che un tempo si chiamavano ‘filosofie della storia’ ,intese come visioni del mondo in cui tutto era concatenato, tout se tient.

  Sennonché le ‘filosofie della storia’ sono un prodotto tipico dell’ideologia intesa come falsa coscienza che appende a un chiodo—il Valore, o il Disvalore, posto a fondamento di una politica—tutto il seguito positivo o negativo che si fa discendere da una scelta originaria o da un’idea che abbia trovato delle baionette, per dirla questa volta con Napoleone. Così per un tradizionalista doc (ce ne sono ancora) la presa della Bastiglia è all’origine del regicidio, del Terrore, delle guerre napoleoniche della finis Europae. E, analogamente, per un laicista ateo e razionalista, dalla religione cristiana discendono tutte le brutture che hanno segnato nei secoli il vecchio continente: dalle crociate ai roghi dell’Inquisizione etc.. In Controstoria del liberalismo (Ed. Laterza 2005), lo storico della filosofia, il compianto, Domenico Losurdo scriveva, della tradizione di pensiero liberale, che “Nessun’altra più di essa si è impegnata a pensare a problema decisivo della limitazione del potere. Epperò, storicamente, questa limitazione del potere è andata di pari passo con la delimitazione di un ristretto spazio sacro: maturando un’autocoscienza orgogliosa ed esclusivistica, la comunità dei liberi che lo abita è spinta a considerare legittima la schiavizzazione ovvero l’assoggettamento più o meno esplicito, imposti alla grande massa dispersa per lo spazio profano. Talvolta si è giunti perfino alla declinazione e all’annientamento. E’ dileguata del tutto questa dialettica in base alla quale il liberalismo si trasforma in un’ideologia del dominio e finanche in un’ideologia della guerra?”. Per il marxista Losurdo non c’era nessun dubbio che razzismo e colonialismo fossero iscritti nell’ideologia liberale. Ne costituiva una riprova la storia degli Stati Uniti.” |…| La Costituzione additata come modello consacra la nascita del primo Stato razziale, mentre l’autogoverno qui osannato garantisce ai proprietari di schiavi del Sud il legittimo godimento della loro proprietà senza interferenze da parte del governo federale”. Va detto che Losurdo, uno studioso sempre molto documentato e autore di libri che si leggono ancora oggi con profitto, al di là del dissenso teorico, era molto più serio del collega antichista romano, Antonio Capizzi, che scrisse un saggio degno dell’inquisizione stalinista—il titolo dice tutto– Alle radici ideologiche dei fascismi. Il mito della libertà individuale da Constant a Hitler (Roma, Savelli, 1977) per dimostrare la continuità profonda tra il Discorso  di Constant sulla libertà dei moderni comparata a quella degli antichi col Mein Kampf di Adolf Hitler.

 A mio avviso, uno storico—liberale o meno che sia—non può sottoscrivere nessuna delle due interpretazioni del liberalismo ma il problema non è questo, bensì è quello di stabilire se una comunità politica, che si ispiri ai valori della società aperta debba esigere che i suoi cittadini si riconoscano nel racconto ufficiale della storia predisposto dallo stato democratico o debba limitarsi a esigere l’assoluta fedeltà alla Costituzione e codici di cittadinanza in linea coi suoi valori. Per fare un’ipotesi non del tutto irreale, se un regime comunista o un partito comunista non si accontentasse della conversione marxleninista di un cittadino già militante in una formazione democratica borghese ma esigesse da lui il riconoscimento di aver militato in passato nell’area ideologica che teorizzava e praticava lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il genocidio, la colonizzazione non sarebbe una riprova della mens totalitaria del comunismo? E se l’esaminando dicesse: lascio il mondo capitalista, borghese, liberale non perché era il male assoluto ma perché non ha mantenuto le sue promesse, non ha risolto il problema della giustizia sociale non ha eliminato lo sfruttamento del proletariato interno ed esterno, potrebbe egualmente ottenere  la tessera del PCI o del PCUS?

 I  veri numi tutelari della ricerca storica non sono i santi dell’Inquisizione—cattolica o laica—ma i grandi scettici, come Michel de Montaigne o David Hume. Essi insegnano che la storia non è un processo necessitato in cui ogni casella, ogni momento del suo divenire, si colloca al posto giusto ma è un sistema aperto, dove può sempre accadere di tutto, dove ciò che poi accade realmente trova una sua spiegazione logica ma poteva non accadere.

 Quando si dice che il fascismo è il male assoluto e se ne vuol fare una verità di fede per tutti i cittadini non ci si ispira ai valori alti  dell’Occidente ma all’ideologia del Grande Fratello sempre più esigente che non può certo accontentarsi    della condanna senza appello delle leggi razziali e dell’esecrazione del Patto d’Acciaio che distrusse non solo le nostre città ma indebolì, forse irreparabilmente, lo stesso sentimento d’amor patrio. Se non si dice che  fin dall’inizio il fascismo fu quanto di peggio e di più pestilenziale avrebbe potuto abbattersi sull’Italia, non ci si può accostare al fonte battesimale della democrazia. Resta, pur sempre, il problema della   maggioranza dei nostri connazionali che gli assicurarono un ampio consenso–a cominciare dagli intellettuali, dagli imprenditori, dalle autorità ecclesiastiche, dalla ‘gente meccanica e di piccolo affare’. Come va considerata? Come ‘massa damnationis’ i cui residui storici attendono una bonifica integrale?

 La Meloni viene da ambienti ‘che ci hanno creduto’, da persone che, in buona fede, videro nelle camice nere il movimento e poi il governo che salvarono il paese dall’anarchia e realizzarono non poche significative riforme sociali, facendole pagare—beninteso–con la perdita delle libertà statutarie (perdita per noi inaccettabile ma non per gli Italiani del tempo, stanchi di guerre civili e di violenze, come ben riconobbero, storici non certo reazionari da Angelo tasca a Federico Chabod, da Renzo de Felice a Roberto Vivarelli). . Sono proprio tenuti i ‘postfascisti’ a qualificarsi come ‘antifascisti’, a buttare nella spazzatura della storia idealità in cui hanno creduto in buona fede e che, semmai hanno visto tradite, a partire dalle leggi del ‘38 e dall’entrata in guerra del 1940 (le vide tradite, ad esempio, una figura di intellettuale di grande onestà e cultura come Giano Accame, amico personale di Giampiero Mughini, che pure volle la sua bara avvolta nella bandiera della RSI)? Non esito a dire che non potrei avere nessuna stima per Giorgia Meloni se , per compiacere l’assordante canea degli antifascisti in servizio permanente effettivo, si proclamasse ‘finalmente’ antifascista: a parte il fatto che non convincerebbe nessuno dei suoi nemici politici –direbbero che è stata dichiarazione tardiva e imposta–, sarebbe per lei ammettere che nel fascismo storico ci sono state solo ombre e nessuna luce– nell’Erebo può dominare solo il buio pesto—e che la sua milizia politica passata è stata un’imperdonabile peccato di gioventù. Ci manca solo che si pretenda da lei, a questo punto,  di prendere posizione a favore di Claudio Pavone nella durissima polemica che l’oppose al salveminiano  Roberto Vivarelli, autore di un testo esemplare, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945 (Il Mulino, 2013), in cui lo storico, rievocando la sua giovanile adesione alla Repubblica Sociale,  la spiegava con le circostanze in cui era avvenuta, e, quel che è peggio, scriveva che non ne era affatto pentito della sua scelta.

 Debbo aggiungere, però, che non avrei nessuna stima ,altresì, di un dirigente o di un intellettuale di sinistra che oggi si definisse anticomunista. Il comunismo, come ormai è acclarato, fece più vittime del nazismo e di ogni altro regime golpista della storia contemporanea messi insieme, ma perché non riconoscere a quanti hanno creduto nelle sue ‘promesse’ una buona fede, attestata, tra l’altro, dalla disponibilità a dare la vita per la’causa’, a sacrificare una tranquilla vita borghese in difesa di idealità nobilissime, come l’eguaglianza e la giustizia sociale? Dovrei chiedere ai tanti amici comunisti, che ho conosciuto, frequentato e apprezzato per il loro impegno civile, di considerare il ‘socialismo reale’ come l’altro Male assoluto del XX secolo, come riteneva il presidente Reagan?

 Il pensiero egemone, in Italia, per citare i versi di Trilussa, sta “sprecanno troppe cose belle in nome della fede”: forse è il segno inequivocabile della nostra decadenza.

Chiediamo troppo ai ragazzi?

3 Aprile 2023 - di Luca Ricolfi

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Stanno suscitando una certa inquietudine le notizie che, negli ultimi tempi, riferiscono di giovani in crisi, specie in ambito scolastico. Fra le fonti di disagio, spesso vengono menzionate le eccessive pretese di insegnanti e genitori, ma anche ansie e frustrazioni che possono nascere nel gruppo dei pari. La diagnosi prevalente sembra essere quella che sottolinea l’insostenibilità delle pressioni competitive che il mondo degli adulti eserciterebbe sui ragazzi, chiedendo loro più di quanto possano dare.

C’è ovviamente del vero in ciascuna di queste letture, ma credo sia bene distinguere. I problemi del liceo classico, di cui tanto si parla, riguardano meno del 6% dei ragazzi, e sono di natura molto diversa da quelli degli altri licei e degli istituti tecnici e professionali. Nella mia ormai lunga esperienza di genitore e docente, quel che più mi ha colpito, negli ultimi decenni, non è certo l’eccesso di competitività, che spesso si attribuisce al classico, ma un fenomeno del tutto diverso, per certi versi opposto, che si può osservare a occhio nudo un po’ in tutti gli ordini di scuola: par la maggior parte delle famiglie, da molti anni a questa parte, la stella polare è il binomio serenità + promozione. L’importante non è che la scuola sia eccellente, o che il figlio primeggi, ma solo che sia promosso e non subisca frustrazioni. Se non fosse così, anziché legioni di genitori che se la prendono con gli insegnanti per gli insuccessi dei figli, vedremmo un vasto movimento che chiede alla scuola come mai il livello sia sceso così tanto.

Ed è qui che interviene il problema dei licei classici, e più in generale delle scuole esigenti, che per fortuna esistono anche in altri indirizzi. La strage di ragazzi che abbandonano i licei per passare a scuole più facili si spiega con il fatto che il primo anno di scuola secondaria superiore è anche il primo momento in cui la scuola smette di scherzare, ossia non sottostà all’obbligo non scritto di intrattenere e promuovere (quasi) tutti. Negli anni ’60 questo passaggio alla “scuola vera” avveniva dopo la 5aelementare, e infatti la scuola media inferiore faceva ancora stragi. Mentre oggi il passaggio alla scuola vera avviene solo dopo la 3a media, e a fare stragi ci pensano i licei.

C’è un’importante differenza, però, fra ieri e oggi. Negli anni ’60, il tipico ragazzo che non ce la faceva proveniva da una famiglia povera, in un’Italia che non aveva ancora raggiunto l’unità linguistica (come Tullio De Mauro ci ha mille volte ricordato). Oggi, invece, se un ragazzo non ce la fa, spesso è semplicemente perché la scuola media non gli ha fornito le basi per frequentare un liceo, e meno che mai per frequentare un liceo classico, con il latino e il greco. È innanzitutto da questa rinuncia della scuola media a raggiungere standard minimi di competenza linguistica (una rinuncia aggravata da tre anni di pandemia) che derivano le enormi difficoltà di tanti nostri ragazzi non appena, con la scuola secondaria superiore, incontrano la scuola vera.

Non è tutto, però. Una vasta letteratura internazionale, soprattutto psicologica e sociologica, da almeno vent’anni ci avverte che i figli dei baby boomers, ovvero i genitori dei ragazzi di oggi, oltre ad accettare il declino della qualità dell’istruzione e a rompere la storica alleanza con gli insegnanti, si sono resi responsabili di un altro disastro: la formazione di una generazione fragile, ipersensibile, ultra-bisognosa di protezione, affamata di approvazione, incapace di tollerare gli insuccessi e di gestire le difficoltà. In una parola: una generazione non-resiliente, per usare una espressione che il Pnrr ha reso di moda.

Chiunque abbia frequentato le scuole negli anni ’60 può testimoniare che le pressioni che insegnanti e genitori, allora alleati, esercitavano sui ragazzi e le ragazze erano enormemente superiori a quelle di oggi. Personalmente, ricordo i miei anni di scuola media come anni di terrore, di ansia, di spasmodica attenzione a non sbagliare. Ma anche di grandi soddisfazioni, scolastiche ed extra-scolastiche.

Dunque il punto cruciale non può essere che si chiede troppo ai ragazzi. Il punto, semmai, è che nessuno, allora, pensava di avere “diritto al successo formativo”, alla serenità, a supporti psicologici, al riconoscimento di ogni esigenza o aspirazione. Non lo pensavamo noi ragazzi, non lo pensavano i nostri genitori, non lo pensavano i nostri insegnanti, perché quelle cose non le vedevamo come diritti esigibili, ma come possibili conquiste. Oggi ai ragazzi si chiede molto di meno, ma proprio questo chiedere di meno li rende fragili, perché li lascia disarmati verso gli ostacoli e le asperità della vita, scolastica e non. Siamo sicuri che sia la strada giusta?

Follemente corretto (22) – Le fatiche di Erika

16 Marzo 2023 - di Luca Ricolfi

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Storicamente, una delle prime manifestazioni del follemente corretto fu l’imposizione, nelle università americane, dei cosiddetti trigger warning, espressone difficilmente traducibile in italiano. Letteralmente significa “avvisi di attivazione”, o “avvertimenti di innesco”. In concreto, nel contesto universitario in cui veniva e viene di solito usata, significa: attento, quel che sto per farti sentire o vedere, potrebbe scatenare in te una reazione di timore, imbarazzo, turbamento, sofferenza, eccetera (e quindi io, professore sensibile e illuminato, ti metto in guardia, così se non te la senti puoi uscire dall’aula).

Ma che cos’era così potenzialmente scatenante da richiedere un avvertimento? Film violenti, con sangue, torture, crudeltà verso bimbi innocenti? Materiale pornografico, con scene sado-maso e umiliazioni delle vittime? Racconti di rara crudezza o oscenità?

No, nulla di tutto questo. Nel mirino dei trigger warning, nell’università e fuori, sono finite opere come la Divina commedia, i miti greci, i dipinti di Gauguin, Via col vento, Dumbo, il film western eccetera. Il tutto perché nei loro contenuti, o nella vita dei loro autori, qualcuno poteva trovare tracce di sessismo (Zeus e le dee), razzismo (Rossella O’Hara nel Sud schiavista), suprematismo bianco (cow boy contro indiani), islamofobia (Maometto nell’Inferno), eccetera.

Di qui la pratica, ampiamente diffusa negli Stati Uniti, di avvertire gli studenti, gli ascoltatori, gli spettatori, dei pericoli che potrebbero correre esponendosi a certe opere, cosa che facciamo anche noi in Europa, ma solo con i bambini (ad esempio mediante l’istituto delle fasce orarie protette in tv).

Si potrebbe supporre che, con queste precauzioni, un professore americano sia al riparo da ogni critica. Invece no. Alla fine del 2022, nell’università Hamline a Saint Paul (Minnesota), la professoressa Erika López Prater, docente (precaria) di storia dell’arte, sapendo che, per una parte del mondo musulmano, esporre l’immagine del profeta è sacrilegio, si cautela avvertendo gli studenti che, fra le immagini che si accinge a mostrare, ve ne sarebbe stata una del profeta. Non solo, arrivata alla diapositiva critica, annuncia che sta per mostrarla, e che chi vuole può uscire. Nessuno obietta, e la lezione ha termine. Fin qui siamo al follemente corretto classico: gli studenti, per quanto maggiorenni, sono trattati come fanciulli ipersensibili e impressionabili.

Ma nei giorni successivi interviene un salto di qualità. Alcuni studenti musulmani si rivolgono all’amministrazione dell’università, accusando la professoressa López Prater di islamofobia. Qualcuno paragona l’esibizione del dipinto a una apologia di Hitler.  Il presidente della università di Hamline si schiera contro la professoressa, affermando che “il rispetto per gli studenti musulmani avrebbe dovuto prevalere sulla libertà accademica”. E non le rinnova il contratto per il semestre successivo.

La storia mostra che il follemente corretto non consce limiti: prima bastavano i trigger warning, ora si pretende la censura, domani chissà. Ma è ancora più interessante per le reazioni che ha suscitato, alcune favorevoli altre contrarie alla professoressa. Fra le reazioni pro-Erika spicca quella di una associazione musulmana, il Muslim Public Affairs Council (MPAC), che rilascia un lungo e intenso comunicato in cui afferma che:

(i)   la questione dei dipinti di Maometto è controversa nel mondo musulmano;

(ii)  il dipinto in questione non è islamofobico;

(iii) la professoressa ha agito con correttezza, e dovrebbe essere ringraziata per il modo empatico e critico in cui ha educato gli studenti.

Le ultime parole del documento sono:

Sulla base dei nostri universali e condivisi valori islamici, noi affermiamo la necessità che nelle istituzioni universitarie vengano promossi spirito di libera indagine, pensiero critico, diversità dei punti di vista.

 Niente da imparare, Occidente?

Follemente corretto (21) – Polizia del pensiero

14 Marzo 2023 - di Luca Ricolfi

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Per chi segue le vicende del politicamente corretto, gli Stati Uniti sono una insostituibile miniera di follie. Però, di norma, le follie si presentano una alla volta. Non così nella vicenda che il prof. Luigi Andrea Berto – italiano trapiantato in America, docente di storia alla Michigan University – ha voluto raccontare a Natalia Aspesi in una lettera alla rubrica “Questioni (non solo) di cuore”, sul Venerdì di Repubblica. Lui, di follie, ne ha dovute affrontare tre in un colpo solo.

Riassumo dalla sua lettera. Da una decina di anni, il prof. Berto tiene un corso generale sulla “storia del mondo occidentale fino al 1500”. Per far vedere ai propri allievi “come il passato possa essere deformato da idee contemporanee” si serve del celebre film 300 (del 2007), sulla battaglia delle Termopili (480 a.C.), in cui gli eroici trecento Spartani, guidati da Leonida, si immolarono nel tentativo di fermare l’esercito dei persiani, capeggiato da Serse.

Per dieci anni nessuna protesta, solo qualche mugugno da parte di studenti “troppo patriottici e conservatori”. Ultimamente, però, un paio di studentesse lo hanno accusato

presso l’amministrazione dell’università di far vedere cose inappropriate e “molestie sessuali”. E qui incontriamo la prima follia. Anziché offrire un supporto psicologico (e culturale!) alle due studentesse, evidentemente incapaci di prendere le distanze da un film-fumetto, viene portato sul banco degli accusati il docente, che peraltro usa il film per metterne in evidenza la parzialità e le distorsioni, non certo per sottoscriverne acriticamente i contenuti.

Ma non finisce qui. Nel frattempo, racconta il prof. Berto, “nell’ambito dell’operazione diversità e inclusione”, l’amministrazione dell’università inserisce nel nuovo contratto l’obbligo di fare un corso online su quei temi. Qui siamo alla seconda follia: obbligare i docenti a seguire un corso che non è di tipo funzionale (norme antincendio) o di tipo tecnico (uso di nuovi supporti didattici multimediali), o di tipo giuridico (diritti degli studenti e dei docenti), ma è di tipo politico-ideologico. Come testimonia la terza follia, ossia quel che succede alla fine del corso. Racconta il prof. Berto:

“Tra le lezioni del corso ve n’erano di varie sulle molestie sessuali. Alla fine delle lezioni si doveva fare un multiple choice quiz (quiz a crocette). Una domanda chiedeva se le accuse di molestie sessuali sono sempre vere. Se non si rispondeva sì, non si poteva proseguire nel corso e quindi si era licenziati perché non si era rispettato il contratto. Effetti collaterali del MeeToo?”.

Persino Natalia Aspesi, femminista e progressista da sempre, non riesce a nascondere il suo sconcerto: “l’obbligo del sì rivela tutta l’ipocrisia dell’iniziativa, perché si decide che le donne hanno sempre ragione”.

Il vero guaio, però, forse sta altrove. Il guaio è che quello delle molestie e di altri temi più o meno sensibili, è un argomento altamente controverso, come dimostra l’enorme spettro di opinioni e reazioni suscitate dal MeToo, anche all’interno del mondo femminile. E quando un tema è controverso, tutto si può fare tranne che obbligare studenti, professori, utenti, dipendenti pubblici e privati, a sottoporsi alle esternazioni di sedicenti esperti o educatori, e ancor meno obbligare i malcapitati discenti a sottoscrivere le idee e le credenze dei formatori, quasi sempre vestali arciconvinte dell’ortodossia woke.

Quando ciò avviene, non vuol dire che le istituzioni sono finalmente diventate sensibili a un problema, ma che stanno facendo nascere una polizia del pensiero, con le sue guardie rosse e il suo libretto di pensieri giusti. Non di rado, con l’assenso tacito dei meglio intenzionati fra noi.

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