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Economia

Salario minimo legale – Le conseguenze

10 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo pianoPolitica

Sul problema di un minimo salariale decente, tutti i governi fin qui succedutisi hanno nicchiato. Ora però non sarà più possibile far finta di niente: l’Unione Europea, infatti, ha fissato al 24 novembre del 2024 la data ultima per recepire la direttiva UE sul “salario minimo adeguato”.

In Italia, l’opposizione tutta (Renzi a parte) ha trovato nella proposta di un salario minimo di 9 euro lordi un punto di convergenza, anzi la prima vera occasione di convergenza dal giorno dell’insediamento del governo di Giorgia Meloni. Qui non voglio entrare nella disputa politica, già asprissima, sulla giustezza o meno di questa misura. Piuttosto, vorrei provare a rispondere alla domanda: se dovesse passare la proposta delle opposizioni, che conseguenze osserveremmo sul mercato del lavoro?

Su questo, fortunatamente, la teoria economica ha molto da dire. Ma, prima di indicarne alcune, dobbiamo mettere a fuoco due punti.

Primo, la proposta delle opposizioni non riguarda la retribuzione oraria complessiva, che, oltre alla paga base, include tredicesima, quattordicesima, scatti di anzianità, e altre voci, ma il cosiddetto trattamento minimo tabellare, che esclude tutti gli elementi aggiuntivi della retribuzione. Questo significa che i 9 euro lordi proposti, possono diventare 11 o 12, in dipendenza delle varie situazioni. Le associazioni delle imprese artigiane, come la CGIA di Mestre, hanno già lanciato l’allarme: 9 euro lordi possono andare bene ma solo se vengono calcolati sulla retribuzione complessiva, incluse le voci aggiuntive come la tredicesima.

Il secondo punto è: quali saranno le categorie escluse dal salario minimo? Solo colf e badanti, o anche apprendisti, stagionali, voucher, collaborazioni, finte partite Iva? A seconda della platea di lavoratori coinvolti, l’aggravio di costi complessivo per i datori di lavoro (circa 6.7 miliardi secondo l’INAPP) potrebbe variare considerevolmente.

Ed ora passiamo alle conseguenze. Supponiamo che il salario minimo venga introdotto per legge, ossia che la strada non sia quella di estendere la contrattazione, ma di stabilire un obbligo giuridico. Che cosa capiterebbe dopo l’entrata in vigore della norma?

Dipende dal tipo di datore di lavoro. Nelle imprese regolari in salute e che non ricorrono al lavoro nero, avremmo un aumento dei salari per i lavoratori sottopagati, e quindi una riduzione dei profitti, talora accompagnata da una contrazione degli investimenti. Nelle imprese regolari che operano con margini ridotti, invece, a seconda della propensione al rischio dell’imprenditore, potremmo assistere alla chiusura dell’impresa, o al ricorso al lavoro nero. Nelle imprese che già attualmente operano in modo irregolare, con ampio utilizzo di lavoro nero, non succedere nulla, a meno che cambiasse completamente la politica dei controlli (attualmente quasi del tutto inesistenti). In quest’ultimo caso, avremmo due impatti di segno opposto: per le imprese più floride, l’emersione del nero, per quelle più fragili la chiusura.

In sintesi: il salario minimo legale produrrebbe sia effetti positivi, sia effetti negativi. Nessuno però ha ancora calcolato il saldo di tali effetti, ovvero se quelli positivi supererebbero quelli negativi. Una valutazione di massima suggerisce che quelli positivi potrebbero essere prevalenti nel Centro-nord, quelli negativi nel Sud, dove si concentra il grosso del lavoro irregolare e dei salari inferiori al minimo legale di 9 euro l’ora.

Si potrebbe osservare che, almeno, verrebbe raggiunto l’obiettivo più volte proclamato da Elly Schlein, ossia una drastica riduzione del fenomeno dei working poor (lavoratori poveri, che lavorano ma guadagnano troppo poco). Sfortunatamente, nemmeno questo obiettivo è realisticamente raggiungibile: le statistiche dimostrano che il grosso del fenomeno non si deve ai salari orari bassi, ma allo scarso numero di ore lavorate.

Conclusione: l’idea di un salario minimo legale merita la massima attenzione, ma è ingenuo pensare che basti a spazzare via sfruttamento, precarietà e lavoro povero.

La battaglia per il salario minimo legale

1 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

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Sembra sia stato soprattutto Carlo Calenda, nei giorni scorsi, a infervorarsi per l’idea di proporre una legge sul salario minimo legale che abbia il sostegno di tutti i partiti di opposizione. E si capisce bene perché: quella del salario minimo legale è, finora, l’unica proposta che potrebbe coalizzare non solo Pd e Cinque Stelle, ma anche i partiti del Terzo Polo (Azione e Italia viva).

È una buona idea?

Per certi versi è un’idea sacrosanta. Secondo una mia stima di pochi anni fa, in Italia esiste un’infrastruttura para-schiavistica di circa 3 milioni e mezzo di persone che lavorano in condizioni di precarietà, insicurezza e bassi salari non degne di un paese civile (il caso limite sono gli immigrati addetti alla raccolta di frutta e ortaggi). Altre stime suggeriscono che, a seconda del livello a cui verrebbe fissato il minimo legale, i beneficiari di aumenti salariali potrebbero oscillare fra 1 e 3 milioni di lavoratori.

C’è un problema, tuttavia. In Italia i salari effettivi variano enormemente in funzione del settore produttivo, del costo della vita, della produttività. Inoltre, una parte delle micro-attività che impiegano manodopera male o malissimo pagata hanno margini estremamente ridotti, e non sarebbero in grado di sostenere gli aumenti salariali richiesti. In concreto, significa che la fissazione di un salario minimo legale a 9 o 10 euro lordi, uniforme su tutto il territorio nazionale, avrebbe effetti a loro volta tutt’altro che uniformi. Nei contesti ad alta produttività porterebbe a miglioramenti retributivi sostanziali, in quelli a bassa produttività condurrebbe alla chiusura di attività che operano al limite della redditività (sempre, beninteso, che governo e sindacati si impegnino a far rispettare la legge, anziché continuare a chiudere ipocritamente un occhio come si è sempre fatto in passato). In concreto, vorrebbe dire: salari più alti in molte realtà del centro-nord, più disoccupati in molte aree del sud.

Se i meccanismi fondamentali sono questi, forse sarebbe il caso di considerare l’ipotesi di un salario minimo legale differenziato per settore e zona del paese, in modo da non penalizzare troppo le attività con la produttività più bassa.

Saprà l’opposizione di sinistra muoversi in questa direzione?

È improbabile, vista la tendenza di Pd e Cinque Stelle ad affrontare tutte le questioni in termini etici e di principio, anziché in termini pragmatici e realistici. E non è questione di Schlein o non-Schlein, perché quella tendenza era già in atto in epoca pre-Schlein, e non su temi secondari. Pensiamo all’approccio ideologico in materia di immigrazione e accoglienza, o alla disastrosa gestione del Ddl Zan sull’omotransfobia, quando per preservare la purezza politica venne rifiutata l’offerta della destra di approvare il disegno di legge Scalfarotto (un’ottima legge, priva dei difetti del Ddl Zan).

È verosimile che tutta la discussione che partirà sui contenuti esatti della proposta di salario minimo legale verterà sul suo livello, con i riformisti a tirare per un livello ragionevole, e i massimalisti per un livello irragionevole ma auto-gratificante. Il risultato sarà che il governo avrà gioco facile a ignorare le proposte dell’opposizione, mostrandone l’irrealismo e gli effetti perversi.

Eppure dovrebbe essere chiaro che è il modo peggiore per provare a costruire un campo largo. Per riconquistare la fiducia degli italiani, ai progressisti serve mostrarsi in grado di fare proposte così sensate che risulti difficile rifiutarle. E incalzare il governo a farle rispettare.

Proporre un salario minimo elevato, uguale in tutta Italia, e quindi impossibile da rispettare per molte imprese, può scaldare il cuore dei militanti più ideologizzati o moralisti. Ma difficilmente può convincere la maggioranza degli italiani.

E se smettessimo di fingere? Investire contro il cambiamento climatico: ma è la strada giusta?

3 Giugno 2023 - di Luca Ricolfi

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Quando si parla di Pnrr, la preoccupazione prevalente è di spenderli bene, spenderli tutti, i quattrini che l’Europa ci impresterà. C’è però anche un secondo problema, di cui si parla di meno, o meglio si parla in modo obliquo: per che cosa spenderli.

La risposta canonica è: portare a termine le sei “missioni” indicate dall’Europa, dalla digitalizzazione alla transizione ecologica, dalle infrastrutture alla ricerca, dall’inclusione alla salute. Ma è una risposta convincente?

Forse non del tutto, per vari ordini di ragioni. Intanto perché forte è il rischio che gli enti locali siano chiamati a spendere pur di spendere, senza una chiara e previa individuazione delle priorità. In secondo luogo, perché non è detto che i costi futuri di mantenimento delle nuove opere (infrastrutture e personale) abbiano le dovute coperture. Ma soprattutto perché le due voci principali, digitalizzazione e transizione ecologica (circa 120 miliardi di euro), non sono esenti da rischi e criticità.

Sulla digitalizzazione, andrebbero prese molto sul serio le preoccupazioni, culturali e pedagogiche, che da qualche tempo sono emerse nel mondo della scuola (vedi ad esempio il manifesto “Insegnare contro vento”, firmato da insegnanti e illustri studiosi). Quanto alla transizione ecologica, credo che dovremmo affrontare di petto il dubbio che, pochi anni fa, sollevò Jonathan Franzen nel suo pamphlet E se smettessimo di fingere?  (Einaudi 2020).

Lo riassumo brutalmente. Il riscaldamento globale, ammesso che sia imputabile prevalentemente alle emissioni di anidride carbonica, avremmo avuto qualche chance di contenerlo se avessimo cominciato ad agire con determinazione 30-40 anni fa. Ora non più. Ora è tardi, ora contenere il surriscaldamento anche solo di qualche decimo di grado ha costi enormi, che la maggior parte dei paesi inquinatori non ha la minima intenzione di sostenere, se non altro perché comporterebbe un drastico ridimensionamento del tenore di vita delle popolazioni “virtuose” (pensiamo, per fare giusto due esempi, alle conseguenze delle direttive europee in  materia di auto green e classi energetiche delle abitazioni).

In breve: perché fingere che sia ancora possibile raggiungere un obiettivo che è chiaramente fuori della nostra portata?

Detto così, sembra un messaggio disfattistico, che spegne la speranza, e tutt’al più disturba gli enormi interessi, economici e politici, dell’establishment climatico e delle lobby green. C’è però un risvolto cruciale del ragionamento di Franzen: lo spaventoso  costo-opportunità della “scelta climatica”, ossia del convogliamento di enormi risorse economiche nel tentativo (disperato?) di mitigare di qualche decimo di grado il surriscaldamento globale.

Che cos’è il costo-opportunità di una scelta? È il valore delle alternative cui si rinuncia per il fatto di aver scelto una determinata alternativa a scapito di altre. Se spendi 100 miliardi per fare A, rinunci a tutte le cose (B, C, D,…) che avresti potuto fare con quei soldi se non li avessi spesi per fare A.

Ed ecco l’idea Franzen: “una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono maggiore significato. Prepararsi per gli incendi, le inondazioni e l’afflusso di profughi è un esempio pertinente”.

Le alternative cui rinunciamo, in altre parole, sono le innumerevoli azioni il cui scopo non è fermare l’innalzamento delle temperature, ma fronteggiare le sue drammatiche conseguenze. Azioni che, dirottando la maggior parte delle risorse sul cambiamento climatico, non possono essere messe in atto risolutamente, efficacemente, e nella misura necessaria.

La posizione di Franzen è interessante perché non è affatto anti-ambientalista (lo scrittore americano è da anni fra i più impegnati nella difesa dell’ambiente e nella tutela della biodiversità). Quello che Franzen, con il suo piccolo pamphlet, ha provato a fare, è semplicemente di metterci una pulce nell’orecchio: siete sicuri che abbia senso concentrare la maggior parte delle risorse su un problema quasi sicuramente irrisolvibile, quando ci sono innumerevoli problemi ambientali, dal dissesto idrogeologico alla protezione delle foreste, dalla tutela della biodiversità alla gestione dei rifiuti, che possiamo affrontare con successo spostando i nostri investimenti su quei problemi?

Economia cannibale

1 Giugno 2023 - di Luciana Piddiu

EconomiaIn primo piano

Per migliaia di anni le più antiche comunità umane hanno praticato il cannibalismo, o fatto ricorso a sacrifici umani a scopo rituale. Poi si sono stabiliti dei tabù e queste pratiche sono state messe al bando per sempre. Per questa ragione dobbiamo essere ottimisti sulla possibilità di riuscire a superare, nella faticosa strada del divenire umani, anche quella che Jean Daniel Rainhorn, professore dell’Università di Ginevra, chiama ‘economia cannibale’.

Rientrano in questa categoria le pratiche di economia globalizzata neo-liberale che hanno per oggetto di scambio, singole parti del corpo umano o corpi nella loro interezza. Banche -non a caso si chiamano così- del seme e degli ovociti, uteri in affitto per la maternità surrogata, compravendita di gameti, di organi e di patrimonio genetico, traffico di esseri umani per la loro riduzione in schiavitù e/o prostituzione. È una nuova branca dell’economia che cannibalizza gli esseri viventi. Il corpo degli umani è considerato puro assemblaggio di organi e il vivente diventa una risorsa materiale. A chi può permettersi di acquistarlo è riconosciuto il ‘diritto’ o la facoltà di farlo. Questa economia neo-liberale ha progressivamente ridotto gli esseri umani a ‘risorse biologiche’ introducendo un processo di reificazione e riduzione a merce dei soggetti.

Il processo è cominciato negli anni ’80 del Novecento con la pratica della brevettabilità. Sulla spinta di società di bio-ingegneria coadiuvate da genetisti di fama e da una certa lobby di medici sono stati depositati brevetti su organismi viventi, geneticamente modificati e non, e su intere sequenze genetiche, comprese quelle umane.

La filiera del mercato globale per la produzione di bambini come prodotti di qualità (quelli difettosi sono scartati e le madri surrogate in questo caso non vengono pagate) è -dopo la riduzione in schiavitù -la più grande violenza che si possa immaginare fatta a donne e bambini. Ma l’economia cannibale produce enormi profitti.

Un altro ramo fiorente di questa economia è quello legato ai percorsi di transizione da maschio a femmina e viceversa. Percorsi che richiedono un precoce bombardamento ormonale di bambine e bambine al fine di adeguare attraverso la chimica il senso di sé al corpo considerato ‘sbagliato’.

Alcune di queste pratiche sono intimamente legate al filone di pensiero conosciuto come transumanesimo. Se vogliamo sconfiggerle e metterle al bando per sempre è necessario fare un passo indietro e risalire alle riflessioni di alcune pensatrici che con le loro teorie hanno fortemente contribuito all’affermazione di questa deriva .

Donna Haraway col suo Manifesto cyborg (1985) e Judith Butler col suo Gender trouble (1990) hanno ingaggiato vere e proprie colluttazioni teoriche con la carne umana come ha acutamente osservato M.Terragni in un recente articolo.

Judith Butler ha sempre sostenuto che il sesso è costruito culturalmente proprio come il genere, frutto di un atto linguistico performativo. Anche il corpo è dunque una costruzione e non ha un significato prima di essere ‘marcato’ dal punto di vista del genere. La realtà del corpo ha perso ogni consistenza fino a scomparire. E il primo corpo a dover scomparire è quello della donna. Ma il dato biologico cacciato dalla porta finisce col rientrare dalla finestra quando si teorizza la ‘vulnerabilità’ dei corpi viventi (Bodies that matter). Essa non è una costruzione linguistica ma attiene strettamente alla fragilità e mortalità dell’essere umano.

Donna Haraway invece ha spinto fino in fondo le sue riflessioni sulle implicazioni della tecnologia e della scienza sulla vita degli esseri umani. Il cyborg, organismo cibernetico, ibrido tra macchina ed essere umano permette di comprendere come la pretesa ‘naturalità’ dell’uomo sia in realtà una costruzione culturale. Il corpo diventa territorio sperimentazione e di manipolazione. Il corpo smette dunque di essere inalterato e intoccabile: può essere trasformato e gestito a piacimento. Cade il mito che vede il corpo come sede di una naturalità opposta all’artificiosità e crolla di conseguenza il sistema di pensiero occidentale incentrato sulla contrapposizione degli opposti. Il cyborg non è né macchina né uomo, né maschio né femmina. Cadono tutti i confini e tutti i dualismi. Uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente, umano /animale ecc. In questo percorso Donna Haraway è cosi approdata a quella che J.F. Braunstein definisce zoofilia cosmica. Nel suo ‘Manifesto delle specie compagne’ e nel successivo ‘Quando le specie si incontrano’ esalta la relazione sessuale molto soddisfacente con la sua cagnetta Cayenne Pepper e i suoi baci profondi e umidi. Siamo quindi arrivati a una sorta di butlerismo reale egemonizzato dal mercato che ha saputo intercettare i desideri e le fantasie circolanti per farne prodotti liberamente acquistabili.

Il lavoro da fare per superare le risposte del mercato neoliberale capitalistico è quello di una battaglia culturale e politica profonda e senza compromessi. ‘Liberi di…liberi da ‘ lo slogan che faceva presagire una mitica età dell’oro in cui tutto sarebbe stato concesso (fors’anche l’immortalità) e non ci sarebbero stati vincoli di sorta al desiderio di onnipotenza, ha mostrato crepe insanabili.

Ci si può liberare dagli stereotipi e dalle costrizioni con un assiduo lavoro di introspezione, ma c’è una cosa da cui in nessun modo ci si può liberare: la condizione umana. Quella che Hannah Arendt ha messo al centro della sua riflessione in Vita Activa. ’La condizione umana designa ciò che segna il nostro essere al mondo, quel che non dipende da noi, che ci è dato senza averlo scelto. Ciò da cui si parte. Essa condiziona qualsiasi posizione noi assumiamo nei suoi confronti, compresa quella della sua negazione. Detto in altri termini la sua caratteristica è l’irriducibilità, rappresenta di fatto il limite primo costitutivo da cui non si può prescindere in quanto oltrepassa il nostro controllo e la nostra presa’( D.Sartori).

Questo non impedisce beninteso la nostra libertà che si sperimenta come realtà concreta nello spazio pubblico, nell’agire politico con gli altri esseri umani dando inizio a qualcosa di inedito e di inatteso. É la natalità che designa questo aspetto della condizione umana in virtù della quale siamo capaci di introdurre qualcosa di nuovo .

Per tornare alla differenza sessuale da cui siamo partiti essa non è riducibile al discorso e al linguaggio ma è un dato reale nell’accezione corrente del termine. Le teorie del gender si sono affermate e imposte sulla scia dei rivolgimenti seguiti all’onda lunga del ’68, al ‘vietato vietare’, ’l’immaginazione al potere’….come un vero e proprio imperialismo culturale. Esse hanno cancellato con un colpo di spugna il senso della differenza sessuale, che non attiene soltanto all’ordine simbolico, ma all’ordine di quei dati di fatto irriducibili che lo stesso ordine simbolico deve assumere muovendosi tra la condizione di necessità e quella di libertà. Il taglio della differenza sessuale operato dal femminismo ha rimesso in gioco la linea di demarcazione tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. Non siamo liberi dalla condizione data ma liberi nell’attribuzione di senso di quella condizione. Dobbiamo tenere insieme i due poli, necessità/ libertà, sapendo riconoscere quel che dipende da noi e quel che non dipende da noi.

La teoria gender ha finito per dimenticare il corpo, ma il corpo è il primo confine. E non bisogna dimenticare mai che non c’è simmetria tra i sessi. C’è solo un corpo che ha la capacità di generare, quello delle donne, e non sarà certo il linguaggio che invoca un presunto ‘diritto di procreare’ a cambiare il dato puro e semplice.

Il pensiero queer, che prende le mosse da quello gender, punta all’indifferenza sessuale esaltando l’egualitarismo. In questo modo la differenza sessuale diventa una sorta di variabile corporea buona per tutti gli usi che se ne vogliano fare in continuità col sogno prometeico di liberarsi dal peso del corpo superando quella che Gunther Anders chiamava la vergogna di non essersi fatti da sé.

Il pensiero della differenza ci ha reso libere dalla coercizione di ruoli imposti e accettati come destino naturale dovuto alla nostra differenza ma ci ha ha anche liberato dalla ossessione emancipazionista che ci vuole uguali agli uomini in tutto e per tutto, neutre, rendendo insignificante la nostra differenza. Noi però non abbiamo mai dimenticato che la nostra libertà non è onnipotente, non è incondizionata ma è capace di riconoscere la condizione umana incarnata che può fondare un nuovo umanesimo a radice materna, dove la relazione madre/figli sia nuovamente centrale nel percorso del divenire umani.

Luciana Piddiu
Ferney Voltaire 31 Maggio 2023

Nel segno dell’inflazione

10 Febbraio 2023 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo piano

Che l’inflazione sia, in questo momento, il nostro maggior problema economico-sociale è cosa di cui pochi dubitano. Dove invece i pareri divergono è sulle sue cause, le sue prospettive, le sue conseguenze sociali, i mezzi per combatterla.

Le cause. Temporalmente, l’inflazione dei prezzi al consumo è esplosa quest’anno, in corrispondenza con lo scoppio della guerra in Ucraina. Ma l’impulso che l’ha alimentata, spesso ce ne dimentichiamo, risale a circa due anni prima, quando – nella primavera del 2020 – è partita la corsa dei prezzi delle materie prime (specialmente metalli, gas, petrolio) e sono iniziate le prime difficoltà di approvvigionamento globale legate alla pandemia, e successivamente anche al blocco del canale di Suez. C’è voluto circa un anno perché gli aumenti si trasferissero sui prezzi all’importazione e sui costi di produzione delle imprese, e un ulteriore anno perché si scaricassero sui prezzi al consumo. È quel che è successo nel 2022, e continua nel 2023. La guerra ha ovviamente peggiorato le cose, ma non è l’origine delle tensioni attuali sui prezzi, che risentono anche della ripresa della domanda, favorita dagli stimoli fiscali dei governi e dall’ingente risparmio accumulato durante la pandemia.

Le prospettive. Su questo, come quasi sempre accade, gli economisti sono divisi. Se l’inflazione è prevalentemente da domanda, ha ragione la Bce che tenta di raffreddarla con l’aumento dei tassi di interesse, ma se invece è da costi, allora le politiche restrittive rischiano di essere poco efficaci, se non controproducenti. Per il 2023 la previsione dominante è di un rallentamento della corsa dei prezzi, ma sulla sua entità c’è grande incertezza. Contrariamente a una percezione molto diffusa, i prezzi del petrolio attuali non sono particolarmente alti, e il problema, semmai, è che sono destinati a salire in corso d’anno (così Davide Tabarelli, uno dei nostri massimi esperti di questioni energetiche). Il rischio che al 10-12% di inflazione attuale si aggiunga un 5-6% nei prossimi mesi è reale.

Le conseguenze sociali. Se, come non è inverosimile, il biennio 2022-2023 dovesse registrare un aumento (cumulativo) dei prezzi al consumo prossimo a 20% (rispetto al 2021), a fronte di un aumento del Pil nominale di poco superiore al 10%, dovremmo attenderci una erosione del potere di acquisto compresa fra il 5 e il 10%.

Ma chi pagherà il conto?

La risposta standard è: i pensionati e i lavoratori dipendenti che, a differenza delle imprese e dei lavoratori autonomi, non possono trasferire sui prezzi gli aumenti dei costi. Ma è una risposta un po’ affrettata, che non fa i conti con la complessità del tessuto produttivo del paese e con la legislazione vigente.

Per quanto riguarda i pensionati, ad esempio, occorre notare che le fasce basse saranno protette dalla indicizzazione delle pensioni al costo della vita (mantenuta dal governo Meloni), mentre a perdere pesantemente potere di acquisto saranno le fasce alte e medie, per le quali l’indicizzazione è stata attenuata dalla legge di Bilancio.

Riguardo ai lavoratori dipendenti, non è detto che il loro destino sarà peggiore di quello dei lavoratori autonomi. Il fatto è che entrambe le categorie sono molto eterogenee al loro interno. Fra i lavoratori dipendenti rischiano di più i lavoratori a termine e gli addetti delle piccole imprese, poco coperti dalla contrattazione sindacale e dallo Statuto dei lavoratori. Fra i lavoratori autonomi rischiano di più quanti, operando sul mercato internazionale, non possono scaricare sui prezzi di vendita l’aumento dei costi. Per questi lavoratori, e per i loro dipendenti, la spada di Damocle non è una riduzione del 5 o del 10% del loro potere di acquisto, bensì la perdita del posto di lavoro conseguente alla chiusura dell’attività. La vera frattura, in Italia, non è fra lavoro autonomo e lavoro dipendente, ma fra chi opera nella società delle garanzie (dipendenti pubblici e lavoratori stabili delle imprese medio-grandi) e chi opera nella società del rischio (lavoratori autonomi e loro dipendenti).

Che fare. Se l’obiettivo è contenere l’aumento dei prezzi, forse sarebbe saggio prendere atto della realtà: a dispetto delle campagne contro gli speculatori, l’inflazione italiana, come quella degli altri paesi europei, è un fenomeno esogeno, su cui i governi nazionali hanno pochissima influenza. Fondamentalmente, l’andamento dei prezzi dipenderà dalla guerra in Ucraina, dalle scelte della Russia, dalla pandemia, dalla Bce, dalle misure più o meno protezionistiche adottate dagli Usa e dalle contromosse europee. Inutile pensare che l’Italia, da sola, possa spostare il tasso di inflazione interno più di uno o due decimali. Tanto più che un’inflazione elevata è un toccasana per i conti pubblici dei paesi più indebitati.

Dove invece qualcosa si può fare, è nella gestione delle conseguenze dell’inflazione. Ma che cosa, posto che non possiamo indebitarci ancora di più?

Forse, se il rischio maggiore che corriamo è un’ulteriore riduzione della base produttiva, con chiusura di imprese e perdita di posti di lavoro, le poche risorse disponibili potrebbero essere concentrate su due obiettivi, circoscritti ma di grande importanza.

Il primo potrebbe essere di stimolare la formazione di nuovi posti di lavoro con massicce riduzioni del cuneo fiscale concentrate sulle imprese che aumentano l’occupazione.

Il secondo obiettivo potrebbe essere di garantire uno speciale supporto ai lavoratori (autonomi e dipendenti) i cui redditi andranno a zero come effetto di fallimenti e chiusure. Un’operazione, questa, che sarebbe naturale condurre nell’ambito della annunciata ristrutturazione del reddito di cittadinanza: dopotutto, proprio perché hanno appena perso il lavoro, quei lavoratori sono sicuramente occupabili, nonché provvisti di qualche professionalità.

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