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Società

Magistratura in soccorso di Giorgia?

16 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Difficile che passi una settimana senza un sondaggio che annuncia il crollo di Fratelli d’Italia, accompagnato – pochi giorni prima o pochi giorni dopo – da un sondaggio che annuncia l’esatto contrario. Come mai ciò ineluttabilmente accada lo ha spiegato più volte Paolo Natale, probabilmente il più attrezzato e navigato dei nostri sondaggisti: gli istituti di sondaggio omettono di indicare il margine di errore delle stime, che si aggira intorno al 2%. Ma c’è anche una seconda ragione che spiega l’altalena dei sondaggi: giornali, tv, siti internet amano l’iperbole e – ben poco professionalmente – definiscono “crollo” una perdita (presunta, visto il margine di errore) di 0.3 punti percentuali, e “avanzata” un aumento (ancora più presunto) di 0.2 punti percentuali.

Ma proviamo a raccapezzarci: come stanno evolvendo effettivamente gli orientamenti di voto? La risposta solida, che lavora su sondaggi ripetuti e tiene conto del margine di errore, è che il consenso personale di Giorgia Meloni è in lenta discesa dall’inizio del 2024, ma sia le intenzioni di voto per Fratelli d’Italia sia quelle per la coalizione di centro-destra sono sensibilmente cresciute rispetto al momento delle ultime elezioni (settembre 2022).

L’erosione del consenso verso Giorgia Meloni e il suo governo non stupisce più di tanto, visto il fisiologico esaurimento della “luna di miele” con l’elettorato e vista la mancanza di successi clamorosi e mediaticamente sottolineati, salvo il poderoso aumento dei posti di lavoro, oltre 1 milione a metà legislatura (ricordiamo che Berlusconi ne aveva promessi altrettanti, ma in un’intera legislatura).

Quello che merita una riflessione, invece, è il rafforzamento prima e la tenuta poi del partito della premier. Fratelli d’Italia, che aveva vinto le elezioni con il 26% dei voti, è stabilmente attestato vicino al 30% dei consensi, a dispetto dei sondaggi che da due anni periodicamente ne annunciano l’arretramento quando non il crollo (salvo smentirsi la settimana dopo).

A che si deve questa tenuta?

Una prima ragione è che, finora, l’opposizione non è stata in grado di costruire una alternativa credibile e compatta. Se gli italiani continuano a guardare a destra è innanzitutto perché, in quasi 3 anni dalla sconfitta del settembre 2022, la sinistra non è ancora riuscita a costituire quella coalizione o “campo largo” di cui non smette di parlare da allora.

Io credo però che vi sia anche una seconda ragione, molto importante e molto sottovalutata, per cui la destra tiene e anzi si rafforza: la paura delle criminalità e dell’immigrazione. Diversi sondaggi condotti da Demos negli ultimi anni certificano, fin dal 2022, l’esistenza di un trend di crescente preoccupazione nei confronti degli immigrati. Alla fine del 2024, due anni dopo il voto alle Politiche, la percentuale di elettori che considerano prioritari i problemi della criminalità e dell’immigrazione era quasi raddoppiata.

Ma perché, in così breve lasso di tempo, le percezioni dei cittadini sono tanto cambiate? Difficile dirlo, ma io avrei un’ipotesi: probabilmente la colpa (o il merito?) è della magistratura. Sono ormai talmente tante (e visibilmente partigiane) le entrate a gamba tesa dei giudici volte a ostacolare ogni tentativo di frenare l’immigrazione irregolare e punire gli autori di reati, che non stupisce che gli elettori, anziché allontanarsi dalla destra perché non riesce a ostacolare il crimine, attribuiscano ogni insuccesso della destra stessa all’azione di boicottaggio della magistratura. È paradossale, ma quel che succede è che l’ostruzionismo della magistratura verso i tentativi di fermare l’immigrazione irregolare finiscono per fornire a Giorgia Meloni e al suo governo il più inossidabile degli alibi per ogni possibile insuccesso dell’azione di contrasto.

L’attacco ai centri di trattenimento in Albania, il sistematico smontaggio di ogni tentativo di espellere gli immigrati che commettono reati, non fanno che convincere una parte dei cittadini che ci vuol più e non meno destra al governo.

Ad ennesima riprova della hegeliana “astuzia della ragione” (o “eterogenesi dei fini” per dirla con Wilhelm Wundt): la storia si fa gioco delle intenzioni degli uomini, comprese quelle dei magistrati più politicizzati.

[articolo uscito sulla Ragione il 15 luglio 2025]

Schlein e l’Albania

14 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Come pensa, Elly Schlein, di presentarsi alle prossime elezioni politiche? Mi sono fatto questa domanda qualche giorno fa, quando il Parlamento Europeo ha approvato la relazione sui rapporti con l’Albania, un paese che da oltre un decennio dialoga con l’Europa in vista di un futuro ingresso nella UE. In quella relazione c’era un passaggio delicato, nel quale il Paramento Europeo “riconosce la più stretta cooperazione tra l’Albania e l’Ue nella gestione dei flussi migratori e nei processi di controllo delle frontiere: in particolare attraverso la nuova strategia nazionale sulla migrazione per il 2024-2026 e la cooperazione con Frontex. E prende atto del memorandum d’intesa Italia-Albania”.

Ebbene, è bastato l’accenno al controllo delle frontiere, ma soprattutto al memorandum Italia-Albania, per far scattare il voto contrario dei parlamentari del Pd, che come si sa afferiscono al gruppo dei Socialisti e Democratici.

La relazione è stata approvata da tutti i gruppi politici europei, compresi i Socialisti e Democratici, con le sole eccezione della Sinistra, dei Verdi e, appunto, dei deputati italiani del gruppo dei Socialisti e Democratici. Un esito paradossale: la linea del governo italiano piace persino ai socialisti degli altri paesi, ma incontra la dura opposizione dei socialisti interni, i deputati del partito di Elly Schlein.

Questo episodio, in realtà, contiene due notizie distinte. La prima è che in Europa, sul fronte dell’immigrazione, qualcosa si sta muovendo. Già più di un anno fa, ben 15 paesi (più della metà dei pasi UE) avevano inviato alle autorità europee una lettera congiunta in cui si invocavano nuove soluzioni per la gestione dell’immigrazione irregolare in Europa. Fra loro anche paesi con premier progressista, come la Danimarca e la Polonia. E tutto fa pensare che, dopo le recenti elezioni tedesche, del gruppo possa far parte anche la Germania del cancelliere Merz. Ora il voto del Parlamento europeo sulla “relazione Albania” non fa che mostrare che il fronte rigorista non solo si sta ampliando, ma è già maggioranza nel Parlamento Europeo. Il nuovo “Patto di migrazione e asilo”, che dovrebbe entrare in vigore l’estate prossima, non potrà che riflettere il nuovo clima politico, sempre più sensibile alle istanze italiane.

La seconda notizia è che il partito che Elly Schlein sta costruendo in Italia è qualcosa di completamente anomalo, che ha sempre meno a che fare con i partiti cugini del gruppo dei Socialisti e Democratici. Per la verità ce ne eravamo già accorti in passato, quando una parte dei deputati europei del Pd si era trovato a votare come la sinistra estrema, in dissenso con il proprio gruppo europeo. Ma allora ci era risultato più facile intenderne le ragioni: guerra e riarmo sono temi delicati e divisivi, un po’ come l’aborto e l’eutanasia. Si capisce perfettamente che un partito progressista e pacifista abbia le proprie esitazioni.

Qui invece no. Votare con la sinistra estrema sulle migrazioni significa fare una ben precisa scelta politica, che amplia enormemente il solco con la sinistra riformista. Significa dire: noi non solo siamo contro Renzi e il Jobs Act, come si è visto con i referendum della CGIL, ma siamo contro Minniti e il contrasto alle migrazioni irregolari, come si è visto con il voto europeo di qualche giorno fa.

Naturalmente si può obiettare che questa, per l’appunto, era la missione che Elly Schlein si era prefissa: rinnegare i governi riformisti Renzi e Gentiloni, e far capire all’elettorato che il Pd è cambiato davvero.

Se è così, e temo che sia proprio così, viene da chiedersi perché il Pd non cambi gruppo in Europa, ed entri in quello della sinistra, dove già lo aspettano i Cinque Stelle. Ma soprattutto sorge la domanda da cui siamo partiti: come pensa Elly Schlein di vincere le prossime elezioni politiche?

Mettersi di traverso a qualsiasi tentativo concreto di affrontare il problema dell’immigrazione irregolare, come l’accordo con l’Albania o il nuovo patto di migrazione e asilo, non può che portare nuovi consensi alla coalizione di centro-destra. Se vuole avere qualche chance di successo, il centro-sinistra ha un’unica strada: togliere il tema migratorio dal centro dello scontro politico accettando le buone ragioni dei conservatori, ormai comprese e in parte condivise dalla maggior parte dei partiti socialisti democratici. Come il voto del Parlamento Europeo sulla relazione Albania ha appena certificato.

[articolo uscito sul Messaggero il 13 luglio 2025]

DIRITTO, DIRITTI, OMOFOBIA

14 Luglio 2025 - di Secondo Giacobbi

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L’istituzione del reato di “omofobia” inaugurerà una fase assolutamente inedita della storia del Diritto in Italia. Non solo perché introduce nel Codice Penale un nuovo reato, e un reato che riguarda una dimensione sensibile e nevralgica della vita individuale e sociale, ma anche perché introduce un criterio assolutamente nuovo di codificazione penale. Riflettiamo sul termine “omofobia”. L’espressione fa parte del lessico clinico-psicologico e, più propriamente, psicoanalitico. Il variegatissimo mondo delle fobie viene ricondotto a dinamiche intrapsichiche inconsce e a processi simbolici, a loro volta inconsci, che proiettano sulla situazione o sull’oggetto fobici profonde angosce persecutorie o evacuative, relative ad un oggetto interno temuto e demonizzato, oppure a parti del Sé, rifiutate dall’Io e proiettate sull’oggetto fobico. Il reato di omofobia ( che viene ampliato, nel progetto di legge, nella dizione “omotransfobia”) intende colpire, e scoraggiare, comportamenti verbali, fisici e sociali di aggressione e discriminazione nei confronti di omo e transessuali. In questo senso stigmatizzare l’omofobia non è diverso dallo stigmatizzare l’antisemitismo o il razzismo. C’è però di diverso che il termine omofobia, in quanto acquisito dal linguaggio giuridico, rende tale linguaggio tributario nei confronti della psicologia clinica e quindi, implicitamente, avalla e apre la strada, potenzialmente, ad una ibridazione tra normative giudiziarie e categorie cliniche. E’ pur vero che nessuna legislazione penale è esclusivamente tecnico-giuridica, essendo il Diritto una disciplina non separata né autosufficiente. Il Diritto penale contiene infatti impliciti rimandi a valori di provenienza etico-filosofica o addirittura religiosa. Di nuovo c’è che il reato di omofobia è una costruzione che coniuga ufficialmente ed esplicitamente, in modo potenzialmente confusivo, logica giuridica e psicopatologia. Va da sé, lo ripetiamo,  che l’intenzione del legislatore è appunto di proteggere omosessuali e transessuali da comportamenti lesivi nei loro confronti. In questo senso il legislatore si pone in un’ottica di difesa, rispetto e salvaguardia delle minoranze. Il problema però è che non è chiaro, ed è questo che è davvero preoccupante, fino a dove si spinga la portata applicativa, dal punto di vista oggettivo, della nuova normativa proposta, e quindi quali possano essere concretamente le condotte meritevoli di sanzione penale. Ad esempio l’espressione di opinioni psicologiche, cliniche e culturali sul tema dell’omosessualità e della omogenitorialità può configurare, e quando e in che modo, una fattispecie penalmente rilevante ai fini dell’applicazione della suddetta normativa? Qual è il confine tra l’offesa e l’espressione di un’opinione, di per sé non offensiva, ma che possa essere considerata lesiva dei diritti delle minoranze?

Faccio un esempio molto concreto: esprimere l’opinione, magari da parte di uno psicologo clinico, che i bambini hanno bisogno di una mamma e di un papà, e  quindi di una coppia genitoriale eterosessuale, può essere considerato lesivo ed espressione di omofobia? Il progetto di legge, dichiarano i suoi estensori, non intende reprimere la libertà di opinione. Sta di fatto, però, che un noto psicoanalista milanese, che, nel corso di un dibattito in TV, fece proprio quella dichiarazione, è stato “denunciato” all’Ordine degli Psicologi con l’accusa di omofobia e, persino, di incompetenza professionale e mancato aggiornamento scientifico. L’Ordine ha avviato una lunga procedura di accertamento, alla fine della quale il collega è stato prosciolto. E’ evidente come la felice, per quanto tribolata, conclusione della vicenda non può non indurre, soprattutto gli psicologi clinici, ad una grande cautela quando si tratta di esprimere opinioni su di un terreno così insidioso. E l’istituzione di un reato di omofobia, pur con tutte le rassicurazioni degli estensori, avrebbe l’effetto di indurre cautele ancor più timorose. Certo, agli intellettuali, agli uomini di cultura e di accademia, agli psicoanalisti dovremmo tutti chiedere la libertà di pensiero e il coraggio intellettuale di esprimerlo anche pubblicamente. Non è però facile sfidare la disapprovazione dell’establishment e l’emarginazione, proprio quella emarginazione da cui si vuole proteggere il mondo omosessuale.

Sta di fatto  che, nei nostri ambienti, è facile constatare l’adesione, spesso acritica, a opinioni e tesi conformi a quelle sostenute da LGBT e da quanti le avallano e fanno proprie. Faccio un esempio al riguardo. E’ diventato senso comune ritenere e dichiarare, anche da parte di colleghi, che le ricerche comproverebbero che i figli delle cosiddette “famiglie arcobaleno” non subirebbero “danno” dalla loro particolare condizione di filiazione e di vita.  In realtà ci sono anche ricerche che, invece, comproverebbero tale “danno”. Il fatto è che non sono quasi mai citate in letteratura dove invece abbondano citazioni e fonti che negano il danno.

La faccenda dell’ipotetico “danno” è palesemente centrale e decisiva. A differenza di altri “diritti” dell’individuo, la cui affermazione è di per sé un postulato incontestabile (e tra questi diritti, non dimentichiamolo, c’è il diritto alla libertà di opinione), il “diritto alla genitorialità” deve essere invece sottoposto al vaglio, nel caso tale diritto venisse estrinsecato, dell’assenza di danno a terzi. La cultura della post-modernità sembra, infatti aver generato una nuova filosofia del diritto, che si basa su di una concezione soggettivistica del diritto stesso, inteso come garante del soddisfacimento dei bisogni dell’individuo nel qui e ora della loro esigibiltà. In questa logica il movimento omosessuale parla di “diritto alla genitorialità” sostanzialmente per chiunque e comunque. Ho segnalato altrove come una simile concezione nasca da una operazione di concettualizzazione in cui il “desiderio” è assunto come “bisogno” incontestabile e quindi come “diritto” da garantire. In relazione alla rivendicazione della cosiddetta “omogenitorialità” si pone però il problema, appunto, del possibile danno a terzi. In questo caso per i figli nati dalle varie forme di genitorialità assistita o surrogata che la scienza medica è in grado di offrire. Ecco perché screditare o ignorare ricerche che segnalino il “danno” diventa per alcuni una inderogabile necessità “scientifica” e politica.

Non entro qui nel merito di chi possa avere ragione. Dichiaro però che tutte le opinioni, specie se suffragate da riscontri ( della cui serietà e oggettività si può comunque sempre discutere) hanno diritto ad una uguale visibilità e ad un uguale beneficio del dubbio.

Un altro esempio. Amazon, su pressione di LGBT, ha ritirato dal commercio i libri di J. Nicolosi, noto per aver sostenuto la possibilità di una terapia “riparativa” dell’omosessualità. E’ una tesi discutibile e infatti è stata ed è contestata. Ma destinare al macero, con solerte zelo, i libri per le teorie che vi sono espresse assomiglia molto ai roghi dei libri proibiti di infausta memoria.

Visto poi che in questo mio intervento si parla di Diritto e di diritti, voglio ricordare quelle che sono tuttora le posizioni espresse dalla legge italiana sulla questione omogenitoriale. Ricordo che in Italia la cosiddetta “maternità surrogata” o “gestazione per altri” (GPA) è tuttora vietata (Legge n ° 40/2004), come peraltro la stessa fecondazione eterologa, che viene  negata alle coppie dello stesso sesso, oltrechè a quelle composte da soggetti non coniugati e non conviventi. In tale ambito, tra l’altro, la Corte Costituzionale, nella sentenza n 272/20017, è arrivata ad affermare che la surrogazione di maternità “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. Sulla questione la discussione rimane aperta e l’azione sociale delle associazioni  LGBT e dei gruppi omogenitoriali è incessantemente volta a sollecitare prese di posizione e iniziative istituzionali (da parte di sindaci, soprattutto, o di rappresentanti del mondo della magistratura) volte a riconoscere e regolarizzare situazioni di omogenitorialità.

E’ altrettanto incessante lo sforzo di riqualificare agli occhi dell’opinione pubblica le pratiche dirette a conseguire  la genitorialità attraverso supporti esterni ( donazione di sperma e gestazione per altri). Tali pratiche vengono presentate all’opinione pubblica come manifestazioni di solidarietà umana, per cui i donatori di sperma sarebbero appunti dei “donatori” e le donne che offrono l’utero ne farebbero a loro volta “dono”. L’aspetto di mercato e compravendita viene così lasciato in ombra e il tutto risulta ammantato dentro un’aureola di generosa donatività. E’ una vera e propria retorica  del dono, che si aggiunge a quella retorica dell’amore, che riconduce e riduce l’esperienza della genitorialità a una questione soprattutto di amore. Assistiamo dunque, anche in questo caso, ad una riorganizzazione semantica del linguaggio e del senso comune, che va di pari passo con le trasformazioni del costume.

Naturalmente comprendiamo, e con rispetto, sentimenti, desideri, aspirazioni, che animano il mondo dell’omosessualità e dell’omogenitorialità, ma non possiamo non ricordare che l’amore è un sentimento profondamente ambivalente, e che, specie nel rapporto dei genitori con i figli, di amore ce ne può essere anche troppo e non solo troppo poco. E comunque non possiamo non ricordare che, come recita un vecchio libro di psicoanalisi, “l’amore non basta”.

BIBLIOGRAFIA

Bergamaschi L, (a cura di), Omosessualità, perversione, attacchi di panico. Il contributo di Franco De masi, Franco Angeli, MI, 2007

Bettelheim B, L’amore non basta, Ferro ed, MI, 1981

Corsa R, Oltre il limite. Mutazioni somatopsichiche nelle protesi e nei trapianti, Alpes, Roma 2015

Canzi E. Omogenitorialità, filiazione e dintorni. Una analisi critica delle ricerche, Vita e Pensiero, MI, 2019

Fornari F, I sogni delle madri in gravidanza. Le strutture affettive del Codice Materno, Unicopli, MI, 1979

Giacobbi S, Omogenitorialità. Ideologie, pratiche, interrogativi, Mimesis, MI, 2019

Jonas H, Il principio di responsabilità.Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, TO, 1979

Lingiardi V, La famiglia “inconcepibile”, in “Infanzia e Adolescenza, n 12 (2), 2013

Marion P, Il disagio del desiderio. Sessualità e procreazione nel tempo delle biotecnologie, Donzelli, Roma, 2017

Scotto Di Fasano D, Pensare l’impensabile: forme attuallità della genitorialità in “Rivista di psicoanalisi”, n LVII (1), 2011

Sentenza della Corte Costituzionale n° 272/2017

Vessella S, Sulla maternità surrogata, in “La Stampa” 11/04/2017

Gradimento di Sindaci e Governatori: le classifiche in-credibili

10 Luglio 2025 - di Paolo Natale

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Il rapporto tra media e istituti demoscopici pare ormai essere diventato una sorta di gioco di ruolo: alcuni (non tutti, per fortuna!) sondaggisti spacciano determinati (inaffidabili) risultati con l’obiettivo di fare parlare di sé, mentre i media che li ospitano accolgono ben volentieri l’invito a veicolarli affinché si parli anche di loro, di chi li ospita, con tanto di successivo dibattito, tra gli esperti della materia, i politici e i commentatori.

Un circuito virtuoso, si diceva una volta; oggi potremmo parlare al contrario di circuito vizioso che si alimenta vicendevolmente. Chi ci va di mezzo sono soprattutto gli italiani, destinatari di informazioni a volte fallaci e, sebbene con meno evidenza o forse con meno interesse mediatico, il sapere e la scienza statistica.

Non occorre ricordare ancora una volta, biasimandolo, il consueto balletto delle stime sull’orientamento di voto: con cadenza settimanale, i quotidiani o i programmi televisivi parlano di grandi miglioramenti o peggioramenti per partiti che guadagnano o perdono 0,2-0,3 punti percentuali, quando nella realtà statistica si tratta di incrementi o decrementi inesistenti, una o due persone in più o in meno per quel partito.

Battaglia persa, me ne rendo conto, ma quanto meno i dati presentati, loro sì, sono corretti. È la loro amplificazione apodittica che è quantomeno fastidiosa alle orecchie di un metodologo o di uno statistico…

Abitudine diffusa, peraltro. Ricordo un uomo politico che, di fronte ad un sondaggio pre-elettorale che dava i due contendenti distanziati di 0,2%, ebbe il coraggio di chiedermi: sì, ma per chi?

A volte però capita qualcosa di più che fastidioso, che veicola informazioni approssimative e non attendibili, sulle quali si aprono dibattiti piuttosto surreali anche tra i partiti politici, basati sul nulla, o quasi. L’ultimo esempio in ordine di tempo di questo “fenomeno” è il sondaggio pubblicato dal Sole24ore lunedì 7 luglio, l’annuale rilevazione “Governance Poll”, in cui veniva presentato un dato chiamato “indice di gradimento” per 97 sindaci di capoluoghi di provincia e 18 Presidenti regionali.

Iniziamo proprio da questo indice, come viene appunto definito. Cos’è esattamente? Non è ben chiaro. Nella esaustiva scheda tecnica (troppo esaustiva, purtroppo per l’Istituto responsabile dell’indagine, sarebbe stato forse meglio restare sul vago…) viene correttamente riportata la domanda posta agli intervistati: “Le chiedo un giudizio complessivo sull’operato del sindaco (o del presidente della regione). Se domani ci fossero le elezioni comunali (o regionali), lei voterebbe a favore o contro l’attuale sindaco (o presidente della regione)?”

Tralasciamo qui, per non appesantire il discorso, il fatto che molti dei sindaci o presidenti sono al secondo mandato e quindi non possono essere più votati. Ma in questo caso il senso è comunque chiaro…

Quello che invece non funziona è invece il fatto che questo è un tipo di domanda che, nei manuali delle survey, viene etichettata come “double-barreled”, vale a dire una doppia domanda con una sola possibile risposta. Qui le domande sono appunto due: la prima riguarda il giudizio sull’operato, la seconda l’orientamento di probabile voto. Se sono un cittadino veneto vicino al centro-sinistra, posso anche essere abbastanza soddisfatto di come ha governato Zaia ma certamente non lo voterei. O viceversa, se fossi un cittadino di centro-destra in Campania. Quindi: a quale domanda rispondo? Non si sa.

Viene poi presentato un approfondimento, anch’esso alquanto singolare: si confronta in maniera puntuale questo fantomatico indice di gradimento con il risultato fatto registrare da ciascun sindaco (o governatore) alle elezioni in cui è stato eletto! Sì, avete letto bene: come si diceva alle elementari, si paragonano le mele con le pere. Cosa possa c’entrare il gradimento attuale con la scelta elettorale di qualche anno addietro non è chiarissimo.

La competizione elettorale, inutile soffermarci più di tanto, ha delle dinamiche sue proprie e dipende spesso dai contendenti in lizza; ha poco a che vedere con questo indice di gradimento, oltretutto perché il confronto viene fatto non con il risultato del primo turno, che porrebbe tutti allo stesso livello, ma con quello che ha determinato la vittoria.

Un esempio chiarisce il punto: il sindaco di Bari, Vito Leccese, ha ottenuto il 48% al primo turno (con 4 candidati) ed è stato eletto al ballottaggio con oltre il 70%, quando i contendenti erano ovviamente soltanto due.

Nella tabellina pubblicata, Leccese risulta in deficit di gradimento di quasi 10 punti, avendo ottenuto un indice di 61, ma se l’avessimo confrontato con il dato del primo turno, risulterebbe più “gradito” di ben 12 punti. Il risultato al ballottaggio è sempre ovviamente più alto del primo turno: ne risultano svantaggiati, in questo particolare (e poco sensato) procedimento, coloro che sono stati eletti al secondo turno.

Una distorsione che, per fortuna, non sussiste almeno per le elezioni regionali, dove il turno è stato unico dovunque e quindi da questo punto di vista il paragone è corretto.

Fin qui dunque le distorsioni nel merito del sondaggio effettuato. Veniamo ora al metodo, che certamente richiede un surplus di fiducia nei confronti dell’Istituto di ricerca che ne è responsabile.

Partiamo dalla numerosità campionaria, che viene indicata in 1000 individui intervistati nelle regioni e in 600 nei capoluoghi. Possiamo supporre, benché in questo caso non ci venga fornito il dato puntuale (che sarebbe obbligatorio inserire nella scheda metodologica, peraltro non presente nell’apposito sito “Sondaggi

politico-elettorali”), che le non-risposte siano – per difetto – nell’ordine del 15%. Le interviste valide sarebbero 500 circa per comune, da Milano fino ad Enna.

Il famoso “intervallo di confidenza”, cioè il margine di errore delle stime presentate, è dell’ordine di +/- 4%. Se ottengo una stima del 51%, il risultato “vero” si situa dunque in un intervallo compreso tra il 47% e il 55%.

Se andiamo a controllare la tabella pubblicata, possiamo notare facilmente come tutte le stime di gradimento dei 97 sindaci (tranne in 12 casi) sono comprese proprio tra i 47 e i 55 punti percentuali. Il che significa, in parole semplici, che possiamo essere certi solamente dell’eccellenza dei primi 7 e della relativa insufficienza degli ultimi 5 in classifica.

Di tutti gli altri sappiamo poco di più, al di là di quell’intervallo di valori possibili. Certo, se un sindaco o un governatore ottiene un punteggio di 55 e un altro quello di 47, possiamo correttamente pensare che il primo stia molto probabilmente davanti al secondo, ma non sappiamo esattamente di quanto. Così alla fine la cosa più corretta da fare sarebbe quella di presentare una classifica “senza” il dato puntuale, ma soltanto con un raggruppamento in classi, tipo “tra 45 e 50, tra 50 e 55”, e così via. Non si perderebbero informazioni essenziali mentre si eliminerebbero quelle imprecise od erronee.

Ma è l’ultimo elemento di questo sondaggio che rende perplessi tutti gli osservatori neutrali: l’elevatissimo costo dell’intera operazione. Vediamo brevemente in cosa consistono le perplessità: come riportato, sono stati intervistati 600 individui in 97 comuni e altri 1000 nelle 18 regioni, per un totale di 76.200 casi, in parte online (web survey) in parte al telefono (Cati).

Normalmente, il costo di ognuna delle interviste, in media tra i due metodi, è stimabile in almeno 4 euro l’una. Senza voler fare i conti in tasca né al committente né all’Istituto che ha realizzato le interviste, se tutte le interviste sono state effettivamente effettuate, si tratta di un costo complessivo di almeno 300mila euro. Liberi di credere se questo sia stato un investimento, chiaramente in perdita, oppure no.

Università degli Studi di Milano

Il fantasma del consenso

9 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Gerard Depardieu, Leonardo Apache La Russa, Ciro Grillo. Anche se per reati di diversa gravità (aggressione sessuale, stupro, stupro di gruppo), tutti e tre sono incappati in un processo a seguito delle denunce delle vittime. Il caso di Depardieu si è risolto con una condanna a 18 mesi di carcere (con sospensione della pena), quello del figlio di La Russa ha dato luogo a una richiesta di archiviazione della Procura di Milano (impugnata dalla difesa della vittima), quello di Ciro Grillo, a 6 anni dai fatti, è ancora fermo alle prime battute (l’accusa ha richiesto 9 anni di carcere).

C’è una differenza importante, tuttavia. Nel caso del settantacinquenne Depardieu alcol e sostanze non c’entrano. L’accusa è di molestie, non di stupro, e meno che mai di stupro di donna incapace di esprimere il consenso. Nel caso dei “figli di papà” Grillo e La Russa, invece, la sostanza dell’accusa è precisamente quella: aver approfittato di ragazze in palese stato di alterazione, e perciò – per definizione – non in grado di esprimere un consenso. Di qui una importante domanda: se una ragazza denuncia uno stupro dopo aver avuto rapporti sessuali in stato di alterazione psico-fisica (non importa se a causa di alcol, stupefacenti, o entrambi) il maschio o i maschi accusati sono automaticamente colpevoli?

La dottrina femminista secondo cui senza consenso esplicito l’atto sessuale è stupro risponde: certo che sì.

La macchina della legge, invece, sembra muoversi lungo un sentiero più accidentato. Nel caso di La Russa junior la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione in base alla seguente considerazione: “non vi è in atti la prova che gli indagati, pur consapevoli dell’assunzione di alcuni drink alcolici da parte della ragazza, abbiano percepito, in modalità esplicita o implicita, la mancanza di una valida volontà” della giovane “nel compiere gli atti sessuali”. A sostegno della sua richiesta di archiviazione la Procura sostiene, sulla base di alcuni video, che i comportamenti della ragazza “non denotano in alcun modo quella posizione di asimmetria psicologica o fisica che deve sussistere perché sia configurabile una delle ipotesi di violenza sessuale”. Tesi contestata dalla difesa della denunciante, secondo cui i medesimi video “dimostrano pacificamente che la parte offesa era in uno stato di palese alterazione laddove la stessa, nella seconda parte del video prodotto e oggetto di valutazione, risponde con titubanza e in modo assolutamente slegato e incomprensibile rispetto alla domanda che le viene posta da Leonardo La Russa”.

L’aspetto interessante è che, pur dissentendo sulla interpretazione dei video, accusa e difesa sembrano concordare su un punto: lo stato di alterazione non basta a escludere il consenso, occorre anche che sia rintracciabile una “posizione di asimmetria psicologica o fisica” a scapito della vittima.

Nel caso di Grillo Junior (e dei 3 ragazzi coimputati con lui), a quello che riferiscono le cronache, difesa e accusa paiono muoversi in modo difforme: i video che riprendono i rapporti sessuali sono invocati dalla difesa di uno degli imputati per contestare la presunta “incapacità di reagire” della vittima, mentre l’accusa (la procura di Tempio Pausania) sembra puntare sul mero fatto che, avendo bevuto a più riprese ed essendo stanca per la nottata,  la ragazza non poteva essere in grado di esprimere un valido consenso. La procura, in altre parole, sembra rendersi conto che i video non testimoniano a favore della ragazza, e che dunque – per accusarla – occorre fare propria quella che abbiamo chiamato la dottrina femminista per cui “il sesso senza consenso è stupro”.

In concreto, questo significa che i 6 ragazzi accusati (2 nel caso La Russa, 4 nel caso Grillo) potrebbero essere sia tutti condannati (se prevale la dottrina femminista) sia tutti assolti (se prevale la dottrina della Procura di Milano). Nel primo caso, la lezione sarebbe: caro maschio, non provare ad avere rapporti sessuali con una femmina in stato alterato, perché se lei ti denuncia il carcere è assicurato. Nel secondo caso, la lezione sarebbe: cara femmina, non permettere che i tuoi rapporti sessuali con uno o più maschi vengano filmati, perché il sexting potrebbe diventare una prova contro di te.

In entrambi i casi, l’unica soluzione – almeno in teoria – sarebbe quella a suo tempo (ai tempi del MeToo) paventata da Catherine Deneuve: “di questo passo avremo un’app sullo smartphone che due adulti che vorranno andare a letto insieme useranno per spuntare esattamente quali atti sessuali accettano di fare e quali no”: peccato che i giuristi spieghino che, anche questa, non potrebbe funzionare.

Insomma, soluzioni vere non esistono, in qualsiasi modo si muova la magistratura. O meglio, le uniche soluzioni solo quelle tradizionali, retrograde, romantiche: ripristinare il corteggiamento, scegliere accuratamente il partner, evitare il sexting come la peste. Se non ci piacciono, siamo tutti – maschi e femmine – costretti ad accettare il rischio di finire nei guai.

[articolo uscito sulla Ragione l’8 luglio 2025]

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