Hume PageHume Page

Follemente corretto (7) – Nero di seppia

27 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Supponete di aver invitato a cena per venerdì Angela, una vostra amica afroamericana di passaggio per l’Italia. Qualche giorno prima, diciamo martedì, cenate – sempre a casa vostra – con un’altra amica, Anna, bianca ed europea come voi. Anziché farle il solito risotto al parmigiano, vi lanciate in uno spettacolare risotto al nero di seppia.

La cosa viene alle orecchie di Angela, l’amica nera d’oltre oceano, che dagli Stati Uniti vi fa sapere che no, lei a casa vostra non intende più mettere piede. Ha saputo della vostra cena con Anna e del risotto al nero di seppia, “una pratica razzista e arcaica, che non ha diritto di cittadinanza nella società moderna”. Lei da voi a cena non verrà più, per rappresaglia.

Se vi capitasse, che cosa fareste?

Personalmente penserei che la mia amica Angela ha perso la testa, o ha un esaurimento, o sta scherzando.

Invece no. La Fondazione Arena di Verona, che organizza gli spettacoli nel meraviglioso anfiteatro di quella città si è trovata in una situazione simile, ma ha preso molto sul serio la faccenda.

I fatti. Nel mese di luglio il soprano Anna Netrebko interpreta il ruolo di Aida, principessa etiope, nella celebre opera di Verdi. Come di consueto, dovendo mettere in scena un personaggio nero, ed essendo Anna Netrebko bianca, si ricorre al blackface, la pratica di scurire il volto. Un artifizio scenico quali ve ne sono innumerevoli nel teatro, come la gobba di Rigoletto messa indosso a baritoni con la schiena normale.

Pochi giorni dopo, dovrebbe andare in scena la Traviata, con il soprano Angel Blue, afroamericana nel ruolo di Violetta. Ma lei, come la vostra amica   invitata a cena per venerdì, disdice sdegnosamente l’invito, perché qualche giorno prima l’Arena di Verona, in altra opera (Aida) e con altra interprete (Anna Netrebko) è ricorsa al blackface, come peraltro si è sempre fatto in casi simili.

La ragione? Secondo Angel blue la pratica del blackface è razzista:

“L’uso del blackface in qualsiasi circostanza, artistica o meno, è una pratica basata su tradizioni teatrali arcaiche che non hanno posto nella società moderna”.

La cosa curiosa, in tutta questa storia, è la reazione della Fondazione Arena di Verona. Anziché rivendicare l’autonomia artistica della regia (peraltro firmata da Zeffirelli), e il pieno diritto delle istituzioni di operare entro una tradizione culturale, arcaica o meno che essa risulti agli occhi di qualcuno, i responsabili della Fondazione hanno ritenuto di doversi giustificare, con argomenti invero penosi: non avevamo intenzione di offendere (come se una persona sana di mente potesse offendersi), l’allestimento è di 20 anni fa (e allora?), se vieni a Verona “potremo dialogare in modo costruttivo partendo proprio dalle tue riflessioni”.

Ma giustificarsi equivale ad ammettere che aver fatto il risotto con il nero di seppia a Anna possa essere offensivo per Angela. Mentre la vicenda dimostra solo due cose molto semplici.

Primo, che il politicamente corretto riesce a “scalare impensabili vette di stupidità”, come giustamente ha osservato Cesare Cavalleri su “Avvenire”.

Secondo, che l’accusa di razzismo, per quanto pretestuosa, campata per aria, priva di sostanza o stupida sia, ha uno straordinario potere intimidatorio. Chiunque la subisca, si sente tenuto a fornire giustificazioni, se non a confessare la sua colpa, come accadeva nei processi staliniani.

Brutta faccenda. Non poter ridere del ridicolo è un segnale inquietante, e inequivocabile, di una civiltà che sta smarrendo sé stessa.

Follemente corretto (6) – Guai dire grasso

22 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Uno degli aspetti più sconcertanti del politicamente corretto è che spesso gli aspiranti riformatori della lingua non sono d’accordo fra loro, e per di più cambiano idea nel tempo. È già successo con la parola ‘cieco’, un tempo squalificatissima e sostituita con ‘non vedente’, ma ora riabilitata perché, a differenza di quest’ultima, indicherebbe una caratteristica della persona, anziché una mancanza, un difetto, un’assenza, una negatività, come è automatico se si usa il ‘non’. Lo stesso per ‘disabile’, che andrebbe sostituito con ‘persona con una disabilità’. Eccetera eccetera.

Così può succedere che negli anni ’70 io possa dire tranquillamente cieco; negli anni ’90 venga sgridato e rieducato a dire non vedente; negli anni 2000 venga rimbrottato perché sì, ho imparato a dire ‘non vedente’, ma non mi sono accorto che, nel frattempo, i molestatori della lingua hanno cambiato le regole e preferiscono tornare a cieco.

Né si pensi che la loro invadenza riguardi solo le parole che designano disabilità fisiche o mentali. Anche un aggettivo un tempo innocente come ‘grasso’ suscita discussioni. E la condizione esistenziale di essere grassi è addirittura oggetto di libri, riviste accademiche, ricerche, studi (i cosiddetti Fat Studies).

Come chiamare le persone grasse senza offenderle? Qual è il modo politicamente corretto di parlarne?

Neppure su questo c’è accordo fra gli aspiranti riformatori della lingua. Già una dozzina di anni fa The Times passava in rassegna 50 modi di dire “sei grasso”, alcuni politicamente corretti, altri no. Fra quelli accettabili, o addirittura PC, suggeriva ‘prosperoso’, ‘orizzontalmente svantaggiato’, ‘mangiatore entusiasta’.

Oggi il sito inglese di supporto grammaticale grammarhow, consiglia 12 soluzioni, con netta preferenza per ‘curvy’ (formosa) per le donne, e ‘jolly’ (gioioso, letteralmente) per gli uomini. Ma, ahimè, conclude con la solita raccomandazione: prima di usare ‘curvy’ e ‘jolly’ nei confronti di qualcuno, assicurarti che a quel qualcuno piaccia essere descritto con quel termine. Come se andare da una donna e dirle ‘posso chiamarti curvy?’ fosse un gesto gentile…

I veri problemi, però, sorgono in ambito medico. Alcuni considerano offensivi i termini ‘obeso’ o ‘sovrappeso’ (perché mai?), ma sono incerti su come sostituirli. Uno studio condotto una decina di anni fa dalla Yale School of Medicine concludeva che il termine meno sgradito dai pazienti era “unhealthy weight” (peso non salutare), e che 1 paziente su 5 era intenzionato a cambiare medico nel caso si fosse sentito stigmatizzato per il proprio peso.

Da decenni esiste un movimento per l’accettazione della condizione di essere grassi, che organizza manifestazioni e fat pride. Ma, negli ultimi tempi, sempre più di frequente accade che la condizione di essere grassi sia addirittura esaltata dai fan degli artisti e delle artiste grasse (“sei bellissima”), al punto che, per alcuni, essere grassi diventa motivo di orgoglio. Di qui un dilemma irrisolvibile per medici, dietologi, nutrizionisti: dire ai propri pazienti la verità (essere sovrappeso è dannoso per la salute), con il rischio di essere accusati di fat shaming o body shaming, o minimizzare il problema per non perdere pazienti?

Follemente corretto (5a puntata) – Né Dame né Herr

20 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Sopponete di prendere un aereo, e di sedervi tranquillamente al vostro posto. Allacciate la cintura di sicurezza, guardate dal finestrino, aprite il giornale. A un certo punto, siete raggiunti dalla voce del comandante, che vi saluta con il consueto “gentili signore e signori, benvenuti a bordo”, seguito dall’inglese “ladies and gentlemen, welcome on board”.

Tutto normale, direi. L’intenzione della compagnia è di dare il benvenuto a tutti, con semplicità e cortesia. E’ sempre andata così, da quando esistono gli aerei. E nessuno ha mai avuto nulla da ridire, perché – ovviamente –non c’è nulla da ridire.

Ora non più. Dipende da che compagnia scegliete. Se scegliete Lufthansa, ad esempio, non ascolterete più il classico “Sehr geehrte Damen und Herren, herzlich willkommen an Bord” , un saluto particolarmente gentile che – letteralmente – significa “stimatissime signore e signori, un sentito benvenuto a bordo”. Ora sarete accolti da un più secco “guten Tag”, ossia “buongiorno”.

Che cos’è successo?

E’ successo che il nuovo politicamente corretto è arrivato al punto di convincere Lufthansa ad eliminare questo tipo di saluto, per non offendere chi, eventualmente, non fosse certo di essere Dame o Herr. E il bello è che Lufthansa, come tutte le compagnie terrorizzate di finire in qualche polemica e di essere accusate di sessismo, razzismo, discriminazione, è stata al gioco ipocrita. D’ora in poi il pilota non saluterà con l’escludente “cari signori e signore”, ma con l’inclusivo “buongiorno”.

Anja Stenger, portavoce della compagnia, fa sapere:

Per noi è importante tenere in considerazione tutti al momento del saluto la diversità non è una frase vuota, da ora vogliamo esprimere la nostra attenzione al linguaggio.

L’importante non è migliorare il servizio, magari fornendo sedili più comodi, cibo di qualità, spazi per le valigie, code meno lunghe all’imbarco. L’importante è segnalare la virtù della compagnia aerea, proteggendola così da ogni accusa degli attivisti.

Pensate che il caso sia isolato, e rifletta la proverbiale rigidità teutonica?

Niente di tutto ciò. La decisione di Lufthansa, presa nel luglio del 2021, è stata imitata anche da Easy Jet, Air Canada e British Airways. Il portavoce di quest’ultima ha commentato così:

Celebriamo la diversità e l’inclusione e ci impegniamo a garantire che tutti i nostri clienti si sentano i benvenuti quando viaggiano con noi.

Soluzione: il neutro plurale passengers sostituirà il discriminatorio ladies and gentlemen.

Si ripete così, in forma grottesca, quel che già era accaduto con il politicamente corretto delle origini, quando parole un tempo innocenti (cieco, bidello…)  cominciarono a essere considerate offensive. Il fatto che un manipolo di compagnie segnali la propria virtù abolendo il “signore e signori”, rischia di imporre uno stigma del tutto ingiustificato a chiunque, istituzione o individuo, non faccia la medesima cosa. Una trasmissione tv che esordisca con “care spettatrici e cari spettatori”, un ufficio che invii una comunicazione iniziando con “gentili signore e signori”, un preside che si rivolga ai suoi insegnanti con “care colleghe e cari colleghi”, potrebbero essere accusati di insensibilità, offensività, non inclusività, discriminazione.

Ho detto “potrebbero”, perché resta la (flebile) speranza che una risata liberatoria metta fine a tutto ciò.

Follemente corretto (4a puntata) – Anche le cose si offendono?

15 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Supponete di essere un tecnico del suono, e di stare armeggiando con un amplificatore, perché dovete collegarlo a una cassa acustica. Vi rivolgete al vostro aiutante, e gli dite: “passami il cavo con il jack maschio”. Oppure: “non trovo il jack femmina, l’hai preso tu?”.

Qualcuno può offendersi? Può accusarvi di sessismo? O di usare un linguaggio irrispettoso, o poco inclusivo?

Ovviamente no. Operai e tecnici del suono sono persone concrete, da almeno 70 anni maneggiano jack (spinotti) maschi e femmina, e nessuno si è mai turbato sentendo parlare di jack maschio e jack femmina. Almeno in Italia.

Ma supponete di essere negli Stati Uniti. L’associazione americana dei produttori di materiali audio (PAMA) ha pensato che, al giorno d’oggi, non si poteva continuare a parlare di jack “maschio” e jack “femmina”. E ha dato le sue direttive: d’ora in poi, in uno “spirito di inclusività e coerenza”, il jack maschio sarà chiamato plug (spina), quello femmina socket (presa). E chi dovesse ancora parlare di jack maschio e jack femmina sarà guardato di brutto.

Anziché affrontare i problemi concreti del settore, dai salari alle condizioni di lavoro, l’associazione dei produttori di materiali audio preferisce occuparsi di come operai e tecnici parlano dei cavi che maneggiano.  E non esita a pavoneggiarsi della propria virtù.

Karrie Keyes, direttrice esecutiva delle “ragazze del suono” (SoundGirls), non riesce a nascondere la sua soddisfazione per le nuove regole promosse dall’associazione dei produttori audio. Ma deve ammettere che la strada è ancora lunga:

Un plauso per PAMA che cerca di introdurre un linguaggio neutro nell’industria audio. E’ un’impresa enorme, ma bisogna continuare a lavorare per portare cambiamenti significativi in questo settore.

La cosa interessante di questo caso è che non riguarda la tutela della sensibilità delle persone, di cui si occupava il politicamente corretto delle origini. Il nuovo politicamente corretto vede sessismo-razzismo-discriminazione anche nel modo in cui parliamo di oggetti inanimati. Per i suoi miliziani la sorveglianza sulla correttezza del linguaggio deve essere totale, la punizione e rieducazione dei reprobi devono essere puntuali, sistematiche.

E infatti la scure si abbatte non solo sugli innocenti jack, ma anche sui dispositivi elettronici e sui computer, dove da sempre si è parlato di architettura master-slave per caratterizzare un sistema con un dispositivo principale e uno ausiliario. D’ora in poi, per evitare di evocare il colonialismo, la schiavitù, l’oppressione dei neri, gli ingegneri e i tecnici dovranno ingegnarsi a trovare dicotomie alternative, più democratiche e inclusive: primary / secondary; main / subordinate; director / performer; leader / follower, e così via.

Osservazione finale: se soldi, energie, personale, sforzi di comunicazione vengono spesi per togliere dalla circolazione espressioni come jack maschio, jack femmina, architettura master-salve, non stupisce che buona parte dei marxisti e tante femministe considerino le ossessioni linguistiche del politicamente corretto come un’arma di distrazione di massa, che permette all’establishment capitalista di distogliere l’attenzione della gente dalle vere diseguaglianze e dalle reali discriminazioni che ancora affliggono il nostro mondo.

Follemente corretto (3a puntata) – L’etica dello shampoo

13 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Le parole ‘normale’ e ‘normalità’ sono da sempre sotto accusa. L’idea che una persona possa essere normale e altre no crea disagio. Ad alcuni fa venire in mente Hitler, l’eugenetica e la selezione dei migliori. Ad altri non piace essere etichettati come anormali. Ad altri, invece, è la normalità che non piace. Preferiscono essere “diversi da loro” (cioè dai normali, suppongo):

E’ il caso dei Maneskin:

Sono fuori di testa ma diverso da loro

E tu sei fuori di testa ma diversa da loro

Siamo fuori di testa ma diversi da loro

Dove la faccenda si fa seria è quando si parla di handicap, fisici e mentali. Anche lì dire ‘normale’ è proibito, e dire ‘anormale’ è proibitissimo. Ma su come vadano chiamati coloro che hanno qualche disabilità non c’è accordo. Anzi, è in corso una disfida fra i molestatori della lingua. C’è chi si ostina a chiamare ‘non vedenti’ i ciechi, e c’è chi ci ha ripensato, e ora vorrebbe che i ciechi tornassero a essere chiamati ciechi, perché quel ‘non’ di ‘non vedenti’ è negativo, mentre la parola ‘cieco’ indicherebbe una caratteristica come un’altra. E lo stesso accade per la parola disabile: c’è chi suggerisce di dire ‘disabile’, e c’è chi pensa che dire ‘persona con una disabilità’ sia più rispettoso.

Fin qui tutto bene. Siamo, è vero, nel regno del politicamente corretto. Ma le sue ragioni, in fondo, sono comprensibili. L’ipersensibilità su parole come ‘normale’ e ‘normalità’ ha una sua logica. Possiamo trovarla eccessiva, pedante, bigotta, ipocrita, ma riusciamo a scorgerne l’origine e le motivazioni. Che stanno nel fatto che stiamo parlando di persone, e di aspetti delicati del loro corpo o della loro mente.

Ma quando si parla di cose? O di caratteristiche banali delle persone, come la pressione sanguigna, la misura dei piedi, il tipo di capelli?

Dire “oggi ho passato una giornata normale” può offendere le altre giornate? C’è un signor ieri che può sentirsi escluso? O un signor dopodomani che può sentirsi discriminato?

Dire che Giuseppe ha la pressione normale può offendere Giuseppina che invece ce l’ha alta?

Verrebbe di rispondere no.

E invece sì. Chiunque vada in farmacia a comprarsi uno shampoo sa che, sul bancone, troverà shampoo per capelli di ogni tipo: grassi, secchi, con forfora, ricci, crespi, colorati, eccetera. E naturalmente pure una confezione per “capelli normali”.

Ora non più. Un’indagine di mercato di Unilever ha rivelato che sette intervistati su dieci riterrebbero che l’uso della parola ‘normale’ sulle confezioni abbia un impatto negativo. Il 56% delle persone che hanno espresso tale parere pensa che l’industria della bellezza faccia sentire tanta gente esclusa, mentre il 52% ammette di valutare la posizione dell’azienda sulle questioni sociali prima di fare acquisti. In breve, lo shampoo per una capigliatura normale, nella misura in cui implica logicamente l’esistenza di capigliature non normali, comporterebbe una discriminazione, un deficit di inclusività.

Di qui una decisione drastica: in nome del cosiddetto “inclusive advertising”, d’ora in poi Unilever toglierà dal bancone lo shampoo per capelli normali.

L’etica dello shampoo ha vinto. Ora che i capelli normali non esistono più, nessuno potrà più sentirsi escluso o discriminato. Oppure, finalmente, ci sentiremo tutti anormali.

image_print
1 46 47 48 49 50 118
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy