L’azzardo della ripartenza

Sono stato facile profeta quando, una settimana fa, scrissi che ai primi di maggio la fase 2 sarebbe partita comunque, a prescindere dall’andamento dell’epidemia. E infatti così è: il mese di maggio sarà il mese della ripartenza. Più o meno modulata, più o meno differenziata, ma comunque ripartenza, allentamento delle misure restrittive, riapertura di molte fabbriche ed esercizi commerciali.
Può essere più o meno sbagliato, ma è inevitabile. La democrazia è sospesa, l’opinione pubblica preme, gli operatori economici scalpitano: impensabile che la politica non ne tenga conto.
Che poi tanti medici e tanti scienziati dicano che è pericoloso, poco importa. E nemmeno contano le parole del prof. Andrea Crisanti, probabilmente il nostro epidemiologo più esperto, quello che ha realizzato l’indagine su Vo’, ha scoperto l’enorme peso degli asintomatici, e fin da febbraio ha avvertito che occorreva chiudere, e chiudere subito: “tutti quelli che si affannano e spingono per riaprire non si rendono conto delle conseguenze a lungo termine; i rischi esistono perché c’è ancora tantissima trasmissione: tremila casi al giorno sono ancora molti, mica pochi”.
Che dire, dunque?
Forse semplicemente a che punto siamo, quel che sappiamo e quel che non sappiamo.
Soprattutto quel che non sappiamo, perché nessuno può pensare di governare un’epidemia senza i dati di base della situazione, e senza strumenti di monitoraggio ragionevolmente precisi.

Ignoranza 1. Non sappiamo quanti sono i contagiati, né quanti fra i contagiati sono tuttora contagiosi. E non lo sappiamo innanzitutto perché, nonostante fin da metà marzo vi fossero proposte di condurre un’indagine su un campione nazionale rappresentativo, e per quanto alla fine anche le autorità si fossero convinte della sua utilità, il pachiderma dell’apparato addetto all’indagine nazionale non ha ancora fornito un solo bit di informazione. Dunque, se vogliamo avere un’idea della diffusione del contagio siamo costretti a ricorrere a stime ultra-incerte, che viaggiano arditamente fra i 2 e i 12 milioni di persone.

Ignoranza 2. Non conosciamo neppure la diffusione territoriale relativa del contagio. Il dato meno inquinato di cui disponiamo è quello dei morti per Covid-19 in ogni regione. Ma da quando si è appreso che non solo il numero dei morti effettivo è molto superiore a quello ufficiale (da 2 a 4 volte), ma il numero oscuro dei morti nascosti è estremamente variabile da regione a regione, da provincia a provincia, da comune a comune, siamo costretti a concludere che la distribuzione territoriale del contagio potrebbe essere molto diversa da quella suggerita dai morti per abitante, e che i rischi per il Sud potrebbero essere sensibilmente maggiori di quel che si pensa basandosi sul numero di morti ufficiali (del numero di contagiati fornito dalla Protezione Civile non vale neppure la pena di parlare, tanta è la loro dipendenza dai tamponi effettuati in ogni territorio). E dire che, per saperne di più, basterebbe che le autorità, anziché trincerarsi dietro il paravento della privacy, si degnassero di comunicare il numero di morti comune per comune.

Ignoranza 3. Non sappiamo a che velocità viaggia effettivamente l’epidemia, nonostante vi siano esperti che presumono di conoscere il cosiddetto “numero riproduttivo” (ossia il numero di contagiati per persona) addirittura regione per regione.
Credo non a tutti sia chiaro che i numeri che quotidianamente ci vengono comunicati dalla Protezione civile non si riferiscono al “mare” dei contagiati, ma a un “laghetto” di pazienti intercettati dalle autorità sanitarie. Nessuno conosce esattamente le dimensioni relative del laghetto rispetto al mare, ma le stime più ottimistiche dicono che il mare potrebbe essere “solo” 10 o 20 volte più grande del laghetto, mentre le più pessimistiche (vedi la virologa Ilaria Capua) si spingono ad ipotizzare che possa essere 100 volte tanto (la stima della Fondazione Hume, che verrà pubblicata nei prossimi giorni, è che il mare sia circa 50 volte più grande del laghetto). Questo significa che, quando la sera ascoltiamo con trepidazione le cifre dei nuovi casi, quello di cui gli esperti ci stanno parlando è quel che succede nel laghetto che loro riescono ad osservare, mentre di quel che capita nel restante 90, 95 o 98% della realtà nulla di preciso è dato sapere.

Dobbiamo concludere che stiamo per ripartire, ma nulla sappiamo dell’epidemia?
Non esattamente. Sfortunatamente alcune cose, invece, le sappiamo eccome, e non sono cose che ci possano rassicurare.
Che cosa sappiamo?
Quasi tutto quel che sappiamo è legato ai decessi accertati. Rispetto ai casi, infatti, i decessi hanno molto minori possibilità di essere occultati. E’ vero, ci sono i decessi nascosti nelle residenze per anziani. E ci sono le persone lasciate a casa a morire perché nessuno è venuto a visitarle, o il numero verde non risponde, o il 118 non arriva, o una mail si è perduta nel labirinto della sanità moderna e digitalizzata. Ma, nonostante tutto ciò, resta il fatto che il numero di morti nascosti può essere 2 o 3 volte il numero di morti ufficiali, ma non 20, 30, o 100 volte, come avviene nel caso dei contagiati non diagnosticati. Il “mare” dei morti totali è più grande del “lago” dei morti accertati, ma non è immensamente più grande. Di qui un’importante conseguenza: se vogliamo avere un’idea dell’andamento dell’epidemia, l’evoluzione dei decessi è la migliore (o la meno inaccurata) fonte di informazione di cui disponiamo (anche le ospedalizzazioni sarebbero una buona fonte, se solo a Protezione Civile fornisse dati un po’ più analitici).
Ebbene, lavorando sui decessi, alcune cose possiamo dirle con ragionevole sicurezza. La prima è che, in base ai dati dell’ultima settimana, in almeno la metà delle regioni l’epidemia non dà chiari segni di arretramento, e in diversi casi è tuttora in espansione
La seconda è che, nel percorso di avvicinamento alla meta di “contagi zero”, siamo ancora molto indietro. E’ passato un mese esatto dal giorno in cui le morti raggiunsero il loro picco (919 in un giorno), ma da allora – dopo una sensibile riduzione nella prima settimana (da 919 a circa 600) – la diminuzione dei decessi è stata decisamente lenta. Negli ultimi giorni siamo a quota 400-500 morti al giorno, ossia esattamente a metà del cammino che ci separa dall’obiettivo di azzerarli. Il progresso tendenziale, in altre parole, nelle ultime 3 settimane è di circa 10 morti in meno al giorno: a questo ritmo, il numero di morti quotidiani si azzererebbe solo a metà giugno, e i contagi – presumibilmente – nell’ultima parte di maggio (i morti di oggi, infatti, sono la traccia di contagi avvenuti circa 3 settimane prima).
Ma la cosa più preoccupante che la contabilità dei decessi rivela è un’altra ancora: nel confronto internazionale l’Italia non solo risulta ai primissimi posti fra i paesi occidentali per gravità e precocità dell’epidemia, ma è anche fra i paesi in cui più lenta è la discesa dopo il picco del contagio e la messa in atto delle misure di contenimento. In Germania, Francia, Spagna, Stati Uniti, la curva di discesa dei decessi è molto più ripida che da noi (solo il Regno Unito, fra i grandi paesi, presenta un profilo simile al nostro).
Insomma, siamo ancora lontani dalla condizione che – fino a poco tempo fa – da tutti veniva considerata una pre-condizione ovvia e inderogabile dell’avvio della fase 2: che il numero di nuovi contagi sia prossimo a zero. Possiamo ugualmente sperare che, nonostante tutto, l’epidemia resterà sotto controllo?
Penso proprio di no. E questo non perché la cosa sia in linea di principio impossibile, ma perché – per riaprire evitando la ripartenza del contagio – occorrerebbe essere consapevoli che il mero fatto di moltiplicare il numero di persone che lavorano e si muovono sui trasporti pubblici non può non facilitare la trasmissione del contagio. Tale consapevolezza porterebbe, o meglio avrebbe già portato, a prendere tutte le contromisure che sono indispensabili per evitare che i nuovi i focolai tornino ad espandersi come hanno fatto tra febbraio e marzo. Fra tali misure vi sono indubbiamente le procedure di tracciamento (che da noi sono “allo studio”), l’indagine nazionale sulla diffusione (che partirà il 4 maggio, se va bene), ma soprattutto i tamponi di massa.
E’ questa la via che sta permettendo alla Germania (ma anche ad altri paesi: Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Canada) di limitare drasticamente il numero di morti. Ed è questa la via che, inspiegabilmente, noi non abbiamo voluto seguire, e continuiamo ostinatamente a non percorrere.
Non capisco perché. E non lo capisce uno sconsolato Andrea Crisanti, che grazie ai tamponi sta salvando il Veneto, ma non può salvare il resto del paese: “penso che ora la vera questione sia che non si è capito perché è così importante fare i tamponi. E non si è capito che fare i tamponi, e particolarmente farli a quelli che potenzialmente sono entrati in contatto con la persona infetta, abbatte la trasmissione”. Trasmissione il cui inevitabile aumento – strano doverlo sottolineare – è il nodo cruciale della fase 2.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 aprile 2020




Le risposte del Governo e la fase 2

Qualche giorno fa, dalle colonne del “Messaggero”, avevamo posto al governo 7 domande, con l’obiettivo di capire se il governo stesso, e più in generale le autorità che gestiscono l’epidemia, erano pronti per la fase due. Le risposte sono arrivate nel giro di poche ore, con una tempestività che è stata molto apprezzata da tutti, a partire dai lettori che già il giorno dopo hanno potuto leggere le valutazioni del governo.
Bisogna anche dire che alcune risposte, penso in particolare a quella sulle residenze per chi non può passare la quarantena in casa per il rischio di infettare i familiari, a quella sull’indagine campionaria sulla diffusione del Coronavirus, e a quella sulla app per il tracciamento, sono risultate relativamente rassicuranti, o lo stanno diventando di ora in ora, man mano che si apprendono nuove notizie sulle iniziative in corso.
E tuttavia credo sia giusto, avendo lanciato il sasso delle domande, non ritirare la mano a proposito delle risposte, che vorrei qui passare in rassegna ad una ad una, con l’intento di fare più chiarezza possibile.
Domanda 1. Quante mascherine al giorno, al momento, sono in grado di fornire le farmacie e le altre strutture sanitarie?
Qui la riposta è stata che sono state fornite 93 milioni di mascherine al personale sanitario, ma quanto al punto cruciale, la capacità delle farmacie di rifornire noi cittadini, la risposta è che le farmacie “devono rivolgersi al mercato” e che “presto arriverà il modo e il momento di regolarlo”. Ma adesso? Se dovesse partire la fase 2, il mercato (più o meno ben regolato) riuscirebbe a rifornire tutti? Perché lo Stato non ha avviato autonomamente, o stimolato con incentivi, la produzione di mascherine? E sulle misure di protezione dei lavoratori nel trasporto pubblico e sui luoghi di lavoro a che punto siamo? Hanno ragione i sindacati a dire che la fase 2 non può partire perché non siamo ancora in grado di mettere in sicurezza i lavoratori?
Domanda 2. Quanti tamponi al giorno è in grado di effettuare la sanità pubblica? Qui la risposta è precisa (50 mila al giorno) ma inquietante. Non solo perché il fabbisogno è di almeno il doppio, ma perché la risposta è corredata da affermazioni non veritiere o fuorvianti sulle capacità italiane rispetto ad altri paesi. La realtà, come documentato nei giorni scorsi dalla Fondazione Hume, è che l’Italia è uno dei paesi che di tamponi ne ha fatti di meno, a parità di “anzianità dell’epidemia”. Una circostanza aggravata dal fatto che non solo avremmo potuto approvvigionarci sul mercato prima che partisse la corsa degli altri paesi, ma avremmo anche potuto incentivare e potenziare la produzione interna facendo cadere le barriere normative e burocratiche che finora l’hanno ostacolata.
Domanda 3. Esiste una data a partire dalla quale potremo effettuare liberamente tamponi e test sierologici certificati, con la semplice prescrizione di un medico?
La risposta è chiara: no, una simile data non esiste. Il perché non esiste è inquietante: l’Organizzazione Mondiale della Sanità è indietro, i percorsi autorizzativi saranno ancora lunghi. E, aggiungo io: quando un imprenditore si dà da fare per sottoporre a test i suoi dipendenti, rischia una denuncia o l’intervento dei Nas (è successo alla Sbe di Monfalcone pochi giorni fa).
Va detto, però, che nelle ultime ore le cose si stanno muovendo. Almeno per quanto riguarda i lavoratori, si sta finalmente affrontando il problema di rendere possibili test sierologici certificati. A quel che si apprende, dovrebbe essere imminente la pubblicazione, sul sito della protezione Civile, del bando per raccogliere le offerte delle aziende che si candidano alla produzione del kit per gli esami sierologici. Questo è estremamente positivo.
Domanda 4. Avete una app o un software per il tracciamento dei contatti, e quante persone finora sono state reclutate a questo scopo?
Qui la sostanza della riposta è: no, non ce l’abbiamo ancora (sono passati 2 mesi dall’inizio dell’epidemia!), ma prima o poi ce l’avremo. Infatti la ministra all’innovazione tecnologica “sta lavorando – insieme a una task force di 74 esperti – a un’app su base volontaria che dovrebbe essere elaborata da una software house milanese”. Sarà perché faccio il professore universitario, e di commissioni e gruppi di lavoro un po’ ho esperienza, ma confesso che venire a sapere che ci lavora una task force di ben 74 esperti (ovviamente in smart working), che i medesimi esperti devono ancora testarla su un campione, e che a usarla saranno solo volontari, non mi rassicura per niente. Ma non potevamo comprarne subito una funzionate e collaudata dai Cinesi o dai Coreani, i quali (anche) grazie al tracciamento sono riusciti a contenere rapidamente l’epidemia?
Le notizie delle ultimissime ore, però, sono un po’ diverse, e decisamente più incoraggianti: il commissario Arcuri ha appena firmato un’ordinanza per accelerare il decollo della app, le sperimentazioni a livello regionale dovrebbero partire in tempi relativamente rapidi. Speriamo bene.
Domanda 5. Quanti posti sono attualmente disponibili per la quarantena di chi non può farla a casa?
La risposta non è precisa, ma è abbastanza rassicurante: 6800 posti nelle strutture messe a disposizione da Forze Armate e Polizia, più “decine di migliaia” negli hotel grazie ad accordi conclusi dalle Regioni. E’ verosimile che, finché si faranno pochi tamponi come adesso, questa disponibilità di posti risulterà più che sufficiente.
Domanda 6. In quale data partirà l’indagine campionaria sulla diffusione del Covid-19 e in quale data saranno disponibili i risultati?
Anche in questo caso nessuna data, né per l’inizio, né per la conoscenza dei risultati. Per fare l’indagine sul numero di cittadini previsti (150 mila), oltre a costruire il campione, occorre approvvigionarsi di test (molecolari e sierologici), che al momento non sono disponibili. Che il commissario Arcuri li stia cercando sul mercato “in queste ore” è una buona notizia, anche se inquieta un po’ il fatto che non lo abbia già fatto, visto che della necessità di fare un campione nazionale si parla da settimane.
Domanda 7. Avete intenzione di de-secretare i micro-dati sui casi positivi, i decessi, gli ospedalizzati, in particolare quelli in terapia intensiva? In quale data la comunità scientifica potrà accedere ai dati?
Qui la risposta brilla per chiarezza: mai. Le motivazioni invece brillano per oscurità, burocratese e, mi spiace dirlo, per capziosità. Si invocano “la tutela della riservatezza”, e le “valutazioni a garanzia della tutela dei dati personali e sanitari”. Mi limito ad osservare che, mentre si sospende la libertà fondamentale di spostamento, e si discute (giustamente) della possibilità di limitare le tutele alla privacy per permettere il tracciamento dei soggetti positivi, è davvero curioso che ci si preoccupi di proteggere la privacy dei malati di Covid, e persino dei morti.
Eppure, chi ha esperienza di ricerca sa benissimo che da decenni esistono collaudati sistemi di “anonimizzazione” e aggregazione dei micro-dati che permettono di trattarli nel perfetto rispetto dell’anonimato. Senza dire che, se proprio non vogliono fornire i micro-dati, le autorità potrebbero almeno rilasciare dati aggregati ma tuttora non disponibili come il numero di morti per Covid nei singoli comuni: una informazione che, incredibilmente, ancora oggi non è disponibile, e la cui conoscenza permetterebbe finalmente di tracciare la mappa delle morti nascoste.
Se devo basarmi sulle risposte ricevute fin qui, mi sembra inevitabile concludere che, nonostante alcuni importanti passi avanti, le autorità non sono pronte alla fase 2. Allo stato attuale, anche se i nostri sacrifici fossero già riusciti ad azzerare i contagi, dovremmo comunque – per evitare che l’epidemia riparta – stare ancora fermi, in attesa che le autorità forniscano un numero adeguato di tamponi, test sierologici, mascherine, dispositivi di protezione per i lavoratori.
Dobbiamo dunque pensare che la fase 2 è lontana, e che saremo costretti agli arresti domiciliari per mesi e mesi?
Niente affatto. Potrò sbagliarmi, ma la mia sensazione è che la fase 2 partirà comunque. Troppa è la pressione della gente, troppa la più che comprensibile impazienza del mondo delle imprese. Difficile che il governo riesca a tenerci tutti nel congelatore oltre la prima metà di maggio. Del resto quasi tutto il Nord sta già, più o meno incautamente, avviando la fase 2, sia pure per tappe progressive.
Dunque la domanda non è: quando partirà la fase2? La vera domanda è: quanti altri morti ci costerà la scelta di ripartire comunque per timore di un tracollo economico e sociale?
La risposta a questa domanda è che il numero di morti dipenderà molto dalla velocità con cui le autorità colmeranno i ritardi che hanno accumulato.
Per questo abbiamo fatto le 7 domande. Per questo speriamo che, con il passare del tempo, le risposte diventino sempre più rassicuranti.

Pubblicato su Il Messaggero del 18 aprile 2020




7 domande senza risposta

Supponiamo che a un certo punto, speriamo presto, vi siano buoni motivi per pensare di essere vicini alla meta di nuovi contagi-zero. In sostanza significherebbe che, con i sacrifici dei cittadini, si è arrivati ad avere pochissimi nuovi contagiati ogni giorno (nessun nuovo contagiato è ovviamente impossibile, nel breve periodo).

Bene, a quel punto la pressione di tutti, famiglie e imprese, per ripartire diventerebbe fortissima. Ascolteremmo discorsi del tipo: noi abbiamo fatto il nostro dovere, adesso lasciateci tornare a vivere e a lavorare.

Supponiamo anche, giusto per stare sul concreto, che quel giorno sia fra 3 settimane, ovvero ai primi di maggio.

Ebbene, a quel punto potremmo riaprire?

La risposta è che questo non dipende da noi comuni cittadini ma dipende dai nostri governanti. Se loro avranno fatto la loro parte, i nostri sacrifici non saranno stati vani. Ma se invece non l’avranno fatta, sarà perfettamente inutile quel che abbiamo patito fin qui perché l’epidemia ripartirà. Prima a macchia di leopardo, con pochi e piccoli focolai un po’ in ogni parte d’Italia, poi alla grande, quando i nuovi focolai si espanderanno, più o meno come è già successo dalla fine di febbraio.

Ecco perché dobbiamo farci la domanda: ma loro sono pronti? Hanno fatto i compiti?

E’ una domanda che, meritoriamente, alcuni mezzi di informazione pongono, e ripropongono quotidianamente, a politici e funzionari quando li interrogano su cose come tamponi, mascherine, test sierologici, ma è anche una domanda cui seguono balbettamenti, frasi involute, vaghe intenzioni, riflessioni e valutazioni che sarebbero in corso, rivendicazioni di quel che si è fatto, ma nessuna chiara e univoca risposta, in un frastuono di voci ora confuse, ora discordanti.

Eppure è la domanda cruciale: siete pronti? Se oggi fossimo a contagi zero sareste in condizione di gestire la fase due?

Quel che si è capito fin qui è che loro non sono affatto pronti. Perché se lo fossero ci direbbero cose come quelle che seguono.

  1. Ci siamo approvvigionati, ci sono mascherine per tutti, abbiamo calcolato che ce ne vogliono 100 milioni al giorno (almeno 2 a testa), le farmacie sono rifornite.
  2. Di tamponi ne facciamo ancora pochi, ma entro la settimana prossima arriveranno tamponi e reagenti, e saremo in grado di farne 500 mila alla settimana come la Germania.
  3. Abbiamo deciso di rinunciare al monopolio pubblico dei test, da oggi chiunque lo desideri può sottoporsi a tamponi e test sierologici in una struttura privata, o mediante prelievi a domicilio; episodi come quello di Monfalcone, in cui i Nas hanno sequestrato i tamponi a un’impresa che stava facendo i test ai suoi lavoratori, non si ripeteranno più.
  4. E’ pronta una app per il tracciamento dei contatti, ed è già operativa una task force di 5000 persone che ricostruirà i contatti di ogni caso risultato positivo.
  5. Ci sono 10 mila posti, in alberghi e strutture para-ospedaliere, pronti ad accogliere chi non può passare la quarantena a casa perché rischia di infettare i familiari.
  6. L’Istat sta svolgendo un’indagine a campione in tutto il territorio nazionale, entro una settimana avremo i dati fondamentali per governare l’epidemia, a partire da quelli sul numero di asintomatici e pauci-sintomatici.
  7. Abbiamo deciso di de-secretare i micro-dati (anagrafici e clinici) dell’Istituto Superiore di Sanità sui positivi, per permettere agli studiosi di dare il loro contributo alla comprensione dell’epidemia.

Sfortunatamente, di rassicurazioni di questo tipo non v’è la minima traccia.

Ecco perché, da oggi in poi, noi ve lo chiederemo sempre. Abbiamo preparato 7 domande, una per ciascuno dei 7 punti precedenti, e le ripeteremo periodicamente, per fare il punto, e sapere se avete fatto progressi, e a che punto siete. Potete non risponderci, ma la vostra non-risposta sarà più eloquente di qualsiasi risposta.

Noi cittadini, la nostra parte la stiamo facendo. Ora tocca a voi, che vi siete presi i pieni poteri per gestire l’epidemia, dimostrarci che state facendo la vostra.

***

 

Bozza di questionario

1. Quante mascherine al giorno, al momento, sono in grado di fornire le farmacie e le altre strutture sanitarie?
2. Quanti tamponi al giorno, al momento, è in grado di effettuare la Sanità Pubblica?
3. Esiste una data a partire dalla quale potremo effettuare liberamente tamponi e test sierologici certificati, con la semplice prescrizione di un medico?
4. Avete una app o un software per il tracciamento dei contatti, e quante persone (oltre ai 74 esperti), finora, sono state reclutate a questo scopo?
5. Quanti posti sono attualmente disponibili per la quarantena di chi non può farla a casa?
6. In quale data partirà l’indagine campionaria sulla diffusione del Covid-19 e in quale data saranno disponibili i risultati?
7. Avete intenzione di de-secretare i micro-dati sui casi positivi, i decessi, gli ospedalizzati, in particolare quelli in terapia intensiva? In quale data la comunità scientifica potrà accedere ai dati?

Pubblicato su Il Messaggero del 14 aprile 2020




Il Governo non è pronto per la “fase 2”. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, siamo tutti segregati in casa da 50 giorni e il governo ha prolungato la chiusura del paese fino al 3 maggio. Il danno economico sarà devastante. Ma almeno il lock down sta funzionando a contenere l’epidemia a suo avviso?
Sì e no. Sì, perché, dopo il duplice lockdown del 5 e del 9 marzo (chiusura scuole + chiusura totale), il numero giornaliero di nuovi contagiati ha quasi immediatamente smesso di crescere, almeno secondo la ricostruzione della Fondazione Hume, basata sulla dinamica recente delle morti e delle ospedalizzazioni).
Ma attenzione: meno nuovi contagi quotidiani non significa che si è fermato il contagio, ma solo che il numero di nuovi infetti cresce a un ritmo via via più lento. Giusto per darle un’idea: se fino all’annuncio della chiusura delle scuole avevamo 100 mila nuovi contagiati al giorno, dopo 10 giorni di arresti domiciliari (ultima settimana di marzo) si può stimare che i nuovi contagiati fossero scesi a “solo” 60 mila al giorno. Oggi dovrebbero essere ancora di meno, ma con i pochi dati che ci forniscono non si può stimare quanti siano.

Insomma il governo ci sta tenendo a casa perché sostanzialmente è l’unica cosa che sa fare per fermare il contagio?
Anche qui, mi permetta di rispondere senza nascondere le due facce della medaglia, quella pro-governo e quella anti. Il governo fa bene a mantenere il lockdown perché un mese non può bastare, e finché non si arriva vicini a contagi-zero è estremamente imprudente riaprire.
Al tempo stesso, però, non si può non rilevare che la curva di discesa è estremamente lenta, e questo è precisa responsabilità del governo, che non solo si è preso l’enorme responsabilità di ritardare di 2 settimane il lockdown totale (è dal 25 febbraio che c’erano gli elementi per capire che bisognava fermare tutto), ma non ha ancora fatto T-M-T, ossia le tre cose che avrebbero potuto abbreviare il percorso di uscita.

T-M-T ?
Sì, T come tamponi di massa, M come mascherine per tutti, T come tracciamento dei casi positivi e dei loro contatti. I paesi che hanno riportato vittorie significative nella lotta al virus (Cina, Corea del Sud, Singapore), hanno avuto successo perché hanno fatto queste cose. E in Europa tutto lascia pensare che il tributo di morti di ogni paese dipenderà più da T-M-T che dalla durata del fermo delle attività produttive. Da questo punto di vista, come ha notato il prof. Massimo Galli, la Germania è in vantaggio su molti altri paesi europei, e potrebbe – alla fine – uscirne meno peggio proprio perché non punta tutte le sue carte sul lockdown.

Lei stima un numero di contagi e morti molto più alto di quello ufficiale. In che modo desume questi numeri? Le autorità stanno sottostimando la diffusione del virus?
L’evidenza che suggerisce che i numeri non sono quelli ufficiali è frammentaria, ma molto convincente perché tutti gli indizi convergono nel farci ritenere che il numero di morti potrebbe essere il triplo dei morti rilevati dalla Protezione Civile, e che la mortalità al Sud potrebbe essere anche 10 volte quella ufficiale (per i dettagli si può consultare il sito della Fondazione Hume: www.fondazionehume.it)
Non credo che le autorità sottostimino la diffusione, semplicemente non vogliono che anche noi sappiamo quel che loro sanno perfettamente.

Il premier Conte a fine gennaio diceva che il governo era “prontissimo, abbiamo adottato tutti protocolli possibili e immaginabili”, possibile che il governo non avesse idea del pericolo che correva l’Italia?
Sì, è possibile. Perché i politici non si circondano di veri scienziati (che per me significa esperti che sono anche menti libere) ma scelgono gli studiosi più pronti a confermare le credenze e le scelte dei politici stessi. L’emergenza fu dichiarata non perché si era capito che saremmo arrivati al lockdown, ma semplicemente perché era un’occasione formidabile per assumere i “pieni poteri” (non metaforicamente, come l’ingenuo Salvini, ma sul serio).

Intervista rilasciata a Il Giornale del 12 aprile 2020




E se il Covid-19 fosse già dilagato anche al Sud?

Pubblichiamo qui i risultati di una analisi statistica sulla mortalità effettiva da Covid-19.
Seguono parti dell’articolo con cui i risultati sono stati presentati sul “Messaggero” dell’8 aprile 2020.

L’analisi statistica

La base di dati è costituita da 1084 comuni selezionati dall’Istat sia in funzione della disponibilità di informazioni aggiornate, sia in base alla circostanza che il tasso di mortalità delle prime 3 settimane del mese di marzo del 2020 risultasse significativamente diverso da quello del corrispondente periodo del 2019.
Per i medesimi comuni l’Istat fornisce:

a) il numero di morti dall’1 al 21 marzo 2019 (x0);
b) il numero di morti dall’1 al 21 marzo del 2020 (x1);
c) il numero di morti nell’intero mese di marzo del 2019 (x2).

Oltre a questa fonte sono stati usati i dati ufficiali della Protezione Civile sul numero di decessi da Covid-19 nell’intero mese di marzo del 2020 (y).
I comuni sono stati ricondotti alle Regioni e Province autonome di cui fanno parte, e per ciascuna di queste 21 unità (19 Regioni e 2 Province) sono stati riportati le variabili x0, x1, x2, y, più la numerosità della popolazione (dati 2019).
Dai calcoli successivi sono state eliminate 4 unità territoriali (Valle d’Aosta, Molise, Basilicata, Bolzano) che presentavano problemi di insufficiente numerosità dei casi e/o di disponibilità dei dati. Le 17 unità territoriali superstiti coprono comunque il 97.5% della popolazione totale.
Il procedimento seguito per la stima può essere descritto in 4 passi:
1) calcolo, per ogni unità territoriale, del tasso di crescita della mortalità: r = (x1-x0)/x0
2) stima della mortalità aggiuntiva (z): z = x2 r
3) confronto con la mortalità ufficiale da Covid: y-z
4) calcolo dei tassi di mortalità ufficiali (dati Protezione Civile) e stimati (dati Istat) in rapporto alla popolazione (casi per 100 mila abitanti).
Il calcolo dei tassi di mortalità ufficiali (Protezione Civile) ed effettivi (stime con i dati Istat) è stato effettuato sia per la popolazione generale (17 unità territoriali), sia per le tre zone seguenti, individuate in base alla mortalità quale risulta dai dati della Protezione Civile:

– zona rossa: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Marche;
– zona verde: Sud incluso il Lazio;
– zona gialla: restanti regioni e province (Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Umbria, provincia di Trento).

Per la popolazione generale e per ogni zona, oltre al tasso di mortalità per 100 mila abitanti, si è calcolato anche un moltiplicatore, che indica di quanto occorre moltiplicare il tasso di mortalità ufficiale per aver una stima del tasso di mortalità effettivo.

Ed ecco i le stime dei tassi di mortalità per 100 mila abitanti (mese di marzo):

 Fonti: Istat, Protezione Civile

E’ verosimile che, a causa della non rappresentatività del campione Istat, i moltiplicatori effettivi siano un po’ più bassi di quelli stimati. E’ invece alquanto improbabile che, con la totalità dei comuni o con un campione di comuni rappresentativo, i moltiplicatori delle varie zone del paese risulterebbero simili fra loro.

Discussione

E una congettura. Solo una congettura. E speriamo pure che sia sbagliata. Però è troppi giorni che giro e rigiro i dati Istat sulla mortalità nei comuni italiani, e non riesco a scacciare il dubbio. Quindi eccomi qua, provo a raccontare quel che viene fuori.
Una decina di giorni fa l’Istat ha reso pubblici dei dati sull’andamento della mortalità in due periodi comparabili, ossia le prime 3 settimane di marzo 2019 e le prime 3 settimane di marzo 2020. I dati non riguardano tutti i comuni, ma solo una parte (di qui il tono dubitativo del mio discorso) di quelli in cui vi sono stati scostamenti apprezzabili fra la mortalità di quest’anno e quella dell’anno scorso. Ebbene, in molti comuni è successo quel che per la prima volta venne denunciato dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori qualche settimana fa, ovvero: i morti in eccesso rispetto all’anno scorso, sono molto più numerosi dei morti ufficiali per Covid-19 comunicati dalla Protezione Civile. E poiché non sembrano esserci spiegazioni plausibili per questo eccesso di mortalità, che non si è verificato solo a Bergamo ma in numerosi altri comuni, pare inevitabile concludere che i morti effettivi per Covid-19 siano molti di più di quelli ufficiali.
Su questa conclusione vi è sostanziale accordo fra quanti (studiosi e non) hanno nei giorni scorsi provato a maneggiare i dati della mortalità. Il dubbio è solo se i morti effettivi siano 2, 3 o 4 volte di più dei morti accertati. Sembra che il moltiplicatore sia circa 3, ma il fatto che il campione Istat non includa tutti i comuni, bensì solo comuni con scostamenti anomali della mortalità non può che indurre alla prudenza.
Fin qui tutto (relativamente) chiaro. Se però andiamo un po’ più a fondo, e ci prendiamo la briga di distinguere fra le varie zone del Paese, ecco che ci si presenta un dato scioccante: contrariamente a quanto siamo portati a pensare basandoci sulle morti ufficiali per Covid-19, il Mezzogiorno non risulta affatto un’isola felice, relativamente preservata dal virus, ma ha numeri paragonabili a quelli del resto dell’Italia.
Che cos vuol dire “paragonabili”?
Vediamo. Secondo la Protezione Civile il numero di morti da Covid-19 per 100 mila abitanti è 46.5 nelle regioni della zona rossa (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Marche), 2.6 nelle regioni del Sud (incluso il Lazio), 15.0 nel resto d’Italia. Dunque al Sud la mortalità da Covid-19 è quasi 20 volte più bassa che nella zona rossa, un ovvio motivo di conforto per chi vive nelle regioni relativamente preservate. Ma se, anziché usare i dati dei morti ufficiali, usiamo gli eccessi di mortalità desumibili dai dati Istat, i numeri cambiano completamente: le morti attribuibili al Covid-19 sono 104 ogni 100 mila abitanti nella zona rossa, e sono ben 61 su 100 mila abitanti nel Sud. Dunque sono un po’ di più della metà, non un ventesimo.
Possiamo anche metterla così. Se prendiamo per buone le stime desumibili dai dati Istat, dobbiamo concludere che nelle regioni della zona rossa si sono attribuiti al Covid 45 casi contro 100 effettivi, mentre al Sud se ne sono riconosciuti meno di 5 su 100. Detto ancora più crudamente: se vuoi sapere quanti sono i decessi effettivi per Coronavirus, ti basta moltiplicare per 2 se sei in una regione della zona rossa, ma devi moltiplicare almeno per 20 se sei in una regione del Mezzogiorno. In breve e in conclusione: per avere il numero effettivo dei morti non ci occorre solo un moltiplicatore (più o meno prossimo a 3), ma ne dobbiamo usare più di uno, molto diversi da un territorio all’altro.
Senza dilungarmi in precisazioni e distinguo (per cui rimando alle informazioni contenute nella sezione inziale), mi limito a due considerazioni, una tecnica e una di sostanza.
La considerazione tecnica è che è molto difficile ipotizzare che l’enorme sotto-diagnosi dei casi di Covid-19 al Sud sia interamente, o in gran parte, dovuta alla non rappresentatività del campione di comuni fornito dall’ Istat. E’ verosimile che con un campione di comuni rappresentativo l’entità della sotto-diagnosi possa attenuarsi, ma è quanto mai implausibile supporre che le differenze territoriali emerse fin qui miracolosamente scompaiano o diventino trascurabili.
La considerazione di sostanza è che, ove si confermasse che la sotto-diagnosi al Sud (ma anche in alcune zone del Nord) è enorme, tipo 9 casi dimenticati su 10, occorrerebbe capire come ciò sia stato possibile. L’unico indizio che sono riuscito a trovare è che l’entità della sotto-diagnosi è fortemente correlata con il sottodimensionamento dei posti letto, come se la percentuale di casi Covid-19 individuati e correttamente classificati fosse in qualche modo connessa alla forza e all’ampiezza della rete ospedaliera.
Resta un’ultima osservazione, forse la più rilevante: se il Covid-19 è diffuso in modo comparabile in tutte le aree del Paese, non sarà facile pianificare una ripartenza per grandi blocchi, con le zone “verdi” del Sud che riaprono molto prima delle zone “rosse” del centro-nord. Anche perché, se – a questo punto dell’epidemia – i punti di partenza sono molto più ravvicinati di quanto finora si è supposto, non è affatto detto che la meta dei contagi-zero sia raggiunta prima da una metà del Paese e dopo dall’altra. La gara per arrivare primi in zona contagi-zero è aperta, e ogni Regione, ogni Provincia, ogni Comune dovrà giocare fino in fondo le proprie carte.